LA STORIA DI TRIESTE
Trieste è una città di oltre 208.000 abitanti e si trova in Friuli Venezia Giulia, di
cui è il capoluogo regionale. Posta sulla costa
friulana, nel cuore del Golfo di Trieste, la città
sorge al confine con la Slovenia.
Ricostruzione storica a cura di Giorgio Weiss
Alcuni storici, molto semplicisticamente,
attribuiscono al nome di Tergeste il significato
romano di “costruita tre volte”. Secondo altri
queste sono solamente delle “dicerie” in quanto il
termine non è romano, bensì molto più antico.
Esso deriverebbe da terg, termine tratto da un
antica lingua indoeuropea, o forse dialetto, che
aveva il significato di mercato e dal suffisso este,
tratto dal linguaggio dei Veneti, che voleva dire città.
Sarebbe prova di questo suffisso il nome di alcune città,
quali Ateste e Segeste, fondate dagli antichi Veneti tanti secoli
prima. Per quantificare l‟epoca bisogna pensare che ciò avvenne prima che i
Romani, scendendo dai loro colli, si espandessero nella pianura sottostante
dove, dopo aver bonificato le paludi, eressero quella che è oggi chiamata la
“città eterna”.
Secondo questa interpretazione il nome della città di Tergeste significherebbe
luogo di mercato o meglio ancora città-mercato.
Sono riuscito ad identificare ancora una versione, che io ritengo leggendaria e
poco probabile, in cui il nome di Tergeste deriverebbe dal nome di un
guerriero, tale Tergesto o Tergesteo, che seguendo Antenore o Diomede e il
popolo dei Veneti, una volta caduta Troia, si fosse fermato in questi luoghi da
lui ritenuti splendidi, fondando una città a cui sarebbe stato dato il suo nome.
Io sono propenso che la seconda versione, quella di città-mercato, sia la più
realistica, però mi assale il dubbio che, se anche la terza versione sembri
leggendaria, potrebbe avere qualche fondamento di verità. Bisogna pensare
che ad un certo momento, le popolazioni indoeuropee cominciarono ad
espandersi e dilagare, diffondendosi in tutta l‟Europa, ma soprattutto nel
bacino del Mediterraneo. Uno di questi gruppi, sicuramente, giunse in queste
regioni. Chi li guidava non sarà stato il leggendario Tergeste o, comunque, un
altrettanto aitante condottiero, con spalle robuste, alto e biondo che era a capo
di questa tribù di Veneti?? E qui la storia vera si mescola con la leggenda,
tanto da disorientare un poco. Proseguiamo nell‟ analisi tenendo in sospeso
questa decisione sulle origini del nome di Trieste.
Siamo agli inizi dell‟età del ferro, circa mille anni prima della nascita di Cristo.
Da questo momento cominciamo ad avere i primi dati certi dell‟insediamento
umano nei nostri territori. I gruppi di persone, le tribù dei popoli che
confluirono nella nostra zona, si attestarono sulla cima delle colline che
circondano il golfo, costruendo villaggi e recintandoli con dei grossi e poderosi
muri in pietra, a secco, cioè appoggiando e adattando le pietre una sull‟altra
senza l‟uso della malta. Nacquero così quelle costruzioni che noi oggi
chiamiamo castellieri. Il più ben conservato e grande castelliere che è stato
ritrovato nella nostra regione è quello di Slivia, altri vennero portati alla luce in
diverse zone del Carso. Sicuramente altri castellieri furono eretti anche sui colli
più vicini alla costa ed essendo questi più prossimi al livello del mare erano
pertanto climaticamente più confortevoli.
