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Edizione Italiana Fondazione Giuseppe Toniolo Verona LA SOCIETÀ Periodico bimestrale n 3/2015 - anno XXIV - n.119 ISSN 1120-9941 - Una copia: Euro 12,00 Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, SUD2/CT 3 NUMERO MAGGIO GIUGNO 2015 Gentili - Laudato si, laudato sì! / Toso - Le prospettive dell’economia secondo Papa Francesco / Vitale - Responsabilità dell’imp- resa e tutela del creato / Casazza - Le pa- role chiave del convegno di Firenze / Bazzicchi - L’economia ecologica francescana Rusconi - Laudato si’: alcune considerazioni di Mons.Toso / Franzese - Laudato si’: il su- peramento dell’individualismo / Notarstefano - Laudato si’: il paradigma dell’economia inte- grale / De Meo - Famiglia contro Gender nei Social Network / Segnalazioni / Documenti - Francesco - Discorso ai giovani di Torino / 6WUXPHQWL SHU O·DQLPD]LRQH SDVWRUDOH - Le fonti della dottrina sociale della Chiesa Edizione Italiana T Fondazione Giuseppe Edizione Italiana ona r e V oniolo T To Fondazione Giuseppe Bazzicchi role chiave del convegno di Firenze / resa e tutela del creato / Francesco / Le prospettive dell’economia secondo Papa Gentili - L’economia ecologica francescana Bazzicchi role chiave del convegno di Firenze / Casazza resa e tutela del creato / - Responsabilità dell’imp- Vitale Francesco / Le prospettive dell’economia secondo Papa Laudato si, laudato sì! / - Gentili - L’economia ecologica francescana role chiave del convegno di Firenze / - Le pa- Casazza - Responsabilità dell’imp- Le prospettive dell’economia secondo Papa - Toso Laudato si, laudato sì! / fonti della dottrina sociale della Chiesa X U W 6 Francesco - Social Network / grale / - Laudato si’: il paradigma dell’economia inte- peramento dell’individualismo / di Mons.Toso / Rusconi Bazzicchi fonti della dottrina sociale della Chiesa V D S H Q R L ] D P L Q D · O U H S L W Q H P Discorso ai giovani di Torino / Francesco - Documenti / Segnalazioni Social Network / - Famiglia contro Gender nei De Meo grale / - Laudato si’: il paradigma dell’economia inte- Notarstefano peramento dell’individualismo / - Laudato si’: il su- Franzese di Mons.Toso / - Laudato si’: alcune considerazioni Rusconi - L’economia ecologica francescana Bazzicchi fonti della dottrina sociale della Chiesa - Le H O D U R W V Discorso ai giovani di Torino / - Documenti - Famiglia contro Gender nei - Laudato si’: il paradigma dell’economia inte- Notarstefano - Laudato si’: il su- - Laudato si’: alcune considerazioni - L’economia ecologica francescana onver GIUGNO 2015 MAGGIO NUMERO 3 c ( It e t os P 1 ISSN SOC A A L comma , 1 t. ar 46) ° n 2004 / 2 02 / 0 27 Legge in o t i t r rt t bbonamen A in ione z pedi S - . a . p . s aliane It 120-9941 - Una copia: Euro 12,00 Periodico bimestrale n 3/2015 - anno XXIV - n. SOCIETÀ /CT SUD2 , 1 comma 3 200 / 2 353 . L . D - ale t os P o t 19 1 Periodico bimestrale n 3/2015 - anno XXIV - n.
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Edizione Italiana

Fondazione Giuseppe Toniolo Verona

LA SOCIETÀ Periodico bimestrale n 3/2015 - anno XXIV - n.119ISSN 1120-9941 - Una copia: Euro 12,00Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, SUD2/CT3

NUMERO

MAGGIOGIUGNO 2015

Gentili - Laudato si, laudato sì! / Toso -Le prospettive dell’economia secondo PapaFrancesco / Vitale - Responsabilità dell’imp-resa e tutela del creato / Casazza - Le pa-role chiave del convegno di Firenze / Bazzicchi - L’economia ecologica francescanaRusconi - Laudato si’: alcune considerazioni di Mons.Toso / Franzese - Laudato si’: il su-peramento dell’individualismo / Notarstefano - Laudato si’: il paradigma dell’economia inte-grale / De Meo - Famiglia contro Gender nei Social Network / Segnalazioni / Documenti - Francesco - Discorso ai giovani di Torino /

- Le fonti della dottrina sociale della Chiesa

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fonti della dottrina sociale della Chiesa

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fonti della dottrina sociale della Chiesa

Discorso ai giovani di Torino / Francesco - Documenti / SegnalazioniSocial Network /

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120-9941 - Una copia: Euro 12,00 Periodico bimestrale n 3/2015 - anno XXIV - n. SOCIETÀ

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191 Periodico bimestrale n 3/2015 - anno XXIV - n.

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Anno XXIIINUMERO

MAGGIOGIUGNO 2015

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Editore, Direzione e Redazione: Fondazione “Giuseppe Toniolo”Via Seminario 8 - 37129 Verona - Tel. 045/9276221 - Fax 045/9276220e-mail: [email protected]

Direttore Responsabile: Alfonso Balsamo

Edizione polacca: Instytut Wydawniczy “Pax” - ul. Wybrzeze Kosciuszkowskie21A - 00-390 Warszawa, Polonia Tel./fax: (0048-22) 625-77-95, 625-13-78,625-33-98 - e-mail: [email protected]

Registrazione: Autorizzazione del Tribunale di Verona n.973 del 28/02/1991Realizzazione grafica: Neosigno | Agenzia per le comunicazioni sociali

Stampa: GRAFISER srl - C.da Camatrone Z. A. "L. Grassi", 94018 Troina (EN) Iscrizione: Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NE/PD

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DirettoreClaudio Gentili

VicedirettoreMario Toso

Segreteria di redazioneDavide Vincentini

Caporedattore edizione polaccaZbigniew Borowik

Presidente Fondazione G.TonioloAdriano Vincenzi

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RedazioneN. Ancora / V. Antonelli / A. Balsamo / O. Bazzichi / P. Borkowski Z. Borowik / C. Carrara / P. Cerocchi / F. Cucculelli / R. Cursi F. De Meo / C. Di Francesco / E. Faccioli / M. Gentile / T. Massaroni F. Mazzocchio M. Merigo / M. Orsi / M. Placido / E. Preziosi / L. Santolini P. Sassi / G. Sturzo / D. Vicentini / L. Viscardi / G.M. Zanoni

CorrispondentiS. Gregg, Grand Rapids, Michigan, USA / J. Jelenic, Zagabria, Croazia T. Kim, Seul, Corea del Sud / S. Kosc, Trnava, Slovacchia / S. Cornish, Sidney, Australia / V. Pessenko, Rostov, Russia / E. Sotoniakovà, Ostrava, Repubblica Ceca / D. Valdés, Pinar del Rio, Cuba / K.G. Michel, Würzburg, Germania.

Comitato scientificoS. Bernal Restrepo, Pontificia Università Gregoriana, Roma U. Bernardi, Università di Venezia / V. Buonomo, Pontificia Università Lateranense, Roma / Centre Sévres, Parigi / G. Campanini, Università di Parma, Parma / P. Carlotti, Università Pontificia Salesiana, Roma C. Cavalleri, “Studi Cattolici”, Milano / M.R. Cirianni, Pontificia Facoltà di Scienze dell’Ed.“Auxilium”, Roma / E. Colom, Pontificia Università della S. Croce, Roma / F. Compagnoni, Pontificia Università S. Tommaso, Roma / G. De Simone, Pontificia Università Lateranense, Roma / G. Dal Ferro, Istituto di Scienze Sociali N. Rezzara, Vicenza / F. Gentile, Università di Padova, Padova / P. Gheddo, Pontificio Istituto Missioni Estere, Roma / G. Goisis, Università di Venezia, Venezia / O. Ike, CIDJAP, Enugu, Nigeria / P. Jarecki, Vescovo, Polonia / F. McHugh, Von Huegel Institut, S. Edmund’s College, Cambridge, Gran Bretagna K. Wroczynski, Università Cattolica di Lublino, Polonia S. Martelli, Università di Palermo, Palermo / D. Melé, IESE - Business School, Barcellona, Spagna / J. Mejía, Archivista e Bibliotecario di S.R.C., Città del Vaticano / C. Moreda de Lecea, Università di Navarra, Pamplona, Spagna / I. Musu, Università di Venezia, Venezia A. Nicora, Presidente APSA, Vaticano, Roma / A. Poppi, V. Possenti, Università di Venezia, Venezia / M. Schooyans, Università di Lovanio, Lovanio, Belgio / M. Spieker, Università di Osnabrück, Osnabrück, Germania / S. Zamagni, Università di Bologna, Bologna / S. Zaninelli, Università Cattolica del S. Cuore, Milano.

Rivista scientifica della Fondazione “Giuseppe Toniolo”, VeronaEdizione polacca a cura dell’Associazione “Civitas Christiana”, Varsavia

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Indicen.3 - maggio | giugno 2015

EDITORIALE Laudato si’. Laudato sì!di Claudio Gentili

RICERCHELa prospettiva dell’economia secondo Papa Francescodi S. E. Mons. Mario Toso

Responsabilità dell’impresa e tutela del creatodi Marco Vitale

STUDILe parole chiave del Convegno di Firenzedi Fabrizio Casazza

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AGORÀL’economia “ecologica” francescanadi Oreste Bazzichi

Laudato si’: il superamento dell’individualismodi Lucio Franzese

Laudato si’: alcune considerazioni di Mons. Mario Tosodi Giuseppe Rusconi

Laudato si’: il paradigma dell’ecologia integraledi Giuseppe Notarstefano

Famiglia contro Gender nei social Networkdi Francesco De Meo

SEGNALAZIONI

DOCUMENTIDiscorso ai giovani di Torinodi Francesco

STRUMENTILe fonti della Dottrina Sociale della Chiesa (parte XVII)di Oreste Bazzichi

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Sommarion.3 - maggio | giugno 2015

-scodi S. E. Mons. Mario TosoL’autore parte dalla destrutturazione del rapporto tra eti-ca ed economia e la necessità che esso sia ricostruito portando il contributo dell’Evangelii Gaudium di Papa Francesco. Da un’analisi della critica del Papa al de-terminismo economico si arriva ad una sintesi delle sue proposte progettuali verso una economia e democrazia inclusive che rispondono ai principi della Dottrina Sociale della ChiesaThe author starts from the deconstruction of the relationship between ethics and economics and the need for it to be rebuilt bringing the contribution of Evangelii Gaudium of Pope Francis. The author con-tinues with an analysis of the criticism of the Pope to the economic determinism and a summary of its project and proposals for an inclu-sive economy and democracy based on the principles of the Social Doctrine of the Church

RICERCHE

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Le parole chiave del Convegno di Firenzedi Fabrizio CasazzaL’autore introduce al Convegno ecclesiale di Firenze (9-13 novembre 2015) con una spiegazione delle parole chiave che ne caratterizzano il programma: Uscire, An-

per i partecipanti arricchita da spunti di teologia e Dottri-na Sociale della Chiesa.The author introduces the Ecclesial Convention of Florence (9-13 No-vember 2015) with an explanation of the key words that characterize

-ful guide for participants enriched by ideas of theology and Catholic social teaching.

STUDI

The author addresses the issue of the protection of Creation under a purely economic lens. He reconstructs the doctrinal strands of economy in the twentieth century and their relationship with the en-vironment. In the middle part the great transformation that work, eco-nomy and companies are undergoing is analyzed with its link conse-quences with the environment. Through the principles of the Social Doctrine of the Church the author offers a vision for the future.

di Marco VitaleL’autore affronta il tema della tutela del Creato sotto una

dottrinali dell’economia del Novecento e le loro relazioni con l’ambiente. Al centro dell’articolo la grande trasforma-zione che lavoro, economia e imprese stanno subendo, trasformazione legata anche al rapporto con l’ambiente. Attraverso i principi della Dottrina Sociale della Chiesa l’autore offre alcune soffre una visione per il futuro.

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Editoriale

Laudato si’. Laudato sì!di Claudio Gentili

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di Claudio Gentili,Direttore de La Società

EditorialeClaudio Gentili - Laudato si’. Laudato sì!

L’ultima enciclica di Papa Francesco è una sorpresa per l’opi-nione pubblica mondiale. Un grande regalo per la Comunità cattolica e non solo. La sorpresa nasce già dal titolo: non in latino, come vuole la tradizione, ma in italiano, anzi in volgare umbro del XIII sec, visto che si tratta di un verso del Cantico delle creature di S.Francesco. Laudato sii, esprime con grande forza il pensiero del Papa, una "teologia in ginocchio", un pen-siero incompiuto, un mix di denuncia profetica, di attenzione alla scienza, di preoccupazione per il futuro del pianeta (la no-stra “casa comune”), di esortazione al dialogo. “Casa comune” è una locuzione ricorrente: compare nel testo ben 12 volte e sempre con grande effetto evocativo.

Laudato si’ non è un documento di conclusione di un percor-so: ma una carta di apertura al dialogo, che non mette al cen-tro il conformismo ambientalista ma la conversione ecologica. Una conversione che chiama a fare tre cose: vedere (quello che la scienza ci indica), giudicare (alla luce della sapienza evange-lica che non tramonta), agire (in dialogo con tutti gli uomini di buona volontà).

Una vera enciclica "sociale" che fa fare un passo in avanti alla DSC, e che propone con forza una ecologia integrale che mette al centro l’uomo e la sua relazione con gli altri e con il mondo che lo circonda. Che sia cioè attenzione all'ambiente ma anche attenzione alle grandi questioni sociali.

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La Società - n.3 / 2015

Qual è il rapporto tra uomo e ambiente oggi? Il rapido svilup-po industriale degli ultimi due secoli ha assegnato un enorme potere agli uomini, presto trasformato in saccheggio delle ri-sorse non rinnovabili della nostra casa comune. Economia e finanza da mezzi si sono trasformati in fini e hanno prevalso sulla politica del bene comune. La crisi ecologica è forse il segno più tangibile, evidente, vi-sibile, della crisi della società e dell’uomo che ha preteso di costruirla da solo. Per questo si parla di conversione. Ci vuole una conversione ecologica che nasce da una rivoluzione cultu-rale capace di sovvertire il paradigma tecnocratico.

Il papa indica le vie da perseguire: una autorità politica mon-diale attenta al bene comune. Nuovi stili di vita ispirati alla sobrietà. La nostra madre terra è malata. Inquinamento, urbanizzazio-ne, cementificazione selvaggia, perdita di biodiversità, rifiuti che trasformano la terra in una grande discarica, riscaldamen-to globale, aumento dei migranti che fuggono la miseria ag-gravata dal degrado ambientale. Un affresco di grande impatto che ci ricorda quelli della Rerum Novarum sulla questione operaia (1891), quelli della Qudra-gesimo anno sul dominio della finanza (1931), quelli della Pa-cem in Terris sull'equilibrio del terrore nucleare (1961), quelli della Populorum Progressio sul riscatto dei paesi ex coloniali (1968), quelli della Centesimus annus sul nuovo mondo dopo il crollo del muro di Berlino (1991), quelli della Caritas in veri-tate sui rischi della globalizzazione (2009).

Sul tema specifico ambiente, va detto che la Chiesa ha sempre nutrito una sollecitudine particolare nei confronti del pieno sviluppo dei popoli nel pieno rispetto del contesto ambien-tale. Ciò è particolarmente vero ai nostri giorni, in cui la que-stione ambientale ha assunto proporzioni vaste.Negli ultimi decenni il tema è stato ripreso con forza dalla Chiesa. Giovanni Paolo II nella enciclica: la Redemptor homi-nis, da buon amante della natura, mette in guardia sulla fle-bile esistenza cui è destinato l’uomo in virtù del progresso di

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EditorialeClaudio Gentili - Laudato si’. Laudato sì!

questo nostro ultimo secolo. Papa Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in Veritate ha affermato: "l'uso [dell'ambiente natura-le] è per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e di tutta l'umanità."Lo sviluppo della civiltà del nostro tempo, che è contrasse-gnato dal dominio della tecnica, esige un proporzionale svi-luppo della vita morale e etica. Intanto quest’ultimo sembra, purtroppo, rimanere sempre arretrato. Perciò, quel progres-so, peraltro tanto meraviglioso, in cui è difficile non scorgere anche autentici segni della grandezza dell’uomo, i quali, nei loro germi creativi, ci sono rivelati nelle pagine del libro del-la Genesi, già nella descrizione della sua creazione, non può non generare molteplici inquietudini. La prima inquietudine riguarda la questione essenziale e fondamentale: questo pro-gresso, il cui autore e fautore è l’uomo, rende la vita umana sulla terra, in ogni suo aspetto, <<più umana>>? La rende più <<degna dell’uomo>>? Al quale si aggiunge l’interrogativo: se l’uomo, come uomo, nel contesto di questo progresso, diventi veramente miglio-re, cioè più maturo spiritualmente, più cosciente della dignità della sua umanità, più responsabile, più aperto agli altri, in particolare verso i più bisognosi e i più deboli, più disponi-bile a dare e portare aiuto a tutti. Questa è la domanda che i cristiani debbono porsi. E la stessa domanda debbono anche porsi tutti gli uomini.

È qui tutto il fascino dell’ultima enciclica di Papa Francesco: il fascino vero di questa enciclica non sta solo nell'affresco so-ciale ma nella finezza della risposta antropologica e ma anche nella pazienza di un domandare per tutti. Una finezza che al-cuni lettori frettolosi, entusiasti di poter iscrivere il Papa al partito ambientalista, si sono lasciati sfuggire. L’enciclica ha un cuore antropologico che riprende la riflessio-ne di Giovanni Paolo II (oltre che del patriarca Bartolomeo) sulla ecologia umana. Non si può tutelare l'ambiente naturale e calpestare con l'aborto la natura umana (LS, n. 120), dire si alla ecologia vuol dire dire no alla sperimentazione e allo sfruttamento degli embrioni (LS, n. 136), dall'idea di ceato

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La Società - n.3 / 2015

viene naturalmente il rifiuto della colonizzazione della nuova pervasiva ideologia del gender (LS, n. 155), non si può amare la natura insomma e cancellare la differenza sessuale. Non si può difendere l’ambiente senza difendere il lavoro dell’uomo che è chiamato a proteggerlo e valorizzarlo (LS, n. 125).

Insomma il degrado ambientale è conseguenza del degrado etico dell'uomo, causato dal peccato originale. “Degrado”, una parola che a sua volta compare ben 28 volte nel testo del pontefice. Come a far percepire tutto il peso di qualcosa che si sbriciola e si sta perdendo. Degrado perché l'uomo ferito dal peccato da custode e giardi-niere si è trasformato in dominatore, ha depredato, ha con-sumato in modo egoistico, ha dimenticato il rispetto per la casa comune della famiglia umana. Tutto si tiene: economia, ecologia, lavoro, etica. L’enciclica ci dice chiaramente: o cam-minano insieme ho fanno deragliare l'uomo e l'umanità.

Ma c’è un passaggio in più: a illuminare il percorso dell’uo-mo nella natura è la luce della fede, a sua volta testimoniata dall’impegno della Chiesa. Un passaggio imprescindibile che vale la pena riprendere integralmente e che chiama i cattolici verso un compito non facile: “Se teniamo conto della comples-sità della crisi ecologica e delle sue molteplici cause, dovrem-mo riconoscere che le soluzioni non possono venire da un unico modo di interpretare e trasformare la realtà. È necessa-rio ricorrere anche alle diverse ricchezze culturali dei popoli, all’arte e alla poesia, alla vita interiore e alla spiritualità. Se si vuole veramente costruire un’ecologia che ci permetta di riparare tutto ciò che abbiamo distrutto, allora nessun ramo delle scienze e nessuna forma di saggezza può essere trascu-rata, nemmeno quella religiosa con il suo linguaggio proprio. Inoltre la Chiesa Cattolica è aperta al dialogo con il pensiero filosofico, e ciò le permette di produrre varie sintesi tra fede e ragione. Per quanto riguarda le questioni sociali, questo lo si può constatare nello sviluppo della dottrina sociale della Chiesa, chiamata ad arricchirsi sempre di più a partire dalle nuove sfide.” (LS, 63)

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EditorialeClaudio Gentili - Laudato si’. Laudato sì!

La fede e la ragione, entrambe orientate sulla verità, sono un antidoto contro la patologia del “relativismo pratico” (quello stesso relativismo che da un lato ama la natura, ma dall’al-tro ridimensiona la dignità umana in tutte le sue dimensioni: quello che salva i cani dalla strada e lascia morire anziani negli ospizi e immigrati nel canale di Sicilia).

La nostra terra è madre e sorella, ci accoglie nel suo grembo, ci nutre con i suoi frutti, e' una casa (oikos in greco), la nostra casa comune. Come ogni madre non va violata. Parlare di terra non come il nostro possesso ma il luogo che ci ospita, il dono e la creazione di Dio e' gia' sul piano culturale conversione eco-logica. L'idea prometeica (e un po' faustiana) di poter sfrutta-re all'infinito le risorse della terra senza porsi il problema della loro limitatezza appare sbagliata non solo sul piano etico ma anche sul piano economico. Inquinare le acque, il suolo, orientare i nostri consumi produ-cendo una quantità enorme di rifiuti, occorre riconoscerlo, ha rappresentato il modello di consumo seguito nelle società più avanzate. Le evidenze scientifiche hanno ormai ampiamente dimostra-to i rischi di questo modello di consumo rendendo urgente una conversione ecologica che riguardi i comportamenti delle persone ma anche la sostenibilità ecologica e umana dello svi-luppo. Occuparsi delle generazioni future, amare la terra, vivere in modo "francescano", usare le tecnologie per disinquinare e porre limiti al predomino della finanza sulla economia reale. Ecco il realismo utopico che ci indica Papa Bergoglio. La possibilità di cogliere tutte le connessioni intime tra ambiente e uomo è il vero regalo che l’enciclica fa al mondo: accogliendo le diverse opinioni (vi dedica un paragrafo apposito), ma senza rinunciare alla proposta di fede. Un testo che non esalta ne demolisce la tecnologia ma chiede di orientarla verso la bellezza e verso il bene comune. Chiede di servire la natura “cum grande humilitate”, senza gli orpelli dell’ecologismo radical chic, con dedizione generosa, per muoversi e incontrarsi faccia a faccia con Dio…al di là del sole.

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Ricerche

Responsabilità dell’impresa e tutela del creatodi Marco Vitale

La prospettiva dell’economia secondo Papa Francescodi S. E. Mons. Mario Toso

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RicercheS. E. Mons. Mario Toso - La prospettiva dell’economia secondo Papa Francesco

di S.E. Mons. Mario Toso,Vescovo di Faenza-Modigliana

secondo Papa Francesco

1. Alcune premesse: il rapporto tra etica ed economia e la sua destrutturazione

Per comprendere il pensiero di papa Francesco sull’econo-mia, com’è espresso in particolare nell’esortazione aposto-lica Evangelii gaudium (=EG), occorre premettere che i suoi pronunciamenti, al pari di quelli di ogni altro pontefice, con-cernono anzitutto gli aspetti religiosi, antropologici ed etici. Sarebbe pertanto sbagliato accostarsi al suo «magistero eco-nomico», pensando di ravvisarvi immediatamente l’indica-zione di un piano o di un sistema alternativo. Papa Francesco critica aspramente «un’economia dell’esclusione e dell’inequi-tà», un’economia che «uccide» (EG n. 53), al fine di sollevare una questione morale e non per porre mano direttamente ad una riforma dell’attuale sistema finanziario dal punto di vista strutturale e tecnico.

Il pontefice intende, piuttosto, portare il messaggio etico del Vangelo nel cuore del capitalismo contemporaneo, la cui impostazione prescinde dalle persone, dalle famiglie, dal-

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le imprese, dalle amministrazioni locali, preoccupandosi del profitto a breve, brevissimo termine. E «quando al centro del sistema – afferma il papa in un’intervista recente – non c’è più l’uomo ma il denaro, uomini e donne non sono più persone, ma strumenti di una logica “dello scarto” che genera profondi squilibri».1

Detto altrimenti, con l’immediatezza delle sue affermazioni, il pontefice stigmatizza la separazione che spesso si viene a determinare tra economia ed etica, un distacco deleterio per la stessa attività economica, oltre che per l’imprenditoria, la società e tutta la famiglia umana. Il problema sollevato non è marginale per ciò che oggi si suole chiamare «sviluppo so-stenibile», e nemmeno per la riflessione scientifica sull’econo-mia. Esso conduce al nocciolo dell’odierna crisi economica e finanziaria, che, con un effetto domino, ha generato fallimen-ti, diseguaglianze, nuove povertà, suicidi. Trattandosi di una crisi essenzialmente di natura etica, collegata a riduzionismi sociali e antropologici, non può non attirare l’attenzione degli ambienti accademici.

Questa Università, in cui hanno insegnato ed operato, accanto a numerose altre, personalità di grande spessore, come Fran-cesco Vito2 e la sua allieva Francesca Duchini, con l’iniziativa di questo pomeriggio pone giustamente a tema la questione e considera la possibilità di un’economia dell’inclusione a parti-re dal recupero delle sue radici umane e dal superamento di al-meno tre riduzionismi. Il primo vede l’uomo come un agente economico mosso soprattutto dall’egoismo, che è una forma inferiore di razionalità rispetto alla cooperazione, la quale per realizzarsi deve essere sostenuta da virtù personali e sociali. Il secondo concepisce i soggetti dell’attività economica – im-prese private e pubbliche – come semplici entità indirizzate a produrre beni e servizi o a massimizzare il profitto dei deten-tori dei capitali senza tener conto della responsabilità sociale nei confronti del territorio e dell’ambiente. Il terzo si riferisce al concetto di “ricchezza delle nazioni”, che viene spesso ap-piattito su beni e servizi prodotti su un territorio in una de-

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terminata unità di tempo, tralasciando di considerare in ma-niera adeguata i beni sociali, culturali e spirituali di un popolo.I molteplici pronunciamenti di papa Francesco sulla crisi eco-nomica e finanziaria mirano, dunque, a stimolare l’approfon-dimento dello spessore antropologico ed etico dell’economia. Peraltro, nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2013, il suo predecessore, Benedetto XVI, sollecitava le isti-tuzioni universitarie e culturali a fornire un valido contribu-to ad una riflessione scientifica, che radicasse le attività eco-nomiche e finanziarie in un solido fondamento umanistico.3

Purtroppo, oggi si constata che la stragrande maggioranza degli attuali curricula economici sono sempre più depurati da tutte le dimensioni umanistiche e storiche, nell’illusione che, riducendo il pensiero economico a numeri, tabelle, grafici ed algoritmi semplificati, si possano formare competenze capaci di pensiero, creatività e vera innovazione.

In un simile contesto, con le sue prese di posizione sull’eco-nomia dell’esclusione e dell’inequità, papa Francesco evoca l’urgenza di un sapere economico che, pur coltivando la pro-pria legittima autonomia scientifica, non si consideri estra-neo all’ordine morale. In altre parole, la scienza economica dev’essere considerata entro una sintesi culturale che rispec-chi l’unitarietà dei molteplici saperi, corrispondente all’unità delle attività umane, facenti tutte capo ad un unico sogget-to: la persona libera e responsabile, intrinsecamente sociale, aperta alla Trascendenza. L’attività economica non può essere separata dai soggetti che la pongono in essere, dall’interezza delle loro dimensioni costitutive che qualificano inevitabil-mente ogni loro azione. Così, la scienza economica non è avul-sa dalle altre scienze umane, che non possono essere ridotte a semplici strumenti, specie quando corrispondano a finalità più alte. La politica, ad esempio, non può essere ministeriale ad un’economia elevata a fine ultimo dell’uomo. È proprio su questo punto specifico che papa Francesco esprime il suo chia-ro dissenso, ossia su una visione dell’economia che prende il sopravvento su tutto l’esistente, anche sul bene comune, che dovrebbe essere il fine della politica.

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In altri termini, per sconfiggere un’economia dell’esclusione e dell’inequità; per instaurare al suo posto un’economia «amica» delle persone, inclusiva di tutti, occorre ribaltare il primato dell’economia sull’essere umano. Ciò esige di ricondurre l’eco-nomia entro il proprio alveo, alla sua finalità che è servire l’uo-mo, e non dominarlo, strumentalizzandolo o riducendolo a «cosa» di cui disporre a piacimento. Come ricorda il pontefice argentino al n. 55 della EG, la crisi finanziaria che attraversia-mo ci fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda cri-si antropologica e, pertanto, che è soprattutto su questo piano che bisogna ristabilire un giusto ordine gerarchico, pena l’al-ternativa rappresentata da «un’economia senza volto e senza uno scopo veramente umano» (EG n. 55).

L’esigenza di ripristinare il senso antropologico ed etico dell’e-conomia comporta, in particolare, l’urgenza di problematiz-zare l’attuale primato della finanza – un primato che si è venu-to ad affermare anche con il concorso della stessa politica, che ha liberalizzato i mercati e ha consentito l’unificazione delle banche commerciali con quelle speculative – e la conseguente tendenza all’assolutizzazione della sua autonomia rispetto a tutto il resto. Così, a fronte della sua riduzione a meri processi tecnici, ci si dovrà domandare se non vi sia una questione di responsabilità etica e sociale nella «finalizzazione» di tali pro-cessi o in quei meccanismi automatici, che pure sono avviati da decisioni umane e che, quindi, non si possono ultimamen-te sottrarre al controllo da parte dei singoli e della società, oltre che degli Stati. Come ha ricordato la Caritas in veritate (=CIV), non si può ignorare che ogni decisione economica ha sempre un risvolto di carattere morale (cf n. 37) e, quindi, va considerata e valutata nelle sue conseguenze umane e sociali, oltre che nella sua performatività prettamente tecnica e pra-tica.

2. La necessità della ricostruzione del rapporto etica ed economia

Dato che oggi assistiamo ad una chiara decostruzione seman-

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tica dell’economia e della finanza, con conseguenze devastanti per lo sviluppo integrale, per il bene comune e per le democra-zie stesse, ci attende un compito di ripensamento, di riseman-tizzazione antropologica ed etica. L’economia e la finanza, come attività umane, devono sottostare alla guida della legge morale, poiché tale legge concerne ogni attività posta in esse-re da persone libere e responsabili. In breve, l’economia e la finanza debbono essere considerate e praticate come attività dall’uomo, dell’uomo, per l’uomo.

L’origine e la qualificazione antropologiche di tali attività implicano, pertanto, la loro «finalizzazione» umana. Come insegna la Dottrina sociale della Chiesa (=DSC), specie nella costituzione pastorale Gaudium et spes (=GS) del Concilio Va-ticano II, tali attività sono al servizio del bene comune della famiglia umana e di ogni singolo uomo. La naturale struttu-razione antropologica ed etica dell’economia e della finanza postula questa ministerialità nei confronti della crescita ple-naria delle persone e dei popoli, senza escludere nessuno. Il personalismo economico della GS è dalla stessa così sintetiz-zato: l’uomo è «l’autore, il centro e il fine di tutta la vita econo-mico-sociale» (GS n. 63).

In base a ciò, l’economia e la finanza sono a servizio di tutti gli uomini e popoli. Hanno e devono avere come soggetto tutti gli uomini e tutti i popoli. Devono essere comunitarie e soli-dali. Tutti hanno il diritto di partecipare alla vita economica e finanziaria e di contribuire, secondo le proprie capacità, al progresso economico del Paese di appartenenza e della co-munità umana. Tutti hanno il diritto di accedere al mercato del lavoro. I poveri e i popoli economicamente meno svilup-pati, in particolare, chiedono che sia rispettato «il loro diritto di partecipare al godimento dei beni materiali e di mettere a frutto la loro capacità di lavoro» (Centesimus annus [=CA] n. 28).

D’altra parte, se tutti siamo responsabili di tutti, abbiamo tut-ti anche il dovere di impegnarci, oltre che per il proprio svilup-

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po economico anche per quello di tutti gli altri (cf Sollicitudo rei socialis [=SRS] n. 32). I poveri sono una «risorsa» preziosa che (cf CIV n. 35), se aiutata ad immettersi nel circuito dei mercati nazionali ed internazionali, potrà esprimere la pro-pria potenzialità creativa e contribuire alla moltiplicazione della ricchezza economica mondiale e all’arricchimento del patrimonio comune dell’umanità rappresentato dalla tecnica e dalla cultura.

Quanto sin qui espresso corrisponde al nucleo essenziale della Dottrina sociale della Chiesa sulla dimensione antropologica, etica e sociale dell’economia. È ad esso che si ricollega papa Francesco per argomentare i suoi pronunciamenti. Secondo l’insegnamento sociale dei pontefici, l’etica non ha una funzio-ne semplicemente regolativa degli eccessi e delle ricadute ne-gative dell’economia sulle persone, sui popoli e sull’ambiente. Essa ha un particolare ruolo costitutivo e qualificante. Senza l’etica l’economia non è più se stessa. Diviene «diseconomia», come l’ha definita don Luigi Sturzo, uno dei più grandi pen-satori politici del secolo scorso. Più recentemente, lo ha anche chiaramente ribadito la CIV di Benedetto XVI: «L'economia, infatti, ha bisogno dell'etica per il suo corretto funzionamen-to; non di un'etica qualsiasi, bensì di un'etica amica della per-sona». Per conseguenza, «occorre adoperarsi – aggiunge poco dopo – non solamente perché nascano settori o segmenti “eti-ci” dell'economia o della finanza, ma perché l'intera economia e l'intera finanza siano etiche e lo siano non per un'etichet-tatura dall'esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura» (CIV n. 45).

Per essere se stessa e raggiungere in maniera efficace ed effi-ciente i suoi obiettivi, l’economia, dunque, ha bisogno dell’e-tica, che è strettamente collegata alla inviolabile dignità della persona umana e al trascendente valore delle norme morali naturali (cf ib.), inscritte in ogni coscienza da Dio creatore. Proprio per questo, allorché si desideri istituire una riflessio-ne «scientifica» sull’economia e sulla finanza, non si tratta di trovare o di stabilire un semplice raccordo tra di esse, come

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se fossero due corpi estranei. L’economia e la finanza, quali attività umane, hanno un rapporto intrinseco con l’ordine morale. E questo, sia in ragione dei soggetti che le pongono in essere e che in ogni forma del loro operare sono guidati dalla legge morale; sia in ragione di quanto producono, che, contri-buendo al compimento umano, è da considerarsi bene «uti-le» e «degno»; sia in ragione del fatto che, mentre le esercita, l’uomo si perfeziona e cresce in dignità. L’etica, ovviamente, non annienta la razionalità dell’economia e della finanza, ma l’aiuta ad esplicarsi in pienezza. Etica e razionalità scientifico-tecnica non sono in contrasto. Convivono in un rapporto di mutuo potenziamento, come si può facilmente riscontrare nella pratica. Economia, finanza, libero mercato non possono sviluppare tutte le loro potenzialità senza essere strutturati eticamente, senza un contesto o un ambiente morale, ossia senza la qualità morale dei soggetti che vi operano e delle isti-tuzioni economiche e finanziarie; senza l’adempimento delle norme etiche e il rispetto dei diritti dell’uomo, considerato nel suo «volume totale» (cf CA nn. 23-25).

Va perciò tenuto presente che, in mancanza di un’adeguata considerazione della dimensione scientifico-tecnica dello svi-luppo economico, l’appello dell’etica, come quello della soli-darietà, rischia di cadere a vuoto. Difficilmente si troveranno risposte efficaci ai bisogni degli uomini, facendo leva soltanto su un impegno morale astratto e disincarnato. L’autonomia, la consistenza e l’efficienza della razionalità scientifico-tecnica obbligano l’etica a superare vuoti moralismi e volontarismi.

Come si è detto, l’attività economica e finanziaria ha un rap-porto intrinseco con l’etica. Ciò le induce a configurarsi non secondo esigenze individualistiche, bensì umanisticamente, ossia in termini coerenti con l’essere umano, libero e respon-sabile, fraterno e solidale, aperto alla Trascendenza. Proprio per questo, la CIV ha aggiornato l’ideale storico e concreto, rappresentato dalla prospettiva di un’economia sociale ‒ in-dicante una progettualità germinale ‒, evidenziando come la vita economica, che ha senz’altro bisogno del contratto, per

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regolare i rapporti di scambio tra valori equivalenti, e altresì di leggi giuste e di forme di ridistribuzione guidate dalla po-litica, necessita di opere che rechino impresso lo spirito del dono.

Essendo espressione dell’essere umano, fraterno e solidale, l’e-conomia non può che essere strutturata ed istituzionalizzata eticamente. Deve, inoltre, essere contrassegnata dal principio della gratuità e dalla logica del dono, che integrano la logi-ca contrattuale e politica. La gratuità diffonde ed alimenta la solidarietà e la responsabilità per la giustizia e per il bene co-mune nei suoi vari soggetti e attori, in tutte le fasi dell’attività economica (cf CIV nn. 36-37), che in definitiva necessita di un sistema a tre soggetti: il mercato, lo Stato e la società civi-le. Secondo Benedetto XVI, l’ideale storico-concreto di un’e-conomia di mercato, funzionale al bene comune nazionale e mondiale, è sostanziato da un’imprenditorialità plurivalente (imprese profit, finalizzate al profitto, imprese non profit, non finalizzate al profitto), e da un’area intermedia tra profit e non profit. Quest’ultima è «costituita da imprese tradizionali, che però sottoscrivono dei patti di aiuto ai Paesi arretrati; da fondazioni che sono espressione di singole imprese; da gruppi di imprese aventi scopi di utilità sociale; dal variegato mondo dei soggetti della cosiddetta economia civile e di comunione. Non si tratta solo di un “terzo settore”, ma di una nuova am-pia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico e che non esclude il profitto, ma lo considera strumento per re-alizzare finalità umane e sociali. Il fatto che queste imprese distribuiscano o meno gli utili oppure che assumano l'una o l'altra delle configurazioni previste dalle norme giuridiche di-venta secondario rispetto alla loro disponibilità a concepire il profitto come uno strumento per raggiungere finalità di uma-nizzazione del mercato e della società» (CIV n. 46).

3. La critica di papa Francesco al determinismo economico e finanziario odierno

Papa Francesco, a partire dalla sua visione personalista e co-

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munitaria dell’economia, lotta strenuamente contro l’attuale feticismo del denaro e la sacralizzazione dei meccanismi del sistema economico. Egli pensa che il rifiuto dell’etica e, prima ancora, di Dio, apre le porte ad un imperialismo economico che non si ha il coraggio di chiamare con il suo vero nome, ma che esiste come un Leviatano pressoché incontrastato, dal momento che nel mondo mancano sia gli strumenti legisla-tivi che le istituzioni pubbliche in grado di ridimensionarlo o di abbatterlo. Il papa argentino riconosce che, allorché Pio XI nella Quadragesimo anno del 1931 parlò dell’imperialismo internazionale del denaro, non sbagliò affatto, e dimostrò di essere più coraggioso di molti cattolici nostri contemporanei, i quali ritengono esagerate e radicali, addirittura venate di marxismo, le affermazioni della EG, a proposito dell’odierna economia dell’esclusione e dell’inequità. Non pochi credenti, infatti, affermano che la EG, condannando le teorie della «ri-caduta favorevole», demonizzerebbe l’economia di mercato e il capitalismo.

Ma le cose stanno proprio in questi termini?

In primo luogo si potrebbe obiettare che il pensiero di papa Francesco non si richiama affatto al marxismo, sia sul piano dell’analisi delle cause dei mali sociali ed economici, sia su quello del metodo dell’azione per risolverli. Il pontefice ne evi-denzia anzitutto le cause etiche e religiose e, come già affer-mato, stigmatizza quel sistema economico che pone al centro il dio denaro e non la persona. Così, non propone come via prassica la lotta contro i ricchi, bensì la lotta per la giustizia. Ciò emerge chiaramente anche dal suo Discorso ai partecipan-ti all’Incontro mondiale dei movimenti popolari (28 ottobre 2014) – altro testo giudicato da alcuni come tendenzialmente «marxista» – in cui, parlando dell’urgenza di riformare l’attua-le sistema economico, al fine di realizzare un’economia e una democrazie inclusive, afferma: «Dobbiamo cambiarlo, dobbia-mo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro van-no costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bi-sogno. Va fatto con coraggio, ma anche con intelligenza. Con

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tenacia, ma senza fanatismo. Con passione, ma senza violen-za. E tutti insieme, affrontando i conflitti senza rimanervi in-trappolati, cercando sempre di risolvere le tensioni per rag-giungere un livello superiore di unità, di pace e di giustizia». E aggiunge subito dopo: «Noi cristiani abbiamo qualcosa di molto bello, una linea di azione, un programma, potremmo dire, rivoluzionario. Vi raccomando vivamente di leggerlo, di leggere le beatitudini che sono contenute nel capitolo 5 di san Matteo e 6 di san Luca (cfr. Matteo, 5, 3 e Luca, 6, 20)».

In secondo luogo, papa Francesco non ha mai affermato che il mercato sia un principio economico di per sé ingiusto. Non condanna l’economia di mercato, bensì il capitalismo finan-ziario che piega il libero mercato al servizio del profitto a bre-ve termine, generando diseguaglianze, riducendo le libertà sostanziali di troppe persone, inducendo i sistemi democra-tici a mostrare la corda, stressandoli con un progressivo ridi-mensionamento dei diritti sociali ed economici dei cittadini. Detto altrimenti, il pontefice argentino non ignora come il ca-pitalismo finanziario, che assolutizza una speculazione senza limiti e che è soggetto a crisi ricorrenti, stia avendo influssi devastanti sulla democrazia. Il che deve obbligare a conside-rare adeguatamente il problema del rapporto tra capitalismo e democrazia, che assume configurazioni diverse nel corso del tempo. Se nella prima parte della seconda metà del Novecen-to, si è attuato un compromesso tra capitalismo e democrazia, da allora a oggi, la finanza, con la complicità della stessa po-litica, ha preso il sopravvento sull'economia reale; il capitali-smo si è finanziarizzato; quel compromesso è stato spazzato via, e con il capitalismo si è modificata pure la democrazia.4

In terzo luogo, la critica rivolta da papa Francesco alle teo-rie della «ricaduta favorevole» (trickle-down, trickle-down) non è per nulla ascientifica. Essa troverebbe una controprova proprio nel fatto che, nelle attuali condizioni storiche, (glo-balizzazione dei mercati e finanziarizzazione dell’economia) l’effetto sgocciolamento non si può più verificare. Come ha recentemente osservato Stefano Zamagni, qualsiasi economi-

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sta, che non sia accecato da posizioni preconcette, ritiene che la celebre «curva di Kuznets» non è più valida. Papa France-sco dimostra di capire quello che troppi osservatori e studiosi fingono di non vedere, e cioè che povertà assoluta e disegua-glianza sono fenomeni sostanzialmente diversi. E pertanto, sono diverse le strategie di lotta da adottare: mentre per com-battere la povertà assoluta è sufficiente intervenire sui mecca-nismi redistributivi, per avanzare sul secondo fronte occorre intervenire sul momento stesso in cui la ricchezza si produce.5

In conclusione, papa Francesco propone il superamento delle attuali dottrine economiche neoliberistiche sulla base di ra-gioni eminentemente antropologiche ed etiche, ma anche av-valendosi dei risultati di studi recenti, secondo i quali la «cur-va di Kuznets» non funziona più. Ad una crescita economica, favorita dal libero mercato, non corrisponde sempre una mag-giore equità e inclusione sociale. Occorre abbandonare defi-nitivamente la fiducia grossolana ed ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi del sistema economico. Non si può confidare nelle forze cieche e nella «mano invisibile» del mercato. «La crescita in equità – ecco ciò a cui bisogna puntare – esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga, richiede decisio-ni, programmi, meccanismi e processi specificamente orienta-ti a una migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro, a una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo» (EG n. 204).

Con queste affermazioni, il pontefice si oppone ai sostenitori della bontà automatica della globalizzazione sregolata dell’e-conomia e della finanza, secondo i quali essa avrebbe di fatto favorito la crescita economica di diversi Paesi, ad esempio dei BRICS.6 Egli ritiene di dover dissentire non da tutti i neoliberi-sti, ma da quelli più radicali, perché non tengono in conto che lo sviluppo di un Paese non dev’essere solo economico e otte-nuto in qualsiasi maniera, anche a costo della giustizia, senza rispettare i diritti dei lavoratori e senza promuovere il pro-gresso sociale. Se la globalizzazione dell’economia ha prodotto

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ricchezza e crescita economica per alcuni, bisogna sempre do-mandarsi se ciò è avvenuto secondo giustizia e non abbia cau-sato nuove sacche di povertà e di diseguaglianza. La ricchezza non va solo prodotta. Occorre anche che sia equamente re-distribuita. L’istruzione e il lavoro sono elementi chiave sia per lo sviluppo e la giusta distribuzione dei beni sia per il rag-giungimento della giustizia sociale. Visioni che pretendono di aumentare la redditività, a costo della restrizione del mercato del lavoro che crea nuovi esclusi, non sono conformi ad una economia a servizio dell’uomo e del bene comune, ossia del bene di tutti! Non ci può essere vera crescita senza lavoro per tutti. Secondo papa Francesco, la dignità di ogni persona e il bene comune sono questioni che devono strutturare tutta la politica economica, e non essere considerate come mere ap-pendici. Debbono costituire la base dei programmi che mirano a un autentico sviluppo integrale (cf EG n. 203).In sostanza, per il pontefice non si tratta di sottodimensio-nare l’economia e la finanza – il che sarebbe assurdo – bensì di umanizzarle e di finalizzarle al bene comune della famiglia umana. La Chiesa non condanna l’economia di mercato, le Borse, il profitto, la concorrenza e la speculazione in sé. Ri-chiede, piuttosto, che siano tutelati, promossi e posti al servi-zio dell’uomo e di tutti i popoli (cf CIV n. 65).Rivolgendosi ai membri del Consiglio dei capi esecutivi per il coordinamento delle Nazioni Unite, papa Francesco, citando l’episodio dell’incontro di Zaccheo con Gesù, ha ricordato che «la promozione di un’apertura generosa, efficace e concreta alle necessità degli altri deve essere sempre al di sopra dei si-stemi e delle teorie economiche e sociali». «Gesù – spiega papa Francesco – non chiede a Zaccheo di cambiare il proprio lavo-ro, né di denunciare la propria attività commerciale; lo induce solo a porre tutto, liberamente ma immediatamente e senza discussione, al servizio degli uomini». Tutto ciò – conclude il pontefice – permette di affermare «che il progresso economi-co e sociale equo si può ottenere solo congiungendo le capaci-tà scientifiche e tecniche a un impegno di solidarietà costan-te, accompagnato da una gratuità generosa e disinteressata a tutti i livelli».7

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Tra le condizioni di realizzazione del bene comune mondiale sono da porre, senz’altro, mercati finanziari e monetari liberi, stabili, trasparenti, democratici (non oligarchici), etici, fun-zionali ai lavoratori, alle imprese, alle famiglie e alle comunità locali, come ha avuto occasione di illustrare il Pontificio Con-siglio della Giustizia e della Pace nelle sue riflessioni, Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’Autorità pubblica a competenza uni-versale.8

4. La proposta progettuale di papa Francesco

Come già detto, papa Francesco condanna apertamente un’economia succube della «cultura dello scarto», che con la sua logica finisce per tenere fuori – oltre che dal mondo del lavoro – dalla società e dalla politica numerosi cittadini, specie i giovani e le donne. Si tratta di una cultura che, in definitiva, produce soggetti-rifiuti, «avanzi». Essa appare logico corollario del capitalismo finanziario, per il quale il lavoro non sarebbe più necessario per produrre ricchezza. Questo capitalismo insegue l’idolo del denaro che si moltiplica da se stesso. La ricchezza delle Nazioni viene creata dalla speculazione e non dall’imprenditoria e dal lavoro, per cui non ci si dovrebbe preoccupare delle masse di disoccupati. Il lavoro andrebbe considerato come una semplice variabile dipendente dei meccanismi finanziari e monetari. Papa Francesco si oppone con forza ad una simile concezione neoliberista dell’economia e del lavoro, che in definitiva mortifica la dignità umana di molti. Occorre reagire e non accontentarsi di soluzioni – utili, ma insufficienti – centrate sulla carità assistenziale. Vanno affrontate e risolte la cause strutturali della povertà e dell’inequità (cf EG n. 202), vanno superati i piani assistenziali che sono soluzioni provvisorie. Va creata un’economia nuova ed «onesta», inclusiva, con l’aiuto di una politica «buona», di istituzioni pubbliche riformate. Non basta l’azione delle Caritas diocesane. Non si tratta solo di dare da mangiare, ma di mettere la gente in condizione di portare il pane a casa, di guadagnarlo e di vivere con dignità. «[…] Non è sufficiente

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sperare che i poveri raccolgano le briciole che cadono dalla tavola dei ricchi. Sono necessarie azioni dirette a favore dei più svantaggiati, l’attenzione per i quali, come quella per i più piccoli all’interno di una famiglia, dovrebbe essere prioritaria per i governanti».9 Ci vuole proprio l’apporto specifico ed insostituibile della politica, che è una delle espressioni più alte dell’Amore, del servizio.10

Detto altrimenti, urge una politica che non sia succube del capitalismo finanziario, ma che si ponga a servizio del bene comune (cf EG n. 205) e sia, pertanto, in grado di orientare i mercati finanziari non solo al potenziamento dell’economia produttiva, ma anche di proporre politiche attive del lavoro per tutti. Papa Francesco afferma chiaramente che noi oggi abbiamo bisogno di uomini politici che si impegnano a sana-re le radici profonde dei mali sociali e che, aprendosi a Dio, abbiano veramente a cuore la società, il popolo, la vita dei po-veri. Ci si forma una nuova mentalità politica ed economica proprio a partire dall’apertura alla Trascendenza, che aiuta ad allargare le proprie prospettive e a superare la esiziale dicoto-mia tra economia e bene comune sociale.Nell’esortazione Evangelii gaudium, il papa argentino offre al-cuni orientamenti in vista di uno sviluppo integrale, sociale, sostenibile, inclusivo. Tra di essi segnaliamo:

a) il recupero del primato della politica sull’economia e sulla finanza. La politica ritornerà ad avere il suo le-gittimo primato, radicandosi e ricentrandosi sul bene comune, a partire da un’antropologia non individuali-sta ed utilitarista. È la coscienza del bene comune che dei «molti» fa un popolo, unendoli in vista di un obiet-tivo condiviso. È la ricerca del bene comune, e non già la sottomissione prona alla speculazione senza regole, che può restituire alla politica la sua altissima dignità e «sovranità». Per la DSC, ed anche per papa Francesco, il recupero dell’agire politico al servizio del bene comune è ultimamente favorito dall’incontro con Gesù Cristo, il quale, propiziando la nascita di un nuovo umanesi-mo, consente la rigerarchizzazione delle varie attività umane;

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b) una riforma finanziaria di stampo etico. In vista del-la realizzazione di una politica al servizio del bene co-mune e di uno sviluppo integrale per tutti, tra gli orien-tamenti pratici offerti da papa Francesco vi è quello di una riforma finanziaria tale da incarnare un’etica eco-nomica e finanziaria favorevoli all’essere umano (cf EG n. 58). Con questo orientamento, il pontefice si pone chiaramente in continuità con il magistero di Benedetto XVI, il quale, proprio agli inizi della grande crisi finan-ziaria ed economica che a partire dal 2008 colpì molti Stati, aveva ripetutamente sollecitato la riforma dell’ar-chitettura economica e finanziaria internazionale, con-giuntamente a quella dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, perché si potesse dare reale concretezza al con-cetto di famiglia di Nazioni. Papa Ratzinger, a fronte di problemi globali, sollecitava istituzioni globali, ovvero l’adeguamento delle istituzioni internazionali e, più precisamente, la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale era stata già tratteggiata dal suo prede-cessore Giovanni XXIII, ora santo. «Una simile Autorità – scriveva Benedetto XVI − dovrà essere regolata dal di-ritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidia-rietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità. Tale Autorità, inoltre, dovrà essere da tutti riconosciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l'osservanza della giustizia, il rispetto dei diritti. Ovviamente, essa deve godere della facoltà di far rispettare dalle parti le pro-prie decisioni, come pure le misure coordinate adottate nei vari fori internazionali. In mancanza di ciò, infatti, il diritto internazionale, nonostante i grandi progressi compiuti nei vari campi, rischierebbe di essere condi-zionato dagli equilibri di potere tra i più forti. Lo svi-luppo integrale dei popoli e la collaborazione interna-zionale esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per

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il governo della globalizzazione e che si dia finalmen-te attuazione ad un ordine sociale conforme all'ordine morale e a quel raccordo tra sfera morale e sociale, tra politica e sfera economica e civile che è già prospettato nello Statuto delle Nazioni Unite» (CIV n. 67);c) una sana economia mondiale. Un terzo orientamen-to pratico, indicato da papa Francesco, prevede la rea-lizzazione di «una sana economia mondiale» (cf EG n. 206). Oggi, a fronte di perduranti povertà e disegua-glianze, si avverte l’urgenza di concepire l’economia come arte di raggiungere un’adeguata amministrazione della casa comune, che è il mondo intero. Data l’interdi-pendenza delle economie nazionali nel presente conte-sto di globalizzazione, non è pensabile che il governo di un singolo Paese possa affrontare e risolvere non solo i problemi sovranazionali, ma anche gli stessi problemi locali. La politica locale, infatti, non può ignorare che vi sono connessioni globali che rendono più complicate le soluzioni che essa deve ricercare nei singoli territo-ri. Proprio per questo, rimarca papa Francesco, nessun governo può pensare di agire al di fuori di una comune responsabilità. In questa fase storica, egli precisa, c’è bisogno «di un modo efficiente di interazione che, fat-ta salva la sovranità delle nazioni, assicuri il benessere economico di tutti i Paesi e non solo di pochi» (EG n. 206). A fronte dell’orientamento dell’esortazione apo-stolica nella direzione di una sana economia mondia-le rispettosa delle sovranità nazionali, ci si domanda come ciò possa essere concretamente possibile. Si deve pensare ad una collaborazione internazionale e sponta-nea, oppure ad una cooperazione guidata da un’Autori-tà politica mondiale, che agisce democraticamente sulla base del principio della sussidiarietà? Le parole essen-ziali, molto stringate, della EG non possono aiutarci a sciogliere la questione. Ma alcuni suggerimenti utili in proposito sembrano provenire dalle considerazioni del pontefice attorno al problema dello sradicamento delle povertà;

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d) lo sradicamento delle povertà e democrazia. Come già accennato, secondo papa Francesco la politica del bene comune è strettamente congiunta con l’ideale di una «democrazia ad alta intensità», che si contrappone a quella di «democrazia a bassa intensità».11 Egli ritiene che, se si intende rimuovere le cause strutturali della povertà (cf EG n. 202) e risolvere radicalmente il pro-blema, superando le risposte provvisorie dei piani me-ramente assistenziali (cf EG n. 202); se si vuole perse-guire l’obiettivo di un lavoro dignitoso, dell’istruzione e assistenza sanitaria per tutti i cittadini (cf EG n. 205); se si pensa, cioè, di perseguire l’obiettivo che i poveri vivano decorosamente e nessuno sia escluso dalla par-tecipazione alla vita politica (cf EG 207), occorre allora impegnarsi decisamente per la realizzazione di una de-mocrazia sostanziale, ossia di una democrazia che sia, a un tempo, e politica ed economica e sociale, fondata su uno Stato di diritto sociale, inclusiva, rappresentativa e partecipativa, vale a dire una politica di sviluppo inte-grale e sostenibile per tutti. Oggi, chi è povero rimane escluso dal circuito della politica, è emarginato rispetto ai luoghi decisionali, non ha chi lo rappresenti. La po-vertà, per papa Francesco, viene combattuta soprattut-to, anche se non esclusivamente, creando la possibilità di un lavoro per tutti. Il lavoro libero e creativo, parte-cipativo e solidale, è lo strumento mediante cui anche i meno abbienti possono esprimere ed accrescere la loro dignità (cf EG n. 192), essere rappresentati e collabora-re alla realizzazione del bene comune. Si tratta di una visione per un verso «classica», ma per un altro verso «rivoluzionaria» rispetto alla vulgata odierna, secondo cui il profitto sarebbe un valore assoluto, ed il lavoro una variabile dipendente dei meccanismi monetari e fi-nanziari. La democrazia ad alta intensità, in conformità al bene comune che l’ispira, non deve dunque puntare allo smantellamento dello Stato sociale, semmai ad una sua estensione e rifondazione in senso societario. Essa, infatti, poggia sul presupposto che i diritti civili e poli-

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tici non possono essere reali, ovvero usufruibili, senza che siano simultaneamente attuati i diritti sociali, tra i quali il diritto al lavoro. Senza diritti politici, la gente non può essere sicura dei propri diritti personali; ma senza diritti sociali, i diritti politici rimangono un so-gno irraggiungibile, un’inutile finzione per tutti colo-ro ai quali la legge li riconosce su un piano meramente formale.12

In un pianeta in cui oramai la realizzazione dei diritti appare un problema globale, sarebbe irrazionale pensa-re che essi possano essere garantiti e promossi senza l’universalizzazione di una democrazia ad alta inten-sità. Peraltro, non si deve nemmeno ignorare, come suggeriscono le riflessioni dei massimi politologi e so-ciologi, che la democrazia e la libertà non possono es-sere completamente e veramente realizzate in un Paese senza che esse non lo siano in tutti i Paesi del mondo. Il futuro della democrazia e della libertà, afferma ad esempio Zygmunt Bauman, o sarà garantito su scala planetaria, o non lo sarà affatto.13

Papa Francesco propone, in particolare, che ci si riap-propri del progetto di una democrazia che, senza ce-dere all’ideologia dello scarto, tenga conto ed affronti coraggiosamente i problemi dei nuovi poveri: i senza-tetto, i tossicodipendenti, i popoli indigeni, i rifugiati, i migranti, gli anziani sempre più deboli ed abbandonati (cf EG n. 210), le persone che subiscono la tratta, i nuo-vi schiavi che trovano la morte nelle piccole fabbriche clandestine, nella rete della prostituzione o che sono sfruttati nell’accattonaggio o nel lavoro non regolariz-zato (cf EG 211); le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza; i bambini nasci-turi, sul cui diritto alla vita non ci si può attendere che la Chiesa cambi la sua posizione (cf EG n. 214). Ma una nuova democrazia dovrà anche farsi carico dell’insieme della creazione, per contrastare la desertificazione del suolo e l’estinzione delle specie, che hanno forti riper-cussioni sulla nostra vita e sulle generazioni future (cf

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EG n. 215);e) la costruzione di popoli in pace, giustizia e fraterni-tà. Fondamentali per il futuro dell’umanità, oltre all’in-clusione sociale dei poveri mediante democrazie ad alta intensità, sono il rispetto della dignità umana, la «mi-stica» del bene comune, la pace sociale, che comporta una giustizia più alta tra gli uomini. Ma tutto ciò ha una precondizione: essere, sentirsi e farsi incessantemente popolo, sperimentando, giorno dopo giorno, la cultura dell’incontro in una pluriforme armonia, sulla base del dinamismo di una comune ricerca del vero, del bene, del bello e di Dio, che sfocia nell’esperienza della fraterni-tà,14 della comunione e della prossimità. Si diviene un popolo, in cui le differenze sono armonizzate all’inter-no di un progetto comune, riscoprendo la propria voca-zione al bene comune e praticando il dialogo sociale fra i diversi, su più piani: con gli Stati, con le società – ivi compreso il dialogo con le culture e le scienze – e con i credenti che non fanno parte della Chiesa cattolica (cf EG n. 238). Per progredire nella costruzione di un po-polo in pace, giustizia e fraternità, papa Francesco in-dica quattro principi essenziali: a) il tempo è superiore allo spazio; b) l’unità prevale sul conflitto; c) la realtà è più importante dell’idea; d) il tutto è superiore alla parte. Essi derivano dai grandi postulati della Dottrina sociale della Chiesa.

5. Conclusione: economia e democrazia inclusive

Per papa Francesco, l’economia inclusiva è precondizione di una democrazia inclusiva, come anche di un welfare societario altrettanto inclusivo.15 Lo Stato di diritto sociale e il welfare non vanno abbattuti.16 Oggi vanno semmai ripensati, ripro-porzionati secondo le risorse disponibili, e profondamente ristrutturati in senso societario, prevedendo, sì, il coinvolgi-mento dello Stato come ultima istanza di garanzia, di control-lo e di promozione, ma principalmente quello della società civile e del mercato. La democrazia inclusiva e partecipativa

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deve esprimersi sempre più anche sul piano della gestione e destinazione universale dei beni collettivi, come l’acqua,17

l’energia18 e l’ambiente in generale, specie mediante forme cooperative ed imprese che sappiano coniugare il privato, il sociale e il pubblico.19

Puntare ad un welfare societario inclusivo, per papa France-sco, significa rivedere profondamente ed allargare l’attuale welfare, per cui lo Stato sociale del futuro dovrà ripartire dalle nuove «posizioni proletarie» e dai «nuovi scarti» della società neoliberista, che il welfare tradizionale non è in grado di inter-cettare e che il pubblico non riesce a «vedere».20

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Note1 A. TORNIELLI-G. GALEAZZI, Papa Francesco. Questa economia uccide. Con un’intervista esclusiva su capitalismo e giustizia sociale, Piemme, Mi-lano 2015, p. 206.2 Cf A. CALOIA, Francesco Vito. L’economia politica di un cristiano econo-mista, Rusconi, Milano 1998; D. PARISI-C. ROTONDI (a cura di), Francesco Vito. Attualità di un economista politico, Vita e Pensiero, Milano 2003.3 Cf BENEDETTO XVI, Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2013, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012, p. 12.4 Con l'espressione «capitalismo finanziario» si intende un sistema in cui la «finanza, una volta ancella dell'industria, ha preso il sopravvento come forza motrice del capitalismo» (R. J. SHILLER, Finanza e società giusta, Il Mulino, Bologna 2012, p. 15).5 Cf A. TORNIELLI-G. GALEAZZI, Papa Francesco. Questa economia ucci-de. Con un’intervista esclusiva su capitalismo e giustizia sociale, Piemme, Milano 2015, pp. 187-188.6 Acronimo per Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. 7 Papa FRANCESCO, Discorso ai membri del Consiglio dei capi esecutivi per il coordinamento delle Nazioni Unite, in «L’Osservatore romano» (sabato, 10 maggio 2014), p. 7. 8 Cf PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospet-tiva di un’autorità pubblica a competenza universale, Libreria Editrice Va-ticana, Città del Vaticano 2011, 3a ristampa. Non è la prima volta che il Pontificio Consiglio affronta tematiche relative all’economia e alla finanza. Basti anche solo pensare a: ID., Un nuovo patto finanziario internazionale 18 novembre 2008. Nota su finanza e sviluppo in vista della Conferenza promossa dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Doha, Tipografia Vaticana, Città del Vaticano 2009. Prima ancora, si era interessato del-le ricorrenti crisi finanziarie e della necessità di nuove istituzioni, con le seguenti pubblicazioni: ANTOINE DE SALINS-FRANÇOIS VILLEROY DE GALHAU, Il moderno sviluppo delle attività finanziarie alla luce delle esi-genze etiche del cristianesimo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994; Social and Ethical Aspects of Economics, Atti relativi al I Seminario di economisti organizzato il 5 novembre 1990 presso il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Vatican Press, Vatican City 1992; World Deve-lopment and Economic Institutions, Atti del II Seminario di economisti or-ganizzato il 4 gennaio 1993, Vatican Press, Vatican City 1994. Entrambi i

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Seminari sono stati realizzati grazie alla collaborazione degli esperti, proff. Ignazio Musu e Stefano Zamagni, consultori del Pontificio Consiglio. Per una prima lettura delle Riflessioni del Pontificio Consiglio sulla riforma dei sistemi finanziari e monetari, si legga: P. FOGLIZZO, Nuovi orizzonti per la finanza internazionale. Le proposte del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, in «Aggiornamenti sociali», anno 63 (febbraio 2012), n. 2, pp. 117-125. Strumenti di divulgazione e di approfondimento delle Riflessio-ni sono: COMISIÓN GENERAL «JUSTICIA Y PAZ» DE ESPAÑA, Por una reforma del sistema financiero y monetario internacional, Caritas Españo-la Editores, Madrid 2012; COMMISSION JUSTICE ET PAIX BELGIQUE FRANCOPHONE, Quelle maîtrise politique des activités commerciales et financières mondiales? Réflexions consécutives à la pubblication (2011) par le Conseil Pontifical «Justice et Paix» du document «Pour une réforme du système financier et monétaire international dans la perspective d’une au-torité publique à compétence universelle», Bruxelles 2013. 9 Messaggio del Santo Padre Francesco al Presidente del Panamá in occasio-ne del VII Vertice delle Americhe (10 aprile 2015).10 Cf FRANCESCO, Discorso pronunciato davanti alla popolazione di Scam-pia in piazza Giovanni Paolo II (21 marzo 2015).11 Quest’ultima espressione si incontra nel volume già citato: J. M. BERGO-GLIO, Noi come cittadini. Noi come popolo, p. 31.12 Per una visione unitaria dei diritti, nonché per una riflessione articolata sull’importanza dei diritti sociali, si veda L. FERRAJOLI, Dei diritti e delle garanzie. Conversazione con M. Barberis, Il Mulino 2013.13 Cf, ad esempio, Z. BAUMAN, Il demone della paura, Editori Laterza-Gruppo Editoriale L’Espresso Spa, Roma-Bari-Roma 2014, p. 48. Sul rap-porto tra democrazia e libertà si veda: M. TOSO, Democrazia e libertà. Lai-cità oltre il neoilluminismo postmoderno, LAS, Roma 2006.14 Sul tema della fraternità come principio costitutivo ed architettonico del-la società, si veda FRANCESCO, Messaggio per la Giornata mondiale della pace (1° gennaio 2014): Fraternità, fondamento e via per la pace, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013. Un approfondimento del Mes-saggio si può trovare in M. TOSO, Il Vangelo della fraternità, Lateran Uni-versity Press, Città del Vaticano 2014.15 Secondo papa Francesco, la democrazia odierna deve passare da un livello a «bassa intensità» ad un livello ad «alta intensità». Detto altrimenti, essa deve vincere la povertà, includendo tutti i cittadini nel mercato e nel wel-fare, oltre che nei circuiti della politica. Per comprendere meglio il pensiero

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del pontefice sulla democrazia, si legga la sua Lettera pastorale Noi come cittadini, noi come popolo, Jaca Book-Libreria Editrice Vaticana, Milano-Città del Vaticano 2013. Si veda anche M. TOSO, Riappropriarsi della de-mocrazia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015 (2a ristampa). 16 Su questo si veda FRANCESCO, Discorso ai partecipanti alla Plenaria del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace (2 0ttobre 2014). 17 Cf anche PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Acqua. Un elemento essenziale per la vita, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013, specie pp. 115-116.18 Cf PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Ener-gia, giustizia e pace, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013, specie pp. 103-104. 19 A proposito della cooperazione quale via per battere la povertà e coinvol-gere gli esclusi nella realizzazione del bene comune è di grande importanza il discorso di papa Francesco rivolto nello scorso 28 febbraio ai rappresen-tanti del mondo della cooperazione (cf FRANCESCO, Discorso ai rappresen-tanti della Confederazione Cooperative italiane [28 febbraio 2015]). 20 Cf IUSVE-LISES-CONFCOOPERATIVE-FEDERSOLIDARIETÀ VENETO, Rizomi per un nuovo welfare, Edizioni Proget, Padova 2014, p. 78. Nel sen-so di una democrazia e di un welfare inclusivi va anche il discorso di papa Francesco rivolto ai partecipanti all’Incontro mondiale dei Movimenti po-polari (28 ottobre 2014), Aula vecchia del Sinodo, Città del Vaticano.

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n.3 - maggio | giugno 2015

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RicercheMarco Vitale - Responsabilità dell’impresa e tutela del creato

di Marco Vitale,Economista

e tutela del creato

“Io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze ma nella forza, non in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo".

(Dietrich Bonhoeffer, 30 aprile 1944)

“In scientis moralibus finis non est cognitio sed opus”(San Tommaso)

“Noi dobbiamo essere come le piante che affidano al vento milioni di semi, con la certezza che almeno alcuni di questi germineranno”.

(Mario Calvino, agronomo, padre di Italo)

Non mancano i contributi pregevoli che affrontano i temi ambientali o, con espressione molto più feconda, i temi della tutela del Creato. Ma per lo più essi trattano aspetti specifici, degenerazioni in atto, le malattie, le conseguenze ultime e non le cause prime.

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Bisogna avere, anche il coraggio di risalire alle cause prime delle tante cose che non vanno, dei pericoli che corriamo, come ambiente, come sviluppo economico, come incivilimen-to. E lo studio delle cause ci porta, necessariamente, ad una lettura molto critica della concezione dominante dell’econo-mia e dell’impresa, che va contrastata alla radice sulla base delle evidenze empiriche e delle migliori tradizioni intellet-tuali e morali. Non per ragioni astratte. Ma perché non fun-ziona e lo scoppio della grande bolla nel 2008 lo dimostra al di là di ogni possibile dubbio.

Perciò riprendendo temi già da me ampiamente e recente-mente sviluppati, tenterò una sintesi generale alla ricerca di un nuovo pensiero, o forse meglio di un antico pensiero rin-novato e adattato al nostro tempo.

LA GRANDE TRASFORMAZIONE

Quando la grande crisi o, come la chiamo io, la grande tra-sformazione, da tempo in preparazione, esplose nel 2008, si contrapposero subito due linee di pensiero.

La prima, voce dei neoliberisti minimalisti, ancora oggi do-minante, sostenne che la crisi era un normale incidente di percorso, di natura tecnica, che richiedeva solo la correzione di alcuni meccanismi finanziari, ma nessun cambiamento so-stanziale del sistema. La formulazione più chiara di questa po-sizione fu, in Italia, quella formulata dall’allora rettore della Bocconi, l’economista Guido Tabellini che scriveva:

“Come sarà ricordata questa crisi nei libri di storia economica? Come una crisi sistemica e un punto di svolta, oppure come un incidente temporaneo e presto riassorbito, dovuto ad una cresci-ta troppo rapida dell’innovazione finanziaria? Se guardiamo alle cause della crisi, e alle lezioni da trarne, la risposta è senz’altro la seconda. In estrema sintesi, la crisi è scoppiata per via di alcuni specifici problemi tecnici riguardanti il funzionamento e la regola-mentazione dei mercati finanziari, ed è stata acuita da una serie di

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errori commessi durante la gestione della crisi.”

La seconda, alla quale appartengo, è quella di coloro che so-stenevano e sostengono che si trattava di una crisi globale, di una crisi di proporzioni gigantesche, di una crisi che cambiava il mondo. Nel 2009 scrivevo: “Questa crisi è in primo luogo un fallimento globale di una intera classe dirigente, quella bancaria e finanziaria, e della concezione che l’ha guidata in questi anni”.1

E scrissi anche: “Gli economisti che alimentano questa visione (minimalista) sono degli sciocchi. Ci vorranno anni e anni, diciamo dieci, per riportare l’attività a livelli precrisi”.2 Ed oggi dico che parlando di dieci anni fui molto ottimista, perché non avevo messo in conto il prolungamento della crisi causato dalle mi-sure dei governi alla ricerca di una rapida uscita dalla stessa.

Da questa visione scaturisce la ricerca, difficilissima, di nuo-ve strade verso un sistema meno aleatorio, meno rischioso, meno violento, più giusto, verso un nuovo umanesimo della società e dell’economia.

Si tratta di obiettivi comuni a vari filoni di pensiero, che elen-co schematicamente.

Economia civile. E’ un filone di pensiero antico, molto vivo nella tradizione italiana, che ha contribuito a grandi stagioni del pensiero italiano, come l’illuminismo lombardo e napole-tano, che si basa sul mercato, come strumento al servizio della produzione, ma un mercato al servizio di un sistema al centro del quale vi è l’uomo e non il “capital gain” (guadagno di capi-tale), come è del capitalismo finanziario dominante, e vi è lo sviluppo integrale, economico e civile, dell’uomo e della socie-tà, quello che i nostri antichi pensatori chiamavano incivili-mento e che oggi chiamiamo processo civile. In questo filone si collocano tanti nomi di rilievo della tradizione del pensiero italiano, come: Antonio Genovesi, Antonio Rosmini, Carlo Cattaneo, Luigi Sturzo, Luigi Einaudi, Giuseppe Toniolo, Pao-lo Sylos Labini, Federico Caffè, e, tra i contemporanei, Stefano Zamagni, Alberto Quadrio Curzio, Giacomo Beccatini. Ma si

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tratta di un filone che ha le sue radici più profonde nei nostri comuni, dove l’attività economica e l’attività civile erano fuse tra loro, come a Firenze e a Siena.

Liberalismo classico e sociale. E’ questo il filone del gran-de pensiero liberale caratterizzato da una spiccata sensibilità sociale, che si contrappone nettamente al neoliberismo indi-vidualista e crudele di stampo anglosassone. Si collocano qui Luigi Einaudi,Luigi Sturzo, Giuseppe Zanardelli, Federico Caf-fè, e tanti altri.

Economia sociale di mercato. In questo filone di pensiero confluiscono elementi della tradizione liberale classica, dell’u-manesimo cristiano, della dottrina sociale della Chiesa, del costituzionalismo democratico. Il mercato è centrale per l’at-tività economica, ma le regole democratiche e la solidarietà rappresentano il quadro istituzionale indispensabile perché il mercato non venga stravolto e manipolato e non travalichi i suoi compiti ed i suoi limiti. Come ha detto la Centesimus An-nus ci sono cose che non si possono e non si debbono né com-prare né vendere. Ed è qui uno dei punti centrali del conflitto con il capitalismo finanziario di stampo anglosassone per il quale tutto deve essere sottoposto alle regole del mercato, tutto può o deve diventare mercato, dalla politica alla sanità alla giustizia. Anche le radici dell’economia sociale di mercato sono antiche e questo pensiero si concretizza, in modo espli-cito, nel primo dopoguerra, nella “Nuova Economia” di Rathe-nau, imprenditore, uomo politico, studioso e scrittore3, assas-sinato dai nazisti nel 1922, per svilupparsi poi come pensiero organico nel corso degli anni ’30 nella c.d. scuola di Friburgo; per diventare l’asse portante della politica della ricostruzio-ne tedesca di Adenauer ed Erhard, nel secondo dopoguerra; per confluire infine nel processo europeo di integrazione, del quale rappresenta il pensiero economico portante (ma non purtroppo la prassi).

Dottrina sociale della Chiesa. Tradizionalmente ignorata dal pensiero economico, salvo rare ma significative eccezio-

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ni, come Roepke, Einaudi, Adriano Olivetti, Caffè, la Dottrina Sociale della Chiesa è emersa dalla crisi come uno dei filoni di pensiero socio-economici più vigorosi, attuali e capaci di in-dirizzare la ricerca per una nuova economia più umana e più giusta e perciò stesso anche più efficiente.

LA BATTAGLIA CONTRO IL NEOLIBERISMO. LE DUE PORTE STRETTE

I filoni di pensiero sommariamente delineati sono diversi tra loro ma hanno molti punti in comune. Il principale è che tut-ti coltivano l’obiettivo di un nuovo umanesimo economico. Ma per perseguire questo obiettivo essi devono tutti passa-re attraverso due passaggi fondamentali e comuni, due porte strette, delle quali non sempre sono consapevoli. La prima porta stretta è che non si può costruire niente di nuovo se non si passa attraverso una battaglia dura contro il capitali-smo finanziario, che è tornato dominante e che è la peste del nostro tempo. In realtà non è la prima volta che il capitalismo finanziario USA diventa dominante e incarna il vero potere. E’ già avvenuto nell’ultimo decennio dell’ottocento e nel pri-mo decennio del novecento. E’ appena uscito un libro molto interessante4 che, per la prima volta, traduce in italiano, con bella prefazione di Lapo Berti, gli scritti di battaglia del giudi-ce Louis Brandeis, noto come “The People’s Lawyer”, giurista eminente, collaboratore stretto del presidente Wilson nella campagna delle presidenziali del 1912 condotte all’insegna del motto “New Freedom”; ispiratore della legislazione anti-trust; dal 1916 al 1939 giudice della Corte Suprema degli USA e in tale veste partecipe anche del New Deal di F.D. Roosevelt. In questi scritti, riuniti sotto il titolo: “I soldi degli altri e come i banchieri li usano”, Brandeis attacca lo strapotere dei ban-chieri di investimento e illustra la loro pericolosità per il si-stema democratico americano. Nei primi anni del ‘900 i presi-denti Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson contrastarono e contennero il fenomeno, soprattutto con l’azione antitrust. Ma il capitalismo finanziario riesplose con forza selvaggia ne-gli anni ’20 del ‘900 e portò dritto alla grande crisi degli anni

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’30. Furono le riforme fondamentali del New Deal di F.D. Roo-sevelt negli anni ’30 a riportare il fenomeno in un solido qua-dro di democrazia economica che è durato circa 30 anni. Fu lo smantellamento delle regole del New Deal, operato dai presi-denti Reagan e soprattutto Clinton, che cancellò la fondamen-tale separazione tra banchieri di investimento e banchieri di deposito introdotta negli anni ’30 da Roosevelt, a ridare via libera al capitalismo finanziario selvaggio che, in poco tempo, ci ha riportato indietro, sul piano della concezione dell’econo-mia, di circa 100 anni e ha ridato ai grandi centri finanziari un potere abnorme, pericoloso per la democrazia americana e, data l’influenza che questa ha su tutti gli altri paesi, per l’in-sieme dei paesi occidentali, subordinando l’impresa produtti-va, il lavoro, e la dignità del lavoro allo strapotere irresponsa-bile della grande finanza.

Nell’organizzazione del lavoro, nell’impresa e nella società, è avvenuta una grande trasformazione della quale non abbia-mo ancora piena consapevolezza. Un’analisi approfondita del fenomeno l’ha sviluppata recentemente lo studioso francese Pierre – Yves Gomez che, nel suo importante libro: Le Tra-vail Invisible. Enquête sur une disparition (Ed. Bourin, Parigi, 2013), analizza la trasformazione che lui chiama: la finanzia-rizzazione del lavoro umano, che come realtà concreta è spa-rito, sostituito da astrazioni contabili – finanziarie. La guida delle imprese e soprattutto delle grandi imprese è tutta im-postata esclusivamente in termini contabili-finanziari. Il po-tere di direzione è passato dagli ingegneri, dagli innovatori, ai contabili-finanziari, quelli che una volta, nella grande Oli-vetti, venivano chiamati contafagioli. Persino imprese pubbli-che, create per facilitare il lavoro delle altre imprese, imprese che dovrebbero essere in equilibrio economico ma non fare profitti, si misurano in termini di parametri finanziari, come una qualsiasi banca, invece che in base all’utilità realizzata a favore delle imprese che devono sostenere. Il lavoro non è più quello concreto della vita reale, ma un’astrazione che deriva da degli obiettivi - parametri finanziari prefissati. Abbiamo una generazione di dirigenti quarantenni che non hanno mai

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ragionato altro che in termini finanziari, e spesso con una vi-sione perversa anche della finanza.

I coefficienti finanziari poi devono essere identici per tutte le imprese affinché l’oligarchia finanziaria e, più in generale, i mercati possano leggerli, compararli e allocare le risorse.

Le organizzazioni e il lavoro sono stati normalizzati conta-bilmente e finanziariamente: le grandi imprese utilizzano gli stessi strumenti universali per farsi capire dai finanzieri di tutto il mondo. È un linguaggio finanziario condiviso, in sostanza un gergo anglosassone chiaro solo al mondo della finanza: pay-off, free cash-flow, ROE e EBITDA che aprono ai decisori orizzonti ignoti al semplice mortale che li crede, sbagliando, complicati. Esiste oggi una lingua della oligarchia finanziaria dominante incomprensibile alla maggior parte dei contemporanei. Quando, nel 1945, l’imperatore Hiro-Hito annunciò per radio al popolo la capitolazione, si dovette tra-durlo in giapponese corrente, perché i sudditi non capivano il suo giapponese aristocratico. La storia sembra ripetersi; dai documenti delle imprese, si ha l’impressione che l’oligarchia finanziaria parli a se stessa in una lingua oscura. Bisogna tra-durne il significato nella vita reale e per gli effetti sulla vita degli uomini.

Questa grande trasformazione spiega perché dal 1980 al 2007 in 51 paesi sui 73 per i quali abbiamo i dati, i redditi di lavoro sul PIL sono scesi, in media di 9 punti nelle economie avan-zate, di 10 punti in Asia, di 13 in America Latina. Sono valori giganteschi. I punti persi sono andati alle rendite finanziarie. Come gigantesca è la conseguente concentrazione di ricchezza avvenuta, nello stesso periodo. Negli USA, epicentro e guida del processo, la concentrazione di ricchezza ha raggiunto nel 2007 esattamente lo stesso livello del 1928.

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Concentrazione dei redditi negli USA

E questo spiega anche la Frequenza delle crisi �nanziarie

•1987 •1989

•1992

•1994 •1997 •1998/1999

•2001/2002 •2008/2009 •2011

•20??

Crollo di quotazioni a Wall StreetCrisi �nanziaria e dei valori immobiliari in Giappone. Inizio di una stagnazione ultrade-cennale.Crisi �nanziaria e valutaria del sistema mone-tario europeo che costringe lira e sterlina ad uscire dal sistema.Crisi �nanziaria gravissima in Messico, con e�etti sul sistema �nanziario internazionale.Crollo �nanziario delle «tigri asiatiche».Crisi �nanziaria di Brasile e Russia con svalu-tazione del rublo.Nuovo crollo di Wall Street con lo scoppio del-la bolla della new economy.Grande crisi �nanziaria ed economica mon-diale con detonatore i mutui sub prime USA. Nuova fase della crisi mondiale con particolare enfasi sui paesi del Mediterraneo, compresa l’Italia.Nuova crisi �nanziaria, certa nell’”an” anche se resta incerta nel quando.

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L’economia di mercato e imprenditoriale è per sua natura in-stabile, come ci ha insegnato in particolare Hyman Minsky. Ma quando le crisi si susseguono con tale frequenza, ciò si-gnifica che qualcosa di abnorme si è inserito nel sistema. Il fattore degenerativo del sistema è l’eccesso di finanziarizza-zione dell’economia e di concentrazione della ricchezza. Sino a quando questi due fattori non saranno riportati a livelli fi-siologici, la frequenza delle crisi continuerà.