Dati i successivi e più recenti insediamenti, gran parte di questi castellieri
scomparve. Comunque furono ritrovate rare, ma sicure testimonianze sul colle
di San Vito ed esse fanno pensare che anche i colli di San Giusto, Servola, San
Pantaleone, Scorcola, ecc. abbiano avuto il loro castelliere. Il colle di San
Giusto, in modo particolare, essendo il più vicino al mare, è il più probabile
insediamento di qualche gruppo indoeuropeo. Resti in zona non ne sono stati
trovati ma ciò, sicuramente, è dovuto al fatto che già all‟epoca romana la cima
del colle fu livellata per permettere la costruzione di templi e basiliche
eliminando ogni traccia precedente. L‟attuale via San Michele, quasi
sicuramente, si snoda su di una strada aperta dalle genti preistoriche, che la
usavano per scendere dai villaggi e raggiungere il mare, dove avrebbero
trovato dei navigli provenienti dall‟ Oriente o dal Mediterraneo per poter
barattare le loro mercanzie con i prodotti locali. E‟ probabile pure che, dalle
zone baltiche, giungessero delle carovane di mercanti al punto di mare più
vicino dove poter vendere l‟ambra, prodotta in gran quantità nelle loro regioni,
ai mercanti dell‟Oriente che ne facevano grande richiesta.
Tutte queste sono congetture, supposizioni,
ipotesi, teorie e non certezze documentate;
infatti i primi scritti che provino l‟esistenza di
Tergeste risalgono al primo secolo avanti
Cristo.Risulta infatti che Roma, avendo
consolidato il suo potere e dominio sulla
penisola e in gran parte del Mediterraneo,
decise di espandersi verso nord onde
rafforzare le difese per arginare le calate dei
barbari che, periodicamente, valicando le
Alpi, cercavano sbocchi in territori più fertili
e temperati. Partendo dal presupposto, come
detto, che qui, esistesse un piccolo villaggio
veneto, più ad est nella penisola istriana, certamente, erano insediati gli Istri
che erano degli abilissimi marinai e quindi pirati, nonché dei formidabili
guerrieri.
Ad ovest, poco distante dalle nostre terre, sorse Aquileia fondata, si presume,
nel 183 avanti Cristo, che fu una città e un porto di grossa importanza per i
Romani. Come dicevamo, essendo gli Istri dediti anche alla pirateria,
continuamente attaccavano le navi romane, che andavano e venivano dal porto
di Aquileia. I traffici erano in costante aumento e specialmente da questo porto
partivano navi cariche, tra l‟altro, di anfore vinarie contenenti il famosissimo
vino “Pucinum”, i cui vigneti si estendevano sul fianco del ciglione carsico che
va da Sistiana a Prosecco. Fu considerato un vino terapeutico e tanto caro, poi,
all‟imperatrice Livia, moglie dell‟imperatore Augusto. Al contrario, provenienti
da Roma, giungevano merci di tutti i generi, necessarie ai legionari che ivi
risiedevano.
Fu in quel periodo che, via terra, i Romani si spinsero
e si insediarono, cacciando i Veneti, in queste nostre
terre e precisamente dal colle di San Giusto fino al
mare. Tra il 178 e il 177 avanti Cristo, tale Console Manlio Vulsone partì da
Aquileia con le sue legioni per portare guerra e distruzione in Istria e punire
così gli Istri per le loro azioni di pirateria e dissuaderli da future incursioni. La
spedizione punitiva si stava per trasformare in una disfatta, sta di fatto che la
prima battaglia contro gli Istri fu quasi perduta.