In Europa i paesi che più da vicino hanno seguito gli USA in questo abnorme processo di concentrazione della ricchezza sono stati, nell’ordine, Inghilterra, Spagna, Italia (in Italia il 10% della popolazione più ricca controlla il 50% della ricchez-za nazionale). Ma questo spiega anche perché, al di là delle dichiarazioni retoriche e demagogiche, il tema del lavoro e dell’occupazione non è per nulla in evidenza. In Europa i di-soccupati sono 26 milioni. In Italia 3.400.000. Se anche cre-dessimo alla favola che il Jobs Act creerà 1 milione di posti di lavoro, cosa ne facciamo degli altri 2.400.000? E’ evidente che senza un cambio di marcia nel pensiero e nell’azione economi-ca di fondo non andremo da nessuna parte. Quando ho inco-minciato a studiare economia il tema della piena occupazione era al centro del pensiero di tutte le scuole economiche. Era questo il parametro base sul quale si commisurava la bontà o meno delle politiche economiche. Oggi non è più così e il tema è stato sospinto nel retrobottega. Perché per affrontarlo seriamente bisogna fare dei grandi programmi pubblici e pri-vati di nuovi investimenti in nuovi settori e attività. E questo è velleitario in un’economia dove gli investimenti li decidono i finanzieri e le banche, in base ai parametri finanziari di cui parlavo sopra. Dopo la grande depressione degli anni 30 del ‘900, si intervenne sull’economia reale e la maggioranza della popolazione vide, sia pure con fatica, ricrescere il proprio red-dito. Dopo la grande recessione del nostro tempo si è pensato principalmente a tenere in piedi la finanza ed a beneficiarne è stato l’1% della popolazione.E’ uscito recentemente un libro importante che affronta al-cuni temi centrali, di Colin Crouch, dal titolo originale: The

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Strange non death of neo-liberalism.5

L’analisi di Colin Crouch6 si articola nei seguenti punti prin-cipali:

- La crisi devastante delle economie occidentali del 2008-2009 avrebbe dovuto portare con sé il crollo della dottri-na economia egemone, il neoliberalismo, come si è andata configurando a partire dagli anni ’70. Tale dottrina si basa su tre idee di fondo: la libertà più assoluta dei mercati è il mezzo migliore per organizzare la società degli uomini ed aumentare il loro benessere; i mercati sono sempre prefe-ribili agli Stati ed alla politica, i quali nel migliore dei casi sono inefficienti, nel peggiore mettono a repentaglio la li-bertà; tutto o quasi tutto può e deve essere organizzato come mercato.- Il crollo finanziario che ha coinvolto le maggiori banche del mondo ha messo in dubbio il fondamento di queste idee. I mercati finanziari erano la più libera e sofisticata forma di mercato della storia umana. La teoria economica del neoliberalismo aveva sostenuto che i mercati finanziari liberalizzati e deregolamentati avrebbe corretto da sé ogni squilibrio ed eccesso. Ma così non è stato. Le maggiori ban-che sull’orlo della bancarotta di sistema si sono rivolte ai governi, chiedendo loro di salvarle con somme di denaro ingentissime dei contribuenti, quei governi che, secondo i presupposti del neoliberalismo, non dovrebbero effettuare interventi sul mercato. Vi è proprio qui la più plateale e paradossale contraddizione tra le basi teoriche del neolibe-ralismo ed i suoi esiti pratici.- Perché “i governi hanno accettato le richieste delle ban-che”? Si chiede Crouch. Se la domanda vuol dire: perché i governi le hanno salvate? La risposta può essere abbastan-za ovvia: per non far crollare il sistema. Ma io aggiungo un’altra domanda ancora più importante: perché i governi hanno accettato le richieste delle banche senza condizioni,in termini di governance e di responsabilità (se si esclu-de una montagna di chiacchiere inconcludenti e costosis-sime?). Qui la risposta diventa più difficile. E l’analisi di

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Crouch fornisce degli elementi per la risposta, ma insuf-ficienti.- La tesi centrale di Crouch, che è il cuore della sua analisi, è la seguente. Oggi bisogna spiegare “non i motivi per cui il neoliberismo in crisi è destinato a morire, ma esattamen-te l’opposto: come mai esso stia riemergendo dal collasso finanziario, politicamente più forte che mai. La crisi fi-nanziaria ha riguardato le banche e i loro comportamenti, ma la soluzione, in molti paesi, è stata individuata in un definitivo ridimensionamento del “welfare state” e della spesa pubblica. Il tema non riguarda un solo paese, per-ché il neoliberismo è un fenomeno internazionale o meglio globale. Ci troviamo così oggi a dover prendere atto della “strana” morte mancata del neoliberismo. Perché? L’analisi di Crouch cerca di rispondere a questa difficile domanda. Si tratta di un’analisi approfondita e convincente. Non cer-cherò di riassumerla, ma solo di sottolinearne i punti sa-lienti. Per capire la resilienza del neoliberismo è necessario rendersi conto che esso ha radici profonde ed è il frutto di un concorso di fattori e di energie importanti. Sono l’infla-zione e la recessione degli anni ’70, con la crisi del keyne-sismo, paradigma dominante nei precedenti 30 anni, che aprono le porte ad un forte rilancio del neoliberismo che, nel frattempo, si era andato riorganizzando sul piano del pensiero, venendo a incrociarsi con la corrente monetari-sta di Milton Friedman, che trasformò l’Università di Chi-cago nel più potente centro mondiale di irradiazione delle idee neoliberiste. Tra i sessantaquattro premi Nobel per l’economia conferiti negli ultimi quarant’anni, ben nove sono andati a studiosi neoliberisti dell’Università di Chi-cago. E “Chicago boys” vengono chiamati gli economisti cileni che, coperti dalla mano di ferro e lorda di sangue del dittatore Pinochet, subentrato dopo il colpo di stato, or-chestrato dai servizi segreti americani che, nel 1973, aveva rovesciato Salvatore Allende, instaurano il primo regime dichiaratamente neoliberista. Ed è certo paradossale che un pensiero che sostiene un regime economico caratteriz-zato dalla massima assenza possibile dello Stato e dalla

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massima libertà, necessiti, per realizzarsi, dell’appoggio di uno dei più feroci dittatori degli ultimi cinquant’anni. Ma, passo dopo passo, passando attraverso la Thatcher, Reagan, il FMI, la Banca Mondiale, l’OCSE, e da ultimo l’Unione Europea, tutti si allineano al modello neoliberi-sta, caratterizzato da: deregulation finanziaria, graduale rovesciamento del tradizionale approccio americano della legislazione antitrust, graduale smantellamento dei diritti dei lavoratori ( l’OCSE fa propria questa impostazione nel 1994 con il Jobs Study), favore conclamato per le grandi dimensioni aziendali e per le grandi concentrazioni di ric-chezza, fiscalità sostanzialmente regressiva, privilegio per il c.d. “consumer welfare” un concetto paternalistico e diri-gista che sostituisce la nozione liberale di “consumer choi-ce”. E’ invero una marcia trionfale che disintegra ( in gran parte, comprandoli) uno dopo l’altro, tutti gli oppositori, dalla sinistra al sindacato, e che è costellata di paradossi e contraddizioni: “Ci avevano detto che il mercato è sempre e solo questione di scelta individuale, ma il neoliberismo di Chicago ha ridefinito tale scelta in modo da farla coincidere spesso, de facto, con ciò che è più gradito alle grandi imprese” (C. Crouch). Le commistioni tra potere economico e potere politico anziché diminuire aumentano. Tutto il processo di deregolamentazione finanziaria è frutto delle lobbies e di montagne di denaro speso dalle stesse per ottenere dal Congresso i provvedimenti desiderati. Sino a che, come scrive R. Reich, ex segretario di Stato di Clinton, le grandi imprese finiscono per dominare il governo americano. Nel 2010 il Fondo Monetario Internazionale ha dichiarato che nel precedente ciclo elettorale di quattro anni le aziende statunitensi - prime fra tutte quelle operanti nel segmento più rischioso del settore finanziario – avevano speso in at-tività politiche ben 4.2 miliardi di dollari. Un ex economi-sta capo del FMI, Simon Johnson, ha affermato (2009) che “il settore finanziario è ormai in grado di controllare il governo degli Stati Uniti con le stesse modalità con cui si pensa quando si parla di paesi in via di sviluppo”(C. Crouch). Ma il neoli-berismo non è solo una scuola di pensiero. E’ un poderoso

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movimento politico che coinvolge grandi interessi. La cor-sa alle grandi dimensioni aziendali, la fenomenale concen-trazione di ricchezza, la deregolamentazione finanziaria e la conseguente moltiplicazione delle attività finanziarie, l’esplosione del debito privato agevolato da una precisa po-litica (keynesismo privato), porta alla creazione di larghi ceti fortemente beneficiati dal neoliberismo ed interessati al suo perdurare. Tra questi anche un gran numero, la mag-gioranza, degli economisti e degli intellettuali in genere. E questo spiega la grande debolezza del pensiero critico. La rottura del 2008-2009, con la quasi esplosione del sistema finanziario internazionale, ha, per un breve periodo, aper-to la possibilità di un ripensamento critico per un aggiu-stamento del sistema. E ci furono spunti di ripensamento seri e anche ortodossi come quello di certi altri esponenti della BRI. Ma tale possibilità si è subito richiusa, se, già nell’estate 2009, potevo scrivere:

“Oggi la situazione è peggiore di quella dell’inizio della crisi:• il principio “too big to fail”, che è contrario in modo inconci-liabile alle premesse del capitalismo di mercato, ha stravinto e si è imposto;• le grandi banche si sono ridotte in numero, ma anche per que-sto, sono diventate ancora più grandi, potenti, influenti, irri-denti e più protette dalla concorrenza;• le regole e insieme l’assenza di regole che ha portato al disa-stro restano ben salde e nessuno insiste più, in modo serio, per correggerle e integrarle. In ogni caso l’agenda non è in mano al presidente, ma al Congresso, guidato dal grande denaro delle grandi lobby. Obama aveva detto orgogliosamente, nel corso della campagna elettorale, che le lobby su di lui non avevano influenza perché la sua campagna elettorale era immune dal denaro dei lobbisti. Ora ha imparato che non immune da que-sto denaro è il Congresso, del quale lui ha, comunque, bisogno;• la Corporate America e i suoi cavalier serventi, la grande maggioranza degli economisti, si sono compattati con grande forza ed efficacia sull’obiettivo di conservare il sistema così come è. Dove sono quelli che continuano ad alimentare la favo-

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la che gli americani sono sempre disponibili e rapidi a cambiare le cose che non vanno, mentre noi, poveri europei, siamo un po’ lenti e tonti?• nessuno ha posto, con serietà, il tema della necessità di bi-lanciare i poteri dei CEO, in modo sistematico e istituzionale (ma si sono solo messi o invocati tetti ai bonus dei top manager nelle banche e assicurazioni partecipate dal governo).

Del resto, il fatto che le idee siano poche, confuse e, in buona par-te, sbagliate, trova conferma nella stupefacente dichiarazione del ministro del Tesoro Geithner: “Wall Street non tornerà alle vecchie abitudini e non prenderà rischi eccessivi perché l’amministrazione Obama non lo consentirà”. Questo rifuggire dalle soluzioni isti-tuzionali corrette e dal principio di responsabilità e puntare su Obama che veglia per voi, è patetico, antiamericano e un po’ ber-lusconiano…. Del resto, quando al fianco di Obama furono messe, in materia economica – finanziaria, due guardie del corpo come Geithner (ministro del Tesoro) e Summers (capo degli economi-sti), entrambi espressione della grande finanza, e fu emarginato Volcker (persona libera e indipendente) bisognava essere degli ot-timisti a oltranza per continuare a nutrire speranze. Qualcosa si muove soprattutto in Europa e nei consessi internazionali dove la voce europea ha un peso. L’America, infatti, come illustrerò in un capitolo a ciò dedicato, si è consegnata mani e piedi a Wall Street e alle grandi banche, che hanno, per ora, stravinto la partita".7

L’analisi di Crouch conferma e arricchisce, dunque, quello che era già intuibile nell’estate del 2009. Essa ci fa capire la pro-fondità e la forza delle radici del neoliberismo. E ci fa capire altresì le ragioni per cui, nonostante la gravità della crisi del 2008-2009, il neoliberismo sopravviva alla crisi ed anzi ne esca rafforzato: “Come far fronte all’enorme azzardo morale crea-to dal fatto che i governi considerano l’irresponsabilità finanziaria un bene collettivo. Per rispondere a questa domanda dobbiamo in-nanzi tutto renderci conto che le élite politiche ed economiche fa-ranno tutto ciò che è in loro potere per difendere il neoliberismo in generale e la sua specifica forma imperniata sulla finanza. Quelle élite hanno tratto enormi vantaggi dalle disparità di ricchezza e

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potere, create dal sistema dopo la fine dell’epoca socialdemocratica imperniata su imposte fortemente redistributive, sindacati forti e regolamentazioni pubbliche”.

Gli indicatori di marcia sono inequivocabili: “Come faranno i mercati dei derivati a sostenere flussi di prestito elevati, se devono sottoporsi a regole che ostacolano proprio quei prestiti? Come fa-ranno gli operatori finanziari ad aiutare le banche a recuperare le perdite, se non sono incentivati da bonus abbastanza appetibili? Non più tardi del 2010, tutte le vecchie prassi dei mercati secon-dari sono tornate in auge. I lobbisti si sono dati molto da fare in Senato, tagliando le unghie al decreto con cui il presidente Oba-ma intendeva rafforzare la regolamentazione finanziaria. Nel frattempo i lavoratori a basso e medio reddito, data la situazione precaria in cui si trovano, non ricominceranno a spendere se non riceveranno – sia pure a ritmi meno frenetici – nuovi crediti senza garanzie adeguate. I governi vedranno in un nuovo boom del cre-dito il modo più efficace per ripristinare la fiducia dei consumatori e continueranno a perseguire politiche di flessibilità del mercato del lavoro. Daranno sempre più ascolto alle richieste del mondo finanziario, secondo cui, se si vuole espandere il credito occorre allentare la regolamentazione. E faranno a gara per assicurare al proprio paese norme meno rigide in modo da attrarre le imprese fi-nanziarie a localizzarsi sul proprio territorio. Una gara in cui sono chiaramente le aziende ad avere il coltello dalla parte del manico. Il settore finanziario si concentrerà in poche grandi imprese dota-te di buoni canali d’accesso al governo. Alcune nasceranno dalle fusioni bancarie favorite e decise dagli stessi governi in occasione del varo dei pacchetti di salvataggio del 2008…. Che cosa rimane della destra? La risposta, dopo la crisi finanziaria è: quasi tutto. La coalizione delle forze economiche e politiche che lo sostengono è troppo potente per essere davvero scalzata dalla sua posizione do-minante. Abbiamo già visto come la crisi provocata dai disgustosi comportamenti delle banche sia stata riclassificata come crisi della spesa pubblica. Mentre migliaia di dipendenti pubblici perdono il lavoro, le retribuzioni dei banchieri tornano ai livelli pre-crisi”.

Dunque, secondo Crouch, continueremo a vivere in un mon-

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do dominato dal pensiero neoliberista, da crescenti concen-trazioni di ricchezze, dal predominio delle grandi imprese sui loro stessi governi, che assumeranno così natura di soggetti politici, senza averne peraltro la corrispondente responsabili-tà e controllo democratico (per quel che ancora vale).

Questa parte dell’analisi di Crouch è quella che si lega al nostro paziente e difficile lavoro sui valori d’impresa. Anche Crouch, come noi, respinge la concezione, propria della Scuola di Chi-cago, dell’impresa come semplice fascio di contratti: “Come ho fatto lungo tutto il libro, respingo l’idea che l’”impresa” sia un semplice paragrafo del dibattito sul “mercato”. In fatto di valore, l’impresa occupa un posto molto diverso dal mercato…. Dunque sia i mercati che gli Stati hanno un rapporto complessivo con i valori. Ma, come vedremo, questi sono importanti se vogliamo trovare una via d’uscita dal vicolo cieco creato dalla concezione dominante sui rapporti tra Stati, mercati e imprese. Perciò dobbiamo analiz-zare più da vicino il posto dei valori nella società”.

E così Crouch giunge, sia pure in forma dubitativa, al concetto di impresa responsabile. Si veda il paragrafo: “Dopo il keynesi-smo privatizzato, l’impresa responsabile?” (Crouch, 2014, pag. 140). Ma proprio qui l’analisi di Crouch mostra un suo limite importante ed, al contempo, evidenzia il valore del filone di ricerca sull’impresa responsabile. Pur non accettando la vi-sione della scuola di Chicago dell’impresa come complesso di contratti, Crouch finisce, si direbbe quasi con rassegnazione, per partire dalla concezione, sempre della Scuola di Chicago, dell’impresa come soggetto operante secondo l’esclusiva fina-lità della massimizzazione del profitto per gli azionisti. E’ que-sto il cuore della concezione distruttrice della scuola di Chica-go, alla quale Crouch non sa opporre che una tenera speranza riposta nella favola della “corporate social responsibility”, del-la cui intrinseca debolezza, peraltro, si rende conto. Ed invece, come sappiamo, la teoria dell’impresa responsabile ha bisogno di reggersi su basi ben più solide, legate alla na-tura dell’impresa ed alla sua funzione sociale come soggetto di sviluppo, come sosteniamo nelle nostre ricerche da tanti

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anni. Come possibili fattori di contenimento dello strapote-re del neoliberismo, della plutocrazia e del dominio, anche politico, delle grandi imprese che ne consegue, Crouch, oltre all’impresa responsabile, identifica: i movimenti militanti del-la società civile (e qui c’è un collegamento con la nostra atten-zione all’Economia Civile della tradizione italiana), le religioni e le Chiese, depositarie delle sfide etiche e dotate di proprie risorse autonome dalle imprese e dallo Stato ( e qui il nostro collegamento è con la crescente importanza della DSC, tradi-zionalmente ignorata dagli economisti, con le poche eccezioni importanti citate e tutti quei ceti professionali e del volonta-riato che, privi di potere politico reale, rappresentano tuttavia un potere nella società civile grazie alla loro competenza (“the power of the powerless” di cui parlava Vaclav Havel negli anni ottanta).

Anche su questo punto l’analisi di Crouch è convincente, ma incompleta. Bisogna portare avanti la ricerca nella direzione da lui indicata e che si incrocia con tanti passaggi delle nostre ricerche. Ho già detto che la sua intuizione del ruolo dell’im-presa responsabile è importante ma denota una insufficiente comprensione dell’impresa non gigantesca, della sua storia, della sua natura e dei suoi valori. Sono gli studiosi dell’impre-sa che devono definitivamente scalzare la concezione dell’im-presa della scuola di Chicago, della quale anche Crouch è so-stanzialmente succube e cerca di liberarsi, ma non partendo dal centro della tematica dell’impresa, quanto piuttosto dal folklore marginale della “corporate social responsibility”. Il secondo punto è che Crouch non affronta una domanda cen-trale. Il fatto che il neoliberismo abbia stravinto e mantenga così facilmente le sue posizioni, nonostante la gravissima crisi da lui stesso originata, non è dovuto anche al fatto che si è tro-vato in un deserto di pensiero alternativo? E questo deserto continua anche se non sono mancate prese di coscienza criti-che, sostanzialmente isolate, come quella di Richard Posner, giudice, giurista, economista, uno dei più illustri esponenti della scuola di Chicago, che ha sostenuto, insieme al suo gran-de amico e premio Nobel, Gary Becker, che il termine Scuola

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di Chicago andrebbe abolito perché la Scuola ha fallito su due temi centrali: la teoria dell’assoluta razionalità dei mercati e quella dell’assoluta misurabilità del rischio. E’ questa impo-stazione che porta agli algoritmi matematici sulla valutazione dei rischi dei derivati sui quali Wall Street ha costruito la sua caduta. Secondo Posner “gli economisti sono stati messi KO da un diretto al mento e non c’è volontà di dare una lettura seria di che cosa ha provocato la crisi”. Eppure un pensiero alternativo poteva esistere, anche in America. Basta rileggere i discorsi di Obama quando correva per la prima elezione, quando parla-va di Main Strett v. Wall Street, e qualcuno teorizzava di una Obamanomics. Questo vuoto va riempito, non con ritorni al passato ma andando verso il futuro, per tentare di allontanar-ci dalla conclamata plutocrazia verso una speranza di neode-mocrazia.

Un altro punto importante che resta inesplorato dalla analisi di Crouch è cosa succederà nella prossima grave crisi finanzia-ria. Se è vero, come è vero, che il neoliberismo ed il sistema delle grandi banche globali hanno ripreso, alla grande, i gio-chi ed i comportamenti ante 2008, è prevedibile che le con-seguenze siano simili o analoghe. Come prepararci a questa evenienza o come contenerne gli effetti? Crouch non analiz-za questa questione e sembra supporre che il neoliberismo e l’irresponsabilità bancaria possano continuare come prima a tempo indeterminato e senza le relative conseguenze. Ma dobbiamo stare attenti a non indulgere alla nostalgia e ricercare, nel passato, soluzioni a sfide nuove. Dal passato prendiamo i valori, gli insegnamenti, gli esempi, le esperienze che ancora valgono, ma le soluzioni le dobbiamo trovare noi attraverso il coraggio, l’innovazione, e lo spirito di verità (“la parrēsia” dei greci). Dalla stessa fase della finanziarizzazione, ripulita dalle esasperazioni e strumentalizzazioni, vi sono utili lezioni e utili strumenti da trarre. E qui, ancora, ci aiuta Adriano Olivetti, quando ammonisce: “I tempi corrono, le cose si muovono, non possiamo fermarci a rimescolare le formule e le istituzioni del passato se non per quella parte di bene che in esse è contenuta e per cui ancora valgono… La luce della verità soleva

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dirmi mio padre, risplende soltanto negli atti, non nelle parole”.

Ripartiamo da qui, da queste memorie, con la nostalgia cer-tamente, ma anche e soprattutto con speranza, guardando avanti per cercare di insegnare ai giovani a impegnarsi per costruire un futuro economico e imprenditoriale più vicino alla concezione d’impresa di Adriano Olivetti che a quella dei signori Riva dell’Ilva, o delle grandi banche “too big to fail” che, ancora, dominano il governo ed il Parlamento americano e, per questo tramite, parte importante del mondo.Alimentiamo, dunque, la speranza ma non la spensieratezza e con la consapevolezza che stiamo sempre correndo sull’orlo del baratro. Tra il 2007 e il 2014, nonostante tutti i blà blà che abbiamo sentito, il debito globale del mondo, lungi dal diminuire, come hanno cercato di farci credere, è aumentato da 142 mila miliardi a 199mila miliardi di dollari, cioè siamo passati da un debito globale del 265% ad uno del 286% del PIL mondiale. E l’Italia è nella parte alta della classifica, occu-pando la dodicesima posizione. E molti dei parametri finan-ziari che ci hanno spaventato e preoccupato nel 2008 e 2009 sono sempre con noi, in parte peggiorati. Recentemente (FT 21 aprile 2015) la voce saggia di Paul Volcker ha ammonito l’America che lo “shadow banking” (il sistema bancario ombra) rappresenta un grande pericolo, che il lavoro di correzione del sistema iniziato dopo la crisi del 2008 è un lavoro non finito (“unfinished task”) e che “all the evidence is that time has come to do something” (tutte le evidenze testimoniano che il tempo è giunto di fare qualche cosa). E il governatore del-la BCE, in un intervento al Fondo Monetario Internazionale “warms central banks against “blind” risk taking” (FT 15 mag-gio 2015) (“ha ammonito le banche centrali della pericolosità di assumere rischi alla cieca”) . E se lo dice una persona così organica al sistema, vuol dire che la cosa è veramente seria.

L’IMPRESA COME SOGGETTO CENTRALE DELL’ECO-NOMIA PRODUTTIVA

La seconda porta stretta è che il ricupero di una economia

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produttiva passa necessariamente attraverso l’impresa, il sog-getto della produzione e dello sviluppo economico. La grande recessione non ha solo messo a dura prova la gestione quoti-diana e la sopravvivenza delle nostre imprese e molte, in nu-mero abnorme, le ha fatte scomparire ( in Italia abbiamo per-so il 25% della base produttiva manifatturiera). Ma ha posto sul tappeto, con forza, temi fondamentali sulla natura delle imprese, sui principi fondamentali che le reggono, sui rappor-ti impresa società, sul ruolo delle grandi imprese come sogget-ti politici. In questo grande processo di adattamento, di rivo-luzione, di maturazione, i sostegni intellettuali ricevuti dalle imprese da quelli che dovrebbero essere centri di pensiero e di indirizzo, sono stati, per lo più, ingannevoli e distorcenti (penso alle grandi università, alla Confindustria, ai centri di ricerca, ai ministeri dell’economia). Se mettiamo in fila i mes-saggi inviati da questi centri alle imprese dal 2008 ad oggi, ne emerge una successione di indirizzi così erronei e distorcenti, da legittimare la domanda: come è possibile che l’ossatura del-le nostre medie imprese sia sopravvissuta nonostante tutto? Forse perché hanno una tale sfiducia nei centri di comando che non hanno mai dato loro retta. La sfiducia come autodi-fesa. Ed oggi che riemergono spunti positivi effettivi, come diminuzione del prezzo del petrolio, rivalutazione del dollaro e di altre monete di mercati di sbocco delle nostre esportazio-ni, la resistenza da parte delle nostre imprese esportatrici è di conforto. Però un nucleo solido di medie imprese manifat-turiere (c.d. quarto capitalismo), insieme a un, questa volta, probabile ricupero congiunturale di una più vasta platea del-le stesse, non è sufficiente. Per due motivi. Perché la nostra industria manifatturiera, pur importante, rappresenta una quota modesta del PIL. Ma soprattutto perché non basta un ricupero di natura congiunturale. L’impresa deve fare un sal-to di qualità sul piano intellettuale e comportamentale. Deve uscire da questo doloroso e lungo travaglio, migliore, più for-te, più adatta ai nuovi tempi, più proiettata al futuro. E per questo deve crescere qualitativamente su vari fronti:

- l’impresa deve diventare più cosciente del suo ruolo fon-damentale nel disegno di sviluppo del paese, più cosciente

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del suo ruolo e delle sue responsabilità pubbliche;- l’impresa deve riprendere ad investire in modo impor-tante sul futuro. Come ha detto Martin Feldstein: non c’è QE (“Quantitative Easing”) che tenga se non si investe; - l’impresa deve migliorare moltissimo i suoi modelli di governance e organizzativi e liberarsi dal familismo;- l’impresa deve far crescere al suo interno un più elevato rispetto per il lavoro in tutte le sue forme, per la conoscen-za, per la partecipazione;- l’impresa deve far proprie con più profondità e coerenza le nuove tecnologie digitali;- i diritti/doveri di tutti, a partire da quelli dell’imprendi-tore devono essere ripensati e riorganizzati in schemi di potere/responsabilità molto più rispondenti alle sfide dei tempi, sfide che si sono molto alzate rispetto a quelle che erano prima dello scoppiare della crisi;- la moralità e responsabilità di tutti i soggetti che operano nell’impresa deve collocarsi ad un livello molto più elevato, dalla proprietà all’imprenditore, ai manager, ai consulenti, ai dipendenti, ai sindacalisti. L’impresa non appartiene a nessuno di loro ma, in modi diversi, a tutti. E’ un bene col-lettivo che, come tale, va da tutti rispettato;- l’impresa infine deve essere liberata dalla disgraziata cul-tura della finanziarizzazione, che è un modo di pensare e di giudicare solo e sempre basato sul ritorno a breve ter-mine, in base a parametri contabili ottusi e ciechi. E’ que-sta la malattia più grave che ha pervaso non solo il mondo dell’impresa ma tutta la società. Ragionando e valutando secondo gli odierni schemi della finanziarizzazione, i mila-nesi non avrebbero mai scavato quel Naviglio Grande che, per mille anni, è stato creatore di ricchezza con l’irrigazio-ne, i trasporti, la produzione di energia; non avrebbero mai eretto il Duomo, non avrebbero mai costruito il Poli-clinico, non avrebbero né la Cattolica, né la Bocconi e ne-anche il Politecnico e neppure il Museo della Scienza e della Tecnologia. Con gli schemi della finanziarizzazione domi-nanti oggi, le nostre città sarebbero un deserto. L’impresa e l’imprenditorialità sono visione, coraggio, cultura, sono

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il trovare le strade per fare di più con meno, sono trovare le risorse quando sembra che non ci siano. Per progetti giusti e utili, le risorse ci sono sempre, in qualche luogo. Basta andarle a cercare ed essere affidabili. L’affermazione che abbiamo sentito risuonare in tante occasioni negli ultimi anni: “non ci sono i soldi”, è l’alibi degli impotenti.

Tempo fa, in occasione del premio Nonino, la filosofa Martha Nussbaum, che giudico uno dei più interessanti pensatori del nostro tempo, ha detto: “Viviamo in un periodo che è una vera sfida per l’umanità come mai lo è stato in anni recenti, un periodo che mette alla prova i valori della comprensione umana, il reciproco rispetto, e la compassione”. Ed ha elencato i valori più necessari per fronteggiare il difficile futuro. Questi valori, o “propositi” come lei li ha anche chiamati, sembrano a me molto indicati anche per l’impresa, se vogliamo che essa non si attesti su una mera attesa di ripresa congiunturale, ma contribuisca ad una vera e propria opera d ricostruzione, di se stessa e del paese:

- Intelligenza prima di tutto- Coerenza di principi- Immaginazione- Lavoro di squadra- Speranza

Il compito al quale l’impresa è chiamata è, dunque, molto elevato. E da sola non ce la può fare. E’ indispensabile che si realizzi un incrocio di culture diverse, perché è solo da un in-crocio di questo tipo, che può nascere un nuovo progetto di sviluppo economico e civile.

DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA ED ECONOMIA SOCIALE DI MERCATO

Dei filoni di pensiero alternativi vocati al citato incrocio di culture, citati all’inizio, vogliamo concentrarci su Dottrina So-ciale della Chiesa ed Economia Sociale di Mercato, perché non

RicercheGentili - Dal diritto al dono. I nodi del nostro tempo

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si tratta solo di filoni di pensiero ma di organizzazioni sociali in atto.

L’economia sociale di mercato di matrice tedesca, derivazio-ne della dottrina dell’Ordoliberalismo, detta anche Scuola di Friburgo, o Neoliberalismo, è una scuola di pensiero sociale, economico e politico che ha avuto una grande influenza sulla rinascita tedesca e sulla nuova Costituzione della Repubbli-ca di Bonn, dopo il crollo devastante della Germania nazista. Essa ha trovato in Konrad Adenauer e Ludwig Erhard, primi e principali artefici della rinascita tedesca, la convinta guida politica che ha tradotto in realtà politica, giuridica, culturale, economica e sociale questo grande filone di pensiero. Ed è pro-prio la capacità di concretizzarsi nelle istituzioni tedesche, e l’indiscutibile successo pratico, che hanno fatto dell’Economia Sociale di Mercato un paradigma di particolare significato, importante per tutta l’Europa8, ma anche per quella parte di mondo che, grazie alla crisi, è alla disordinata ricerca di qual-cosa che lo aiuti a disintossicarsi dal “turbo-capitalismo” pira-tesco e dal neoliberismo finanziario senza regole che, è ormai chiaro, è una via verso la rovina. Questo filone di pensiero fu detto anche “Neoliberalismo”(in un senso completamente diverso da neoliberismo odierno), definizione che però non piacque a Wilhelm Röpke, uno dei suoi più eminenti esponen-ti, il quale, commentando l’enciclica di Giovanni XXIII Mater et Magistra del 1961, ha scritto: “L’Enciclica Mater et Magistra si distingue, dunque, fondamentalmente dalle encicliche che l’han-no preceduta, eppure il problema che si pone alla considerazione critica del Papa è rimasto lo stesso. Oggi come allora, la questio-ne è se sia possibile salvaguardare il valore e la dignità dell’uomo, l’inviolabilità della sua persona (nel senso preciso della dottrina sociale del cristianesimo) e la famiglia, prototipo della società, in-separabile da questa personalità inviolabile; come si possa salva-guardare libertà e giustizia nelle attuali condizioni della società industriale moderna senza impedire o arrestare il progresso mate-riale, riconosciuto anche dall’ultima enciclica come bene prezioso e premessa necessaria ad un’esistenza che non venga meno a quegli ideali. Non va taciuto ed è anzi bene sottolineare che sono queste

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appunto le questioni poste da decenni da quei sociologi ed econo-misti, che vengono chiamati con il nome – forse non molto appro-priato, ma ormai non più sostituibile – di “neoliberali” e ai quali anche l’autore di queste pagine appartiene. Sono quelli stessi i cui pensieri e proposte hanno trovato particolare efficacia pratica at-traverso l’esempio tedesco dell’economia di mercato. Né la risposta data da questi cosiddetti “neoliberali” alla domanda che abbiamo esposto sopra si distingue fondamentalmente da quella contenuta nell’enciclica. L’autore della Mater et Magistra si rende conto, non meno dei “neoliberali”, come due siano le premesse indispensabili ad una giusta risposta al grande quesito: da un lato, il deciso ri-fiuto del socialismo, cioè di un ordinamento sociale il quale tende ad abolire gradualmente o completamente la proprietà privata dei mezzi di produzione e affida la direzione dei processi economici allo Stato; dall’altro, una mente aperta per tutte le possibilità di un rinnovamento dell’economia di mercato, che tuteli la dignità e il valore dell’uomo, libertà e giustizia, personalità e famiglia, contro gli innegabili pericoli della moderna società industriale. Occorre riconoscere questa stretta parentela tra la direzione, nella quale l’enciclica cerca una soluzione, e il mondo ideale del “neoliberali-smo”.9

Sarebbe tuttavia fuorviante considerare l’Economia Sociale di Mercato, come un filone di pensiero a sé stante. In essa confluiscono altri filoni di pensiero; ed i legami e le analogie con altri studiosi, paradigmi, Paesi, epoche sono tanti e affa-scinanti. L’Economia Sociale di Mercato di matrice tedesca è certamente collegabile con l’opera di due grandi pensatori ita-liani, Luigi Einaudi e Luigi Sturzo, che non appartengono alla Scuola di Friburgo, ma che hanno posizioni largamente coin-cidenti10 con essa, e che furono legati da rapporti di grande stima verso Erhard e Röpke, in particolare, che contraccam-biarono. Ma per tanti aspetti potremmo collegarci con Carlo Cattaneo, con Antonio Rosmini, con l’illuminismo lombardo, con l’illuminismo napoletano, con le stagioni dell’Economia civile (così bene indagate da Bruni e Zamagni11), la cui età dell’oro si colloca nell’Italia del Quattrocento.

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Concludendo un intervento su: “Responsabilità dell’impren-ditore”12 ho affermato:

“E’ nella nostra storia che dobbiamo trovare le radici vere dell’im-presa del terzo millennio. Dobbiamo liberarci dei pestilenziali modelli americani, culturalmente e moralmente devastanti, che abbiamo rifilato a molte generazioni per quasi cinquant’anni. E riprendere, invece, i modelli dell’impresa toscana, lombarda, ge-novese, veneziana, quando l’imprenditore italiano era ai vertici mondiali ed insieme creava modelli di città, di benessere serio, di convivenza civile. Andiamo a Siena a riflettere come i grandi lana-ioli e mercanti senesi abbiano, al contempo, creato grande ricchez-za ed una grande cattedrale, un grande palazzo del popolo, una grande banca, un grande ospedale, Santa Maria della Scala, orga-nizzazione esemplare per tutta Europa. Siena è la testimonianza viva che non esiste conflitto tra buona economia imprenditoriale e umanesimo civile, in uno sforzo continuo per tenere insieme eco-nomia, finanza, buon governo, arti, spiritualità, istituzioni sociali. Andiamo a riflettere sugli affreschi di natura civile sul Buongover-no di Ambrogio Lorenzetti e di natura religiosa di Santa Maria della Scala. Il progetto “welfare” non nasce nell’ ‘800 o nel ‘900 ma nasce lì, quando istituzioni produttive (imprese), opere di as-sistenza sociale, cultura si saldano in un patto di buongoverno che dona frutti meravigliosi, dei quali ancora oggi beneficiamo. La responsabilità prima degli imprenditori è, oggi, quella di collabo-rare all’uscita da una concezione economica fine a se stessa che si è cacciata in un vicolo cieco e senza speranza, per ricostruire un nuovo modello di sviluppo economico, sociale, culturale, riaprendo ed aggiornando tanti esempi, stimoli, insegnamenti dei quali la nostra storia è così ricca”.

Ma proprio perché sono tanti i legami, gli intrecci, gli influssi reciprocamente fertili, due avvertenze si rendono necessarie. La prima è che l’Economia Sociale di Mercato di matrice tede-sca è un filone di pensiero rigoroso, che va conosciuto nel suo specifico, senza farsi trascinare dalla suggestione delle parole. Troppi, superficialmente informati sul tema, pensano all’Eco-nomia Sociale di Mercato come ad una via per legittimare l’as-

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sistenzialismo, per allentare i rigori di una finanza pubblica severa, per addolcire e manipolare la concorrenza, per aiutare i poveracci.

Per la Scuola di Friburgo il mercato è, nella sfera che gli com-pete, elemento di ordine costituzionale, e lo Stato ha l’obbligo giuridico di assicurare che le regole di funzionamento di mer-cato non vengano manipolate, violentate, strumentalizzate dal potere economico, come invece avviene nei Paesi dominati dal turbo-capitalismo o neoliberismo. Gli scienziati sociali te-deschi dell’Ordoliberalismo si oppongono tanto all’abominio nazista quanto a quello comunista, in entrambi i casi, con al centro, lo Stato, e che vedono l’economia di mercato in una posizione subordinata; e propongono, invece, un sistema eco-nomico e sociale di stampo nettamente liberale: “basato sull’e-conomia di mercato, sulla libera iniziativa, sulla lotta ai monopoli (tanto pubblici che privati) e sulla stabilità monetaria ”.13

Essi vogliono che la concorrenza e la libertà d’impresa siano difese dal prevalere e dalla concentrazione del potere econo-mico, attraverso una tutela costituzionale, all’interno di un rifiuto della subordinazione delle attività economiche ad una autorità centrale. Scrive Razeen Sally: “Dipende dallo Stato porre in essere e mantenere il quadro istituzionale di un ordine economico libero, ma esso non deve intervenire nei meccanismi del processo economico concorrenziale, ecco l’essenza dell’Ordungspo-litik”.14 In sostanza, un’impostazione molto simile alle rifles-sioni di Luigi Einaudi che, dopo aver illustrato il concetto di mercato con la deliziosa descrizione di una fiera di paese, e dopo aver avvertito che il mercato è un’invenzione sociale pre-ziosa, perfezionata nei millenni, utilissima per gli scopi cui è destinata, ma non sufficiente, conclude con queste parole:

“Tutti coloro che vanno alla fiera, sanno che questa non potrebbe avere luogo se, oltre ai banchi dei venditori, i quali vantano a gran voce la bontà della loro merce, ed oltre la folla dei compratori che ammira la bella voce, ma prima vuole prendere in mano le scarpe per vedere se sono di cuoio o di cartone, non ci fosse qualcos’altro: il

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cappello a due punte della coppia dei carabinieri che si vede passa-re sulla piazza, la divisa della guardia municipale che fa tacere due che si sono presi a male parole, il palazzo del municipio, col segre-tario e il sindaco, la pretura e la conciliatura, il notaio che redige i contratti, l’avvocato a cui si ricorre quando si crede di essere a torto imbrogliati in un contratto, il parroco, il quale ricorda i doveri del buon cristiano, doveri che non bisogna dimenticare nemmeno in fiera. E ci sono le piazze e le strade, le une dure e le altre fangose che conducono dai casolari di campagna al centro, ci sono le scuole dove i ragazzi vanno a studiare. E tante altre cose ci sono, che se non ci fossero, anche quella fiera non si potrebbe tenere e sarebbe tutta diversa da quello che effettivamente è” . 15

Ma neanche Adenauer accetterebbe una lettura che ponga al centro lo Stato, se è vero che, nel suo primo discorso pubbli-co del dopoguerra, quello all’Università di Colonia, nel marzo 1946, che è stato giustamente considerato il discorso fondan-te della nuova Germania e della nuova Europa16, egli disse: “Siamo prima persone, cittadini, europei e poi tedeschi. Mai più lo Stato nazione, mai più lo Stato etico. Una Germania federale per un‘Europa federale”. Lo Stato, secondo Adenauer, non doveva mai più porsi su un piano di superiorità rispetto alla persona, alla famiglia, alla libera attività economica. La libera iniziativa non era una concessione, ma un diritto primordiale dell’uo-mo. Mai più lo Stato avrebbe dovuto dominare e soffocare la persona e le società intermedie.17

Del pari, nessuno dei pensatori dell’Economia Sociale di Mer-cato in senso lato (compresi Sturzo ed Einaudi), traccereb-be un qualsiasi legame tra l’Economia Sociale di Mercato e l’ipertrofico Stato italiano. Questa ipertrofia non proviene dall’Economia Sociale di Mercato, ma dal fascismo, dal cor-porativismo, dal socialistume cattolico di una componente influente della DC, che garantì la continuità delle istituzioni economiche fasciste, dall’assistenzialismo, dalla corruzione imperante, dall’imprenditoria assistita, dalla mancanza di le-galità. Bene ha fatto Francesco Forte a lanciare un allarme sul tema, con un articolo intitolato: “Come evitare di far pasticci

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sull’economia sociale di mercato".18

La seconda avvertenza è che proprio perché questi intrecci sono tanti, stimolanti e difficili, è necessario, almeno per me, concentrare l’attenzione solo su alcuni aspetti, nella speranza di riuscire a collocare un piccolo tassello che, insieme ad altri tasselli, potrà aiutare qualcuno in grado di farlo, a tracciare il grande mosaico di una nuova economia, da contrapporre ai paradigmi dominanti, perché, come scrive Luigino Bruni, nell’introduzione al citato libro di Zamagni: “gli economisti sono spesso accusati, e non sempre a torto, non solo di non aver sa-puto emettere la giusta diagnosi della malattia, ma anche, in non pochi casi, sbagliando la diagnosi di avere consigliato al paziente una terapia che si sta rivelando mortale”.

Io ho scelto, quindi, di restringere le mie riflessioni ad alcu-ne relazioni tra l’Economia Sociale di Mercato e la Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica (DSC) per le seguenti ragioni. In primo luogo entrambe hanno vissuto un lungo periodo di declino, ed entrambe stanno invece vivendo, oggi, una stagio-ne di rinnovata attenzione. Credo che la cosa non sia casuale, ma sia l’effetto, per entrambe, della crisi economica mondiale. In secondo luogo, la relazione tra alcuni concetti fondamen-tali dell’Economia Sociale di Mercato ed alcuni principi chiave della DSC, è stretta ed evidente. In terzo luogo, le due dottrine si rafforzano reciprocamente ed, insieme, possono aiutarci a dare una prospettiva all’Europa, contrastando le soverchianti forze del turbo-capitalismo e del neoliberismo materialista, violento e corrotto, che continuano a distruggere ogni speran-za di vita degna di essere vissuta.

Pur così delimitato, il compito resta molto arduo, perché la DSC è dottrina ampia e di natura assai complessa. E’ perciò necessario delimitare ulteriormente e precisare il mio riferi-mento, anche su questo versante.

La DSC rappresenta l’insieme degli insegnamenti sociali e morali del pensiero cristiano: “La Dottrina Sociale della Chiesa

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trova la sua sorgente nelle Sacre Scritture a cominciare dal Libro della Genesi e, in particolare, nel Vangelo e negli scritti aposto-lici. Essa appartiene fin dall’inizio all’insegnamento della Chiesa stessa, alla sua concezione dell’uomo e della vita sociale e, special-mente, alla morale sociale elaborata secondo le necessità delle va-rie epoche. Questo patrimonio tradizionale è poi stato ereditato e sviluppato dall’insegnamento dei pontefici sulla moderna “que-stione sociale” a partire dall’Enciclica Rerum Novarum” (Laborem exercens, n. 3).

La DSC appartiene al campo della teologia e in particolare alla teologia morale. Ma essa è anche “un insegnamento pratico, che ha per fine l’azione più che la sola conoscenza”19. Ciò è particolar-mente vero per la moderna DSC che ha avuto spesso molta in-fluenza, almeno nella società europea; e ciò vale in particolare per la Rerum Novarum.

Le mie riflessioni si limitano dunque alla moderna DSC, ed in particolare ai suoi temi più legati alla struttura economico-sociale. E per restringere ulteriormente il focus, mi concen-trerò sulla DSC come emerge dal Concilio Vaticano II, che ha archiviato tante storiche incomprensioni tra Chiesa e mondo moderno, incomprensioni che, dunque, dobbiamo archiviare anche noi - e in particolare su due documenti: la Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et Spes (1965) e l’enciclica Centesimus Annus (1991) che, a mio avviso, segnano il punto più alto e decisivo del colloquio tra DSC, mondo contemporaneo ed economia imprenditoriale20.

Dignità della persona

Ma iniziamo dalla Costituzione tedesca, profondamente in-fluenzata dalla stessa visione che alimenta il pensiero dell’e-conomia sociale di mercato e della dottrina cristiana. Il primo articolo della Legge fondamentale della Repubblica Federale di Germania (Grundgesetze) è rubricato “Difesa della digni-tà della persona”, e il primo paragrafo recita: “La dignità della persona umana è inviolabile. Rispettarla e proteggerla è dovere di

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ogni potere statuale”.21

Trovo bellissimo che una Costituzione di un Paese europeo esordisca enunciando questo fondamentale principio22. Die-tro questo articolo c’è la rottura con le tradizioni di pensiero illiberale e statalista che tanto e tanto a lungo hanno pesato sulla cultura tedesca; c’è la ribellione ed insieme il confiteor contro gli orrori del nazionalsocialismo; ci sono le strazianti immagini dei sopravvissuti dei campi di concentramento, che il generale Eisenhower fece largamente distribuire affinché non se ne perdesse la memoria. Ma c’è sicuramente anche il pensiero dell’Ordoliberalismo, e c’è la DSC che della digni-tà della persona umana (fatta ad immagine di Dio), ha fatto uno dei suoi pilastri senza mai nutrire la minima incertezza in materia23.

Come dice il Concilio Vaticano II, è essenziale che la persona conservi sempre “un irrinunciabile desiderio di dignità”24 per-ché “l’uomo è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita econo-mico-sociale” (Gaudium et Spes, 63). E’ questo un tema dove gli incroci fertilizzanti sono stati tanti25. Ma certamente sia-mo qui in presenza di uno dei collegamenti più forti e rilevanti tra Economia Sociale di Mercato e DSC, che possono, forse, proprio unendo le forze, arginare e contrastare quell’ideologia ancora dominante, anche se non più vincente, dell’individua-lismo radicale e delle democrazie predatorie.

Destinazione universale dei beni e diffusione della pro-prietà

Un secondo cardine della DSC è il principio della destinazione universale dei beni. Ed anche qui ci troviamo ad un crocevia dove la Costituzione tedesca, ispirata dall’Ordoliberalismo, si incrocia con un altro principio fondamentale della DSC.La DSC è sempre stata a favore della proprietà privata, come garanzia della libertà, dignità e responsabilità della persona. Ma, al contempo, ha sempre levato il suo monito contro la ec-cessiva concentrazione della proprietà ed a favore di una pro-prietà diffusa ed ha sempre richiesto che la proprietà venga

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utilizzata non solo con il rispetto degli altri (neminem ledere) ma nella consapevolezza che i beni in proprietà hanno una sorta di ipoteca a favore della destinazione universale degli stessi. Così la “Gaudium et Spes”:

“Perché la proprietà e le altre forme di potere privato sui beni este-riori contribuiscono alla espressione della persona e inoltre danno occasione all’uomo di esercitare il suo responsabile apporto nella società e nella economia, è di grande interesse favorire l’accesso a tutti, individualmente o in gruppo, a un certo potere sui beni ester-ni. Le proprietà private assicurano a ciascuno una zona indispen-sabile di autonomia personale e familiare e devono considerarsi come un prolungamento necessario della autorità umana. Infine, stimolando l’esercizio della responsabilità civile, esse costi-tuiscono una delle condizioni delle libertà civili…. Ogni proprietà privata ha per sua natura una funzione sociale che si fonda sulla comune destinazione dei beni”.

Questa posizione è perfettamente coincidente con quella dell’Ordoliberalismo. La differenza è, forse, nel fatto che la Chiesa non ha ben compreso, per lungo tempo, che un’eco-nomia basata sulla proprietà privata è necessariamente anche una economia basata sul mercato. Anche questa posizione sfocia nella Costituzione tedesca e precisamente nei primi due paragrafi dell’art. 14, che recitano26:

“(1) La proprietà e il diritto di successione sono garantiti. Il loro contenuto ed i loro limiti sono fissati dalla legge. (2) La proprietà crea degli obblighi. Il suo uso deve anche essere utile all’insieme della collettività”.

Questa concezione della proprietà, presidio della libertà e dell’iniziativa individuale ma inserita in una precisa filosofia pubblica della responsabilità, e caratterizzata da un’ampia dif-fusione è, in realtà, una teoria la cui essenza va alle radici del pensiero democratico occidentale. Già Aristotele insegnava: “Ordunque è meglio, come ben si vede, che la proprietà sia privata ma si faccia comune nell’uso: abituare i cittadini a tal modo di pen-

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sare è compito particolare del legislatore”.

E leggiamo queste parole:

“La terra e tutte le cose che essa contiene sono la proprietà gene-rale del’umanità intera, a esclusione delle creature, per un dono immediato del Creatore. La legislazione ha universalmente pro-mosso i grandi scopi di una società civile, la pace e la sicurezza dei singoli, applicando la saggia massima di assegnare un determina-to e legittimo proprietario ad ogni cosa suscettibile di proprietà (...). Ma il titolo ultimo non è nelle mani del proprietario, ma in quelle della “umanità", del popolo come unità organica (...). La mo-tivazione delle leggi che stabiliscono la proprietà privata non sta nel soddisfare gli istinti di possesso dell'uomo, ma nel promuove-re i grandi scopi della sociètà civile che comprendono la pace e la sicurezza degli individui. Siccome il proprietario legittimo fa uso di un bene limitato che spetta necessariamente a tutti gli uomini, egli non può considerarsi il sovrano assoluto del suo possesso, né può esercitare un potere illimitato e arbitrario. Avrà dei doveri che corrispondono ai suoi diritti”.

Immagino che molti inquadreranno queste parole, ad esem-pio, nell'ambito della Dottrina Sociale della Chiesa. Forse qualcuno le collocherà nel pensiero del socialismo riformista. Credo che molti saranno sorpresi nell'apprendere che queste parole sono di un famoso e influente giurista inglese che, con la terminologia odierna, chiameremmo conservatore, di for-mazione classica e liberale e furono scritte verso la metà del 1700.

Perché sorpresi? Perché scriveva in un'epoca nella quale il di-ritto di proprietà, insieme alla sicurezza della persona e alla libertà, componeva la triade dei "diritti assoluti”, del cittadino inglese. Ed è interessante osservare, che anche questo giuri-sta, che era tutto eccetto che un rivoluzionario, inizia la sua analisi definendo il diritto di proprietà come diritto assoluto. Ma appena si inoltra nell'analisi concreta di tale diritto "esa-minandone più profondamente i rudimenti e le basi su cui

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giustificarlo razionalmente”, appena, dunque, anch'egli si in-contra con la tematica dei fini come legittimazione del diritto che sta analizzando e quindi anche come chiave per disegnar-ne il contenuto e le connesse attività, sviluppa le sue conclu-sioni nel senso sopra detto.Ancora una volta un’attività e un diritto individuale, questa volta di forte contenuto economico, trovano in una prospet-tiva di utilità pubblica, la loro legittimazione e i loro limiti, cioè dei diritti e dei doveri, e dunque il potere e la connessa responsabilità.

Sul piano della teoria dell’impresa, i migliori studiosi della materia non hanno mai dubitato che la gestione di un’impresa non sia un fatto esclusivo e privato degli azionisti, ma assol-va una funzione generale di sviluppo. Così P.F. Drucker: “Le imprese… sono organi della società. Non sono fine a se stesse, ma esistono per svolgere una determinata funzione sociale… esse sono strumenti per assolvere fini che le trascendono”27.

E il presidente degli USA Woodrow Wilson, affermava: “Non può dirsi correttamente che una moderna società per azioni basi i suoi diritti ed i suoi poteri sui principi della proprietà privata. I suoi poteri derivano totalmente dall’ordinamento. Le grandi socie-tà possono correttamente dirsi un bene comune”.28 E nello stesso senso molti altri.

Ma soprattutto negli ultimi trent’anni le appassionate parole dei Röpke e degli Einaudi contro la concentrazione della pro-prietà e della ricchezza, le raccomandazioni della DSC per un uso responsabile della proprietà, le sane teorie sull’impresa come soggetto di sviluppo collettivo, sono state più che igno-rate, irrise e totalmente rovesciate. La concentrazione della ricchezza e del potere economico non solo ha raggiunto livelli mai prima raggiunti, ma è diventata un mito e un obiettivo di-chiarato, ed il profitto, anzi, il “capital gain”, è diventato misu-ra di ogni cosa (altro che l’antico detto: “omnium rerum men-sura homo”). Le imprese sono state poste al servizio esclusivo degli interessi degli azionisti (secondo la teoria del “maximi-

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zation of shareholder value” , una delle teorie più devastanti degli ultimi 60 anni), la speculazione finanziaria, liberate da tutte le regole che la inquadravano ed, in parte, giustamen-te, imbavagliavano, è diventata selvaggia, ed è oggi, il vero, anche se negativo, “dominus” del mondo, facendo fare al si-stema, sul piano culturale ed ideologico oltre che operativo, un salto indietro di cento anni così rilegittimando il giudizio che, allora, pronunciò il presidente USA Woodrow Wilson: “Il grande monopolio di questo Paese è quello del denaro”. I go-verni occidentali, individualmente ma anche come embrione di comunità internazionale (G20) sono spinti in posizione su-balterna al potere finanziario, incominciando da quello degli USA e balbettano, impauriti e senza dignità.

Questo potere finanziario, diabolico e irresponsabile, queste autentiche strutture di peccato, ci porteranno, di crisi in crisi, alla rovina totale. Per questo bisogna unire le forze della ragio-ne, della civiltà, della fede e della religione, della democrazia, della cultura, contro questo mondo guidato da finanzieri ir-responsabili che formano un oligopolio, che impropriamente chiamiamo mercato. Ma ciò che è necessario, prima di tutto, è un mutamento profondo dei paradigmi economici dominanti. Altro che legittimarli e proteggerli come fa la grande maggio-ranza degli economisti29. Ma questo passaggio non può realiz-zarsi se rimaniamo rinchiusi nell’armamentario concettuale economico tradizionale. E’ necessario uno sguardo ed un’i-spirazione molto più ampia. E’ necessario un salto di civiltà e quindi dobbiamo mobilitare insieme filosofia e religione, di-ritto, economia e sociologia, fede e ragione30, pensiero demo-cratico e pensiero sociale, nella prospettiva di un neoumane-simo globale da contrapporre al neoliberismo individualista..

Stato sociale e principio di solidarietà

Nella Costituzione tedesca troviamo un altro incrocio cruciale tra economia sociale di mercato e DSC. Lo troviamo nell’art. 20 (1)31, un articolo fondamentale insieme al già citato art. 1, sulla dignità dell’uomo come valore inalienabile, tanto che

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entrambi godono, grazie all’art. 79, 3 della Costituzione, della c.d. garanzia dell’eternità (“Ewigkeitendgarantie”), in quanto i loro principi non possono essere mutati da nessuna maggio-ranza parlamentare: “La repubblica federale tedesca è uno sta-to democratico e sociale”. L’articolo 20 (1) contiene i cinque pilastri dell’ordinamento costituzionale della Germania, che è: una repubblica, una democrazia, uno stato di diritto, uno stato federale, uno stato sociale. Ai fini della nostra riflessione mi concentrerò sull’ultimo pilastro: la Germania è costituzio-nalmente (e senza possibilità di modifiche) uno stato sociale.

Le radici dello stato sociale sono molto antiche in Germania e non sono state certo inventate dalla dottrina dell’Ordolibera-lismo, né dalla Costituzione del 1949. Anche il nazismo pre-tendeva di essere uno stato sociale ed, in un certo senso, limi-tatamente ai suoi membri, lo era. Ma la caratteristica di stato sociale non va vista isolatamente, bensì insieme agli altri pila-stri della Costituzione tedesca: stato repubblicano, democra-tico, di diritto, federale, sociale (si sarebbe portati a precisare: e quindi stato sociale). Molti ordinamenti, possiamo dire la maggioranza in Europa, pur senza definirsi esplicitamente tali, sono concretamente organizzati con forte impronta di stato sociale. Naturalmente, le caratteristiche concrete con le quali l’ordinamento realizza questa qualità possono essere varie e variare nel tempo. Ma che una Costituzione ricono-sca, come caratteristica generale di uno Stato l’essere socia-le, non è né comune né senza conseguenze. E’ una scelta di campo, definitiva, pur nel mutevole atteggiarsi delle soluzioni concrete. Vuol dire che il principio della solidarietà sociale, principio fondamentale della DSC, (Sollicitudo rei socialis, 38-40), insieme al connesso principio di sussidiarietà, diventa una direttiva non discutibile per il legislatore ordinario e per i reggitori. Si tratta, in questo caso, di un obiettivo costituzio-nale rivolto ai reggitori e che non fa nascere precisi diritti del singolo. Ma è un obiettivo di grande rilievo che va, come già detto, visto in stretto collegamento con l’art. 1,1 sulla dignità della persona.

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Su questa radice costituzionale della solidarietà sono innesta-te istituzioni tipicamente tedesche, come la “Mitbestimmung” ( la partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori nei consi-gli di sorveglianza delle imprese di maggiori dimensioni), che sono presidio importante della tenuta democratica del paese. Anche in Germania negli anni recenti si è verificato un forte processo di concentrazione della ricchezza, ma in misura più moderata che in altri Stati ( come USA, Inghilterra, Italia). Anche in Germania, negli anni recenti della globalizzazione, si sono scatenati forsennati attacchi, soprattutto di matrice internazionale, per distruggere ed eliminare lo Stato sociale. Ma il presidio costituzionale e la tradizione culturale del Paese hanno fatto argine in misura molto più forte e soprattutto in modo molto più fondato ed ordinato, che in altri paesi pastic-cioni come l’Italia, a questo attacco forsennato che, in fondo, null’altro è che un attacco alla democrazia e alla dignità della persona. Come scrive un brillante commentatore tedesco32:

“Secondo la Costituzione “l’economia è al servizio dell’uomo e non il contrario. Concretamente: le banche non devono, in prima linea, spingere sempre più in alto il loro profitto, costi quello che costi, ma piuttosto devono, ad esempio, offrire finanziamenti il più pos-sibile favorevoli, affinché imprese intraprendenti realizzino nuove iniziative33. Questo intendiamo con l’espressione economia sociale di mercato nel senso della Costituzione. Anche se questo concetto non è esplicitamente incardinato nella Costituzione, questa eco-nomia sociale di mercato corrisponde al disegno della nostra Co-stituzione… Ciò è stato formulato, in termini generali, dall’arci-vescovo di Monaco, Reinhard Marx (che non è un discendente di Carlo Marx): “ l’economia sociale di mercato è espressione di una civiltà. Molti l’hanno scordato”34…. L’uomo di chiesa, Marx, rap-presentante della dottrina sociale della Chiesa cattolica, ci ricorda correttamente i fondamenti etici di una buona economia, cioè di un’economia al servizio dell’uomo. Egli induce a riflettere dicendo. “Un capitalismo senza etica e senza un solido ordinamento giu-ridico è ostile all’uomo”. E’ un’affermazione che coincide perfet-tamente con i principi della nostra Costituzione. Purtroppo non si può negare l’impressione che, nei piani alti, di banche e grandi

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imprese, anche tedesche, si è, nel tempo, diffuso un pensiero che chiaramente ignora del tutto questa configurazione della Costitu-zione. Naturalmente l’economia non può e non deve farsi carico dei compiti propri della politica. Ma le imprese non sono in esistenza solo per assolvere scopi propri e per servire gli interessi di mana-ger ed azionisti. “La proprietà crea degli obblighi. Il suo uso deve anche essere utile all’insieme della collettività”. Questi due para-grafi dell’articolo 14 della Costituzione è tutto ciò che sta scritto nel testo costituzionale per illustrare che non è vero che, oltre al profitto, l’economia non deve pensare ad altro. Certamente il pro-fitto è importante, ma come mezzo non come scopo, affinché le im-prese siano utili alla collettività… Questo è il cuore ragionevole di una economia umana, qui si radica la responsabilità delle imprese in una economia sociale di mercato… La Costituzione è un testo giuridico nazionale, ma, se si vuole, con una prospettiva mondiale. La sua validità si limita al territorio della repubblica federale, ma essa contiene indirizzi che possiedono una valenza per costruire un ordine economico internazionale, un capitalismo con regole e con rischi governabili… ogni mercato in ogni città è ancora oggi circondato da altre istituzioni: il comune, l’asilo, la scuola, l’ospe-dale. E spesso nel mezzo della piazza del mercato, c’è la Chiesa. Questi sono solo alcuni esempi che servono ad illuminare di cosa una comunità ha bisogno, oltre al mercato, per poter durare nel tempo35…. La giustizia sociale non è un lusso che ci possiamo con-cedere solo nei tempi facili, ma un diretto imperativo costituziona-le che resta in vigore anche nei tempi difficili”.

La Costituzione è cosciente che non si può, da soli, percorrere questa ardua via, e lo testimonia l’art. 23,1,1, che recita: “La repubblica federale tedesca è impegnata a collaborare alla realiz-zazione di un’Europa unita, attraverso l’Unione Europea, che sia fondata sui principi di uno Stato democratico, di diritto, sociale e federale secondo il principio di sussidiarietà e che garantisca, in essenza, diritti simili a quelli garantiti da questa Costituzione. Di conseguenza la repubblica federale con legge approvata dal parla-mento federale può trasferire poteri sovrani”36. Ma si veda anche il preambolo37.

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Certamente tante sono le difficoltà concrete per la realizzazio-ne corretta ed efficiente, di uno stato sociale. Ed in primo luo-go si pone la necessità di distinguere tra stato sociale e stato assistenziale, quale è quello italiano. Lo stato sociale, corret-tamente inteso, non perde efficienza, come temono molti eco-nomisti, perché la socialità e la solidarietà sono componenti necessari dell’efficienza duratura. Senza solidarietà l’unica ef-ficienza possibile è a breve termine, ed è quella dei campi di concentramento. Lo stato assistenziale è altra cosa dallo stato sociale, così come è estraneo sia all’economia sociale di mercato, che alla DSC. E’ persino difficile citare le tante fonti della DSC a sostegno di questa affermazione, per cui mi rifarò ad una fonte meno nota: i magnifici discorsi che Giovanni Paolo II pronunciò a Napoli nel corso della sua visita pastorale nel novembre 1990. Parlò alla cittadinanza e singolarmente a tutte le principali componenti della stessa. Il centro del suo messaggio, ai fini del tema che ci interessa, è riassunto nei seguenti passaggi:

- “Occorre che la società civile napoletana nel suo insieme, sia protagonista del suo stesso sviluppo; che il popolo di Napoli coltivi una forte coscienza sociale, e quale custode dei ricchi valori della sua tradizione, si faccia promotore di un fecondo rapporto con le istituzioni”.

- “Ad ogni diritto corrisponde un dovere. In questo caso ogni istanza sociale è chiamata ad offrire il suo supporto: le strutture politiche ed amministrative, il mondo del com-mercio e dell’industria, i lavoratori e le associazioni che li rappresentano. In tali impegni consiste la solidarietà che necessariamente deve presiedere la vita sociale”.

- “Lo sviluppo del Mezzogiorno vi sarà, quando si sprigio-neranno le energie locali. Voi imprenditori dovete essere in prima fila in questo sforzo”.

Ma mi piace anche ricordare la Mater et Magistra (Giovanni XXIII, 1961), che è tutta un inno all’”attitudine di responsabi-

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lità” che l’enciclica auspica diffusa a tutti i livelli. Lo Stato ha il dovere di favorire lo sviluppo di un sistema solidale ma ri-gorosamente secondo il principio di sussidiarietà. Riproduco qui una pagina del mio scritto citato dedicato alle encicliche sociali, relativa alla Mater et Magistra:

“”Anzitutto va affermato che il mondo economico è creazione dell'i-niziativa personale dei singoli cittadini”. È la frase con cui inizia la parte II. Il mondo economico non è frutto né del capitale, né del proletariato. È frutto dell'iniziativa personale. Dovere dello Stato, dell'ordinamento, della morale, è che il mondo si sviluppi tenendo conto del bene comune. Ma il bene comune è il frutto dell’iniziativa personale o non è. Mai in un’Enciclica, né prima né poi, si esprime-rà, con tanta chiarezza, il valore positivo dell'iniziativa personale in campo economico (cioè di quella che io chiamo economia impren-ditoriale).

- Questo valore non viene radicato su premesse mediocri, ma, a sua volta, su un più elevato valore, quello della libertà e su quel-lo, connesso, dello sviluppo: “L'esperienza infatti attesta che dove manca l’iniziativa personale dei singoli vi è tirannide politica; ma vi è pure ristagno dei settori economici diretti a produrre sopratut-to la gamma indefinita dei beni di consumo e dei servizi che hanno attinenza oltre che ai bisogni materiali, alle esigenze dello spirito: beni e servizi che impegnano, in modo speciale, la creatrice genia-lità dei singoli”.

- Un'economia imprenditoriale moderna richiede un ruolo preciso dei poteri pubblici, con un'azione che “ha carattere di orientamen-to, di stimolo, di coordinamento, di integrazione”. Meglio non si poteva dire, con formula assai incisiva, sul ruolo dei pubblici poteri in un'economia mista. Infatti: “dove fa difetto la doverosa opera dello Stato vi è disordine insanabile, sfruttamento dei deboli da parte dei forti meno scrupolosi, che attecchiscono in ogni terra e in ogni tempo”. (Essi non attecchiscono quindi solo nelle desolale terre del capitalismo, del liberalismo, del modernismo o di qualche altro "ismo", ma in ogni terra e in ogni tempo. E’ solo su un'impo-stazione realistica ed empirica di questo tipo che si può inserire an-

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che la teoria della responsabilità imprenditoriale e manageriale).

- L'intervento dei pubblici poteri va, tuttavia, rigorosamente im-postato secondo il principio di sussidiarietà, che viene qui ripor-tato al suo grande valore istituzionale, politico, giuridico, morale. “Ma dev'essere sempre riaffermato il principio che la presenza del-lo Stato in campo economico, anche se ampia e penetrante, non va attuata per ridurre sempre più la sfera di libertà dell'iniziativa personale dei singoli cittadini, ma anzi per garantire a quella sfera la maggior ampiezza possibile nella effettiva tutela, per tutti e per ciascuno, dei diritti essenziali della persona; fra i quali è da rite-nere il diritto che le singole persone hanno di essere e di rimanere normalmente le prime responsabili del proprio mantenimento e di quello della propria famiglia; che implica che nei sistemi economici sia consentito e facilitato il libero svolgimento delle attività pro-duttive".

- Tra l'iniziativa personale e l'azione dei pubblici poteri, si è anda-ta sviluppando, ed è un fenomeno di grande rilievo, la rete della socializzazione, “intesa come progressivo moltiplicarsi di rapporti nella convivenza, con varie forme di vita e di attività associata, e istituzionalizzazione giuridica". Questa "socializzazione così intesa apporta molti vantaggi". Quel "così intesa" sembra voglia dire: socializzazione delle persone e non collettivizzazione dei beni (socializzazione, dunque, e non socialismo; è questa differenza 29 la chiave di volta). Ma è essenziale che su questa spinta verso la socializzazione non si incardinino impropri poteri burocratici. È essenziale cioè che "i corpi intermedi e le molteplici iniziative so-ciali... godano di un’effettiva autonomia nei confronti dei poteri pubblici”. Queste sono le linee del sistema che i travagli del secolo hanno generato e che va sviluppato e migliorato. E ciò chiama tutti i responsabili a una nuova “attitudine di responsabilità”. Perché si sviluppi questa “attitudine di responsabilità” è necessario che nei portatori di responsabilità “anche se nel loro agire sono tenuti a riconoscere e rispettare la legge dello sviluppo economico e del progresso sociale”, “sia presente e operante una sana concezione del bene comune”. E per la prima volta si dà anche una definizio-ne della concezione del bene comune, come della “concezione che si

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concreta nell’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono agli esseri umani lo sviluppo integrale delle persone”. Una definizione efficace e pregnante, che sarà ripresa, sostanzial-mente, da Paolo VI nella Populorum Progressio.”

Questi concetti sarebbero totalmente sottoscritti da tutti i protagonisti dell’economia sociale di mercato. Non è casuale che Wilhelm Röpke, economista luterano, fosse un forte esti-matore della Mater et Magistra.

Guardare a ciò che unisce e non a ciò che divide

Altri incroci tra le dottrine dell’Ordoliberalismo e la sua rea-lizzazione nella forma di economia sociale di mercato e la DSC sono, certamente, identificabili, come scrive Wilhelm Röpke38.

Ma forse è più utile fermarsi ai tre pilastri che abbiamo di-scusso: dignità della persona, destinazione universale dei beni e diffusione della proprietà, stato sociale e principio di solidarietà. In relazione a questi tre pilastri abbiamo identifi-cato importanti coincidenze, sovrapposizioni, unità di ispira-zione e di obiettivi. Ma quale è l’utilità di rilevare ciò? Alcuni elementi di risposta sono già emerse nel corso della nostra analisi. Ma ora vorrei tentare una risposta più organica e più approfondita, a questa domanda fondamentale. Con la Chie-sa sono state vissute, a lungo, profonde incomprensioni con il pensiero moderno e liberale sui temi dell’economia. Inuti-le negarlo. Dalla parte della Chiesa (ma mai nelle encicliche!) si è a lungo coltivata una forte preferenza per le soluzioni di impronta collettivista e socialista ed una profonda diffidenza verso il mercato e verso l’impresa ed i suoi meccanismi. Dalla parte dell’economia liberale si è, invece, alimentata una forte ignoranza della DSC ed una sorta di disprezzo intellettuale verso la parola della Chiesa.

Solo pochi spiriti veramente laici e liberi, come l’economista luterano Wilhelm Röpke, hanno avuto la forza morale e intel-lettuale per scrivere parole come queste: “Non sarebbe una cat-

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tiva idea quella di scrivere la storia economica della nostra epoca cercandone i riflessi nei messaggi che la Santa Sede ha promulgato al mondo dall’inizio dell’era industriale, per applicare la dottri-na sociale della Chiesa cristiana ai problemi posti dalla moderna società industriale. Fondamentalmente questa dottrina sociale è rappresentata da una filosofia dell’uomo e della società immuta-bile come lo stesso insegnamento cristiano – umano, nato dal sin-golare connubio della filosofia antica con il cristianesimo. E’ stata questa dottrina a creare le basi sulle quali si è formata la cultura occidentale e a darci quei principi che non possiamo abbandonare senza rinunciare a questa cultura: cattolici o protestanti, fedeli o agnostici, se non vogliamo macchiarci di tradimento verso il pa-trimonio spirituale e morale dell’Occidente, dobbiamo considerare quei principi tanto incrollabili da non poterli nemmeno discute-re”.39

E questa profonda ignoranza spiega anche perché oggi si stan-no moltiplicando scritti che si rivolgono alla Chiesa, come se essa fosse ancora ferma a prima della Rerum Novarum. Scritti che spiegano i fondamentali del mercato, perché il cristiane-simo sia “naturaliter” liberale, perché il profitto è necessario e via dicendo. Si rispolverano pagine gloriose di Von Mises (1920), di von Hayek (anni ’40) per spiegare alla Chiesa che il socialismo non funziona senza rendersi conto che è ridicolo spiegare ciò, nel 2015, ad una Chiesa che è stata guidata da Giovanni Paolo II. Ma già il Leone XIII della Rerum Novarum aveva le idee abbastanza chiare in materia (anche se i conser-vatori del tempo, inorriditi, dissero: “Il Papa è diventato sociali-sta, le onde della vita moderne sono montate fino al cortile di San Damaso”). E chiare le idee le aveva anche Pio XI che, nel 1931, affermò: “Nessuno può essere buon cattolico a un tempo e vero socialista” (Quadragesimo Anno).

Allora perché continuare a insistere su antichi temi, totalmen-te superati dalla storia? Ma perché non leggete la Gaudium et Spes? Perché non leggete la Centesimus Annus e soprattutto il fondamentale paragrafo 42:

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“Ritornando ora alla domanda iniziale, si può forse dire che, dopo il fallimento del comunismo, il sistema sociale vincente sia il ca-pitalismo, e che verso di esso vadano indirizzati gli sforzi dei Pa-esi che cercano di ricostruire la loro autonomia e la loro società? E’ forse questo il modello che bisogna proporre ai Paesi del Terzo Mondo, che cercano la via del vero progresso economico e civile? La risposta è ovviamente complessa. Se con “capitalismo” si in-dica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamen-te positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di “eco-nomia d’impresa” di “economia libera”. Ma se con “capitalismo” si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa”.

Perché non ripartiamo da qui e non cerchiamo, partendo da qui, di affrontare insieme i problemi cruciali del nostro tempo, guardando a ciò che unisce e non a ciò che divide. Non vorrei essere frainteso. Il lavoro storico di ricupero dei vecchi testi e il lavoro culturale per interconnetterli tra loro e con il no-stro tempo, è prezioso. Ma accanto ad esso bisogna guardare al presente ed al futuro perché la casa brucia e i pericoli che incombono su di noi e sui nostri figli e nipoti sono altissimi.

Se il paragrafo 42 rappresenta la definitiva accettazione da parte della DSC (dopo che grande strada era già stata percor-sa, soprattutto nella Rerum Novarum, nella Mater et Magi-stra, nella Gaudium et Spes) dell’”economia di impresa” e del-l’”economia libera” (e, per fortuna, questa acquisizione non è stata messa in dubbio dalla Centesimus Annus, né dalle en-cicliche successive), l’ultima parte di questo paragrafo è pro-fetico. In mancanza di un “solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale” e di “un centro etico e religioso”, allora si fuoriesce dall’economia d’impresa o

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dall’economa libera e si entra in una giungla capitalista (per quello che vuol dire questo termine ambiguo), che impropria-mente chiamiamo mercato. Qui DSC ed economia sociale di mercato coincidono. E qui entrambe condannano ciò che è av-venuto negli ultimi venti anni, perché ciò che il Papa condan-na è esattamente ciò che è avvenuto dopo il 1991, e dunque il paragrafo 42 è profetico.

Oggi il problema non consiste più, dunque, nello spiegare pazientemente e didascalicamente alla Chiesa che cosa è l’e-conomia di mercato, ma nel prendere atto che continuiamo a chiamare impropriamente mercato, oligopoli manipolati e predatori, gestiti in gran parte da manigoldi che si muovono al di fuori non solo di ogni morale ma anche di ogni ordinamen-to giuridico (“Kein Market ohne Rathaus”). E se ciò non fosse come sarebbe possibile che gli alti dirigenti delle 15 principali banche in USA ed in Europa segnano, nel 2011, un aumento medio dei compensi del 12 per cento dopo un aumento del 36 per cento nel 2010, e ciò in un anno in cui mediamente rendimenti e valori delle rispettive banche sono fortemen-te diminuiti?40 Come è possibile che personaggi come Rajat Gupta, già direttore di Goldman Sachs e ex capo della McKin-sey, venga rinviato a giudizio per “insider trading”?41. E che il banchiere texano Allen Stanford venga condannato a 110 anni di prigione per frode?42 E come è possibile che cinque grandi banche come J.P. Morgan Chase, Barclays, Royal Bank of Scotland, Citigroup e UBS concordino con il Dipartimento di Giustizia USA di pagare una multa di 5,6 miliardi di dolla-ri dichiarandosi colpevoli di manipolazioni dei cambi (2015). Per analoga accusa Deutsche Bank ha pagato una multa di 2.5 miliardi di dollari. In totale le multe concordate dalle grandi banche con il dipartimento di giustizia americano per la loro “mala gestio” superano i 16 miliardi di dollari. Ma attenzione: queste somme vengono pagate per “comprare” l’immunità pe-nale per se e per i propri dipendenti. E’ quindi uno dei culmini della finanziarizzazione dell’economia: la giustizia acquistata. Invano associazioni civili americane si sono battute contro questo uso del denaro per comprare la giustizia. Mi sono li-

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mitato a pochi esempi, ma la processione continua ininter-rottamente. E questi avvenimenti di cronaca non sono solo la manifestazione più vistosa di una degenerazione che prima ancora che morale, è intellettuale. Sono i segnali che sono i parametri fondamentali del sistema e del pensiero economico che vanno profondamente riformati e rifondati.

In una conferenza pubblica (giugno 2012) il governatore del-la Banca d’Inghilterra, uomo delle istituzioni, di grande pru-denza ma, evidentemente, non negato alla verità, si è rivolto ai vertici delle quattro principali banche della City (Barclays, Royal Bank of Scotland, controllata tra l’altro dal governo in-glese, Hsbc e Lloyds) accusandoli di “trattamento meschino dei clienti” e di “manipolazione fraudolenta” definendoli: “ci-nici, manipolatori e strapagati”. Sulla stessa riga si è messa la Financial Services Authority, l’organismo di vigilanza del grande mercato londinese ed anche forse l’unico organismo di vigilanza che ha dato qualche contributo serio per migliorare il sistema.

Come ha scritto Jeffrey D. Sachs, Columbia University, 2012:

“Il degrado viene dai vertici. In 25 anni di docenza univer-sitaria ho visto un peggioramento etico anche nelle grandi facoltà di élite degli Stati Uniti: il potere delle grandi im-prese ha fiaccato il senso etico tra molti professori. Ovun-que vediamo un’epidemia di comportamenti criminali e corrotti ai vertici del capitalismo. Gli scandali bancari non sono delle eccezioni né degli errori, sono il frutto di frodi sistemiche, di un’avidità e di un’arroganza sempre più diffuse. Anche in Europa ormai le banche contano più dei governi. Nel mondo s’impongono i metodi cinici alla Rupert Murdoch. Non è una decadenza generalizzata del-la società civile, è un fenomeno che riguarda prevalente-mente le élite, sono loro ad avere un senso del privilegio, dei diritti acquisiti. Voi avete Berlusconi, in altre nazioni il connubio avviene in modo indiretto; il risultato però è sempre di creare nel pubblico un rumore di fondo, confu-

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sione e distrazione dai problemi veri”.

La partita in gioco non è, dunque, più fatta di minuetti sui concetti astratti di mercato o di profitto. La partita in gio-co è se e come riusciremo a salvare la democrazia, lo stato di diritto, un decente benessere; se riusciremo a ricostruire un’economia umana ed al servizio dell’uomo, di tutto l’uomo e di tutti gli uomini; se riusciremo a salvare lo stato sociale alleggerito di tutte le degenerazioni assistenzialistiche; se sa-premo far regredire le dimensioni mostruose dell’economia pubblica assunte dalla maggior parte degli Stati e certamente dall’Italia; se sapremo preservare il cammino verso uno Stato federalista sovranazionale; se sapremo riportare il concetto di responsabilità personale nel ruolo essenziale che gli compete. E’ un compito immane per il quale abbiamo bisogno non solo di visione e di capacità creativa proiettate sul futuro, ma ab-biamo bisogno di ricuperare, come guida e puntello, tutto ciò che di buono ci riviene dal passato. E certamente la DSC e l’economia sociale di mercato, singolarmente ed ancor più se unite tra loro, appartengono a questa categoria.

E, tanto per incominciare, iniziamo a studiarle entrambe se-riamente.

Ma tra le tante coincidenze tra le due, vi sono anche differen-ze. La differenza più importante è che l’Economia Socia-le di Mercato di matrice tedesca è radicata nei confini tedeschi. La Germania è una democrazia e un’economia sociale di mercato che funzionano in modo eccellente all’interno. Verso l’esterno, compreso il resto dell’Eu-ropa, la Germania, è ritornata a muoversi in chiave na-zionalista e tribale. Per questo non riesce ad esercitare una vera leadership. La DSC è invece un linguaggio uni-versale che parla a tutti gli uomini ed a tutti i continen-ti. Essa parla persino alla Scuola di Chicago ed ai suoi innumerevoli premi Nobel.

Mi scrive, in una corrispondenza privata, un germanista che

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molto stim43, a seguito di mie osservazioni di plauso ad un suo interessantissimo libro: “La DSC è fondamentale, in Italia, perché è la Chiesa la depositaria dei valori identitari della società italiana. E’ un’idea di solidarietà sociale può essere veicolata solo attraverso l’autorità della Chiesa. Non a caso tutto il dopoguerra è stato all’insegna dell’aggettivo “cristiano”, che coinvolgeva non solo la DC, ma anche il PCI, cioè tutta l’opinione pubblica italia-na. Il sentire solidale della comunità va, per così dire, battezzato, se no perde legittimità. Dovendo introdurre in Italia il modello tedesco – perché questo vuol dire “euro” – è indispensabile dargli credibilità. E questo può venire solo dal pensiero della Chiesa sul-la questione sociale. Il “servire”, da solo, come espressione del do-vere civico in Italia non basta: va coniugato attraverso categorie metastoriche e trascendenti. Insomma, l’immanenza luterana è estranea al mondo mediterraneo. E i dubbi tedeschi nascono dal fatto che questo loro modo di pensare non è trasferibile nel mondo mediterraneo. Di certo è così; ma veicolare quella disciplina com-portamentale attraverso categorie di pensiero proprie della tradi-zione storica di questi paesi, questo sì che è possibile. Il limite della dirigenza tedesca – non di tutta – è proprio questo: da un lato il non calarsi nel modo di pensare degli altri popoli e, dall’altro, il pretendere, l’espiazione delle colpe, senza offrire una controparti-ta che coinvolga gli altri verso un progetto comune. Il problema è come offrire all’inferiore la possibilità di accedere allo stato di gra-zia senza essere demonizzato. Gli americani hanno imposto per sessant’anni la loro egemonia all’insegna del benessere individua-le; e sono giunti ai loro limiti. Ai tedeschi spetta di farlo, oggi, in nome del bene collettivo; ma devono trovare un’idea che coinvolga tutti, e non solo i primi della Klasse”.44

SAPPIAMO BENISSIMO COSA FARE. LA GRANDE COR-REZIONE DI MARCIA E L’ILLUSIONE TECNOCRATICA

La verità è che sappiamo benissimo cosa fare. La prima e principale cosa è riportare i banchieri a fare i banchieri Cioè a raccogliere il risparmio e impiegarlo, non per se stessi ma, al servizio dei clienti della banca, per scopi produttivi che por-tino benefici ad un tempo ai propri clienti, alla banca stessa,

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alla collettività.Per realizzare questo obiettivo non possiamo contare sul sen-so di responsabilità dei banchieri. Uno dei vantaggi dei lunghi anni di crisi è di avere messo a nudo che questo senso di re-sponsabilità è totalmente inesistente. Devono essere forzati a fare le cose giuste. Spontaneamente non le faranno mai. Le cose principali da fare sono quelle già ben formulate dal “Con-siglio Pontificio Giustizia e Pace” sin dal 24 ottobre 2011:

- separare il mestiere della banca di deposito da quello del-la banca d’affari o d’investimento45;- gli interventi dello Stato per salvare e ricapitalizzare banche in difficoltà non possono essere, come sono sta-ti nel 2008-2009, eseguiti senza condizioni. L’intervento pubblico nelle banche in difficoltà deve essere subordinato a condizioni rigorose nella “governance”, per assicurare il controllo dell’impiego che verrà fatto del denaro dei contri-buenti. Non possiamo continuare a socializzare le perdite e privatizzare i profitti;- imporre una tassa modesta ma generale e uguale per tutti sulle transazioni finanziarie. Se l’avessimo fatto a partire dal 2008 il debito sovrano che tanti problemi ha sollevato sarebbe stato contenuto ed avremmo ridotto la propensione dei banchieri a giocare al casinò, rispetto a quello di fare il mestiere di banchiere.

Quello che non sappiamo è piuttosto come farlo e con chi. La grande illusione, che molti ancora coltivano, è che ci pense-ranno i banchieri stessi a gestire meglio le cose con un mag-giore senso di responsabilità. Molti, però, si sono resi conto che aspettare dai grandi banchieri a capo di grandi organismi un esercizio di responsabilità, è pretendere da loro un atto contro natura. Ed allora ci si è rifugiati nella illusione tecno-cratica. Saranno i grandi tecnocrati, i rappresentanti delle banche centrali, gli alti dirigenti bancari, i grandi accademici, i grandi funzionari pubblici, a mettere le cose a posto. La lotta in corso dal 2008 con le lobby bancarie, la strenua difesa da loro esercitata del loro potere e dei loro privilegi, contro ogni

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ragionevole proposta di correzione, e l’arrendevolezza dei tec-nocrati ci dimostrano che anche l’illusione tecnocratica non funziona.

Per la semplice ragione che non si tratta di questioni tecnocra-tiche, ma di conflitti politici, di scontro di interessi, di conflitti di classe. La madre di tutte le battaglie non è legata a questa o quella soluzione tecnica, ma, innanzi tutto, a contestare e far regredire la visione di una mondo totalmente finanziarizzato, con tutti gli annessi e connessi, a riconquistare posizioni per il lavoro e la dignità del lavoro, a far rinascere visioni di lun-go termine,a prendere atto che “la morale de l’honnêteté indivi-duelle ne suffit plus”46.