Dove si svolse la prima battaglia non è del tutto stabilito, ma sembrerebbe che
le località più probabili fossero Sistiana o la piana di Bagnoli o forse anche
quella di Zaule; alcuni studiosi identificano la zona nella gola Cattinara-
Montebello, ma ciò, strategicamente, è poco probabile. Qualche notizia su
questa battaglia si può trovare in uno scritto dello storico romano Tito Livio, il
quale narra che l‟esercito romano, comandato appunto da Manlio Vulsone, era
formato da due legioni, una coorte di Piacentini e più di tremila Carni. Lungo la
costa era affiancata da una non meglio definita flotta che trasportava i viveri,
le probabili armi e macchine belliche. La flotta si ancorò, quasi sicuramente o
al largo della vallata di Zaule o nel golfo di Muggia ed è perciò che il luogo più
probabile dell‟accampamento fosse la piana di Zaule. Anche qui solo congetture
in quanto reperti archeologici non furono mai stati ritrovati. Da quanto è stato
modo di capire dagli scritti di Tito Livio, si presume che da quell‟accampamento
una legione si fosse allontanata per far provvista di legna, probabilmente di
acqua e fieno per i cavalli. La coorte si accampò in una zona intermedia tra la
flotta ed il campo base. I Romani non potevano sapere che un numeroso
esercito di Istri fosse nelle vicinanze e, probabilmente nascosto in qualche
castelliere, aspettava il momento migliore per attaccare.
Gi Istri, al comando di un certo re Epulo,
piombarono a sorpresa
sull'accampamento, devastandolo, nel
momento in cui i legionari meno se
l‟aspettavano. I legionari romani, colti di
sorpresa, fuggirono disordinatamente per
raggiungere le navi e mettersi in salvo. A
sua volta le navi, vista la mala parata,
salparono le ancore per allontanarsi dal pericolo. Sembrava tutto finito, ma il
genio bellico romano e l‟inesperienza degli Istri volsero le sorti di quella che
sembrava una battaglia persa. Infatti gli Istri non inseguirono i Romani in fuga
e si diedero, al contrario, ad azioni di saccheggio dell'accampamento
abbandonandosi a laute libagioni con il pregevole vino dei Romani e
rimpinzandosi di cibi trovati in abbondanza. Il Console Manlio Vulsone riuscì a
rincuorare i suoi soldati e riunirli alla legione, che ignara dell‟ accaduto, stava
ritornando con la legna, il fieno e l‟acqua.
Chiamò in rinforzo i tremila Carni che erano accampati a cinquemila passi di
distanza corrispondenti a circa sette chilometri e mezzo.
Gli Istri, convinti di aver messo in fuga i Romani, dopo aver mangiato e bevuto
a sazietà, si addormentarono all‟interno dell‟accampamento conquistato.
L‟attacco romano fu portato tanto di sorpresa che colse gli Istri impreparati e,
sembra che oltre ottomila di essi rimasero uccisi. Gli altri si dispersero
fuggendo nel territorio. La stagione era avanzata e, dopo questa vittoria, il
Console stabilì di rientrare per svernare ad Aquileia. Decise, comunque, di
lasciare un presidio nella zona formata da una o due coorti e probabilmente i
tremila Carni più abituati al rigore dell‟inverno. Potrebbe essere che questo
presidio si fosse installato proprio sul colle di San Giusto facendo nascere così
la Tergeste romana, o comunque su di un colle, ma vicino al mare, dove,
eventualmente, le navi romane avrebbero potuto portare aiuto
e, lontano dai colli carsici dove, nei castellieri, potevano annidarsi dei gruppi di
Istri.
L‟anno dopo, passato l‟inverno, il Console Vulsone ritornò in forze ed invase
l‟Istria intera distruggendo tutti i castellieri che si opponevano alla sua
avanzata fino a giungere a quell‟enorme
castelliere che era la roccaforte di re
Epulo. Il castelliere sorgeva a Nasezio,
una località in prossimità dell‟attuale
Pola. Esso fu cinto d‟assedio dai Romani,
che fecero di tutto per conquistarlo
deviando, persino, il corso del fiume che
lo approvvigionava d‟acqua fresca. Visto
che era vano resistere, gli Istri prima
uccisero le loro donne e i loro bambini,
poi in molti, re Epulo compreso, si
tolsero la vita per non cadere prigionieri
dei Romani. Finì così la potenza degli
Istri, pirati, predoni e grandi guerrieri.