E’ proprio questo che rende la battaglia disperata. Ma se non riusciremo a fare questa grande correzione di marcia, non combineremo niente di serio; ci arrotoleremo di crisi in crisi, e saremo sempre sotto il tallone dei “Masters of the Universe”( la definizione è di uno di loro). Nessuna illusione. Proprio ciò che è successo e soprattutto ciò che non è successo dal 2008 in poi, ci dimostra la correttezza di questo giudizio di Luciano Gallino47: “E’ inutile nascondersi che per coloro i quali pensano che potrebbe esistere un altro mondo al di là del totalitarismo neoli-berale48, la situazione è pressoché disperata. Il fatto è che codesta ideologia ha stravinto a cominciare dall’ambito della cultura, delle idee, dell’informazione”.

Una delle caratteristiche che distinguono la crisi in corso ri-spetto a quelle del passato (compresa quella del 2001) è il sen-so di impunità che accompagna i principali protagonisti negli USA. Mai nella storia finanziaria americana i responsabili di disastri di questa portata (od anche di minore portata) sono rimasti così impuniti. Non sono mancate le voci responsabili che hanno sollevato il problema, come illustra Luciano Galli-no nel capitolo quinto del suo citato libro, intitolato: Crisi di sistema o criminalità organizzata? E in relazione di recenti e sopra citati accordi transattivi di sei grandi banche con pena-lità di 5.6 miliardi di dollari per manipolazioni sul mercato dei

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cambi, l’FBI ha parlato di “Criminality in a massime scale”(FT 21 maggio 2015). Gallino prende le mosse dalla formulazione del tema da parte della docente di Scuola di amministrazione aziendale dell’Università di Harvard, Shoshama Zuboff: “La crisi economica ha dimostrato che la banalità del male occultata in un modello di attività economica ampiamente accettato può mettere a rischio il mondo intero e i suoi abitanti. Non dovrebbero quelle aziende essere ritenute responsabili nei confronti di conve-nuti standard internazionali in tema di diritti, obblighi e condot-ta? Non dovrebbero gli individui le cui azioni hanno scatenato tali devastanti conseguenze essere ritenuti responsabili al lume dei suddetti standard morali? Io credo che la risposta sia sì. Che l’evi-denza montante di frodi, conflitti di interesse, indifferenza per la sofferenza, diniego di responsabilità, e assenza sistemica di giudi-zio morale individuale abbia prodotto un massacro economico am-ministrativo di tali proporzioni da costituire un crimine economico contro l’umanità”49.

Il tema della responsabilità, anche criminale, degli alti diri-genti bancari e dell’”atmosfera criminogena” favorita dall’ide-ologia neo-liberista appare in parecchi altri documenti, alcuni anche ufficiali50. La realtà è che il perseguimento di tali re-sponsabilità personali da parte del governo americano e delle agenzie e procuratori americani competenti, non è mai stata così all’acqua di rose. Quando si è parlato del primo accordo tra il dipartimento di giustizia e la banca per una multa alla JP Morgan Chase di 13 miliardi di dollari, sembrava una grande sanzione. Ma per un bilancio che, come quello della JP Mor-gan, è di circa 4 trilioni di dollari si tratta di una multa para-gonabile ad una multa per divieto di sosta per un modesto im-piegato. Con questo accordo, il cui onere è in parte fiscalmente detraibile, la banca si è comprata l’impunità per se e per i suoi dirigenti e soprattutto il diritto a tenere celato all’opinione pubblica il malfatto51. Nella stessa chiave si sono mossi altri accordi con le più grandi banche USA e internazionali, per un ammontare globale stimato di 160 miliardi di dollari, pur di evitare processi e rese di conto. Non mancano attivisti che si battono contro questi accordi, come Dennis Kelleher, capo di

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Better Market. Conclude Simon Johnson: “Kelleher ha scritto una lettera molto decisa al procuratore Eric Holder, massima au-torità giudiziaria degli Stati Uniti, in cui lo esorta alla massima trasparenza su tutti i particolari importanti del caso. Nelle con-clusioni di tale lettera si legge: La giustizia uguale per tutti senza paura o favoritismi è il fondamento della nostra democrazia e del nostro Paese”. Peccato che il Dipartimento di Giustizia sembra an-cora credere che le grandi società meritino un accesso e un tratta-mento speciali”. Le persone come Kelleher sono seri difensori di un mercato corretto e meritano grande rispetto. Ma, sicu-ramente, saranno sconfitte.

La battaglia è, infatti, di ben altro respiro e va affrontata alla radice. Si tratta di una battaglia ideale e politica contro il capi-talismo finanziario d’assalto e contro la finanziarizzazione del mondo. Cioè una battaglia per la democrazia e per la libertà.

E’ ormai chiaro che la crisi, di per sé, non è liberatoria della morsa ideologica e pratica del neoliberismo come molti, com-preso chi scrive, speravano. Anzi gli alfieri dello stesso sono riusciti a realizzare uno dei più grandi successi di marketing e di comunicazione della storia. “L’aumento cospicuo del defi-cit e del debito pubblico verificatosi in media nei paesi UE tra il 2008 e 2010 è reale. Ma non è affatto dovuto, come si afferma, a un eccesso di spesa pubblica nel settore della protezione sociale. E’ imputabile quasi per intero ai salvataggi del sistema bancario”52.Non posso addentrarmi nell’analisi di questa decisiva affer-mazione, ma le cifre ricordate da Gallino nei capitoli 6 e 8 del citato libro sono inequivocabili. Sia in USA che in UE l’esplo-sione del debito sovrano è dovuta ai colossali interventi di sal-vataggio degli enti bancari e finanziari e non all’eccesso della spesa sociale che, in UE, è stata stabile intorno al 25 percento del Pil e del tutto sostenibile. Ma è stato fatto credere, con l’aiuto dei trombettisti accademici del neoliberismo, che tale esplosione fosse dovuta ai presunti eccessi dello stato sociale e questa è stata la base ideologica per far partire l’azione di smantellamento del modello europeo di stato sociale (uno dei beni più preziosi dell’Europa) e delle politiche di austerità che,

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per come sono state impostate e condotte, è corretto definire suicide. Il peso della responsabilità è stato rovesciato: era dei banchieri criminaloidi, è diventato dei cittadini, trasformati in una sorta di “soggetti finanziari traumatizzati” (Gallino).Certamente i grandi problemi socio-economici del nostro tempo non si riducono solo al problema di riportare responsa-bilità, onestà, senso del bene comune nell’alta dirigenza delle grandi banche, riportandole nell’alveo della decenza democra-tica. Altri grandi problemi incombono minacciosi e, tra questi, in primo luogo: l’esplosione delle differenze economiche con le connesse grandi concentrazioni di ricchezza all’interno dei pa-esi sviluppati; l’intollerabile miseria materiale e immateriale di grandi popolazioni nei paesi più poveri che generano guerre feroci, fughe, emigrazioni disordinate e dolorose53; lo strapo-tere economico e politico delle grandi multinazionali che sono ormai padrone di paesi come gli USA, che erano un tempo le-ader del pensiero della prassi e della speranza democratica e che sono ora diventate oligarchie finanziarie dove tutto, dalla nomina del presidente al funzionamento del Parlamento, è in mano alle lobby finanziarie del grande capitale54; le grandi dif-ficoltà di indirizzare in senso umano ed utile al bene comune i tumultuosi e preziosi sviluppi della scienza e della tecnologia; il cercare e trovare nuovi equilibri indispensabili per il rispet-to e la tutela del pianeta che ci è stato affidato per custodirlo e governarlo; l’affrontare il gravissimo problema di centrali pri-vate che controllano i dati relativi a miliardi di persone. Come ha ben detto Antonello Soro, Garante italiano della Privacy “Google, Facebook, Amazon hanno oggi un potere che nessuno ha mai avuto nella storia dell’umanità”.

Ma la madre di tutte le battaglie è la lotta contro la finanzia-rizzazione del mondo. E’ questa la porta stretta che se non ri-usciremo ad aprire, a sfondare e a passare oltre, non andremo da nessuna parte. E’ una battaglia culturale, morale, religiosa; non una battaglia tecnocratica. Ma ho già detto che la porta stretta è presieduta da forze potentissime, che sembrano in-vincibili.

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LA RESPONSABILITA’ DEI CRISTIANI

La situazione sembra senza speranza. Ma “Être chrétien, c’est refuser la fatalité55. Nel vuoto di pensiero esistente56, nel do-minio ideologico ed operativo del capitalismo finanziario e de-gli inganni del neoliberismo, nella debolezza del pensiero che dovrebbe contestarlo, nell’urgenza di una grande correzione di marcia per tentare di evitare lo scontro contro un nuovo iceberg, nella necessità di accendere una nuova speranza ed indicare nuove vie per le nuove generazioni, grande è la re-sponsabilità dei cristiani, e soprattutto dei cattolici. Le oppo-sizioni di sinistra e di stampo marxista al neoliberismo e al capitalismo finanziario si sono sciolte come neve al sole o, meglio, hanno scelto di diventare loro stesse parte integrante del neoliberismo. Un liberale autentico, come il Luigi Einaudi delle Lezioni di Politica Sociale, si collo-ca alla sinistra di qualunque personaggio della nostra attuale sinistra politica.

La responsabilità dei cristiani e dei cattolici è dunque grande perché il pensiero cristiano e, in particolare, quello cattolico della Dottrina Sociale della Chiesa (DSC), è l’unico che si pone in conflitto esistenziale con la ideologia del neo-liberismo e con le sue pratiche di capitalismo finanziario selvaggio ed è l’unico che può esercitare un’influenza morale su larga scala.

Nel capitolo secondo della sua Esortazione Apostolica “Evan-gelii Gaudium”, papa Francesco ha pronunciato quattro for-midabili NO:

“NO a un’economia dell’esclusione NO alla nuova idolatria del denaro NO a un denaro che governa invece di servire NO all’iniquità che genera violenza”

Dietro a questi NO sfilano non solo i cattolici, ma tutti co-loro che credono al valore della democrazia, ad un’economia responsabile di mercato, ad un’economia libera e imprendito-

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riale nel senso del paragrafo 42 della Centesimus Annus, ad un’economia guidata dal lavoro, dalla dignità del lavoro, dalla dignità dell’uomo che lavora, dai principi della nostra Costi-tuzione e non del denaro. Il pensiero economico-sociale cat-tolico si è sempre battuto per porre al centro non il “capital gain” ma la dignità dell’uomo, per difendere la proprietà pri-vata, intesa come strumento di libertà di ogni singolo uomo e non di accaparramento, per combattere la concentrazione delle ricchezze, per favorire una efficiente competitività soli-dale, per sostenere il principio di sussidiarietà contro la con-centrazione di ogni tipo di potere. Per questo dietro quei NOsi schierano non solo i cattolici osservanti ma i grandi liberali ortodossi, da Einaudi a Sturzo e si schierano i grandi pensato-ri dell’Economia Sociale di Mercato come il luterano Roepke. Dietro a questi NO io vedo sfilare Adenauer, Erhard, Einstein, Manzoni, Goethe, Bonhoeffer, Kennedy, Churchill, Tolstoi, Roosevelt, Croce, Menichella, Adriano Olivetti, Paolo Baffi, Volker, Giorgio Ambrosoli, i giovani universitari tedeschi del-la Rosa Bianca, e tanti tanti altri, tutti quelli che hanno fatto del nostro pianeta un luogo dove vivere con dignità, libertà e amore per il Creato è possibile. Non è piccolo e non è debo-le, dunque, l’insieme del pensiero e delle esperienze di tutti coloro che si schierano dietro questi NO. E se questo è vero e se di questa verità ci convinciamo, allora ci sentiamo meno soli, meno disperati, meno orfani di quanto si sente Luciano Gallino, studioso di straordinario valore ma che forse guarda troppo nella direzione della sinistra marxista e socialista, dal-la quale non vedrà sbarcare nessun alleato, perché sono tutti morti od in fuga.Ma per esprimere la loro forza, per assolvere la loro respon-sabilità, per rispondere alla loro chiamata, i cristiani debbono superare due ostacoli concettuali.

Il primo è di esercitare veramente il culto della verità al quale ci richiama l’esortazione apostolica di papa Francesco, la “par-resia” dei greci57.Il secondo è di avere coraggio intellettuale, di non avere paura di entrare nel vivo delle cose, di non farsi intimidire dai tecni-

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cismi. Per paura di sentire rimbombare l’antico “Silete theolo-gi in munere alieno”, per paura di essere accusata di volersi intrufolare in cose non di sua competenza, per tante collu-sioni e scheletri negli armadi, parte importante della Chiesa attuale non ha la forza di rispondere come Innocenzo III che: “ratione peccati” la Chiesa ha il diritto ed il dovere di prendere posizione su ogni tema. Ecco, allora, che in molti testi cattolici appare una clausola di stile che dice:“La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire e non pretende mi-nimamente di intromettersi nella politica degli Stati. Ha però una missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell’uomo, della sua dignità, della sua voca-zione”58.

Ma come è possibile impegnarsi per una società a misura d’uomo, per la sua dignità, per la sua vocazione, senza entrare nelle soluzioni, senza prendere posizione, anche tecnica, sui problemi concreti, come, ad esempio, quelli trattati in questa relazione, che sono temi di vita e di morte per milioni di per-sone, senza condannare certe cose ed appoggiarne altre? Ed in ogni caso, se per la Chiesa in senso stretto, come organizza-zione politica, può essere giustificata una certa cautela, per la comunità dei cristiani, cioè per la Chiesa come popolo di Dio, per noi imprenditori e manager cristiani, questa timidezza diventa complicità.Come possiamo stare zitti di fronte ad un pensiero so-cio-economico che si spinge sempre più indietro, verso un capitalismo barbaro, violento, incivile e corrotto, che è in contraddizione profonda non solo con la DSC ma con tutti i grandi pensatori ed operatori cattolici e cristiani, da Manzoni a Rosmini, da Luigi Einaudi a Don Sturzo, da Adenauer a De Gasperi, da Bonhoeffer a Pa-dre Giulio Bevilacqua?Per fortuna anche qui ci vien in aiuto l’esortazione apostolica di papa Francesco:“L’insegnamento della Chiesa sulle questioni sociali.182. Gli insegnamenti della Chiesa sulle situazioni contingenti sono soggetti a maggiori o nuovi sviluppi e possono essere oggetto

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di discussione, però non possiamo evitare di essere concreti – senza pretendere di entrare in dettagli – perché i grandi principi socia-li non rimangano mere indicazioni generali che non interpellano nessuno. Bisogna ricavarne le conseguenze pratiche perché “pos-sano con efficacia incidere anche nelle complesse situazioni odier-ne59. I Pastori, accogliendo gli apporti delle diverse scienze, hanno il diritto di emettere opinioni su tutto ciò che riguarda la vita delle persone, dal momento che il compito dell’evangelizzazione implica ed esige una promozione integrale di ogni essere umano. Non si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra, benché siano chiamati alla pienezza eterna, perché Egli ha creato tutte le cose “perché possiamo goderne” (1 Tm 6,17), perché tutti possano goderne. Ne deriva che la conversione cristiana esige di riconside-rare “specialmente tutto ciò che concerne l’ordine sociale ed il con-seguimento del bene comune”60.

183. Di conseguenza, nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influen-za sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avveni-menti che interessano i cittadini. Chi oserebbe rinchiudere in un tempio e far tacere il messaggio di San Francesco d’Assisi e del-la beata Teresa di Calcutta? Essi non potrebbero accettarlo. Una fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sul-la terra. Amiamo questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posto, e amiamo l’umanità che lo abita, con tutti i suoi drammi e le sue stanchezze, con i suoi aneliti e le sue speranze, con i suoi valori e le sue fragilità. La terra è la nostra casa comune e tutti siamo fratel-li. sebbene “il giusto ordine della società e dello Stato sia il compito principale della politica”, la Chiesa “non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia”. Tutti i cristiani, anche i Pa-stori, sono chiamati a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore. Di questo si tratta, perché il pensiero sociale della Chiesa è in primo luogo positivo e propositivo, orienta un’azione trasfor-

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matrice, e in questo senso non cessa di essere un segno di speranza che sgorga dal cuore pieno d’amore di Gesù Cristo”.Papa Francesco si rivolge alla Chiesa come organizzazione. Ma sta a noi laici, operatori, studiosi, imprenditori, manager di impegnarci, alla luce dei grandi principi e valori della DSC, per tradurre i quattro NO in un programma economico, so-ciale, politico anche entrando nei dettagli, facendo proposte, alimentando progetti, e facendo una grande chiamata alle armi. La casa brucia e se lasciamo incontrastato il capitalismo finanziario ed i Chicago Boys tradiremo noi stessi, il nostro mandato, la nostra chiamata, i nostri figli e nipoti. Dunque, senza timidezze e servilismi, ai quali una certa Chie-sa ci ha abituato, diciamo alto e forte: questo capitalismo fi-nanziario questo neoliberismo, questa Scuola di Chicago, sono un pericolo per l’umanità e per il Pianeta che ci ospita, e noi dobbiamo sentirci impegnati per cambiare rotta.

Insomma. Non ha molto senso domandarsi in che direzione si muoverà la città. Essa si muoverà nella direzione dove la guiderà la sua classe dirigente o, in assenza di guida, il ritmo incalzante della tecnologia. Come sempre il futuro è nelle no-stre mani. Ed allora è più importante domandarsi: dove sono i leader? Dove sono le guide che ci portano sugli aspri sentieri che dobbiamo percorrere? E dove sono i cristiani? La nuova economia dovrà, necessariamente, essere molto più cristiana di quella che a partire dal 2007 è crollata rovinosamente (cioè molto più rispettosa della dignità umana, molto più rispettosa del lavoro in tutte le sue forme, molto più favorevole alla dimi-nuzione e non all’aumento delle differenze sociali ed economi-che, con la ricchezza ed il potere molto meno concentrati, con un modello di vita e di consumi molto più equilibrati, sobri e civili, nella quale i beni culturali e immateriali occupano uno spazio maggiore, dove i principi di solidarietà e sussidiarietà siano tra i cardini dell’organizzazione sociale e dove cresca il rispetto e l’amore per il Pianeta che ci ospita).

E qui ci ricolleghiamo al tema del cosa vuol dire essere cri-stiani o aspiranti cristiani oggi. I cattolici organizzati si sono

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dati molto da fare con i vari Todi1 e Todi2. Ma si è trattato di movimenti sostanzialmente a sfondo politico-elettorale, per tentare di rientrare, come cattolici, nel gioco del potere politi-co, oltretutto completamente falliti. E’ l’unica cosa che sanno suggerire certi vertici della Curia così privi di religiosità, così lontani dal cristianesimo, così immersi nelle logiche del pote-re politico, da spaventare persino un pontefice solido come il tedesco Ratzinger61.

Ed invece il grande processo di trasformazione nel mezzo del quale ci troviamo, ci interroga personalmente. Cosa vuol dire essere cristiano o aspirante cristiano oggi, nella tua professio-ne, nella tua città? Cosa fai tu ogni giorno per il bene comune? Cosa fai tu per rompere la ragnatela di falsità che ci avvilup-pa, per ripristinare l’antico insegnamento: sia il vostro dire sì quando è sì e no quando è no, il di più viene dal maligno. Que-ste sono le domande alle quali dobbiamo dare una risposta individuale e personale. Se risponderemo bene ed agiremo co-erentemente anche le vicende della nostra città e delle nostre imprese miglioreranno. Anche Agostino visse e fu vescovo in tempi molto turbolenti e di grande trasformazione. Ed allora meditiamo sulle sue parole:

“Mala tempora, laboriosa tempora, hoc dicunt homines.

Bene vivamus, et bona sunt tempora. Nos sumus tempora: quales sumus, talia sunt tempora ».

(Sant' Agostino, Sermo 80, De Verbis Evangelii MT 17, 18-20)

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1 Marco Vitale, Passaggio al futuro. Oltre la crisi attraverso la crisi, Edizioni Egea, 2010 pag. 32-33.2 Quaderni di cultura politica, N. 2 aprile-giugno 2009.3 Devo questo collegamento della Scuola di Friburgo con l’opera di Rathe-nau a Dario Velo.Si veda anche Luisa Bonini, Economia Sociale di Mercato, prefazione Dario Velo, postfazione Marco Vitale, Ed. ESD, 2012.4 Louis D. Brandeis, I soldi degli altri e come i banchieri li usano. Edizioni di Storia e letteratura, 2014.5 Colin Crouch, titolo dell’edizione originale: The Strange non death of neo-liberalism, Polity Press, Cambridge, UK, 2011; Edizione italiana: Il potere dei giganti. Perché la crisi non ha sconfitto il neoliberismo , Editori Laterza, 2014, pagg. 214, Euro 9,50.6 Colin Crouch è professore emerito di Governance and Public Management presso la Business School dell’Università di Warwich nel Regno Unito. Dal 1995 al 2004 ha insegnato Sociologia presso l’Istituto Universitario Euro-peo di Firenze. Ha pubblicato libri e articoli di sociologia economica, so-ciologia europea comparata, relazioni industriali, politica contemporanea britannica ed europea. Per i tipi Laterza è autore di Postdemocrazia (2012).7 Marco Vitale, Passaggio al futuro. Oltre la crisi attraverso la crisi , Ed. Egea, 20108 L’Economia Sociale di Mercato era entrata nello schema di costituzione europea, poi non ratificata.9 Wilhelm Röpke, Il Vangelo non è socialista, Scritti su etica cristiana e li-bertà economica (1959-1965), a cura di Carlo Lettieri, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006).10 Per Luigi Einaudi il riferimento d’obbligo è alle smaglianti Lezioni di Po-litica Sociale, pubblicate nel 1949 sui testi delle lezioni universitarie tenute in Svizzera nel 1944; il testo da me usato è quello di Giulio Einaudi editore del 1964, con nota introduttiva di Federico Caffè. Per Luigi Sturzo tutti i suoi scritti ed anche la sua lunga opera come sindaco di Caltagirone, sono totalmente in linea con l’Economia Sociale di Mercato. Röpke ha ripetuta-mente ammesso di vedere in Sturzo un suo ispiratore. 11 Bruni, Zamagni, Economia Civile, Il Mulino, Bologna, 2004.12 In Marco Vitale, Guido Corbetta, Umberto Ambrosoli, Adriana Calabrese, Responsabilità nell’Impresa, Piccola Biblioteca Inaz, Novembre 2010.13 Flavio Felice, L’Economia sociale di mercato, Rubbettino, Soveria Man-

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nelli, 2008, pag. 814 Ibidem, pag. 2515 Lezioni di politica sociale, op. cit. pag. 4116 P. Johnson, Storia del Mondo Moderno, Oscar Mondadori, Milano 1963.17 Altra questione è domandarsi se, ancora oggi, i tedeschi sono fedeli a questa visione o se, come sostiene Alberto Krali, dopo l’unificazione e dopo Kohl, l’hanno abbandonata, per ritornare ai loro vizi illiberali e nazionalisti di sempre.Si veda Alberto Krali, Primi della Klasse. La crisi europea e il ruolo della Germania, Cairo Editore, 2012).18 In Il Foglio 26 agosto 2008, citato in Flavio Felice, L’Economia sociale di mercato, Rubbettino, Soveria Mannelli, 200819 Vittorio Possenti, Oltre l’Illuminismo. Il Messaggio Sociale Cristiano, ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1992. Oltre alle fonti dirette, il mio riferimento principale in materia è questo libro che, pur vecchio di venti anni, resta, a mio giudizio, il più profondo libro in materia. 20 Sui rapporti tra DSC ed economia imprenditoriale mi permetto di rinviare ai miei scritti raccolti nel Dossier 24 Ore, supplemento del Sole 24 Ore n. 158 del 3 luglio 1991, intitolato: Le Encicliche Sociali, il rapporto tra Chiesa ed economia dalla Rerum Novarum di Leone XIII al pontificato di Giovanni Paolo II; perché si tratta dell’unico scritto a me noto che analizza i rapporti con DSC partendo dal punto di vista dell’impresa. 21 Il testo in tedesco è il seguente: “Die Würde des Menschen ist unantast-bar. Sie zu achten und zu schützen ist Verpflichtung aller staatlichen Ge-walt“.22 Per un confronto con l’Art. 1 della Costituzione italiana, si veda Alberto Quadrio Curzio: “Già nell’Art. 1 della Costituzione, affermando che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” si lasciavano aperte pos-sibili estensioni anche verso concezioni di supremazia della “persona uma-na” ( di cui si parla in successivi articoli) che esprime valori ben superiori e più ampi da comprendere, tra gli altri, anche quello del lavoro”. A. Quadrio Curzio, Il peccato originale della Costituzione in La Costituzione criticata, ESI, Napoli 1999.23 “L’idea di persona: questa è un’idea cristiana, nel complesso estranea alla tradizione islamica e a quella asiatica e africana. L’ideale politico che risulta più congruo al cristianesimo è una democrazia delle persone, non degli in-dividui” (Vittorio Possenti, op. cit. pag. 166)24 Citato da Karol Wojtyla, nell’intervista di Vittorio Possenti, sulla dottrina

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sociale della Chiesa (1978), pubblicata in appendice al citato libro di Vitto-rio Possenti, pag. 258.25 Pensiamo a Kant “riconosci che gli individui umani sono fini e non usarli come puro mezzo per i tuoi fini”. Pensiamo alla Dichiarazione d’indipen-denza delle colonie americane del 1726: “We told these thrust to be self-evi-dent, that all men are created equal, that they are endowed by the Creator with unalienable rights”. Pensiamo all’Umanesimo integrale di Maritain. Pensiamo a San Tommaso, secondo cui la persona è dal Creatore “propter se quaesita in universo” (tutti citati in Vittorio Possenti nel libro citato): 26 Artikel 14 (Eigentum, Erbrecht und Enteignung)1) Das Eigentum und das Erbrecht werden gewährleistet. Inhalt und Schranken werden durch die Gesetze bestimmt.2) Eigentum verpflichtet. Sein Gebrauch soll zugleich dem Wohle der Allge-meinheit dienen.27 P.F. Drucker, Manuale di Management, Etas Libri, Milano 197828 Woodrow Wilson, The New Freedom, 1913: “A modern joint stock or-ganization cannot in a proper sense be said to base its rights and powers upon the principles of private property. Its powers are wholly derived from legislation. The large corporation is in a very proper sense everybody’s bu-siness”.29 Dionigi Tettamanzi, Etica e Capitale. Un’altra economia è davvero possi-bile? Rizzoli 200930 Fides et ratio, Enciclica di Paolo Giovanni II: “Non ha dunque motivo di esistere competitività alcuna tra la ragione e la fede: l’una è nell’altra e cia-scuna ha un suo spazio di realizzazione. E’ sempre il libro dei Proverbi che orienta in questa direzione quando esclama: “E’ gloria di Dio nascondere le cose, è gloria dei re investigarle (Pro, 25,2)”.31 „ Art. 20,(1) Die Bundesrepublik Deutschland ist ein demokratischer und sozialer Bundesstaat“.32 Peter Zolling, Das Grundgesetz. Unsere Verfassung, wie sie entstand und was sie ist, Carl Hanser Verlag, München, 2009. La traduzione è mia. 33 Si veda l’analogia con Luigi Einaudi: “Le banche non sono fatte per pagare stipendi ai loro impiegati o per chiudere il loro bilancio con un saldo uti-le, ma devono raggiungere questi giusti fini soltanto col servire nel miglior modo il pubblico” . (Relazione del Governatore della Banca d’Italia per l’e-sercizio 1943 letta nell’aprile 1945).34 “Die soziale Marktwirtschaft ist eine Zivilisationprodukte. Das haben vie-le vergessen“.

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35 Si veda la straordinaria analogia con la sopra citata descrizione della fiera mercato di Luigi Einaudi. Peter Zolling intitola questo paragrafo con l’effi-cace espressione: “Kein Market ohne Rathaus” (nessun mercato senza un Comune) 36 Zur Verwirklichung eines vereinten Europas wirkt die Bundesrepublik Deutschland bei der Entwicklung der Europäischen Union mit, die de-mokratischen, rechtsstaatlichen, sozialen und föderativen Grundsätzen und dem Grundsatz der Subsidiarität verpflichtet ist und einen diesem Grundgesetz im wesentlichen vergleichbaren Grundrechtsschutz gewähr-leistet. Der Bund kann hierzu durch Gesetz mit Zustimmung des Bundesra-tes Hoheitsrechte übertragen“.37 Preambolo: “Nella coscienza della sua responsabilità di fronte a Dio ed agli uomini, con la volontà, come partner paritetico in una Europa unita, di servire la causa della pace nel mondo, il popolo tedesco, per forza dei suoi poteri costituenti, si è dato la presente Costituzione”. Präambel: im Bewußtsein seiner Verantwortung vor Gott und den Menschen, von dem Willen beseelt, als gleichberechtigtes Glied in einem vereinten Europa dem Frieden der Welt zu dienen, hat sich das Deutsche Volk kraft seiner verfas-sungsgeben den Gewalt dieses Grundgesetz gegeben.38 “Ne ho già parlato tre anni fa, sostenendo che”l’economia di mercato non è sufficiente”. Dicendo “l’economia di mercato non è sufficiente”, è stato già espresso il concetto della lotta su due fronti; vale a dire l’economia di mer-cato è una condizione necessaria, ma non sufficiente per un ordinamento economico produttivo, redditizio e degno dell’uomo… E’ della massima im-portanza quanto segue: come base morale dell’economia di mercato è indi-spensabile quel patrimonio etico che abbiamo raggiunto per effetto dello sviluppo millenario dall’Antichità attraverso il cristianesimo fino al giorno d’oggi. Questo significa, per dirlo concisamente, che la base etica dell’eco-nomia di mercato è costituita dai dieci comandamenti. Essi sono indispen-sabili ed allo stesso tempo sufficienti. Sarebbe solo auspicabile che fossero rispettati. E’ significativo che per il collettivismo i dieci comandamenti non bastino più, ma che le più svariate azioni – che secondo il decalogo sono eticamente neutrali o forse anche negative – sono giudicate positivamente, mentre d’altro canto vengono bollate come criminose, e perseguitate come tali, azioni che secondo la nostra morale non lo sono affatto”. Il Vangelo non è socialista, op. cit. pag. 65,66.39 Wilhelm Röpke, L’enciclica Mater et Magistra, in Il Vangelo non è socia-lista, op.cit. pag. 87

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40 Financial Times, 25 giugno 201241 Financial Times, 16 giugno 201242 Financial Times, 15 giugno 201243 Alberto Krali, germanista, insegna Lingua tedesca alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica di Milano ed è coordinatore della laurea magistrale italo-tedesca in collaborazione con l’Università Martin Luther di Halle-Wittenberg. E’ impegnato nella promozione degli scambi con le istituzioni straniere e in particolare tedesche. Ha svolto attività di insegna-mento a Heidelberg. Ha pubblicato vari libri sull’argomento e svolge attività di pubblicista. 44 Alberto Krali, Primi della Klasse, la crisi europea ed il ruolo della Germa-nia, Cairo Editore, 2012.45 Cioè fare ciò che fece Roosevelt, nel 1933, in tre mesi.46 Gaël Giraud, Illusion Financière, Les Editions de l’Atelier, 201347 Luciano Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla demo-crazia in Europa, Einaudi 201348 Sottolineatura aggiunta49 S. Zudoff, Wall Street’s Crime Against Humanity, in Blomberg Business Week, 20 marzo 2009, cit. in Luciano Gallino pag. 12550 Vedasi cap. 5 del citato libro di Luciano Gallino51 Finanza malata e pugno di velluto. Il caso JP Morgan Chase: multa inade-guata, inefficace e “pilotata”, di Simon Johnson, in Il Sole 24 Ore, 12 gen-naio 2014.52 Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla demo-crazia in Europa, Einaudi, 2013.53 Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, parlando al Development Committee della Banca Mondiale ha recentemente lanciato un vigoroso appello affermando: “Oltre un miliardo di persone vive ancora in estrema povertà. E’ inaccettabile. L’enorme ammontare di liquidità globale si è in-canalato solo marginalmente verso i più poveri. I risparmi privati si sono spostati dalle economie in via di sviluppo verso i mercati finanziari di quelle private”.E Jim Yong Kim, presidente della Banca Mondiale annuncia di vo-ler “costruire un’alleanza” con Papa Francesco su questi temi. 54 Per quanto riguarda gli USA lo studio più profondo e documentato resta quello di Kevin Phillips: “Ricchezza e democrazia. Una storia politica del capitalismo americano”,Garzanti 2005. Titolo originale: Wealth and Demo-cracy, 2002. Studioso, giornalista, scrittore, repubblicano, collaboratore di Nixon, Phillips, autore di altri importanti studi sull’argomento, conclude

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il suo ultimo documentatissimo contributo con queste parole: “A mano a mano che avanziamo nel XXI secolo, lo squilibrio tra ricchezza e democrazia negli Stati Uniti appare sempre più insostenibile, quanto meno in base ai parametri tradizionali. La teologia del mercato e una leadership non eletti-va hanno relegato in secondo piano la politica e le consultazioni elettorali. La democrazia dev’essere rinnovata, con una decisa rivitalizzazione della politica; oppure la ricchezza finirà per cementare un regime nuovo e meno democratico, che possiamo tranquillamente definire plutocrazia. Nei pros-simi decenni, l’eccezionalismo americano affronterà il suo test più probante nel convincere il popolo degli Stati Uniti a continuare a credere nel suo be-nessere e nelle sue certezze”. La speranza delusa è che Obama affrontasse questi problemi. Ma la sua delusione è stata grandissima. E non sarà certo la candidata Clinton ad affrontare questi problemi.55 Gaël Giraud, op. cit. pag. 17356 Quest’anno a Davos,all’annuale World Economic Forum, 2500 parteci-panti, quaranta capi di Stato e di governo, 300 tra ministri e sottosegreta-ri, 14 premi Nobel, hanno, in quattro giorni, dibattuto stato e prospettive dell’economia. L’esito è stato particolarmente deludente (“Tanti spunti, tante informazioni, tanti personaggi interessanti. Però neanche un’idea, non diciamo dirompente, ma almeno nuova, un punto di vista originale” (Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera, 25 gennaio 2015). E’ impressionante questa mancanza di pensiero. E’ la riprova che la maggioranza dei prota-gonisti si rifiuta pervicacemente di accettare che in economia è necessaria una rotta nuova ed una nuova strategia, che, come si dice nel linguaggio, è necessario cambiare molti paradigmi di base. E’ da questo rifiuto, che ha natura ideologica, che deriva l’incapacità di pensiero. 57 Si veda sul tema l’ultimo meraviglioso ciclo di lezioni di Michael Foucault al Collège de France (1984): Il coraggio della verità, Feltrinelli 2011. 58 Questo testo l’ho preso dal periodico dell’UCID 2/3 – 2013, ma è un testo standard.59 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compen-dio della Dottrina Sociale della Chiesa, 9.60 GIOVANNI PAOLO II, Esort. ap. postsinodale Ecclesia in America (22 gennaio 1999), 27: AAS 91 (1999), 76261 “La Chiesa è tutt’altro della Curia romana” cardinale Rubén Salazar Gómez, primate di Colombia e vicepresidente del Consiglio episcopale lati-no-americano (Corriere della Sera, 3 marzo 2013).

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Studi

Le parole chiave del Convegno di Firenzedi Fabrizio Casazza

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StudiFabrizio Casazza - Le parole chiave del Convegno di Firenze

di Fabrizio Casazza,Istituto Superiore di Scienze Religiose di Alessandria

Le parole chiave del Convegno di Firenze

Firenze è una città nota in tutto il mondo per le sue bellezze artistiche e per la sua storia ricca di cultura. Ricorre quest’an-no il 750esimo anniversario della nascita del sommo poeta Dante Alighieri, che immortalò la sua città natale nel XXVI canto dell’Inferno con queste parole: «Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande/che per mare e per terra batti l’ali». Firenze sarà in particolare al centro della vita della Chiesa nel prossimo no-vembre, allorché nel capoluogo toscano converranno i Pastori e i delegati delle diocesi italiane per il V Convegno ecclesiale nazionale. Per questo importante evento il Comitato prepa-ratorio ha approntato una Traccia di lavoro1, in cui vengono indicate cinque strade da percorrere per arrivare a realizzare quello che è il tema del Convegno stesso, In Gesù Cristo il nuovo umanesimo.

Uscire: intraprendere il viaggio dell’amore

Il primo dei verbi del Convegno ecclesiale di Firenze è usci-re, che in sé è ambivalente: può indicare sia realtà positive sia aspetti negativi. Tutti siamo ormai abituati dalle cronache a

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sentire di giovani – ma non solo ragazzini, a dire il vero – che vanno fuori di sé con droghe di vario genere, una delle quali si chiama ecstasy. La cosa paradossale è che dalla parola greca écstasis deriva anche l’italiano estasi, che indica eccezional-mente un fenomeno mi-stico e comunemente una caratteri-stica dell’amore. In effetti fu Benedetto XVI a spiegare nella sua prima enciclica che «amore è “estasi”, ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso ver-so la sua liberazione nel dono di sé»2. Quindi ci rendiamo conto che sia gli stupefacenti sia l’esperienza cristiana hanno un obiet-tivo etimologicamente simile, l’uscire. Ma in un caso, quello della droga, è un andare fuori che distrugge la persona e le sue relazioni; nell’altro, quello della vita di fede, la perfeziona poiché porta a compimento quel cammino di decen-tramento che gli psicologi ci dicono essere elemento indispensabile in un itinerario di maturità.Quale tipo di uscita allora dobbiamo cercare? Il servo di Dio Giovanni Paolo I il 27 settem-bre 1978 tenne l’ultimo incon-tro pubblico del pontificato in occasione dell’udienza genera-le, dedicata alla virtù della carità. In quell’occasione il Pontefi-ce, che sarebbe morto l’indomani, ebbe a dire:

«amare significa viaggiare, correre con il cuore verso l’oggetto ama-to. […]. Amare Dio è dunque un viaggiare col cuore verso Dio. […]. Dalle palafitte, dalle caverne e dalle prime capanne siamo passati alle case, ai palaz-zi, ai grattacieli; dai viaggi a piedi, a schiena di mulo o di cammello, alle carrozze, ai treni, agli aerei. E si de-sidera progredire ancora con mezzi sempre più rapidi, raggiungendo mete sempre più lontane. Ma amare Dio – l’abbiamo visto – è pure un viaggio: Dio lo vuole sempre più intenso e perfetto. Ha detto a tutti i suoi: “Voi siete la luce del mondo, il sale della terra”; “siate perfet-ti com’è perfetto il vostro Padre celeste”. Ciò significa: amare Dio non poco, ma tanto; non fermarsi al punto in cui si è arrivati, ma col Suo aiuto, progredire nell’amore»3.

Per spiegare questa realtà, lui che era stato direttore dell’uf-ficio catechistico diocesano, chiamò vicino a sé un bambino

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di V elementare, con il quale dialogò concludendo che, co-me bisogna passare da una classe all’altra per diventare grandi, così nella vita spirituale non bisogna mai fermarsi ma occorre progredire nell’amore con la grazia di Dio.Mi pare un’ottima spiegazione del verbo uscire, che possia-mo completare richiamando con Benedetto XVI la forza del viaggio. Sì, perché quando abbiamo il coraggio di uscire da noi stessi, come singoli e come comunità, ci accorgiamo che non ci si può mai sentire appagati. «Proprio le gioie più vere sono capaci di liberare in noi quella sana inquietudine che porta ad essere più esigenti – volere un bene più alto, più profondo – e insieme a percepire con sempre maggiore chiarezza che nulla di finito può colmare il nostro cuore. Impareremo co-sì a ten-dere, disarmati, verso quel bene che non possiamo costruire o procurarci con le no-stre forze; a non lasciarci scoraggiare dalla fatica o dagli ostacoli che vengono dal nostro peccato»4.

Lo si può fare proprio uscendo dai nostri egoismi per giungere alla maturità dell’amore che si fa dono di sé. La vita cristiana è un viaggio, un viaggio d’amore, in cui dobbiamo lasciare allo Spirito di Gesù lo spazio per farci andare avanti. Dobbiamo uscire dal nostro Io, che pensa di sapere tutto, per aprirci al Noi della Chiesa: una Chiesa in uscita verso le periferie esi-stenziali5.

Annunciare: predicare il Vangelo con l’impegno quoti-diano

Il secondo verbo è annunciare. Le ultime parole di Gesù sul-la terra sono state: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, […] insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20). Andate richiama l’invito a uscire;insegnando rimanda al compito dell’annuncio.Papa Francesco, nell’Esortazione Apostolica Evangelii gau-dium, commentando quei ver-setti appena citati spiegava che «il primo annuncio deve dar luogo anche ad un cammino di formazione e di maturazione. L’evangelizzazione cerca an-

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che la crescita»6. Qui si apre tutto il tema importante, delica-to e irrinunciabile, della catechesi. Nonostante le tante note posi-tive dobbiamo ammettere che a livello generale manca spesso la consapevolezza della vita cristiana come cammino di formazione. Molte volte essa si riduce a “fare la comunio-ne”, “fare la cresima”, “sopportare” il corso prematrimoniale per sposarsi in chiesa. È però ne-cessario che ci convinciamo tutti che la Chiesa non ha bisogno di clienti ma di credenti; la Chiesa ha bisogno di persone alla ricerca della comunità, non della comodità.In questa direzione possiamo leggere il discorso che il Papa ha rivolto nei mesi scorsi ai fu-turi diplomatici della Santa Sede, discorso che per il suo contenuto interessa la vita di ogni cre-dente:

«Vi esorto a non aspettare il terreno pronto, ma ad avere il corag-gio di ararlo con le vostre mani – senza trat-tori o altri mezzi più efficaci di cui non potremo mai disporre – per prepararlo alla se-mina, aspettando, con la pazienza di Dio, il raccolto, di cui forse non sarete voi a beneficiare; a non pescare negli acquari o negli alle-vamenti, ma ad avere il coraggio di scostarvi dai margini di sicurezza di quanto già si conosce e gettare le reti e le canne da pesca in zone meno scontate, senza adattarsi a mangiare pesci pre-confezionati da altri»7.

Del resto già san Giovanni Paolo II, al termine del Grande Giu-bileo, aveva invitato tutti a prendere il largo: «Duc in altum! Questa parola risuona oggi per noi, e ci invita a fare me-moria grata del passato, a vivere con passione il presente, ad aprirci con fiducia al futuro». Fare memoria grata, non nostalgica, del passato significa prendere sul serio il libro biblico del Qoelet: «Non dire: “Come mai i tempi antichi erano migliori del pre-sente?”, perché una domanda simile non è ispirata a saggez-za» (Qo 7,10). Vivere con passione, non con soppor-tazione, il presente: nessuno dovrebbe usare l’espressione “ai miei tem-pi” perché i miei tempi sono quelli in cui lo Spirito di Dio mi guida, ora! Aprirci con fiducia, non con paura, al futuro: uno potrebbe subito citare gli attentati in Francia, in Tunisia o al-

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trove ma la vio-lenza c’è sempre stata, solo che oggi i mezzi di comunicazione la proiettano e la amplifica-no mentre la rac-contano. Ma se Gesù ha detto «io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19) e ha raccomandato ai di-scepoli di non affannarsi perché il Padre si prende cura di noi dal momento che provvede ai gigli e ai corvi (cf Lc 12,22-32), che paura dobbiamo avere?

Ricordo infine con le parole di papa Francesco che «c’è una forma di predicazione che compete a tutti noi come impegno quotidiano. Si tratta di portare il Vangelo alle persone con cui ciascuno ha a che fare, tanto ai più vicini quanto agli scono-sciuti. È la predicazione informale che si può realizzare duran-te una conversazione […]. Essere discepolo significa avere la disposizione permanente di portare agli altri l’amore di Gesù e questo avviene spontaneamente in qualsiasi luogo, nella via, nella piazza, al lavoro, in una strada»8. An-nunciare vuol dire allora instaurare prima di tutto un rapporto umano attraverso il dialogo che mi permetta poi di condividere la mia fede. Già Benedetto XVI aveva spiegato nella sua prima enciclica che ogni «cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l’amore»9.

Abitare: santificare la vita quotidiana e la società

Il terzo verbo è abitare. Quando di una città si vogliono enu-merare i monumenti vengono subito in mente gli edifici sacri che la caratterizzano: spesso autentiche opere di maestria ar-chitettonica, corredate da capolavori dell’arte di tutti i secoli. Il campanile poi appare come il simbolo del fatto che la fede cristiana non è relegata all’ambito della coscienza o del priva-to ma è rivestita di un’innata rilevanza pubblica. Eppure accade non di rado ai nostri giorni che gli stessi cre-denti pensino di dover fare a meno della fede nella vita ordi-naria di tutti i giorni. Contro questa concezione lottò costan-temente san Josemaría Escrivá de Balaguer10, affermando in una sua omelia: «dovete san-tificarvi – collaborando al tempo

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stesso alla santificazione degli altri – santificando preci-sa-mente il vostro lavoro e il vostro ambiente, e cioè la professio-ne o il mestiere che riempie i vostri giorni, che dà una fisiono-mia peculiare alla vostra personalità umana, che è il vo-stro modo di essere presenti nel mondo»11.

Un lavoratore diventa santo rendendo santa la sua attività quotidiana. Certo, ci vogliono le liturgie e la preghiera ma è sbagliato immaginare le ore di lavoro come parentesi della vita spirituale. D’altronde, dal momento che il tempo delle persone è per il 90% impiegato in attività secolari, è immagi-nabile che queste non abbiano niente a che fare con la fede? La fede deve animare tutto il comportamento umano: il rapporto con Dio si manifesta non so-lo in chiesa ma anche nel modo in cui si ama la moglie, il marito, i figli, i vicini, nel modo in cui si lavora, nel modo in cui ci si fa carico della vita sociale, economica, politica. La fede non può essere estranea alle re-sponsabilità quotidiane.

Il problema che a volte ci affligge è l’incoerenza. Già i profeti biblici se la prendevano con coloro che usavano bilance false e imbrogliavano i clienti non mancando però di onorare il tem-pio del Signore. In questo filone si possono inserire le parole dell’arcivescovo Óscar Arnulfo Romero, Metropolita di San Salvador, ucciso nel 1980 mentre celebrava la Messa, recen-temente proclamato beato e martire: «Una religione di Messe domenicali ma di set-timane ingiuste non piace al Signore. Una religione piena di preghiere, ma con ipocrisia nel cuore non è cristiana»12.

Abitare la città da credenti vuol dire portare dappertutto la fede con una degna condotta di vita. Non c’è bisogno di dimo-strare tutto quello che la Chiesa ha fatto e fa per la società: se chiudessero tutte le realtà caritative promosse da istituzioni cattoliche ci troveremmo in condizioni ben peggiori della Gre-cia! Però bisogna che tra la parte prettamente spirituale e la fede vissuta ci sia non scollamento ma continuità; continuità innanzi tutto nel nostro cuore, cosicché le opere di misericor-

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dia (che il Papa ha chiesto di ripassare durante il pros-simo Anno Santo Straordinario) siano impregnate di retta inten-zione. Abbiamo bisogno di un surplus d’impegno in questa direzione vista l’attuale situazione di crisi, innanzi tutto promuovendo la dignità di ogni persona. L’uomo – secondo le preoccu-panti parole del Garante per la privacy – «rischia davvero di ridursi ad un supporto: da analizzare e osservare nei comportamenti, da profilare per condizionarne le scelte, da sor-vegliare per re-alizzare un controllo sempre più invasivo che di fatto si esten-de alle nostre abitazioni, alla nostra fisicità»13.

Tutto ciò parte dal fatto che, pensando di essere giunta a un punto d’espansione senza limi-ti, autolegittimata dalla mera fattibilità tecnica, la potenza umana si è trasformata in pre-potenza, mettendo al bando tutto ciò che richiama impotenza: ecco la «cultura dello scar-to» spesso denunciata dal Pontefi-ce, anche nell’enciclica Laudato si’14. Ma negando l’impotenza, il fallimento, l’insuccesso, che fanno fisiologicamente parte della vita di tutti prima o poi, si nega di fatto un elemento costitutivo dell’umanità. La via d’uscita sta, se-condo l’inte-ressante prospettiva del sociologo Mauro Magatti, nell’esplo-rare l’idea di depo-nenza, mutuata dalla grammatica latina, per la quale esistono verbi con forma passiva ma significato attivo. Si tratta, in sostanza, di mitigare l’idea di potenza fino al punto di accettare che «tutte le volte che agiamo 1) non sia-mo pienamente sovrani della nostra azione e 2) mettiamo al mondo qualcosa affidandolo a dei percorsi che ci superano»15.Abitare la storia vuol dire correggere questa distorta concezio-ne dell’individuo per riscopri-re la dignità di persone e di figli di Dio, così da «fare tutti buoni cristiani e onesti cittadini»16,come suggeriva san Giovanni Bosco.

Educare: assumere l’intenzionalità di Cristo

Il quarto verbo è educare. A questo proposito mi viene in men-te un’espressione che Bene-detto XVI utilizzò nel 2008 in una

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lettera alla città di Roma. Egli, rilevando che oggi educa-re pare più difficile che in passato, affermò che è in atto «una grande “emergenza educati-va”, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per for-mare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita»17.Troppo facile, però, gettare la croce addosso alle nuove gene-razioni. Non è che forse anche noi adulti abbiamo gettato la spugna del compito educativo? Non abbiamo forse dimenti-cato la lezione del filosofo greco Plutarco, sul fatto che «i gio-vani non sono vasi da riempire ma fiaccole da accendere»? In effetti Benedetto XVI nella citata lettera affermava che

«sono in questione non soltanto le responsabilità personali degli adulti o dei giovani, che pur esistono e non devono essere nasco-ste, ma anche un’atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona uma-na, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all’altra qualcosa di valido e di certo, regole di com-portamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita»18.

È vero che gli adolescenti di oggi sono «narcisi, fragili e spa-valdi»19, e che dati di fatto sono «il predominio dell’estetica sull’etica, lo scollegamento della sessualità dalla generatività, l’esistenza di “per sempre” reversibili e aleatori, la rincorsa a valori di bellezza, successo, visibilità, felicità personale»20. Ma mi sa che la scuola ha un po’ smarrito l’orizzonte pro-spettato dal filosofo francese Edgard Morin: «La scuola deve occupar-si della nostra doppia aspirazione: realizzarci come individui, nelle nostre attitudini, capacità, e costruire legami all’interno di una comunità»21. Ricordiamoci che questi atteggiamenti s’imparano innanzi tutto in famiglia perché, come spiegava cinquant’anni fa il concilio Vaticano II, i genitori sono «i primi e i principali educatori»22 dei figli.Certo, essere educatori dei figli non significa volerli proprie fotocopie. Neanche Dio fa così con noi: ci crea a sua immagine

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e somiglianza (cf Gen 1,26), non fotocopie! Valgono per tutti le raccomandazioni che l’umanista Giovanni Pico della Mi-randola attribuisce al Signo-re in un immaginario dialogo con Adamo: «Non ti creammo né celeste né terreno, né mor-tale né immortale, in modo tale che tu, quasi volontario e onorario scultore e modellatore di te stesso, possa forgiarti nella forma che tu preferirai»23.

Noi cristiani sappiamo bene qual è la forma migliore su cui possiamo plasmarci: il volto di Cristo. Anche qui vale però un discorso analogo: non siamo chiamati a imitare Gesù nel sen-so di copiarlo ma nel senso di assumerne l’intenzionalità, il modo di vivere, i criteri di scelta, così come li conosciamo con una coscienza vera e retta. “Come si comporterebbe Lui al mio posto?” dovrebbe essere l’interrogativo che ci guida, non “Che male c’è?”, come ri-duttivamente si chiede qualcuno. L’educa-tore saggio aiuta a rispondere a queste domande non buttan-do giù gli ostacoli ma aiutando a saltarli autonomamente.

Diciamo la verità: anche i genitori e i formatori meglio inten-zionati avvertono una sensa-zione di confusione e di disagio, quasi di stordimento per la molteplicità di proposte da cui siamo quotidianamente bombardati: il Censis parla di «una società indistinta e sfuggente»24. Mi pare un buon punto di partenza per fare discernimento – un’espressione che la Trac-cia per il Convegno di Firenze utilizza ripetutamente – la con-statazione dell’antropologo Marc Augé che «tutte le differenze non sono rispettabili in quanto tali: le culture si assomigliano per le questioni che sollevano, non per le risposte che dan-no»25. Analogamente il filosofo e giornalista francese Alain Finkielkraut afferma che se «ogni punto di vista è legittimo, spariscono proprio la possibilità di comunicazione, di dialogo, discussione»26. È il “no” a quella «dittatura del relativismo» più volte denunciata sia da Benedetto XVI sia da Francesco.

Però bisogna in primo luogo aprire gli occhi: la diffusa e tal-volta molesta pratica del selfie col cellulare rappresenta «l’evi-denza fenomenologica della concezione dei media come spec-

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chi introflessi piuttosto che come strumenti attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con esso»27. Se avremo avuto ogni tanto il coraggio di “disconnetterci” allora riu-sciremo a distinguere anche le parole vere, piene, dense, dalla verbosità vacua, illusoria, millantatrice. Così fecero gli apostoli, quando Pietro disse a Gesù: «Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68).

Non bisogna aspettare a compiere questi passi perché il tem-po passa veloce. Una delle prime idee dell’educare è che c’è un momento giusto per ogni cosa. San Colombano, grande abate e missionario, sepolto a Bobbio28, diceva che la vita è «un viag-gio che dura un solo giorno»29. Passa in fretta! Anche questo è un importante principio educativo.

Il compito educativo va affrontato innanzi tutto con l’ascolto, la prossimità, la tenerezza, il dialogo. Uno studio di un’univer-sità americana ha mostrato che dal 1980 al 2006 si è pas-sati dal 53% al 24% del tempo dedicato all’ascolto30. Insomma: aprire le orecchie è il primo passo per aprire il cuore.

Trasfigurare: liturgia e preghiera “benzina” per l’apo-stolato

L’ultimo verbo è trasfigurare. La Traccia afferma che le «comu-nità cristiane sono nutrite e trasformate nella fede grazie alla vita liturgica e sacramentale e grazie alla preghiera»31. Arri-viamo così a capire qual è la “benzina” indispensabile perché il “veicolo” della Chiesa possa uscire per abitare il nostro tempo annunciando il Vangelo ed educando ai valori mo-rali: la litur-gia e la preghiera. Le nostre parrocchie vivono un paradosso: da una parte le at-tività legate al conferimento dei sacramenti occupano uno spazio enorme – e purtroppo in qualche par-rocchia in pratica l’unico spazio – ma, dall’altra, l’efficacia, la ricaduta, l’effetto sulla vita complessiva della comunità è mi-nima. Siamo ancora lontani dalla prospettiva in-dicataci cin-quant’anni fa dal concilio Vaticano II: «la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fon-

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te da cui promana tutta la sua energia»32.Eppure, se ci pensiamo bene, leggendo la biografia di certi giganti della storia della Chiesa, uno vede che il vero moto-re delle varie opere straordinarie furono proprio la preghiera personale e le celebrazioni comunitarie.

Mi viene in mente il cardinale Clemens August Graf von Galen. Il regime nazionalsocialista aveva varato una legislazione che prevedeva la “morte pietosa” di disabili, deformati, psicolabili, anziani33: il vescovo di Münster senza paura alza la voce e dice in un’omelia: «se si ammette il principio, ora applicato, che l’uomo improduttivo possa essere ucciso, allora guai a tutti noi, quando saremo vecchi e decrepiti. Se si possono uccidere es-seri improduttivi, allora guai agli invalidi, che nel processo produttivo hanno impegnato le loro ossa sane, le hanno sacri-ficate e perdute»34. A chi gli obiettava che così violava le leggi del Reich, il Pastore beatificato nel 2005 rispondeva facendo proprie le parole del ministro prussiano von Münchhausen verso il re Federico II: «La mia testa è a disposizione di Vo-stra Maestà, non la mia coscienza»35.

Qualcuno potrebbe pensare che la vita di preghiera rallenti l’impegno ecclesiale. La beata Teresa di Calcutta – che certo nessuno oserebbe definire socialmente disimpegnata – ripe-teva alle sue sorelle: «Aggrappatevi al rosario come l’edera si attacca all’albero»36. Non va trascurato il fatto che queste rac-comandazioni – lo si è scoperto solo negli ultimi anni, dai suoi diari – sgorgavano da un cuore che stava provando un vuoto assoluto con una «sensazione dell’assenza di Dio»37, fino al punto da scrivere: «il Paradiso non significa nulla, mi sembra un luogo vuoto. Pensarci non ha alcun senso per me»38. La differenza dove sta rispetto a noi? Che mentre una piccola contrarietà a noi distoglie subito dalla meditazione e dall’eu-caristia, madre Teresa, pur in queste terribili condizioni, mai smise di dedicare due ore al giorno all’adorazione eucaristica, oltre ovviamente alla Liturgia delle Ore, alla Messa e al rosa-rio.Pensiamo ancora al sacerdote polacco Jerzy Popiełuszko,

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martire del regime comunista, che trasfigurò una protesta po-tenzialmente violenta in una frequentatissima celebrazione eucaristica mensile. «Gli uomini si conquistano con il cuore spalancato e non con il pugno chiuso»39, diceva ai fedeli invi-tandoli a una testimonianza convinta ma non fanatica, per-ché «la verità è sempre legata all’amore e l’amore è esigente; l’amore vero richiede sacrifi-cio e, quindi, anche la verità deve costare. Una verità che non costa niente è una menzogna»40,spiegava pochi mesi prima di essere rapito e ammazzato nel 1984.I beati von Galen, Teresa e Popiełuszko, in contesti diversi, con situazioni diverse, in stati di vita diversi, sono stati acco-munati da un forte impegno sociale con spirito cristiano, sor-retto da una preghiera tenace e da un’assidua pratica dei sa-cramenti. Si capisce allora che quando entriamo in chiesa non dobbiamo sforzarci di lasciare fuori i nostri pensieri, ma anzi dobbiamo raccoglierli per presentarli allo Spirito del Signore cosicché Lui li trasfiguri e diventino fonte di nuove energie al servizio della nuova evangelizzazione.

Sono propositi validi a ogni latitudine: in Europa, bisognosa di svegliarsi; in Africa, asseta-ta di riconciliazione; in America Latina, affamata di nutrimento e interiorità; in America del Nord, intenta a riscoprire le radici di un’identità che non si definisce a partire dalla esclusione; in Asia e Oceania, sfidate dalla capacità di fermentare in diaspora e dialogare con la va-stità di culture ancestrali.Ma è bene ricordarsi che la vita spirituale non si può portare avanti quando “mi sento”: come in tutti gli ambiti ci vogliono costanza, continuità e determinazione. Aveva ragione lo scrit-tore Luigi Pirandello a mettere in bocca a un suo personaggio che «è molto più facile […] essere un eroe, che un galantuomo. Eroi si può essere una volta tanto; galantuomini, si dev’essere sempre. Il che non è facile»41. Ugualmente si può dire del cri-stiano, che dev’essere tale 365 giorni l’anno e 24 ore al giorno. Solo così si potrà essere cristiani in uscita, che abitano la so-cietà trasfigurandola con la passione educativa e l’annuncio del Vangelo.

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1 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, In Gesù Cristo il nuovo umane-simo. Una traccia per il cammino verso il 5° Convegno Ecclesiale Nazionale, EDB, Bologna 2014.2 BENEDETTO XVI, Lett. Enc. Deus caritas est, 25 dicembre 2005, n° 6.3 GIOVANNI PAOLO I, «Udienza generale», 27 settembre 1978, in ID., Inse-gnamenti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1979, 98-99.4 BENEDETTO XVI, «Udienza generale», 7 novembre 2012, in ID., Inse-gnamenti, VIII/2, Libreria Editrice Va-ticana, Città del Vaticano 2012, 543.5 Cf FRANCESCO, «Veglia di Pentecoste con i Movimenti», 18 maggio 2013, in ID., Insegnamenti, I/1, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015, 200.6 ID., Esort. Ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, n° 160.7 ID., «Udienza alla Comunità della Pontificia Accademia Ecclesiastica», 25 giugno 2015, in L’Osservatore Romano, 26 giugno 2015, 8.8 ID., Esort. Ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, n° 127.9 BENEDETTO XVI, Lett. Enc. Deus caritas est, 25 dicembre 2005, n° 31 c.10 Di lui ricorre quest’anno il quarantesimo anniversario della morte.11 J. ESCRIVÁ, È Gesù che passa, Ares, Milano 1982, 20006, 107.12 O.A. ROMERO, La violenza dell’amore, Città Nuova, Roma 2002, 30.13 A. SORO, Discorso del Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, 23 giugno 2015, in http:⁄⁄bit.ly⁄1ByPDZK [accesso: 02.07.2015].14 FRANCESCO, Lett. Enc. Laudato si’, 24 maggio 2015, n° 16.15 M. MAGATTI, Prepotenza, Impotenza, Deponenza. È possibile un’altra narrazione del nostro futuro? (Diá-logoi, 6) Marcianum Press, Venezia 2015, 48.16 SAN GIOVANNI BOSCO, «Lettera alla contessa Uguccioni», 28 marzo 1872, in Epistolario, II, SEI, Torino 1956, 203.17 BENEDETTO XVI, «Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione», 21 gennaio 2008, in ID., Insegnamenti, IV/1, Li-breria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, 116.18 Ib, 117.19 G. PIETROPOLLI CHARMET – L. TURUANI, Narciso innamorato. La fine dell’amore romantico nelle relazioni tra adolescenti (Parenting) BUR Rizzo-li, Milano 2015, 10.20 Ib., 14.21 E. MORIN, in A. GINORI, «“Gli errori ci fanno crescere”. Morin e la sua scuola di vita», in la Repubblica, 30 giugno 2015, 31.

Note

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22 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Gravissimum educationis, 28 ottobre 1965, n° 3.23 G. PICO DELLA MIRANDOLA, Discorso sulla dignità dell’uomo, Guanda, Parma 2003, 11.24 CENSIS, 48° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, FrancoAngeli, Roma 2015, XII.25 M. AUGÉ, «Parlare nel mondo globale», in Aggiornamenti sociali, 66 (2015) 2,130.26 A. FINKIELKRAUT, in M. BAUDINO, «Perché il pensiero de-bole è sempre più debole», in La Stampa, 11 set-tembre 2011, 35.27 CENSIS, 48° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, FrancoAngeli, Roma 2015, XXI.28 Di lui ricorrono quest’anno i millequattrocento anni della morte.29 SAN COLOMBANO, Istruzione, 8, Abbazia San Benedetto, Milano 1997: «Tota enim vita nostra quasi iter unius diei est». Cit. in F. SANTI, «Il resto non conta niente», in L’Osservatore Romano, 23 novembre 2014, 4.30 Ci si riferisce agli studi di Laura Janusik: cf S. BATTEZZA-GHI, «Ecco perché nessuno ascolta più nessuno», in la Repub-blica, 2 agosto 2014, 41.31 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, In Gesù Cristo il nuovo umanesimo. Una traccia per il cammino verso il 5° Con-vegno Ecclesiale Nazionale, EDB, Bologna 2014, 53.32 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. Sacro-sanctum concilium, 4 dicembre 1963, n° 10.33 Oggi le leggi sull’eutanasia sono proprio tanto diverse?34 C.A. GRAF VON GALEN, Omelia presso la chiesa di san Lamberto, 3 agosto 1941.35 ID., cit. in G. MEOTTI, «Il leone di Münster», in Il Foglio, 22 febbraio 2014, 6.36 MADRE TERESA, Sii la Mia luce, Rizzoli, Milano 2008, 149.37 Ib., 171.38 Ib., 177.39 J. POPIEŁUSZKO, in A. GUGLIELMI, ed., Popiełuszko. «Non si può uccidere la speranza», Itacalibri, Castel Bolognese 2010, 47.

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40 Ib., 7441 L. PIRANDELLO, «Il piacere dell’onestà», in ID., Il berretto a sonagli, La giara, Il piacere dell’onestà, Arnol-do Mondadori Editore, Milano 1969, 93.

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AgoràL’economia “ecologica” francescanadi Oreste Bazzichi

Laudato si’: il superamento dell’individualismodi Lucio Franzese

Laudato si’: alcune considerazioni di Mons. Mario Tosodi Giuseppe Rusconi

Laudato si’: il paradigma dell’ecologia integraledi Giuseppe Notarstefano

Famiglia contro Gender nei social Networkdi Francesco De Meo

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AgoràOreste Bazzichi - L’economia “ecologica” francescana

di Oreste Bazzichi,Pontificia Facoltà Teologica Seraphicum

francescana

Di fronte agli atteggiamenti irresponsabili dell’umanità che da due secoli deturpa e impoverisce la Terra, rendendola più fragile e mettendo a rischio il futuro dell’ecosistema, la pri-ma enciclica sociale di Papa Francesco Laudato sì (24 maggio 2015, solennità di Pentecoste), ispirata al paradigma del pen-siero francescano ed in continuità con il magistero degli ulti-mi Papi (numerose le citazioni di Giovanni Paolo II e Benedet-to XVI), è dedicata alla cura della casa comune. Essa dischiude una nuova forma e un nuovo modo di abitare la madre Terra per uscire dallo spreco, dallo scarto e dal batailliano dépense1

(dispendio).

In conformità con lo spirito di san Francesco, il cui atteggia-mento di profonda empatia con tutte le creature lo spingono a comprendere i bisogni vitali di ciascun essere vivente e quin-di a prendersi cura del suo habitat e a proteggerne l’integrità dell’ecosistema, Papa Francesco afferma che tutto il creato è in relazione, perché così l’ha voluto il Creatore. Certamente il mondo è profondamente cambiato dai tempi del Poverello di Assisi, che non poteva neanche lontanamente immaginarsi la complessità del mondo di oggi, né i problemi che si accompa-gnano a tale complessità2. Da un piccolo villaggio (circa 350

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milioni di abitanti) in otto secoli si è passati al villaggio globa-le (oltre sette miliardi di persone).

Ma la teologia del creato francescana è valida in tutti i tempi: rispettare l’anima di tutto il creato significa rispettare il Crea-tore. E la sofferenza della Terra e del mondo che ci circonda è legata alla sofferenza del popolo.

“Splendeva come stella fulgida nel buio della notte e come luce diffusa sulle tenebre”: con queste parole Tommaso da Celano, primo biografo, presenta san Francesco3. La risposta di que-sto elogio si legge nei Fioretti, che raccontano che un giorno frate Masseo, uno dei primi compagni del poverello, si rivol-se al santo ponendogli questa domanda: “Perché a te tutto il mondo corre dietro?”. Dopo otto secoli dalla scomparsa di Francesco questa domanda conserva tutta la sua attualità.

E’ l’uomo del consenso universale, della fraternità, della liber-tà creativa, della gioia, della pace, della relazione, della ricon-ciliazione degli uomini e delle cose. A differenza della spiri-tualità che si viveva comunemente ai suoi tempi, egli non ha separato il mondo spirituale da quello materiale e, di certo, non guardava la Terra dall’alto al basso, come una realtà priva della presenza di Dio; ma, come specifica san Bonaventura - principale interprete della sua teologia spirituale - l’itinera-rio parte dalle creature per giungere al Creatore. Francesco si rapportava a tutte le cose create – viventi o inanimate – come parte integrante della teologia terrestre. Il Cantico delle crea-ture, composto alla fine della sua vita, ne esprime in maniera unica e poetica la sua spiritualità. Francesco amava il Creato ma non era un “ambientalista” nel senso moderno del termi-ne. Forse la peculiarità che più lo distingue è il rivolgersi ad elementi del Creato chiamandoli “fratello” e “sorella”, rivelan-do quanto profonda sia la sua connessione con il mondo cre-ato. Ha fissato lo sguardo nel sole, nella luna e nelle stelle, ha dialogato con il fuoco, ha provato meraviglia per l’acqua e ha accarezzato la terra. Il Cantico è una celebrazione dell’amore di Dio in tutto il creato. Esso svela il riconoscimento da parte

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di Francesco del Creato come espressione dell’amore generoso di Dio. Tutte le cose create sono segno e rivelazione (sacra-mento) del Creatore, che lascia un segno divino dappertutto. E per questa ragione il creato ha un valore intrinseco. Esso ha un’interiorità non per il suo valore materiale o strumentale per gli uomini. ma per il fatto di essere stato creato da Dio. Questa è vera saggezza ecologica. Ecco perché il creato – come sottolinea l’enciclica – è tutto in relazione. E da qui discende l’assunto del pensiero della Scuola francescana dell’interdipendenza tra tutte le creature e della corresponsabilità collettiva per il destino comune della Madre Terra e dell’umanità.

Il cuore e la proposta dell’enciclica Laudato sì consiste nell’e-cologia integrale come nuovo paradigma di giustizia; un’eco-logia “che integri il posto specifico che l’essere umano occupa in questo mondo e le sue relazioni con la realtà che lo circon-da” (n. 15). Infatti, non possiamo “considerare la natura come qualcosa separato da noi o come una mera cornice della nostra vita” (n. 139). Questo vale nella politica come nell’economia, nelle istituzioni come nella cultura, nelle questioni antropolo-giche come in quelle ecologico-sociali. Così “l’analisi dei pro-blemi ambientali è inseparabile dall’analisi dei contesti uma-ni, familiari, lavorativi, urbani, e dalla relazione di ciascuna persona con se stessa” (n. 141).

Naturalmente, il lungo testo (246 paragrafi divisi in sei capi-toli) contiene molti assi tematici4, affrontati da una varietà di prospettive diverse che, se da un lato, gli conferiscono una unità di senso e di intenti e di analisi compiuta, dall’altro, possono dare adito ad un certo dibattito tra economisti e so-prattutto da parte di lettori o commentatori non abituati al lessico, all’impostazione epistemologica ed al criterio storico-critico-ermeneutico e di proposta della dottrina sociale della Chiesa, che da oltre centoventi anni segue, interpreta e valuta – “esperta in umanità” – le vicende umane e gli sviluppi so-cio-economici del mondo5. Tra gli assi portanti dell’enciclica, si segnalano: “l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del

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pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica i8nter-nazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita” (n. 16).

L’insegnamento degli ultimi tre Papi sul tema dell’ecologia è stato continuo, a cominciare dalla Giornata mondiale della Pace del 1990: “Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato”. Negli ultimi anni della sua vita, Giovanni Paolo II ha collegato in modo ancora più esplicito la preoccupazione ecologica con i principi della Dottrina Sociale della Chiesa, affermando che la prosperità umana è di altrettanto vitale importanza della pro-sperità fisica del Creato. Il “grido della terra” non può essere separato dal “grido dei poveri”. La sua continua affermazio-ne dell’importanza del principio di “solidarietà”, con il rico-noscimento dell’ineluttabile interdipendenza umana, si sono dimostrate compatibili sia con la visione di Francesco che con quella di una più vasta consapevolezza ecologica.Da quel momento espressioni quali “vocazione ecologica”, “vocazione del difendere e del custodire” e “conversione eco-logica” entrano a pieno titolo nel vocabolario della dottrina sociale della Chiesa, respingendo l’accusa mossa al cristiane-simo di aver legittimato – sulla base di una lettura riduttiva delle prime pagine della Scrittura (Gen 1-3) – lo sfruttamento della creazione.

L’attenzione all’ecologia umana è stato uno dei temi centrali dell’insegnamento di Benedetto XVI. Egli ha scritto nellaCaritas in veritate (2009): “La Chiesa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l'acqua e l'aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere soprattutto l'uomo contro la distruzione di se stesso” (n. 51). Egli ha anche sottolineato che: “Accanto

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all'ecologia della natura c'è dunque un'ecologia che potremmo dire “umana”, la quale a sua volta richiede un'“ecologia sociale”. E ciò comporta che l'umanità, se ha a cuore la pace, debba tenere sempre più presenti le connessioni esistenti tra l'ecologia naturale, ossia il rispetto della natura, e l'ecologia umana. L'esperienza dimostra che ogni atteggiamento irrispettoso verso l'ambiente reca danni alla convivenza umana, e viceversa. Sempre più chiaramente emerge un nesso inscindibile tra la pace con il creato e la pace tra gli uomini” (Messaggio per la giornata mondiale della Pace del 2007).Per quanto concerne il modello ecologico, papa Francesco nel-la enciclica Laudato sì pone due punti fermi:

1) Ecologia integrale contro ogni parzialità dell’ambientali-smo, che, pur amico della natura, si mostra nemico dell’uo-mo.2) Il vero spirito ecologistico sostiene la difesa e la tutela della natura, ma mette in guardia contro qualunque ideo-logizzazione e idolatrizzazione di essa. L’uomo è custode responsabile della natura, ma assolti i suoi doveri di tutela, ha su di essa anche i diritti di viverne, sfruttandola con ri-spetto e con razionalità: il che vuol dire che ha tutti i diritti di intervenire su di essa secondo la sua scienza e i suoi in-teressi. Dicendo che “sora nostra madre terra…ne sustenta e ne governa”, egli indica – con san Francesco - che una rispettosa e razionale gestione della natura è legittima. Quindi, nessuna divinizzazione panteistica.

Su questa linea si inserisce anche la frase “…è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita” ( n. 193). Non si tratta di una accettazione – come da più parti si è scritto – della teoria della “decrescita felice” di Serge Latouche6 o del “principio di responsabilità” di Hans Jonas7, ma di un invito a “corregge-re” le “disfunzioni” e le “distorsioni” dell’economia, definendo il progresso come “uno sviluppo tecnologico ed economico” che se non realizza un mondo migliore e una qualità della vita “integralmente superiore, non può considerarsi progresso”. La crescita deve essere “sostenibile”, compatibile e soddisfa-cente8.

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Il pensiero di Papa Francesco, quindi, è in continuità con l’enciclica Caritas in veritate. Benedetto XVI riconosceva una certa analogia tra il meccanismo di creazione di bene comune incentrato sul mercato. L’interesse per la felicità individuale – quando ben ordinato e regolato – contribuisce anche al bene comune, creando, tra l’altro, legami forti tra le persone: fami-glia, imprese, lavoratori, comunità9.

Ma Papa Francesco, in continuità con la Caritas in veritate, va oltre: invita a riporre l’amore cristiano, che è essenzialmente reciprocità, gratuità e dono, nella sfera pubblica. Non sono, infatti, il contratto o il mercato o i meccanismi di produzione che di per sé disumanizzano e distruggono il legame sociale, ma il voler pretendere di costruire la vita economica e civi-le sul solo mercato e su queste strutture. Per questo occorre approfondire e declinare meglio il principio di sussidiarietà. L’enciclica di Benedetto XVI Deus caritas est (25 dicembre 2005) indica la strada da percorrere: “Non faccia il contratto ciò che può fare l’agape”. E l’agape agisce nella sfera economi-ca e civile con la gratuità: consente al contratto di divenire strumento di libertà e di uguaglianza, e all’amicizia di fiorire in fraternità universale. Il mercato non è in continuo conflitto con il dono, ma entrambi possono diventare alleati. “Quan-to più ambedue, pur in dimensioni diverse – afferma la Deus caritas est – trovano giusta unità nell’unica realtà dell’amore, tanto più si realizza la vera natura dell’amore” (n. 7).

Ecco perché la giustizia ecologica - secondo l’enciclica di Papa Francesco Laudato sì – è un “segno dei tempi”: guardare alla Terra come dono e casa comune senza pretendere di impos-sessarsene, scoprendo, come san Francesco, in ogni cosa il ri-flesso del Creatore e in ogni persona la sua immagine vivente.

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1 Cfr. G. BATAILLE, Il dispendio, Armando Editore, Roma 1997.2 Nel XII e XIII secolo, infatti, erano gli uomini a temere la natura e le sue manifestazioni incontestabili, e non viceversa. La situazione si è capovolta negli ultimi due secoli, prima con l’industrializzazione senza regole e poi con l’insinuarsi di una mentalità di iperconsumismo individualizzato.3 Vita prima, in “Fonti Francescane”, Assisi 1977, n. 37, p. 442.4 Per una guida autorevole e completa alla lettura dell’enciclica, cfr. i com-menti di A. SPADARO, L. LARIVERA, D. FARIS, in “Civiltà Cattolica”, III (2015)3 –22; 23 – 34; 35- 49. 5 Non è fuori luogo accennare all’ermeneutica marxista sul Medioevo, che analizza il periodo secondo i criteri solamente sociologici. Francesco ne esce come il precursore dello spirito anticapitalista che propaganda la nullate-nenza. Egli corrisponde al nuovo ideale proletario. Alla tendenza medievale di estraniarsi dal mondo, egli contrappone l’affermazione dei valori della materia. Gli epigoni dei romantici del XIX secolo venerano, invece, in Fran-cesco il precursore di Rousseau. Egli è l’amico della natura sempre lieto e sereno, che ama la creazione e non ha problemi con il creato, che diventa la pedagogia dell’amore del Creatore verso le creature. Papa Francesco, nell’en-ciclica, legge tutto in chiave di “popolo”, non più di “classe”.6 Breve trattato sulla decrescita felice, Bollati Boringhieri, Torino 2008 7 Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, To-rino 1990. 8 La crescita quantitativa è un sistema capitalistico che persegue una cresci-ta illimitata, la crescita qualitativa, che non significa bloccare la crescita – il che significherebbe bloccare la vita delle persone e della società – presuppo-ne la decisione dei popoli su cosa deve crescere e cosa invece deve bloccarsi o decrescere. Essa si basa sullo sviluppo sostenibile e sul rispetto dell’unità inscindibile tra uomo e natura. L’obiettivo è la creazione di una società ispi-rata ai principi di sostenibilità, equità e pace.9 La scienza economica sul tema del bene comune si confronta con un pa-radosso. Da una parte, essa nasce nel Settecento con un forte legame con l’idea di bene comune. Infatti, sia Adam Smith in Scozia sia Antonio Geno-vesi in Italia concepivano l’economia al servizio del bene comune: rispetti-vamente crescita della ricchezza delle nazioni, realizzazione della pubblica felicità attraverso le virtù civili. Oggi il concetto di bene comune – sia della tradizione classica, sia di quella cristiana in cui l’attenzione era riposta non sui beni, ma sulle persone – è stato sostituito da “bene pubblico”, centrato

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Note

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sulle cose materiali

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AgoràGiuseppe Rusconi - Laudato si’: alcune considerazioni di Mons. Mario Toso

alcune considerazioni di Mons. Mario Tosodi Giuseppe Rusconi,www.rossoporpora.org

Ampia intervista al vescovo salesiano, fino a pochi mesi fa segre-tario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace – Sviluppi e particolarità di un’enciclica complessa nella sua articolazione e ricca di novità – L’obiettivo di papa Francesco? Farsi promotore di un movimento ecologico globale per la cura universale della casa comune.

Il vescovo che siede al tavolo con noi è un esperto riconosciuto di dottrina sociale della Chiesa. Il sessantacinquenne monsignor Mario Toso, oggi pastore di Faenza-Modigliana, è stato rettore dal 2003 al 2009 della Pontificia Università Salesiana, poi fino al gennaio di quest’anno segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, il dicastero incaricato della prima stesura di “ Laudato si’ …

Monsignor Toso, oggi Lei è vescovo di Faenza-Modiglia-na, ma dal 2003 al 2009 è stato rettore della Pontificia Università Salesiana e dal 2009 fino a pochi mesi fa se-gretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Proprio il dicastero che ha lavorato alla stesura

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della prima bozza del documento magisteriale. Dunque ha le carte in regola per parlare di un’enciclica che da più parti viene definita ‘ecologica’…

Sì, ma la definizione va intesa nel senso che essa pone al centro della questione sociale la crisi ambientale, crisi complessa, che non si riduce ai problemi ecologici disgiunti da altri proble-mi rilevanti, concernenti più propriamente l’ecologia umana. Questa enciclica, in sostanza, evidenzia sì come la questione sociale sia caratterizzata dalla salvaguardia dell’ambiente ma sottolinea anche che urge la cura della stessa umanità. Detto altrimenti, si è di fronte ad una questione ecologica globale che postula come soluzione un’ecologia integrale.…

Ci spieghi come si traduce concretamente quell’ ‘inte-grale’…

Come appena detto, la crisi ecologica che oggi viviamo è rela-tiva non solo agli aspetti strettamente ambientali, che afferi-scono alla custodia del Creato e delle specie, ai cambiamenti climatici, alle risorse e alle energie rinnovabili, ma anche agli aspetti culturali, antropologici, etici, religiosi connessi, allo sviluppo dell’esistenza umana. A tale crisi occorre rispondere con la promozione di un’ecologia integrale, che si estende e concretizza non solo sul piano della protezione dell’ambiente naturale, delle specie animali e vegetali, della lotta al surri-scaldamento del clima, del rifiuto dell’utilizzo indiscrimina-to e illimitato delle risorse naturali, ma anche sul piano della conversione ecologica, del cambiamento degli stili di vita, del-la cura degli ambienti urbani, dei rapporti sociali, dell’educa-zione.

L’enciclica, se per alcuni sembra avere in alcune sue parti un afflato sostanzialmente ‘peronista’ (un’aria che Francesco ha respirato da giovane), per larghi tratti appare secondo altri come un manifesto del partito eco-logista universale (pur con distinguo di non poco conto, ad esempio in materia di diritto alla vita), in ogni caso

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rivolta più ad extra che ad intra…

In effetti, l’enciclica, così come ci viene presentata oggi mostra un volto diverso rispetto a quello della prima bozza, che pre-vedeva una lunga introduzione di carattere teologico, liturgico e sacramentale, spirituale… Se fosse rimasta l’impostazione iniziale, l’enciclica si sarebbe indirizzata più immediatamente al mondo cattolico. Papa Francesco, invece, ha preferito cam-biare tale impostazione, spostando al centro e alla fine la par-te ‘teologica’, nonché quella relativa alla spiritualità e all’edu-cazione. In tal modo, ha «ristrutturato» il materiale messogli a disposizione, disponendolo secondo un metodo di analisi e di discernimento, implicante la considerazione della situazione, una sua valutazione e la prefigurazione di indicazioni pratiche di avvio alla soluzione dei problemi. Ha così desiderato coin-volgere il maggior numero di lettori, anche i non credenti, in un ragionamento in larga parte condivisibile da tutti.

Perché papa Francesco ha voluto la modifica, che non è di poco conto?

L’obiettivo del Papa, come emerge sin dalle prime battute dell’enciclica, è quello di farsi promotore di un movimento ecologico globale per la cura universale della casa comune…

In sé non si può definire un obiettivo compreso in quelli della Dottrina sociale della Chiesa…

Papa Francesco si è ispirato alla metodologia in parte inaugu-rata dall’enciclica ‘Pacem in terris’ di Giovanni XXIII…

C’è una differenza non irrilevante: Giovanni XXII II si rivolgeva a ‘tutti gli uomini di buona volontà’, mentre Francesco estende il numero dei destinatari dell’enci-clica a “ogni persona che abita questo pianeta”…

Il Papa desidera avviare un processo di trasformazione delle culture di tutti i popoli, delle loro istituzioni, un processo che

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coinvolge tutte le persone, indipendentemente dal colore del-le loro convinzioni. Nella prima parte dell’enciclica il Pontefi-ce privilegia un approccio di tipo razionale, senza escludere però la luce della fede. E’ bene ribadirlo: per papa Francesco, la soluzione della crisi ecologica deriva sia dall’apporto dei cre-denti sia dall’apporto dei non credenti, dalla scienza e dalla religione. Le soluzioni non vengono da un unico modo di in-terpretare e trasformare la realtà.

Non si rischia facendo così di perdere un po’ di vista la cornice teologica indispensabile a illuminare la via da percorrere?

No, l’adozione di questo metodo non esclude lo sguardo teo-logico, che resta presente pur non in primo piano, in ogni mo-mento, come esigerebbe un’enciclica prettamente teologica.

A tratti si può avere l’impressione, radicata in diversi critici soprattutto statunitensi, che il Papa voglia inse-gnare agli scienziati il loro mestiere…

Il Papa non ha desiderato parlare della questione ambientale solo in termini di grandi principi teologici e filosofici, per non finire nell’astrattezza. Ha voluto arricchire la sua riflessione anche utilizzando diversi risultati di studi scientifici sulle que-stioni ambientali contemporanee. È chiaro che, mentre si è servito dei risultati oggi più condivisi, non ha inteso canoniz-zarli e imporli agli studiosi. Più che altro gli è premuto presen-tarne una interpretazione dal punto di vista antropologico ed etico. Tutti sanno che molti risultati oggi ritenuti «scientifici» non sono irrefutabili, incontrovertibili. L’insegnamento dei Pontefici impegna la propria autorevolezza sul piano morale, che è il piano corrispondente alla loro competenza etica e re-ligiosa.

Però di temi scientifici concreti, con altrettanti sugge-rimenti, nell’enciclica ce ne sono tanti… basti pensare a uno dei più clamorosi e controversi, quello legato all’as-

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serito riscaldamento del pianeta…

Mi permetto di insistere: ciò che intende fare papa France-sco non è tanto ribadire la pregnanza scientifica dei moltepli-ci risultati degli studi e dei dibattiti contemporanei che egli assume, quanto piuttosto fare delle riflessioni sulle questioni antropologiche ed etiche che essi implicano. La Chiesa non ha competenze sul piano tecnico e scientifico, però su quello di una dimensione antropologica ed etica della fenomenologia scientifica, sì.

In alcuni passi, si osserva, l’enciclica sembra avere de-gli accenti vagamente panteistici. Ad esempio in passi come questo: “Lo scopo finale delle altre creature non siamo noi. Invece tutte avanzano, insieme a noi e attra-verso di noi, verso la meta comune, che è Dio”…

Però ce ne sono altri, in cui papa Francesco si riallaccia in pie-no agli insegnamenti della ‘Caritas in Veritate’ di Benedetto XVI, mutuando l’interpretazione data in quella grande enci-clica circa il rapporto uomo e natura. Come Benedetto, papa Francesco giunge a precisare che l’uomo non può essere posto su un piano di pari dignità con le altre creature. L’uomo nel Creato ha una preminenza sugli altri esseri che gli deve essere riconosciuta. Ma preminenza non significa predominio dispo-tico, che – come dimostra la nostra era – si tramuta poi in un grave danno per l’umanità intera.

Sei punti dell’ultimo capitolo sono dedicati alla ‘con-versione ecologica’: in che cosa consiste?

‘Conversione ecologica’ è un’espressione che viene utilizzata in un contesto di approccio globale alla questione ecologica. Certo l’espressione può indurre in equivoco, ma non bisogna fossilizzarsi troppo sulla singola parola e sulla singola espres-sione, prescindendo dal contesto…

Però la parola del Magistero di un Pontefice non do-

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vrebbe essere soggetta ad equivoci…

L’espressione ‘Conversione ecologica’ non va presa a sé. Essa presuppone sempre nell’uomo una precedente e precisa con-versione religiosa nei confronti di Dio. Solo dopo tale prima conversione emergono tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni col mondo e si è in grado di parlare di ‘conversione ecologica’.

Nell’enciclica di quasi 200 pagine si parla di ecologia integrale, ma in realtà le righe dedicate al diritto alla vita, alla famiglia, all’educazione sono assai poche in confronto alle pagine riservate agli altri temi antropo-logici. Ad esempio quella che Benedetto XVI, nel discor-so del dicembre 2012 alla Curia Romana definiva come la maggiore insidia per la Chiesa, cioè l’ideologia gen-der, non è neanche citata per nome e viene ricordata molto indirettamente solo nel mezzo del punto 155…

E’ vero che nell’enciclica si accenna ai temi da Lei citati in ma-niera succinta. Si poteva dare ad essi un’attenzione più ampia. Ma in un’enciclica già lunga.. Da vari passi, comunque, emer-ge in modo chiarissimo che anche per questo Pontefice l’etica ambientale è strettamente congiunta all’etica sociale, della vita, della famiglia.

Nell’enciclica si dà ampio spazio alle caratteristiche della vita urbana… una novità…

La considerazione di un’ecologia integrale non poteva non rvi-denziare l’importanza dell’interrelazione tra gli spazi urbani e rurali e il comportamento umano. Effettivamente nella co-struzione delle nuove città, nella progettazione di edifici e di quartieri non si mette ancora sufficiente impegno. Non basta ricercare la bellezza in sé dei progetti, senza tener conto della qualità della vita delle persone, la loro armonia con l’ambien-te, dell’incontro e l’aiuto reciproco.

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C’è chi ha l’impressione, dopo aver letto l’enciclica, che il suo autore con la mente e con il cuore sia restato so-stanzialmente nelle ‘villas miserias’ di Buenos Aires…

E’ vero che l’enciclica conferma l’attenzione preminente di questo Pontefice nei confronti degli ultimi e dei più poveri. Egli lancia un grido di allarme a partire dai più poveri, poiché sono proprio i primi a soffrire, e nel modo più grave, se l’am-biente continua a degradarsi. Questa attenzione particolare agli ultimi della Terra ci offre un angolo nuovo di prospettiva. Ci stimola a guardare alla questione ambientale in un modo diverso da quello cui siamo abituati: e cioè non solo pensando agli aspetti di tipo tecnico-economico-scientifico, ma in primo luogo a quelli relativi alla dignità della vita umana e alla quali-tà della sua esistenza.

Per finire: nell’enciclica si ritrovano tante affermazioni o proposte che faranno molto discutere. Per tutte ci-tiamo questo passo (numero 193 dell’enciclica): “Sap-piamo che è insostenibile il comportamento di coloro che consumano o distruggono sempre più, mentre altri ancora non riescono a vivere in conformità alla propria dignità umana. Per questo è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procu-rando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti”…

Si tratta di considerazioni chiare e coraggiose allo stesso tem-po. Anche in questo caso il Pontefice non è fautore di forme pauperistiche di vita o di proposte di decrescita insensate, che disprezzano il progresso scientifico e l’indispensabilità dello sviluppo tecnico ed economico. Egli invita, piuttosto, a mirare ad una crescita che non sia riservata solo a pochi e, inoltre a contemperare la crescita economica con il progresso sociale di tutti. Prospettive queste che sono maggiormente comprensi-bili a coloro che credono nel bene comune e nella destinazione universale dei beni, oltre che in una fraternità universale. Per-ché vi sia una libertà economica della quale tutti possano ef-

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fettivamente beneficiare, alcune volte potrà essere necessario, annota papa Francesco, porre limiti a coloro che detengono più grandi risorse e potere finanziario. Nel passato questo è stato anche realizzato mediante la riforma del latifondo. Non si vede come oggi non si possa realizzare qualcosa di analogo con riferimento all’uso indiscriminato ed illimitato specie del-le risorse non rinnovabili.

P.S. L’intervista, in versione originale su www.rossopor-pora.org, appare in traduzione inglese nel prossimo nu-mero della rivista cattolica statunitense ‘Inside the Va-tican’ e in forma lievemente ridotta per ragioni di spazio nell’edizione odierna del ‘Giornale del Popolo’, quotidiano cattolico della Svizzera italiana.

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AgoràLucio Franzese -

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di Lucio Franzese,Università di Trieste

Laudato si’ tematizza il riconoscimento del bene comune in materia ambientale, in quella che il sottotitolo della lettera enciclica, che papa Francesco ha inviato lo scorso 24 maggio in occasione della Solennità di Pentecoste, ci ricorda essere la nostra casa comune.

Tra i molteplici motivi d’interesse, si potrebbe tentare qualche spunto di riflessione sulle criticità che l’Enciclica denunzia ri-guardo alla fruizione smodata del creato da parte del singolo e sulla neghittosità delle istituzioni nel reagire all’abuso delle risorse ambientali.

Saliente è l’esempio addotto da papa Francesco sull’uso dei condizionatori d’aria (par. 55), che aumenta di estate in esta-te, senza che il singolo si ponga il problema delle sue ripercus-sioni sullo stato di salute dell’ambiente: l’unica cosa che conta è soddisfare pienamente il bisogno individuale senza alcuna considerazione per gli altri abitanti della casa comune!

Speculare all’egoismo individuale è quello degli Stati, “che pri-vilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune

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globale” (par. 169) e all’Enciclica non rimane che registrare il “fallimento dei Vertici mondiali sull’ambiente” (par. 54).

Esemplare è la vicenda del Protocollo di Kyoto con cui la que-stione dell’emissione dei gas serra, ritenuta una delle cause principali dell’inquinamento atmosferico, è stata per la prima volta affrontata a livello globale, mediante un accordo stipu-lato da gran parte degli Stati. L’accordo, oltre all’obbligo di ri-durre percentualmente in un arco di tempo determinato le emissioni di anidride carbonica, prevede la possibilità di com-pensare, sia all’interno del singolo Stato, sia nell’arena inter-nazionale, comportamenti dannosi con quelli ecocompatibili. Con la conseguenza di prefigurare un gioco a somma zero e, soprattutto, deresponsabilizzante, in quanto per mettersi in regola ci si può limitare ad acquistare i certificati attestanti la produzione di energia da fonti rinnovabili, con cui legittimare la propria condotta che, invece, può bellamente violare l’eco-sistema, essendosi solo muniti della patente legale per farlo. Si è parlato di tutela dell’ambiente a mezzo del mercato, nel senso che per affrontare il problema ambientale si è pensa-to di ricorrere alla logica dello scambio economico. In realtà, come rileva l’Enciclica, la compravendita dei cd. certificati ver-di “può dar luogo a una nuova forma di speculazione e non servirebbe a ridurre l’emissione globale dei gas inquinanti” (par. 171). Difatti chi inquina, può continuare a farlo, men-tre chi non inquina può vendere la certificazione del proprio comportamento virtuoso –nel senso di non essere emettitore di gas oltre i limiti stabiliti dal Protocollo- a chi virtuoso non è. Prodigi del formalismo politico e giuridico viene naturale di pensare allo studioso dei fenomeni sociali.

Trattandosi poi di un accordo internazionale, negoziato dai ti-tolari della sovranità, è accaduto che alcuni di essi, quelli in cui la sovranità formale corrisponde a quella sostanziale, nel sen-so di “non dipendere da nessuno se non dalla propria spada”, secondo l’icastica definizione della figura del sovrano coniata da Bodin, non hanno sottoscritto il Protocollo di Kyoto ovve-ro non lo hanno ratificato, mantenendosi “le mani libere”, per

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dirla con l’altrettanto efficace formula hobbesiana della sovra-nità. Salvo, poi, a giustificazione del proprio operato, afferma-re che la questione ambientale non va affrontata imponendo limitazioni e vincoli ai processi produttivi, con l’effetto di de-primere la sfera economica, bensì spingendo sull’innovazione per giungere a delle tecniche che riducono l’emissione dei gas inquinanti senza compromettere la produzione industriale. E’ la posizione degli Stati Uniti, dell’Australia e delle nuove Potenze economiche quali la Cina, l’India, il Brasile che, riven-dicando un diritto allo sviluppo economico, sono stati esenta-ti dal ridurre le emissioni di anidride economica, pur avendo sottoscritto il Protocollo.

All’accordo, firmato da più di 160 Stati, è seguita tutta una serie di dichiarazioni, conferenze, convegni in cui politici ed esperti si sono esercitati, di volta in volta, in previsioni cata-strofiche ovvero rassicuranti sullo stato dell’ambiente, tutte però accomunate da una prospettiva economicistica, nel senso che il problema viene affrontato con riguardo alla prevedibile durata delle risorse naturali del pianeta, contando esclusiva-mente sull’apporto della scienza per prolungarne la durata. Di qui la denuncia del paradigma tecnocratico, contenuta nell’En-ciclica, di una prospettiva che, fondandosi sul sapere scienti-fico, e quindi nella capacità dell’uomo di dominare e padroneg-giare il creato, esclude la necessità di rimettere in discussione il rapporto di appropriazione che l’uomo moderno ha instau-rato con esso per chiedersi, invece, quale contributo il singolo può dare per la conservazione e valorizzazione dell’ecosistema cui egli appartiene.

“E’ possibile, tuttavia, - sostiene l’Enciclica - allargare nuova-mente lo sguardo, e la libertà umana è capace di limitare la tecnica, e di aiutarla, e di metterla al servizio di un altro tipo di progresso, più sano, più umano, più sociale e più integra-le” (par. 112). Invero il “problema ecologico non è meramente economico e tecnologico, ma è di ordine morale e spirituale. Si può trovare una soluzione a livello economico e tecnologico solo se, nell’intimo del nostro cuore, avverrà un cambiamento

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quanto più possibile radicale”, come si legge nella Dichiarazio-ne congiunta di Giovanni Paolo II e del Patriarca ecumenico Bartolomeo I, collegati via satellitare il 10 giugno 2002, a con-clusione del Quarto simposio internazionale e interreligioso.

Si tratta di far maturare una coscienza della responsabilità indi-viduale nei confronti dell’ambiente, fondata sulla consapevo-lezza del nesso inscindibile tra autentica realizzazione umana e salvaguardia del creato, anche per consentirne la fruizione da parte delle generazioni future in modo che anch’esse di-spongano del campo nel quale disputare la loro partita mon-dana.

Oggi, con la lettera enciclica Laudato sì, il Pontefice si propo-ne “specialmente di entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune” (par. 3), convinto com’è che “l’autentica umanità, invita a una nuova sintesi”(par. 111). Umanità che in materia ambientale si esprime in quelle buone pratiche che, pur nel degrado diffuso, si sono affermate in varie parti del globo, e con le quali il singolo si autodetermina, individuando quanto è necessario al suo benessere, in concomitanza a quel-lo della comunità locale di appartenenza fino a quella globale e, così facendo, riconosce il bene comune che classicamente non è che il riconoscimento in comune del bene, che consen-te a ciascuno la sua integrale realizzazione senza pregiudicare quella altrui.

Del resto l’Enciclica sottolinea che, “mentre l’ordine mondia-le esistente si mostra impotente ad assumere responsabilità, l’istanza locale può fare la differenza” (par. 179). L’attitudi-ne generale a una condotta disciplinata e, quindi, nel caso di specie rispettosa dell’ambiente, infatti, non può avere altra scaturigine se non quella, seppure esigua e sicuramente pre-caria, dell’autonomia soggettiva, quale capacità del singolo di essere regola a se stessi, ed è solo facendo leva su di essa che si diventa consapevoli che “la struttura politica e istituzionale non esiste solo per evitare le cattive pratiche, bensì per inco-raggiare le buone pratiche, per stimolare la creatività che cer-

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ca nuove strade, per facilitare iniziative personali e collettive” (par. 147).

Si tratta, in ultima analisi, di revocare in dubbio la dicotomia tra privato e pubblico che, elaborata dal pensiero giuridico e politico moderno, presuppone il singolo come soggetto ano-mico, in quanto proteso esclusivamente al proprio tornacon-to, per cui per relazionarsi con l’altro deve affidarsi allo Stato sovrano, quale unica fonte di ordine delle relazioni intersog-gettive. Uno Stato che eteronomamente, impiegando tutta la capacità di condizionamento di cui è capace, riesce a controlla-re dei soggetti assunti ipoteticamente come delle monadi, in quanto tali incapaci di autoregolarsi. Con la conseguenza che il problema ambientale, del pari di ogni altra questione atti-nente alla convivenza umana, vede il singolo come mero cen-tro d’imputazione delle decisioni assunte dal titolare del po-tere, che a suo arbitrio impone la condotta che il singolo deve tenere nei confronti dell’ambiente naturale, il quale come ogni altro bene dell’associazione societaria sarebbe nell’assoluta di-sponibilità del sovrano di turno, con le conseguenze nefaste lucidamente evidenziate dall’Enciclica.

Di fronte alle aporie della prospettiva moderna, il quesito es-senziale posto dall’Enciclica e l’indicazione che si premura di fornirci si lasciano cogliere in tutta la loro portata dirompen-te. “Qual è il posto della politica?”: si chiede il Santo Padre, richiamando al riguardo “il principio di sussidiarietà, che con-ferisce libertà per lo sviluppo delle capacità presenti a tutti i livelli, ma al tempo stesso esige una responsabilità verso il bene comune da chi detiene il potere” (par. 196).

Il processo di decostruzione della modernità trova nel prin-cipio della sussidiarietà, elaborato dalla Dottrina sociale della Chiesa e portato in auge dai laici redattori del Trattato di Ma-astricht, un elemento formidabile che revoca in dubbio sia l’i-dea del singolo come individuo, sensibile soltanto al proprio particulare, sia quella dello Stato come sovrano, cioè sogget-to assoluto che non deve rendere conto delle proprie azioni,

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affidandosi la sua legittimazione soltanto sul controllo che i riesce ad esercitare su una società assunta come amorfa e bisognosa di essere guidata “dalla culla alla bara”. Soltanto in questa rinnovata prospettiva, che recupera l’autentica antro-pologia umana e configura le istituzioni in una posizione sus-sidiaria nei confronti dell’autonomo operato della persona, potrà essere perseguita la cura della casa comune.

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AgoràGiuseppe Notarstefano -

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di Giuseppe Notarstefano, Università di Palermo

“È fondamentale cercare soluzioni integrali, che consideri-no le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali (139)” L’interno impianto dell’Enciclica muove da un esigente ed arioso punto di vista, un vero e proprio paradig-ma che viene sviluppato attraverso un invito a recuperare una visione integrale, diremmo meglio “olistica” , della complessa e fitta tessitura di relazioni che emerge da uno sguardo in-trinsecamente contemplativo del mondo, riconosciuto come Creato uscito dalle mani di un Creatore per un puro e infinito atto di Amore. Accostarci ad esso c’impegna, come credenti in particolar modo, ad assumere uno sguardo che vada “al di là dell’immediato” (36) e che non si limiti a rappresentarlo attra-verso riduzionismi di natura funzionalistica o tecnologica (il termine utilizzato dal pontefice è il più pregnante “tecnocrati-co” che evoca un vero e proprio schema di potere, esito di una combinazione tra agire umano strumentale ed efficientismo utilitarista).Egli suggerisce una ormai non rinviabile “ coraggiosa rivolu-zione culturale(114) che operi una “nuova sintesi (113) tra i diversi approcci disciplinari, non rassegnandosi allo speciali-smo, alla sua frammentazione (108) ed al suo settorialismo

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(110), ma che promuova un vero dialogo interdisciplinare (6; 197).Pertanto il papa si propone di “assumere i migliori frutti della ricerca scientifica oggi disponibili (15) riconoscendo il valore e la ricchezza degli esiti e degli avanzamenti nei diversi cam-pi della conoscenza in vista di un discernimento sulle gravi questioni ambientali che riguardano oggi la vita dell’uomo sulla terra “per lasciarsi toccare in profondità e dare una base di concretezza (ivi) che si dischiude a quello che egli stesso definisce un percorso “etico e spirituale”. La scienza che non rinuncia a cercare ed offrire soluzioni alle grandi questio-ni dell’umano e dell’ambiente dovrà “necessariamente tener conto di tutto ciò che la conoscenza ha prodotto nelle altre aree del sapere, comprese la filosofia e l’etica sociale (110)”La crisi, quella ambientale come quella economica, ha profon-de radici spirituali e culturali, che si connettono ai processi di individualismo economicistico, al rischio di dominanza tecno-cratica e alla crisi dei meccanismi di regolazione e di forma-lizzazione istituzionali derivanti da una debolezza crescente della politica a tutti i livelli.L’orizzonte è la custodia e la cura della casa comune, il ricono-scimento di un destino comune dell’umanità, reso più eviden-te dal processo di fitta interrelazione ed interconnessione tra i sistemi socioeconomici e politico-istiuzionali che identifichia-mo con il termine globalizzazione. Tale processo – come già aveva affermato Benedetto XVI nella Caritas in Veritate può essere maggiormente favorito da “un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza del pro-cesso di integrazione planetaria (42).Una prospettiva globale, generata da un tale ispessimento e infittimento delle relazioni tra persone, organizzazioni, isti-tuzioni e sistemi territoriali, richiede una nuova fondazione etica e culturale che assuma come fondativo il valore e la cen-tralità della persona ed il suo essere baricentro di equilibrate ed armoniose relazioni.Francesco integra e sviluppa una simile prospettiva, affer-mando l’urgenza di “non tralasciare di considerare gli effetti del degrado ambientale dell’attuale modello di sviluppo e della

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cultura dello scarto sulla vita delle persone (43) così come il sentirci obbligati “ a pensare a un solo mondo e ad un progetto comune (164)”. “Tutto è in relazione, e tutti noi esseri umani siamo uniti come fratelli e sorelle in un meraviglioso pellegri-naggio, legati dall’amore che Dio ha per ciascuna delle sue cre-ature e che ci unisce tra noi, con tenero affetto, al fratello sole, alla sorella luna, al fratello fiume e alla madre terra (92)” . Le relazioni che si aprono alla visione trascendente, al riconosci-mento dell’Autore della vita e, unitamente, a quello del limite e della finitezza, esperienza profondamente creaturali, diven-ta fraternità e sororità (228), accoglienza reciproca dell’altro, degli altri, dei beni e di ogni elemento naturale. Il principio della fraternità e la sua matrice comunitaria, assume allora il progetto di una nuova civiltà da costruire quotidianamente coniugando contemplazione e custodia delle creature e delle relazioni.In questo breve contributo vorrei raccogliere l’esortazione del Santo Padre a contribuire alla riflessione alla ricerca di nuovi approcci e nuovi modelli per ri-definire il progresso (194) e ripensare lo sviluppo (22), a partire dalla prospettive esigente della cura e della custodia come “nuovo paradigma” ecologico ed economico insieme.

Per una “nuova economia della custodia”

Si tratta di un termine molto iconografico, il cui spessore bi-blico fa subito pensare alle immagini del pastore che custodi-sce il gregge, un termine caro a papa Francesco che lo utilizza sin dall’inizio del suo ministero petrino (116).“Custodire vuol dire proteggere, curare, preservare, conserva-re, vigilare. Ciò implica una relazione di reciprocità responsa-bile tra essere umano e natura (67)”Il primo verbo sottolinea l’idea della tutela e della protezione, suggerisce pertanto l’atteggiamento di difesa dai pericoli che imprime alla responsabilità del custode l’importanza di presi-diare con attenzione il bene custodito.Il secondo verbo s’immerge nella dimensione amorevole e cal-da del prendersi cura e del voler bene, dell’avere a cuore e del

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promuovere il bene altrui tanto a livello personale ed inter-personale che a livello civile e politico (231).Preservare indica la responsabilità a mantenere integro e intatto ciò che si è ricevuto in custodia, a non disperderlo e addirittura perderlo o sciuparlo sia in vista di una fruizione personale sia in vista della condivisione intra-generazionale.Il verbo conservare proietta la fruibilità e i benefici derivan-ti ed ogni possibile equilibrato utilizzo dei beni in una logica di sostenibilità intergenerazionale, non è possibile trattare i beni e le relazioni secondo un modello di sfruttamento egoi-stico e di breve periodo”.Infine, l’ultimo verbo è il vigilare che potremmo rileggere in chiave educativa e spirituale come capacità di tener desta l’at-tenzione verso gli stessi custodi, perché non abbiano a sopirsi o distrarsi dal loro compito non sempre facile.Custodire è, dunque, un verbo “attivo” che prospetta un’azio-ne partecipante e coinvolta della persona, chiamata a mettersi costantemente in relazione con gli altri, con la situazione sto-riche in cui vive, con l’ecosistema che abita.Proviamo a chiederci se esso può anche essere un verbo eco-nomico, ossia se sia possibile coniugare da un lato il dovere di rispettare e mantenere con la necessità di fruire e utilizzare.Si tratta davvero di operare una rivoluzione copernicana nel modo di concepire l’economia , le sue regole interne e i suoi strumenti operativi, a partire dal suo “disimpegno etico” e dalla sua rassegnazione strumentale, per recuperare la sua dimensione eminentemente civile ma anche “politica”: “la po-litica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tec-nocrazia (189)”La crisi finanziaria del 2007-2008 ha rivelato non solo la “ste-rilizzazione finanziaria” delle relazioni economiche (soprat-tutto a livello internazionale), ma ha rivelato la natura specu-lativa e per nulla “liberale” delle regole dettate dalle esigenze dei capitali, sempre più affamati di elevati profitti a breve e brevissimo termine, e indisponibili a sostenere, attraverso in-vestimenti lungimiranti in innovazione, prospettive di cresci-ta produttiva ed occupazionale.

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L’esito più evidente è la crescente disuguaglianza sia a livello della distribuzione primaria tra i fattori della produzione (le quote destinate al lavoro continuano a decrescere) sia a livel-lo di distribuzione secondaria con notevole spiazzamento dei governi che, a loro volta indebitati e vincolati verso gli inve-stitori istituzionali, non riescono a riequilibrare in direzione maggiormente equitative le politiche fiscali e i regimi di pro-tezione sociale.Mentre i mercati finanziari si estendono a nuovi settori, at-traverso meccanismi di privatizzazione e finanziarizzazione delle quote di capitale e sostenuti da imprenditori finanziari tecnicamente preparati e dotai di strumenti molto sofisticati, i mercati delle attività reali soffrono il razionamento del cre-dito e il reperimento di mezzi finanziari per porre in essere investimenti anche ad alto contenuto tecnologico.La logica predatoria di alcuni grandi imprenditori procede sel-vaggiamente nel selezionare mercati in ragione soprattutto delle convenienze relative alle regole del mercato del lavoro e alla possibilità di approvvigionamento di risorse e materie prime : i cosiddetti fattori della produzione vengono acquisi-ti laddove costano poco e le scelte imprenditoriali tendono a neutralizzare, internalizzando se va bene o attraverso costi di transazione di natura più o meno lecita, i vincoli imposti dai regimi di tutela ambientale.A fronte di tale dinamica che riguarda soprattutto le grandi società multinazionali e transnazionali, emerge una nuova generazione di nuovi (giovani) imprenditori che, soprattutto a livello locale recupera un modello imprenditoriale più coe-rente con il paradigma della custodia di cui stiamo parlando.Si tratta di start-up innovative, imprese sociali e piccole coo-perative, nuovi imprenditori agricoli, nuovi imprenditori arti-giani, imprenditori digitali e nuove professionalità del mondo dei media che riorganizzano i propri progetti imprenditoriali in una logica “glocal” che esige un pensiero globale ma un’a-zione locale, rimettendo al centro dell’impresa il proprio la-voro (anche, ma non solo, ad elevato contenuto tecnologico e immateriale) ma anche la capacità di fare rete e di tessere relazioni sia a livello territoriale che internazionale. A soste-

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nere questo “nuovo” soggetto imprenditoriale che – che papa Francesco identifica come l’esito di una strategia combina-ta di “diversificazione produttiva a livello locale e creatività imprenditoriale (129)” - vi sono sia nuovi soggetti bancari e finanziari “etici” che li sostengono attraverso strumenti di microcredito e di microfinanza sia l’emergere di una nuova categoria di consumatori “educati” e cittadini partecipi che, a livello personale o in forma solidale, sostengo nuove modalità di consumo “critico (il “voto con il portafoglio di cui parla l’e-conomica “civile” Leonardo Becchetti).Sono piccoli segni, la cui massa critica sta crescendo in ma-niera incoraggiante sia come forma di resilienza territoriale, sia come ricerca comunitaria di un pluralismo economico e di nuovi modelli di sviluppo alimentanti dalla partecipazione dal basso, e che fanno ben sperare che, come ricorda il pontefice “non esistono sistemi che annullino completamente l’apertu-ra al bene, alla verità e alla bellezza, né la capacità di reagire, che Dio continua ad incoraggiare dal profondo dei nostri cuori (205)”.

Una postilla di Speranza

Una nuova economia della custodia è allora possibile? Noi crediamo di si! Non una ma forse tante nuove economie che abbiano la possibilità di alimentare un nuovo pensiero econo-mico plurale capace di accogliere la sfida ecologica non come un problema di esternalità che vincolano funzione di produ-zione ma come risorsa per strumenti e soggetti economici più creativi, innovativi e che accettino la sfida di produrre meno, ma meglio, non per sé ma per molti altri, per creare valore non nel breve ma nel medio-lungo periodo. Lo diceva il grande pa-dre dell’economia italiana all’inizio del secolo scorso: l’azienda è un istituto atto a perdurare, un concetto ben lontano dalla massimizzazione del profitto che ancora oggi insegniamo nei corsi di microeconomia.

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Famiglia contro Gender nei social Networkdi Francesco De Meo,Esperto di Marketing e Comunicazione

Al grido di “Barabba, Barabba!” anche il mondo della comunicazio-ne, ed in particolare dei social network, dice la sua in una sempre più complicata questione gender contro famiglia, marcata da con-fini molto labili tra etica e buonsenso comune. La folla che esprime a gran voce la nostra più democratica maggioranza, non è sino-nimo né di giustizia né di verità. Per questo è importante capire come la comunicazione possa condizionare la formazione del con-senso della collettività nell’ambito nell’agorà pubblica. Allora dove andare a cercare questa verità ma soprattutto come districarsi in questo intreccio comunicativo come professionisti della comunica-zione, come cattolici impegnati o come semplici padri di figli nativi digitali.

Il tema della famiglia rimane ancora oggi uno dei temi più de-licati sui quali muovere i passi in uno stile politically correct per la maggior parte degli opion leader italiani e per la classe diri-gente politica, che non nasconde spesso una certa incapacità nel gestire situazioni mediatiche partendo dai proclami degni del più classico populismo.

Partiamo infatti dal concetto, difficilmente contestabile, che in questo contesto socio-economico la famiglia rimane co-

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munque una insostituibile risorsa della società, per questo resta ancor oggi, e rimarrà per sempre il pilastro fondamenta-le e irrinunciabile del vivere sociale. In essa infatti convivono differenze molteplici, attraverso le quali si stringono relazioni, si cresce nel confronto e nella mutua accoglienza delle genera-zioni1. Per la delicatezza ed importanza del suo ruolo sociale e per la forte penetrazione che ha questo tema nella vita quo-tidiana, mettendo in discussione gli aspetti più intimi della persona umana, il tema della famiglia è tra i più discussi degli ultimi anni. Si trova però in taluni movimenti di pensiero la giusta sponda per affrontare e confrontarsi su temi di ordine morale e sociale. E’ chiaro che queste argomentazioni, per fa-cilità di accesso ed immediatezza di comunicazione trovano terreno fertile nel mondo dei social network. All’interno dei più comuni e popolari social infatti, si muovono singoli, asso-ciazioni, gruppi e movimenti legati sia alla promozione della famiglia sia alla promozione negli ambiti diversi degli studi di genere e del mondo LGBT. All’interno di questa giostra me-diatica, come naturalmente capita, convivono delle realtà di pensiero molto differenti se non diametralmente opposte.La compresenza quindi non è sinonimo di condivisione né tantomeno di comunione e i social network, se pur fanno in-trecciare ed incontrare le nostre “presenze” digitali, non han-no certo dato modo di fare esperienza di condivisione. I social quindi, più che esperienza di comunione, mai come in questo caso, hanno fatto esperienza di moltiplicazione di individui. Esiste infatti oggi una tendenza, sempre più accentuata, ad esaltare l’individuo. E’ il primato dell’individuo e dei suoi di-ritti sulla dimensione che vede l’uomo come un essere in re-lazione. E’ l’individuazione autoreferenziale; è il dominio dell’ “io penso, io ritengo, io credo” al di sopra della stessa realtà, dei parametri morali, dei riferimenti normativi, per non par-lare dei precetti di ordine religioso2.Da qui la necessità di dover recuperare prima di tutto una dimensione personale coerente, veritiera e profonda, che permetta una corretta interazione con una dimensione co-munitaria molto estesa che la comunicazione digitale di oggi agevola con estrema facilità ed immediatezza. E’ necessaria

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quindi una vera e propria cultura dell’incontro. E’ necessario abbandonare quindi il primato della ragione sull’intelligenza, della ratio e sulla intellectio3.Papa Francesco spesso ha riproposto quelli che in teologia sono definiti i tre trascendentali: la verità, la bontà e la bel-lezza, tre elementi inseparabili tra loro. Tre caratteristiche concrete della persona di Gesù Cristo, al quale ogni cristiano dovrebbe far riferimento nel suo cammino spirituale. E’ pro-prio sul concetto di bellezza, che in questo scontro mediatico abbiamo perso prima di tutto come Cristiani. Forse ci è uti-le ripensare alle celebri parole di Dostoewskij sulla "bellezza che salverà il mondo", ma ancora di più Von Balthasar parla di una bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mon-do era incapace di intendersi e poi di una bellezza alla quale non osiamo piú credere e di cui abbiamo fatto un’apparenza per potercene liberare a cuor leggero4. E cosi a cuor leggero ci siamo dimenati in post e commenti dove l’affermazione del nostro punto di vista molto spesso non sembra rientrare, in contenuti e modalità, nei più ampi canoni di bellezza. In un mondo che non si crede piú capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica. Non vi è quindi molta possibilità di poter affermare una verità, quando il messaggio perde di bellezza. E’ quindi necessario trasmettere la nostra fede alle nuove ge-nerazioni e soprattutto domandarci come lo stiamo facendo attraverso la testimonianza di queste vicende dove abbiamo necessità di un vero e proprio slancio di spiritualità. Soprat-tutto nella gestione dello “scontro” mediatico in atto è fonda-mentale avere capacità, razionalità non tanto per affermare la propria “parte”, quanto per testimoniare la bellezza della propria vita cristiana. Nel tema della cosiddetta questione gender, lo ribadisce anche Papa Francesco, vi è tanta gente che ha paura delle differenze, ma sono ricchezze. Queste coloniz-zazioni ideologiche, che fanno tanto male e distruggono una società, un Paese, una famiglia. E per questo abbiamo bisogno di una vera e propria rinascita morale e spirituale5.Diventa quindi necessario testimoniare, soprattutto come ge-nitori presenti in rete in modo forse più pacato ma marcato,

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la grande ricchezza della diversità. Una diversità che diventa complementarietà, ma anche reciprocità. E’ un nodo lì, l’uno all’altro. E questa reciprocità e complementarietà nella diffe-renza è tanto importante per i figli6. I figli, ovvero i giovani, sono sicuramente la parte più in balia dello scontro mediati-co. Coloro che osservano più di tutti i comportamenti degli adulti e ne traggono le linee guida per la loro formazione ca-ratteriale, civile e morale. E’ quindi un nostro dovere morale permettergli una comunicazione più vera, più reale, più bella. Proprio quel tipo di comunicazione che i nostri figli sperimen-tano continuamente nella famiglia già da prima della nasci-ta. E’ infatti nel grembo che ci ospita è la prima “scuola” di comunicazione, fatta di ascolto e di contatto corporeo, dove cominciamo a familiarizzare col mondo esterno in un ambien-te protetto e al suono rassicurante del battito del cuore della mamma. Questo incontro tra due esseri insieme così intimi e ancora così estranei l’uno all’altra, un incontro pieno di pro-messe, è la nostra prima esperienza di comunicazione. Ed è un'esperienza che ci accomuna tutti, perché ciascuno di noi è nato da una madre7.E’ quindi proprio nella famiglia che i giovani imparano la di-mensione religiosa della comunicazione, dove sperimentano il «luogo dove si impara a convivere nella differenza»8 dove possiamo dare perché abbiamo ricevuto, e questo circuito vir-tuoso sta al cuore della capacità della famiglia di comunicarsi e di comunicare; e, più in generale, è il paradigma di ogni co-municazione9.

Lo scontro mediatico gender vs famiglia ci porta come cristia-ni a fare una ulteriore riflessione sulla necessità di adottare sempre più uno stile di comunicazione che sia inclusivo a di-ventare più accoglienti verso tutti a non escludere mai nessu-no. Uno esortazione ad aprirsi e condividere il più possibile la verità del vangelo e non a preservare la propria ragione. Dob-biamo riscoprire anche nella comunicazione digitale la bellez-za dell’incontro. Ci aiuta la stessa etimologia della parola che trae origine dal latino popolare incóntra, composto dal prefis-so in-(rafforzativo) e da contra =contro, dirimpetto, di fronte.

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L'incontro, quindi, inteso come "trovarsi di fronte a..." nella nostra possibilità, che non dobbiamo mai perdere di vista, di evangelizzare piuttosto che di proteggerci.Oggi i media più moderni, che soprattutto per i più giovani sono ormai irrinunciabili, possono sia ostacolare che aiutare la comunicazione in famiglia e tra famiglie10. La possono ostaco-lare se diventano un modo di sottrarsi all’ascolto, di isolarsi dalla compresenza fisica, con la saturazione di ogni momen-to di silenzio e di attesa disimparando che «il silenzio è parte integrante della comunicazione e senza di esso non esistono parole dense di contenuto»11. Forse mai come in questo con-testo, il silenzio non è stato assunto come protagonista nella comunicazione e le parole, spesso basate su istinti emotivi, hanno perso sia da una parte sia dall’altra il vero contenuto.Forse anche noi come Pilato, ci siamo sentiti in dovere di ri-volgerci alla folla dei social network per cercare di avere “giu-stizia” o quantomeno di sfamare il nostro senso di giustizia. E come Pilato ci rivolgiamo, accogliamo, condividiamo quanto ci “sembra giusto” al di là della verità, della bontà e della bel-lezza. La folla decise per Gesù, la piazza decide oggi il livello comunicativo della questione, il social network amplificano e moltiplicano quel senso di piazza, quel senso di folla. La folla decide per tutti. Per questo gli individualismi si fondano nel grido di “Barabba, Barabba”. La folla del sinedrio era chia-mata soltanto a pronunciarsi su quel che le veniva richiesto. Essa non avrebbe potuto uscire dal dilemma propostole. Non avrebbe potuto decidere, per esempio, per la vita o per la mor-te e di Gesù e di Barabba. Né avrebbe potuto pretendere di farsi valere in altre questioni. In termini diversi, non era una forza agente, ma semplicemente reagente12. E’ importante an-che notare che l'appello al popolo viene concepito come istan-za decisiva. Vox populi, vox Dei: era come se ad essa si fosse riconosciuta l'infallibilità. Non distante dal fatto che oggi ci sentiamo dire con troppa banalità: “L’ho letto su internet” come se questo fosse garanzia di infallibilità. Una folla così incapace di un orientamento proprio e dunque esposta alle in-fluenze esterne13. E’ quindi forse il caso di riflettere prima di tutto se al popolo di Internet e dei social network noi abbiamo

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dato potere tanto quanto il sinedrio lo diete alla folla durante il processo di Gesù. Altre caratteristiche importanti, dei social network di oggi ci riportano alla folla del Sinedrio. La mancanza, come allora, di un vero dibattito in tempo reale, perché nei social network se pur i tempi di risposta sono ristretti sono comunque asincro-ni e non permettono la possibilità di un dibattito concreto. E infine, la folla si pronuncia senza dissenso, come corpo unita-rio, come massa omogenea che ha «un'anima sola» (secondo la formula di Le Bon). In mancanza di regole e di tempo che potessero consentire un distacco dello spirito e una tratta-zione adeguata dei «pro» e dei «contro» presenti nel caso da decidere, prevalse l'umore emozionale sulla valutazione razio-nale14. In ultimo l’induzione al silenzio dei “dissidenti”, ovvero di quanti non erano a favore della folla, questi furono indotti al silenzio dalla paura della folla stessa.I social network oggi, come la folla al tempo, possono essere usati per un insieme di caratteristiche ben precise. Non un popolo decidente, ma una massa in movimento. Credeva di decidere, ma in realtà decideva quello che altri avevano dispo-sto per lei. Se le è stata data la parola è solo per sostenere la verità del Sinedrio o gli interessi di Pilato: uno scontro fra due autorità autocratiche nel quale il ricorso alla folla è solo un'ar-ma nelle mani di tali autorità15. Pertanto nella questione, il concetto di democrazia nella comunicazione perde valore in quanto la democrazia è solo in forma apparente, ma comun-que totalmente svincolata dalla verità.Nella grande diatriba tra famiglia e gender dobbiamo trarre l’insegnamento più importante per la comunicazione in fami-glia . La famiglia più bella è quella che sa comunicare, partendo dalla testimonianza, la bellezza e la ricchezza del rapporto tra uomo e donna, e di quello tra genitori e figli. Non lottiamo per difendere il passato, ma lavoriamo con pazienza e fidu-cia, in tutti gli ambienti che quotidianamente abitiamo, per costruire il futuro16. Per questo il lavoro paziente di evangeliz-zare anche attraverso una corretto e giusto utilizzo dei social network permetterà di educare le nuove generazioni ad uno nuovo modo di incontrarsi anche nel mondo digitale.

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AgoràFrancesco De Meo -

1 Sinodo dei Vescovi XIV Assemblea generale ordinaria – Instrumentum La-boris 112 Jorge Mario Bergoglio Noi come cittadini noi come popolo pag. 353 Jorge Mario Bergoglio Noi come cittadini noi come popolo pag. 354 H. U. von Balthasar, Gloria, pagg. 105 H. U. von Balthasar, Gloria, pagg. 126 DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO ALL'APERTURA DEL CONVEGNO ECCLESIALE DELLA DIOCESI DI ROMA Piazza San Pietro Domenica, 14 giugno 2015.7 MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA XLIX GIORNATA MONDIALE DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI8 Esort. ap. Evangelii gaudium, 669 MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA XLIX GIORNATA MONDIALE DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI10 idem11 Messaggio del santo padre Benedetto XVI, per la 46ª G.M. delle Comu-nicazioni Sociali.12 Gustavo Zagrebelsky, La democrazia di Barabba, MicroMega, 1/95.13 idem14 idem15 idem16 MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA XLIX GIORNA-TA MONDIALE DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI

Note

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Per un’economia che fa vivere tutti. La prospettiva del magistero sociale

di Renato Cursi

Politiche di Walfare aziendale e benessere dei lavoratori. Uno studio sulle imprese del settore elettronico in Italia.di Massimo Saotta

Matrimonio e Famiglia, La questione antropologica.di Alfonso Balsamo

Segnalazioni

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Segnalazioni

che fa vivere tutti. La prospettivadel magistero sociale

sino a papa Francesco.

Renato Cursi - Per un’economia che fa vivere tutti.

L’economia inclusiva, proposta da papa Francesco, rifiuta dav-vero l’economia di mercato? È forse sinonimo di economia e finanza centralizzate, totalmente pianificate? L’economia e la finanza devono mantenersi totalmente autonome rispetto alla politica e al bene comune, per poter essere funzionali adun’economia e ad una democrazia inclusive? Quali passi con-creti sono da ritenersi necessari per poter usufruire di isti-tuzioni internazionali e sovranazionali commisurate ad unmercato e ad una finanza globali?Papa Francesco, nonostante i pregiudizi dei neoconservatorinei suoi confronti, si è sempre battuto contro ogni forma dipauperismo. Egli, come i suoi predecessori, propone un’eco-nomia a servizio del bene comune, ossia tale da sconfiggerele cause strutturali della povertà e da realizzare uno svilup-po integrale, solidale e sostenibile per tutti. L’insegnamentosociale dei pontefici, come è mostrato nel saggio che qui sipresenta, combatte ogni forma di infeudamento della poli-tica alla finanza. Nello stesso tempo crede che sia possibile

S. E. Mons. Mario Toso, Per un’economia che fa vivere tutti. La prospettiva del magisterosociale dei pontefici sino a papa Francesco,Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015, 104 pp.

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realizzare un’economia di mercato «amica» dell’uomo e dellademocrazia.

Renato Cursi

di Federica Viganò, Roberto Camerani, Giovanni Lombardo, Monica MasucciRubbettino Editore, 2015.

Politiche di Walfareaziendale e benesseredei lavoratori.Uno studio sulle impresedel settore elettronico in Italia.

Fin dalla sua costituzione, la FLAEI - ispirandosi ai principi della Cisl, fortemente radicati nella Dottrina Sociale della Chiesa – ha posto a base del suo operare la salvaguardia del-la dignità della persona, intesa come condizione primaria perun’autentica giustizia sociale. Ha proposto e sostenuto unaserie di strumenti di tutela che vanno al di là della “nuda” re-tribuzione.Ispirata da tali principi, ha sempre ritenuto doveroso porsiin ascolto dei propri Associati per verificare il gradimento del welfare aziendale, per censire i nuovi bisogni e per modulare la propria azione di tutela e di rappresentanza.E la FLAEI lo ha fatto! Recentemente nel Settore Elettrico hapromosso e realizzato una specifica ricerca sul welfare azien-dale, gestita da un pool di studiosi coordinati dalla prof.ssa Federica Viganò della Libera Università di Bolzano. I risulta-ti dell’indagine, particolarmente interessanti, hanno sfatato molti luoghi comuni sulla crisi dell’associazionismo e ribaditola centralità del Sindacato.Il Settore elettrico, come ha ricordato nella prefazione ai risul-

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SegnalazioniMassimo Saotta - Politiche di Walfare aziendale e benessere dei lavoratori.Uno studio sulle imprese del settore elettronico in Italia.

tati dell’indagine il Segretario Generale della FLAEI Cisl dott. Carlo De Masi, ha una lunga tradizione di welfare aziendale; già presente ai tempi delle aziende private, ulteriormente svi-luppato con l’avvento dell’Ente Nazionale e proseguito anche dopo la privatizzazione e la liberalizzazione della fine del se-colo scorso, ha raggiunto livelli importanti in termini di ri-sorse contrattuali a ciò destinate e di risposte ai bisogni dei lavoratori sul versante culturale, ricreativo, sanitario e previ-denziale.In un settore fortemente sindacalizzato, che ha goduto di una costante stabilità economica fino alla recente crisi, il Sindaca-to - e la FLAEI in particolare – è riuscito nell’intento di guar-dare oltre il salario.Il ruolo del Sindacato e l’importanza di un forte potere con-trattuale dei lavoratori, utile a mantenere equilibri economici più sostenibili, sono stati evidenziati in un recente studio del Fondo monetario internazionale che rileva una crescita delle disuguaglianze in dipendenza dal contemporaneo indeboli-mento dei sindacati.Verità che si conciliano con il pensiero profetico di Mario Ro-mani, uno dei padri fondatori della Cisl, che già nel 1951 so-steneva: “il movimento sindacale è presente per salvaguardare le sorti ormai congiunte in modo indissolubile del progresso economi-co e del progresso sociale.”Peraltro, il medesimo principio è stato recentemente ribadito dal Segretario Generale della Cisl - Annamaria Furlan. E il sindacato sulla questione del benessere sostenibile e delle responsabili condotte sociali delle imprese ha ancora molto da dire, continuando ad essere insostituibile soggetto di me-diazione.Il successo dell’indagine sul welfare aziendale impone alla FLAEI maggiori responsabilità e pone l’esperienza del Settore Elettrico quale esempio praticabile anche per gli altri compar-ti merceologici.Emerge ben evidente che nel Settore Elettrico il Sindacato in-tende continuare a conciliare la propria identità, anche in un contesto sociale sempre più diversificato e complesso.In conclusione, la ricerca ha indicato una ben definita rotta

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che la FLAEI intende fortemente seguire.

Massimo Saotta

H. Franceschi, a cura di.Matrimonio e Famiglia, La questioneantropologica.Subsidia Canonica, 2015

Matrimonio e Famiglia, La questione antropologica.

Nei giorni di fine giugno, dopo la manifestazione a tutela dellafamiglia che ha raccolto quasi 1 milione di persone a Roma, ildibattito si è acceso sulle c.d. “unioni civili” e sulla teoria delgender. Sul contrasto tra quello che è stato chiamato “Family Day” e quello che è stato provocatoriamente ribattezzato “Fa-mily Gay” si è detto molto, spesso in modo confusionario e impreciso: la conseguenza è che molti cattolici, ma anche noncredenti di buona volontà, si sono trovati disorientati e prividi categorie per impostare un ragionamento. Uno strumentomolto utile per colmare questo vuoto è il libro “Matrimonio e Famiglia” a cura di Héctor Franceschi, che raccoglie gli in-terventi del IXI Convegno di Studio della Facoltà di DirittoCanonico della Pontificia Università Santa Croce (12-13 mar-zo 2015) e tutta una serie di interventi di esperti di diverse scienze che trattano il tema della famiglia: teologia, antro-pologia, diritto, comunicazione, psicologia. Il vero obiettivodel testo è quello di affrontare con ordine questioni delicate su matrimonio e famiglia anche in vista del prossimo SinodoOrdinario sulla famiglia. Tra gli interventi riportati quello del Direttore de la Società, Claudio Gentili e di sua moglie LauraViscardi, che conduce e anima il Centro di Formazione Be-tania di Roma. Nella relazione dei coniugi Gentili esperienzepratiche e principi della Dottrina Sociale della Chiesa si bilan-

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SegnalazioniAlfonso Balsamo - Matrimonio e Famiglia, La questione antropologica.

ciano in perfetta armonia per affrontare problemi concreti (si direbbe quotidiani) delle famiglie dei nostri giorni. L’interven-to invita a tornare alla Genesi, da dove tutto è partito. Al Van-gelo, da dove tutto è ripartito. Mettere in campo una risposta spirituale legata a doppio filo con la sofferenza: non si può far finta che la questione omosessuale non esista. Oltre ad esse-re un fenomeno sociale ormai diffuso, essa spesso diventa un forte fattore di sofferenza e disorientamento. Sofferenza per chi in qualche modo si sente discriminato. Disorientamento per chi in qualche modo si lascia confondere da quella che è diventata una moda del pensiero. Papa Francesco non a caso chiede di essere un “ospedale da campo”. Di non giudicare ma di accompagnare. Di essere un punto di riferimento anche per chi la pensa in maniera molto diversa e spesso è sordo alle nostre parole. È quello che la Chiesa, secondo il testo dei Gen-tili, deve fare: testimoniare la bellezza della vita familiare, che significa concretamente la bellezza del Vangelo, del rapporto filiale con Dio, della fratellanza con il prossimo. Nella pratica è riportata inoltre l’esperienza del Centro di Formazione alla Pastorale Familiare Betania di Roma, una piccola, minuscola parte di Chiesa che non ha paura della realtà ma ha il coraggio di immergersi nei problemi delle coppie, nei loro dubbi, nei loro disorientamenti, nelle loro sofferenze. È una comunità che sperimenta il Vangelo nella quotidianità di centinaia di fa-miglie ma che non si ferma al dato esperienziale. È invece un percorso di elaborazione culturale e spirituale che risponde al vuoto di pensiero, alla crisi antropologica e relazionale. L’ap-proccio empirico alle fonti, l’elaborazione culturale e l’espe-rienza di spiritualità comunitaria sono i 3 elementi chiave che compongono il percorso presentato da Claudio e Laura Genti-li. Il loro contributo e quello degli altri relatori del Convegno sono un tentativo (riuscito) sia di spiegare che di testimoniare la bellezza di quell’atto drammatico che è il matrimonio. Il te-sto diventa allora uno strumento di discernimento che aiuta ad affrontare le sfide della post-modernità senza perdere la bussola e la speranza.

Alfonso Balsamo

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Documenti

Discorso ai giovani di Torinodi Francesco

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Discorso ai giovanidi TorinoDomenica, 21 giugno 2015 - Piazza Vittorio

Grazie a Chiara, Sara e Luigi. Grazie perché le domande sono sul tema delle tre parole del Vangelo di Giovanni che abbiamo sentito: amore, vita, amici. Tre parole che nel testo di Giovan-ni si incrociano, e una spiega l’altra: non si può parlare della vita nel Vangelo senza parlare d’amore – se parliamo della vera vita –, e non si può parlare dell’amore senza questa trasfor-mazione da servi ad amici. E queste tre parole sono tanto im-portanti per la vita ma tutte e tre hanno una radice comune: la voglia di vivere. E qui mi permetto di ricordare le parole del beato Pier Giorgio Frassati, un giovane come voi: «Vivere, non vivacchiare!». Vivere!

Voi sapete che è brutto vedere un giovane “fermo”, che vive, ma vive come – permettetemi la parola – come un vegetale: fa le cose, ma la vita non è una vita che si muove, è ferma. Ma sapete che a me danno tanta tristezza al cuore i giovani che vanno in pensione a 20 anni! Sì, sono invecchiati presto… Per questo, quando Chiara faceva quella domanda sull’amore: quello che fa che un giovane non vada in pensione è la voglia di amare, la voglia di dare quello che ha di più bello l’uomo, e che ha di più bello Dio, perché la definizione che Giovanni dà

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di Dio è “Dio è amore”. E quando il giovane ama, vive, cresce, non va in pensione. Cresce, cresce, cresce e dà.

Ma che cos’è l’amore? “E’ la telenovela, padre? Quello che ve-diamo nei teleromanzi?” Alcuni pensano che sia quello l’amo-re. Parlare dell’amore è tanto bello, si possono dire cose belle, belle, belle. Ma l’amore ha due assi su cui si muove, e se una persona, un giovane non ha questi due assi, queste due di-mensioni dell’amore, non è amore. Prima di tutto, l’amore è più nelle opere che nelle parole: l’amore è concreto. Alla Famiglia salesiana, due ore fa, parlavo della concretezza della loro voca-zione… - E vedo che si sentono giovani perché sono qui davan-ti! Si sentono giovani! - L’amore è concreto, è più nelle opere che nelle parole. Non è amore soltanto dire: “Io ti amo, io amo tutta la gente”. No. Cosa fai per amore? L’amore si dà. Pensa-te che Dio ha incominciato a parlare dell’amore quando si è coinvolto con il suo popolo, quando ha scelto il suo popolo, ha fatto alleanza con il suo popolo, ha salvato il suo popolo, ha perdonato tante volte – tanta pazienza ha Dio! –: ha fatto, ha fatto gesti di amore, opere di amore. E la seconda dimensione, il secondo asse sul quale gira l’amore è che l’amore sempre si comunica, cioè l’amore ascolta e risponde, l’amore si fa nel dia-logo, nella comunione: si comunica. L’amore non è né sordo né muto, si comunica. Queste due dimensioni sono molto utili per capire cosa è l’amore, che non è un sentimento romantico del momento o una storia, no, è concreto, è nelle opere. E si comunica, cioè è nel dialogo, sempre.

Così Chiara, risponderò a quella tua domanda: “Spesso ci sentiamo delusi proprio nell’amore. In che cosa consiste la grandezza dell’amore di Gesù? Come possiamo sperimentare il suo amore?”. E adesso, io so che voi siete buoni e mi permetterete di parlare con sincerità. Io non vorrei fare il moralista ma vorrei dire una parola che non piace, una parola impopolare. Anche il Papa alcune volte deve rischiare sulle cose per dire la verità. L’amore è nelle opere, nel comunicare, ma l’amore è molto rispettoso delle persone, non usa le persone e cioè l’amore è casto. E a voi giovani in questo mondo,

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in questo mondo edonista, in questo mondo dove soltanto ha pubblicità il piacere, passarsela bene, fare la bella vita, io vi dico: siate casti, siate casti.

Tutti noi nella vita siamo passati per momenti in cui questa virtù è molto difficile, ma è proprio la via di un amore genu-ino, di un amore che sa dare la vita, che non cerca di usare l’altro per il proprio piacere. E’ un amore che considera sacra la vita dell’altra persona: io ti rispetto, io non voglio usarti, io non voglio usarti. Non è facile. Tutti sappiamo le difficoltà per superare questa concezione “facilista” ed edonista dell’amore. Perdonatemi se dico una cosa che voi non vi aspettavate, ma vi chiedo: fate lo sforzo di vivere l’amore castamente.

E da questo ricaviamo una conseguenza: se l’amore è rispettoso, se l’amore è nelle opere, se l’amore è nel comunicare, l’amore si sacrifica per gli altri. Guardate l’amore dei genitori, di tante mamme, di tanti papà che al mattino arrivano al lavoro stanchi perché non hanno dormito bene per curare il proprio figlio ammalato, questo è amore! Questo è rispetto. Questo non è passarsela bene. Questo è - andiamo su un’altra parola chiave – questo è “servizio”. L’amore è servizio. E’ servire gli altri. Quando Gesù dopo la lavanda dei piedi ha spiegato il gesto agli Apostoli, ha insegnato che noi siamo fatti per servirci l’uno all’altro, e se io dico che amo e non servo l’altro, non aiuto l’altro, non lo faccio andare avanti, non mi sacrifico per l’altro, questo non è amore. Avete portato la Croce [la Croce delle G.M.G.]: lì è il segno dell’amore. Quella storia di amore di Dio coinvolto con le opere e con il dialogo, con il rispetto, col perdono, con la pazienza durante tanti secoli di storia col suo popolo, finisce lì: suo Figlio sulla croce, il servizio più grande, che è dare la vita, sacrificarsi, aiutare gli altri. Non è facile parlare d’amore, non è facile vivere l’amore. Ma con queste cose che ho risposto, Chiara, credo che ti ho aiutato in qualcosa, nelle domande che tu mi facevi. Non so, spero che ti siano di utilità.

E grazie a te, Sara, appassionata di teatro. Grazie. “Penso

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alle parole di Gesù: Dare la vita”. Ne abbiamo parlato adesso. “Spesso respiriamo un senso di sfiducia nella vita”. Sì, perché ci sono situazioni che ci fanno pensare: “Ma, vale la pena vi-vere così? Cosa posso aspettarmi da questa vita?”. Pensiamo, in questo mondo, alle guerre. Alcune volte ho detto che noi stiamo vivendo la terza guerra mondiale, ma a pezzi. A pezzi: in Europa c’è la guerra, in Africa c’è la guerra, in Medio Orien-te c’è la guerra, in altri Paesi c’è la guerra… Ma io posso avere fiducia in una vita così? Posso fidarmi dei dirigenti mondia-li? Io, quando vado a dare il voto per un candidato, mi posso fidare che non porterà il mio Paese alla guerra? Se tu ti fidi soltanto degli uomini, hai perso! A me fa pensare una cosa: gente, dirigenti, imprenditori che si dicono cristiani, e fabbri-cano armi! Questo dà un po’ di sfiducia: si dicono cristiani! “No, no, Padre, io non fabbrico, no, no… Soltanto ho i miei risparmi, i miei investimenti nelle fabbriche di armi”. Ah! E perché? “Perché gli interessi sono un po’ più alti…”. E anche la doppia faccia è moneta corrente, oggi: dire una cosa e farne un’altra. L’ipocrisia… Ma vediamo cosa è successo nel seco-lo scorso: nel ’14, ’15, nel ’15 propriamente. C’è stata quella grande tragedia dell’Armenia. Tanti sono morti. Non so la ci-fra: più di un milione certamente. Ma dove erano le grandi potenze di allora? Guardavano da un’altra parte. Perché? Per-ché erano interessate alla guerra: la loro guerra! E questi che muoiono, sono persone, esseri umani di seconda classe. Poi, negli anni Trenta-Quaranta, la tragedia della Shoah. Le grandi potenze avevano le fotografie delle linee ferroviarie che por-tavano i treni ai campi di concentramento, come Auschwitz, per uccidere gli ebrei, e anche i cristiani, anche i rom, anche gli omosessuali, per ucciderli lì. Ma dimmi, perché non han-no bombardato quello? L’interesse! E un po’ dopo, quasi con-temporaneamente, c’erano i lager in Russia: Stalin… Quanti cristiani hanno sofferto, sono stati uccisi! Le grandi potenze si dividevano l’Europa come una torta. Sono dovuti passare tanti anni prima di arrivare a una “certa” libertà. C’è quell’i-pocrisia di parlare di pace e fabbricare armi, e persino vendere le armi a questo che è in guerra con quello, e a quello che è in guerra con questo!

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Io capisco quello che tu dici della sfiducia nella vita; anche oggi che stiamo vivendo nella cultura dello scarto. Perché quello che non è di utilità economica, si scarta. Si scartano i bambini, perché non si fanno, o perché si uccidono prima che nascano; si scartano gli anziani, perché non servono e si lasciano lì, a morire, una sorta di eutanasia nascosta, e non si aiutano a vivere; e adesso si scartano i giovani: pensa a quel 40% di giovani, qui, senza lavoro. E’ proprio uno scarto! Ma perché? Perché nel sistema economico mondiale non è l’uomo e la donna al centro, come vuole Dio, ma il dio denaro. E tutto si fa per denaro. In spagnolo c’è un bel detto che dice: “Por la plata baila el mono”. Traduco: “Per i soldi, anche la scimmia balla”. E così, con questa cultura dello scarto, ci si può fidare della vita?, con quel senso di sfida [che] si allarga, si allarga, si allarga? Un giovane che non può studiare, che non ha lavoro, che ha la vergogna di non sentirsi degno perché non ha lavoro, non si guadagna la vita. Ma quante volte questi giovani fini-scono nelle dipendenze? Quante volte si suicidano? Le stati-stiche dei suicidi dei giovani non si conoscono bene. O quante volte questi giovani vanno a lottare con i terroristi, almeno per fare qualcosa, per un ideale. Io capisco questa sfida. E per questo Gesù ci diceva di non riporre le nostre sicurezze nel-le ricchezze, nei poteri mondani. Come mi posso fidare della vita? Come posso fare, come posso vivere una vita che non distrugga, che non sia una vita di distruzione, una vita che non scarti le persone? Come posso vivere una vita che non mi deluda?

E passo a dare la risposta alla domanda di Luigi: lui parlava di un progetto di condivisione, cioè di collegamento, di costru-zione. Noi dobbiamo andare avanti con i nostri progetti di costruzione, e questa vita non delude. Se tu ti coinvolgi lì, in un progetto di costruzione, di aiuto – pensiamo ai bambini di strada, ai migranti, a tanti che hanno bisogno, ma non soltan-to per dar loro da mangiare un giorno, due giorni, ma per pro-muoverli con l’educazione, con l’unità nella gioia degli Oratori e tante cose, ma cose che costruiscono, allora quel senso di sfiducia nella vita si allontana, se ne va. Cosa devo fare per

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questo? Non andare in pensione troppo presto: fare. Fare. E dirò una parola: fare controcorrente. Fare controcorrente. Per voi giovani che vivete questa situazione economica, anche cul-turale, edonista, consumista con i valori da “bolle di sapone”, con questi valori non si va avanti. Fare cose costruttive, anche se piccole, ma che ci riuniscano, ci uniscano tra noi, con i no-stri ideali: questo è il migliore antidoto contro questa sfiducia della vita, contro questa cultura che ti offre soltanto il piacere: passarsela bene, avere i soldi e non pensare ad altre cose.

Grazie per le domande. A te, Luigi, in parte ho risposto, no? Fare controcorrente, cioè essere coraggiosi e creativi, essere creativi. L’estate scorsa ho ricevuto, un pomeriggio – era ago-sto… Roma era morta –; mi aveva parlato al telefono un grup-po di ragazzi e ragazze che facevano un campeggio in varie città d’Italia, e sono venuti da me – ho detto loro di venire –, ma poveretti, tutti sporchi, stanchi… ma gioiosi! Perché ave-vano fatto qualcosa “controcorrente”!

Tante volte, le pubblicità vogliono convincerci che questo è bello, che questo è buono, e ci fanno credere che sono “dia-manti”; ma, guardate, ci vendono vetro! E noi dobbiamo anda-re contro questo, non essere ingenui. Non comprare sporcizie che ci dicono essere diamanti.

E per finire, vorrei ripetere la parola di Pier Giorgio Frassati: se volete fare qualcosa di buono nella vita, vivete, non vivac-chiate. Vivete!

Ma voi siete intelligenti e sicuramente mi direte: “Ma, padre, lei parla così perché è in Vaticano, ha tanti monsignori lì che le fanno il lavoro, lei è tranquillo e non sa cosa è la vita di ogni giorno…”. Ma sì, qualcuno può pensare così. Il segreto è capire bene dove si vive. In questa terra – e questo ho detto anche alla Famiglia salesiana - alla fine dell’Ottocento c’erano le condizioni più cattive per la crescita della gioventù: c’era la massoneria in pieno, anche la Chiesa non poteva fare nulla, c’erano i mangiapreti, c’erano anche i satanisti… Era uno dei

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momenti più brutti e dei posti più brutti della storia d’Italia. Ma se voi volete fare un bel compito a casa, andate a cercare quanti santi e quante sante sono nati in quel tempo! Perché? Perché si sono accorti che dovevano andare controcorrente ri-spetto a quella cultura, a quel modo di vivere. La realtà, vivere la realtà. E se questa realtà è vetro e non diamante, io cerco la realtà controcorrente e faccio la mia realtà, ma una cosa che sia servizio per gli altri. Pensate ai vostri santi di questa terra, che cosa hanno fatto!

E grazie, grazie, grazie tante! Sempre amore, vita, amici. Ma si possono vivere queste parole soltanto “in uscita”: uscendo sempre per portare qualcosa. Se tu rimani fermo non farai niente nella vita e rovinerai la tua.Ho dimenticato di dirvi che adesso consegnerò il discorso scritto. Io conoscevo le vostre domande, e ho scritto qualcosa sulle vostre domande; ma non è quello che ho detto, questo mi è venuto dal cuore; e consegno all’incaricato il discorso, e tu lo rendi pubblico [consegna i fogli al sacerdote incaricato della pastorale giovanile]. Qui voi siete tanti universitari, ma guardatevi dal credere che l’università sia soltanto studiare con la testa: essere universitario significa anche uscire, uscire nel servizio, con i poveri, soprattutto! Grazie.

Discorso preparato dal Santo Padre:

Cari giovani,

vi ringrazio di questa accoglienza calorosa! E grazie per le vo-stre domande, che ci portano al cuore del Vangelo.

La prima, sull’amore, ci interroga sul senso profondo dell’a-more di Dio, offerto a noi dal Signore Gesù. Egli ci mostra fin dove arriva l’amore: fino al dono totale di sé stessi, fino a dare la propria vita, come contempliamo nel mistero della Sindone, quando in essa riconosciamo l’icona dell’«amore più grande».Ma questo dono di noi stessi non deve essere immaginato

DocumentiFrancesco - Discorso ai giovani di Torino

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come un raro gesto eroico o riservato a qualche occasione ec-cezionale. Potremmo infatti correre il rischio di cantare l’amo-re, di sognare l’amore, di applaudire l’amore... senza lasciarci toccare e coinvolgere da esso! La grandezza dell’amore si rivela nel prendersi cura di chi ha bisogno, con fedeltà e pazienza; per cui è grande nell’amore chi sa farsi piccolo per gli altri, come Gesù, che si è fatto servo. Amare è farsi prossimo, tocca-re la carne di Cristo nei poveri e negli ultimi, aprire alla grazia di Dio le necessità, gli appelli, le solitudini delle persone che ci circondano. L’amore di Dio allora entra, trasforma e ren-de grandi le piccole cose, le rende segno della sua presenza. San Giovanni Bosco ci è maestro proprio per la sua capacità di amare e educare a partire dalla prossimità, che lui viveva con i ragazzi e i giovani.

Alla luce di questa trasformazione, frutto dell’amore, pos-siamo rispondere alla seconda domanda, sulla sfiducia nel-la vita. La mancanza di lavoro e di prospettive per il futuro certamente contribuisce a frenare il movimento stesso della vita, ponendo molti sulla difensiva: pensare a sé stessi, gestire tempo e risorse in funzione del proprio bene, limitare i rischi di qualsiasi generosità... Sono tutti sintomi di una vita trat-tenuta, conservata a tutti i costi e che, alla fine, può portare anche alla rassegnazione e al cinismo. Gesù ci insegna invece a percorrere la via opposta: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Lc 9,24). Ciò significa che non dobbiamo attendere circostanze esterne favorevoli per metterci davvero in gioco, ma che, al contrario, solo impegnando la vita – consapevoli di perderla! – creiamo per gli altri e per noi le condizioni di una fiducia nuova nel futuro. E qui il pensiero va spontaneamente a un giovane che ha davvero speso così la sua vita, tanto da diventare un modello di fiducia e di audacia evangelica per le giovani generazioni d’Italia e del mondo: il beato Pier Giorgio Frassati. Un suo motto era: «Vivere, non vivacchiare!». Questa è la strada per sperimentare in pienezza la forza e la gioia del Vangelo. Così non solo ritroverete fiducia nel futuro, ma riu-scirete a generare speranza tra i vostri amici e negli ambienti

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in cui vivete.Una grande passione di Pier Giorgio Frassati era l’amicizia. E la vostra terza domanda diceva proprio: come vivere l’amicizia in modo aperto, capace di trasmettere la gioia del Vangelo? Ho sa-puto che questa piazza in cui ci troviamo, nelle sere di venerdì e sabato, è molto frequentata da giovani. Succede così in tutte le nostre città e paesi. Penso che anche alcuni di voi vi ritro-viate qui o in altre piazze con i vostri amici. E allora vi faccio una domanda – ciascuno ci pensi e risponda dentro di sé –: in quei momenti, quando siete in compagnia, riuscite a far “tra-sparire” la vostra amicizia con Gesù negli atteggiamenti, nel modo di comportarvi? Pensate qualche volta, anche nel tem-po libero, nello svago, che siete dei piccoli tralci attaccati alla Vite che è Gesù? Vi assicuro che pensando con fede a questa realtà, sentirete scorrere in voi la “linfa” dello Spirito Santo, e porterete frutto, quasi senza accorgervene: saprete essere coraggiosi, pazienti, umili, capaci di condividere ma anche di differenziarvi, di gioire con chi gioisce e di piangere con chi piangere, saprete voler bene a chi non vi vuole bene, risponde-re al male con il bene. E così annuncerete il Vangelo! I Santi e le Sante di Torino ci insegnano che ogni rinnova-mento, anche quello della Chiesa, passa attraverso la nostra conversione personale, attraverso quella apertura di cuore che accoglie e riconosce le sorprese di Dio, sospinti dall’amore più grande (cfr 2 Cor 5,14), che ci rende amici anche delle persone sole, sofferenti ed emarginate.

Cari giovani, insieme con questi fratelli e sorelle maggiori che sono i Santi, nella famiglia della Chiesa noi abbiamo una Ma-dre, non dimentichiamolo! Vi auguro di affidarvi pienamente a questa tenera Madre, che indicò la presenza dell’«amore più grande» proprio in mezzo ai giovani, in una festa di nozze. La Madonna «è l’amica sempre attenta perché non venga a man-care il vino nella nostra vita» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 286). Preghiamo perché non ci lasci mancare il vino della gio-ia! Grazie a tutti voi! Dio vi benedica tutti. E per favore, pregate per me.

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Strumenti

pastoraleLe fonti della Dottrina Sociale della Chiesa (parte XVII)di Oreste Bazzichi

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StrumentiOreste Bazzichi - Le fonti della Dottrina Sociale della Chiesa (parte XVII)

La teologia del laicato è stata veramente importante nel Vati-cano II per la sua presenza significativa nel cap. IV della Co-stituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium dedicato completamente ai laici ed anche per il decreto specifico sull’a-postolato dei laici, la Apostolicam actuositatem. Per questo nelle pubblicazioni subito dopo il Concilio si constata un fio-rire di pubblicazioni che mettevano in risalto il nuovo para-digma della Chiesa come “Popolo di Dio” (cap. II della Lumen gentium), dove significativamente la formulazione del laicato passa da oggetto suddito a soggetto protagonista della Chie-sa. In parole semplici: tutti i membri del popolo di Dio in forza del battesimo hanno la stessa dignità. Il tema del laicato entra nel contesto ecclesiologico globale (1).

1. Punti di forza della teologia del laicatoSe la teologia del laicato la correliamo alle quattro costituzioni conciliari: Dei Verbum, Lumen gentium, Sacrosantum Conci-lium e Gauium et spes, si comprende meglio la missione dei laici cristiani e la peculiarità caratteristica laicale nella loro presenza nel mondo e nell’edificazione della Chiesa.

Il primo punto di forza è costituito dalla testimonian-za dei laici come segno di credibilità. La testimoni9anza è diventata il segno ecclesiale di credibilità e il paradigma per l’ecclesiologia. Non per niente i termini “testimoniare”, “te-

Le fonti della Dottrina Sociale della Chiesa (parte XVII)17. La teologia del laicato nel Concilio Vaticano II: (a cura di Oreste Bazzichi, redazione de La Società)

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stimonianza” e “testimone” appaiono ben 133 volte nei docu-menti conciliari e vengono applicati sia alla Chiesa intera sia a ciascun cristiano, e in forma assolutamente prioritaria ai laici nel cap. IV della Lumen gentium. In effetti, la testimonianza, oltre a caratterizzare la vita cristiana ed ecclesiale, indica sia la pratica cristiana quotidiana propria di ogni giorno sia l’im-pegno etico-antropologico, che mette in rilievo l’implicazione della caritas in veritate. In questo senso la testimonianza laica-le diventa paradigma di credibilità della Chiesa.

Il secondo punto di forza è l’organizzazione ecclesiale come espressione di comunione. Essendo la Chiesa una co-munione tra le chiese particolari, tutte le sue azioni debbono essere contrassegnate da uno stile comunionale, che si espri-me comunitariamente e socialmente nel camminare insieme. Di fatto il Vaticano II ha dato nuovo valore all’espressione “chiesa locale”, rendendo obbligatoria ad essa la partecipazio-ne di tutti i battezzati, clero e laici. La dimensione operativa della Chiesa come comunione di chiese si esprime in modo pieno e supremo non solo nel “Collegio episcopale” o nella “Conferenza nazionale dei vescovi”, ma anche nel Sinodo, che si esprime con una partecipazione qualitativa diversa e più coinvolgente di tutto il Popolo di Dio. Così il Vaticano II ha ri-lanciato la Chiesa locale con le diverse strutture sinodali (il Si-nodo dei vescovi, le Conferenze episcopali, i consigli pastorali, presbiterali, di consultori, oltre ai Concili particolari e Sinodi diocesani. Ma in modo del tutto particolare, la promozione della sinodalità di tutti questi organismi, che dopo cinquanta anni dal Concilio stanno facendo ancora il loro rodaggio, tro-va qualche difficoltà concreta nell’operatività ecclesiale: anzi-tutto, nella reale uguaglianza e unità di tutti i battezzati; in secondo luogo, nel riferimento fondamentale del sacerdozio comune di tutto il Popolo di Dio, soprattutto dei laici e delle laiche; infine, nella corresponsabilità comune nella Chiesa.

Il terzo punto di forza è l’aver spostato l’accento dall’ec-clesiologia societaria (non più una “società perfetta”, chiusa e riservata ai soli cattolici) all’ecclesiologia di

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StrumentiOreste Bazzichi - Le fonti della Dottrina Sociale della Chiesa (parte XVII)

comunione (una “comunità aperta”, “Popolo di Dio in cammino attraverso la storia”), in comunione degli uomini tra loro e con Dio: “la Chiesa è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (2).

Il quarto punto di forza è l’aver sottolineato la dimen-sione storica della salvezza: Cristo è Dio fatto uomo che entra nella storia del mondo, l’assume e la ricapitola in sé. Egli sta all’inizio, al centro ed alla fine della storia. L’Incarnazio-ne, quindi, si compie nella storia di tutta l’umanità, attraverso tutte le epoche e le culture (3).

Il quinto punto di forza riguarda il superamento della dicotomia tra salvezza evangelica e autonomia delle re-altà terrestri; tra i due piani non vi è dualismo, ma integra-zione e complementarietà.

Pertanto, attenzione alla continuità storica, da un lato, con-sapevolezza di entrare in un’epoca nuova, dall’altro. L’atteg-giamento di dialogo e di simpatia nei confronti del mondo moderno aveva lo scopo di promuovere l’evangelizzazione del mondo attraverso rinnovati spunti tematici immediati per la vita del cristiano: dal rinnovamento liturgico alla spiritualità sacramentale e cristocentrica, alla libertà religiosa, allo spirito ecumenico e al dialogo con le religioni non cristiane, al matri-monio, agli strumenti di comunicazione sociale, alla santità dei laici, alla loro posizione nella Chiesa.

2. Passi avanti da compiereNell’epoca della globalizzazione, della secolarizzazione, del virtuale, del post-moderno, il contesto socio-culturale è di-ventato irreversibile, e la Chiesa, per agire da fermento spi-rituale, deve porsi in modo nuovo, senza andare lontano a cercare cambiamenti. Questi sono ben indicati nel Concilio: la Chiesa “è Popolo di Dio”. Nella Costituzione Gaudium et spes,al n. 32, si legge: “comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia dei figli, comune la

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vocazione alla perfezione. Nessuna ineguaglianza, quindi, in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla razza o nazione, alla condizione sociale o al sesso. Quantunque alcuni per volon-tà di Cristo sono costituiti dottori e dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera ugua-glianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo”. Quindi la gerarchia è all’inter-no e non al di sopra del “Popolo di Dio” e l’autorità è servizio e testimonianza.

In una Chiesa “Popolo di Dio in cammino nella storia”, i fedeli laici acquisiscono teologicamente una grande responsabilità nella Chiesa e nel dialogo con il mondo: partecipando, attra-verso il battesimo e la cresima, dell’ufficio sacerdotale, profe-tico e regale di Cristo, essi devono prendere coscienza che non possono continuare ad essere dei minorenni della fede, perché solo da una fede matura è possibile una ripresa di spiritualità nella Chiesa. Lo Spirito Santo agisce nella storia e il mondo ha bisogno di risposte adeguate, che sono contenute nel Vangelo. Ma i cristiani per annunciarlo devono essere capaci di ascol-tare il mondo, conoscerlo, leggerne le gioie e le sofferenze. Il Concilio ha detto a quanti non appartengono alla Chiesa, e se ne proclamano estranei, che i cristiani che vivono in mezzo a loro partecipano alla costruzione di una società civile più umana e sanno di dover essere portatori di fiducia, fraternità e speranza. La Chiesa è consapevole che vivere il Vangelo in una “società liquida” – per usare la terminologia di un gran-de sociologo vivente, Zygmunt Bauman – è molto difficile, a volte appare persino impossibile a causa di una generazione ormai indifferente all’evento cristiano, eppure non c’è alter-nativa alla missione di salvezza per rendere presente già ora il Regno di Dio nell’umanità di oggi.

Celebre a questo proposito è il Sermone di Natale di Papa Leo-ne Magno (440 – 460) in cui esorta il singolo fedele a svegliar-si dal sonno e dalla pigrizia spirituale: “Agnosce, o cristiane, dignitatem tuam!” (4). Oggi il cristiano è senza la sua dignità. Non la conosce se non a parole. E’ questo il richiamo del Con-

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StrumentiOreste Bazzichi - Le fonti della Dottrina Sociale della Chiesa (parte XVII)

cilio. Sarebbe sufficiente un risveglio di dignità di un gruppo di cristiani per cambiare il mondo.

Un primo passo ancora da completare è la relazione laici-Chiesa. Si può forse essere cristiani senza Chiesa visi-bile? Possono vivere vocazioni e carismi senza che la Chiesa li custodisca, li nutra e li sostenga? Essere cristiani laici signi-fica appartenere al Popolo di Dio e al principio e criterio di globalità ecclesiologica che lo sorregge. La stessa ecclesiologia di comunione rischia di diventare ambigua senza un solido riferimento all’unità e, nel contempo, all’ammirabile differen-ziazione dei carismi.Il Concilio era perfettamente cosciente del fatto che l’apostola-to dei laici aveva spesso girato a vuoto. Per questo, sia il decre-to sui compiti pastorali dei vescovi che quello sulla missione e sulla vita sacerdotale e sull’apostolato dei laici richiamava-no l’attenzione sulla necessità di un miglior coordinamento e di una più interna collaborazione tra le varie associazioni e i gruppi apostolici.

Un secondo passo è riconoscere che la realizzazione del Regno di Dio su questa terra avviene prioritariamente dall’azione dei fedeli laici. Infatti, l’apertura al Regno che connota la Chiesa e il suo agire incide sulla figura laicale più che su altre figure ecclesiali. Sono i cristiani laici che del Regno colgono in via immediata la realtà, le esigenze e le attese. La coscienza di essere nella storia, come attori e non come spet-tatori, dà ruolo e significato teologico-sociale ai laici di abitare dentro la città degli uomini.

Un terzo passo, incompiuto, è stata la mancanza di un documento unico totalmente dedicato al matrimonio e alla famiglia. Ciò ha reso meno organico e meno ordinato l’insegnamento del Concilio Vaticano a questo proposito, ed ha richiesto in più tempi ed a più riprese l’intervento del ma-gistero papale: basta ricordare Humanae vitae (1968) di Paolo VI, Familiaris consortio (1981) e Mulieris dignitatem (1988) di Giovanni Paolo II.

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3. Le eredità del Concilio Vaticano IILa prima e più evidente eredità del Concilio è quella di una Chiesa liturgica che passa dal “sentir messa” a celebra-re messa.

La seconda eredità è l’aver riaperto lo scrigno all’ascol-to della Parola di Dio.

La terza eredità è stato il passaggio dalla Chiesa socie-tas organica alla Chiesa communitas. Cioè, ad una Chiesa del popolo, non in quanto opposizione ad una Chiesa di élite,ma perché è adunata con una vocazione comune alla santità ed alla perfezione nella carità.Infine, la quarta eredità del Concilio è stata la più indi-cativa: l’apertura al mondo, una Chiesa per gli uomini.L’apertura espressa dalla Costituzione pastorale Gaudium et spes va letta con l’enciclica Spe salvi di Benedetto XVI, che si mostra attenta al carattere ambivalente del criterio dei “segni dei tempi”, e quindi alla ricerca di una speranza e di un futuro.

Considerazioni conclusiveCamminare come laici cristiani nella Chiesa vuol dire realizza-re con tutta naturalezza quello che la fede propone: osservare con fedeltà e semplicità le esigenze centrali della vita cristia-na, ricercando una sintesi tra tradizione e rinnovamento, che sia capace di dare nuova linfa spirituale.

Tenere presenti le vere dimensioni della Chiesa universale: quella cattolica-universale che la globalizzazione può valoriz-zare, senza perdere la dimensione concreta, locale, incarnata e inculturata della propria vita cristiana.

Leggere la teologia della storia, oltre che la storia della Chiesa: storia di fedeltà e di infedeltà, di ricerca appassionata di Dio e di tradimenti. Solo una lettura di questo tipo – che è una lettu-ra autenticamente biblica – può servire veramente gli uomini male illuminati a riconoscersi deboli e sottomessi al Vangelo.

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Note

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(1) Anche se – occorre osservare – che a questa iniziale ricezione positiva se-guì ben presto una progressiva dimenticanza della stessa teologia specifica del laicato a vantaggio della teologia centrale del “popolo di Dio”. Solo venti anni più tardi, nel 1988, con l’Esortazione Apostolica postsinodole Christifi-deles laici, la teologia del laicato riprese vigore. Da segnalare che la collocazio-ne ecclesiale del fenomeno dei movimenti è sempre stato uno dei problemi storici della Chiesa, a cominciare dalle origini, a proseguire dalla tradizione degli Ordini mendicanti del XIII secolo, fino a giungere alle spinte di rinno-vamento attuali.(2) Cfr. Lumen gentium, n.1.(3) Cfr. Gaudium et spes, n. 1.(4) MIGNE, Patrologia Latina, col. 192.

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Bibliografia essenziale

P. SCABINI, Vocazione e missione dei cristiani laici:un incom-piuto del vaticano II?, in “Il Concilio davanti a noi”, AVE, Roma 2005, pp. 93 – 102.R. REZZAGHI, I laici nella Chiesa, tra discussioni e speranze, in “Orientamenti Pastorali”, 10 (2009)5 – 13.AA.VV., Teologia dal Vaticano II. Analisi storiche e ermeneuti-che, Edizioni San Paolo, Cnesello balsamo 2012..

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Il cristianesimo nell’ora presente: posso pensare il cri-stianesimo di fronte all’anima di ciascuno di noi, posso pensare al modo in cui oggi ciascuno di noi deve vivere il cristianesimo e a ciò che il cristianesimo può dare alle nostre anime. Non ho che da prendere in mano il Vangelo e leggere.

Se ognuno vivesse davvero il cristianesimo, non ci sa-rebbero tante questioni da risolvere. Ma credo che i no-stri dirigenti abbiano voluto che noi pensassimo al cri-stianesimo nel momento storico attuale: a ciò che può dare per risollevare l”umanità a quella altezza alla quale è chiamata. Sotto quest’altro punto di vista - che chiamerei sociale - pensare ai compiti del cristianesimo è pensare necessariamente a tutta l’umanità: per il cristianesimo in-

hanno mai conosciuti. E allora parliamo oggi di questo.

Proponiamoci un piano che ci orienti un poco: pensan-do all’umanità come soggetto della storia, vedremo che essa ha una sua vita, sue aspirazioni ed una meta ultima su questo tema: la civiltà. E ci domanderemo: si arriverà a questa meta?

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Cristo nei nostri fratelli*

* In Giorgio Zanotto. Frammenti di un personaggio veronese,Verona, Fondazione Zanotto, 2003, pp. 393-394.

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Finito di stampare nel mese di tto re 2015Neosigno | Agenzia per le comunicazioni sociali

www.neosigno.it

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