A questo, seguì un periodo alquanto
movimentato per la piccola colonia romana. Il grosso delle truppe se ne ritornò
ad Aquileia, mentre nel 166 a.C. i Carni si ribellarono e così pure nel 129 a.C. i
Giapidi, abitanti della zona del Monte Nevoso. Il confine stava diventando poco
tranquillo ed è per questo che, quasi sicuramente, Tergeste si trasformò in una
colonia militare romana. Nel 53 a.C. i Giapidi scesero nuovamente su Tergeste
e la saccheggiarono. Fu allora che Giulio Cesare inviò in questa zona le sue
legioni per fermare le invasioni. Fu necessario arrivare al 34 a.C. perché
Ottaviano Augusto debellasse definitivamente i Carni, i Giapidi ed altre
popolazioni montane, portando la pace in questa zona di frontiera.
Nel 30 a.C. Tergeste divenne territorio di Roma, che una volta finiva al
Rubicone ed ora arrivava al Formione, l‟attuale Risano, ed infine al fiume Arsa.
Fu così che l‟Istria intera, Tergeste insieme a Venezia ed Aquileia, formarono la
decima regione di quello che era l‟ordinamento dello stato romano. Tergeste
assurse a sempre maggiori onori in seno all‟ordinamento romano in quanto era
sede di un municipio romano retto da due alti magistrati, ebbe due senatori ed
il consiglio dei decurioni, che era un gruppo di cento cittadini scelto con voto
popolare. I cittadini, obbligati al servizio militare vennero assegnati alla XV
legione detta Apollinare.
Il municipio di Tergeste estendeva la sua influenza ed il suo potere ai Carni ed
ai Catali. La città si espanse talmente che fu necessario abbattere le mura
esistenti, tant‟è che la zona era ormai pacifica. Si pensa che, pur mantenendo
la forma “a scacchiera” tipica degli insediamenti romani, la città si estendesse
giù per il colle fino al mare. Delle mura romane abbattute, attualmente rimane
solamente un piccolissimo accenno nelle vicinanze dell‟Arco di Riccardo. La
parola “Arco di Riccardo”, nome coniato dal popolino, farebbe pensare ad un
arco di trionfo, come tanti ce ne sono a Roma, invece altro non è che una porta
della città lasciata lì per abbellire la zona. La prova che trattasi di una porta e
non di un arco è data appunto dagli scavi eseguiti, tempo fa, dagli archeologi
che trovarono sotto di essa la parte del muro di cinta rimasto. Tergeste, tanto
si era espansa ed aveva assunto un ruolo importante nell‟ordinamento romano,
che si sentì la necessità di approvvigionare direttamente d‟acqua la città, ed è
così che fu costruita quell‟ opera grandiosa che era l‟acquedotto. Esso partiva
dalla Val Rosandra, dove ancora oggi ci sono ben
visibili i resti, per giungere, attraversando la piana di Zaule, fino alla città.
Dobbiamo arrivare agli inizi del primo secolo dopo Cristo per avere altre
testimonianze romane in Tergeste. Bisogna pensare che, in quell‟epoca, la vita
era breve ed il tempo passava monotono e che per creare cose imponenti ci
volevano parecchi
decenni se non
proprio secoli.
Il cuore e la vita
dell‟insediamento
romano era il colle di
San Giusto dove
abbiamo le maggiori
testimonianze.
L‟attuale Cattedrale
fu eretta sopra i resti
del tempio capitolino.
Si stima che il tempio fosse lungo oltre venti metri e largo quasi diciotto. Due
avancorpi laterali formavano i pronai sorretti rispettivamente da quattro
colonne ciascuno. Ne è testimonianza più certa la nicchia scavata sotto la torre
campanaria dove si possono notare i fusti anneriti delle colonne. Ad esso, che
era il maggior tempio della città, si accedeva dall‟attuale via della Cattedrale
che è di sicura epoca romana. Si pensa che il tempio fosse dedicato alla triade
capitolina, cioè Giove, Minerva e Giunone.
Bisogna arrivare agli inizi del secondo secolo dopo Cristo per vedere un‟altra
imponente opera e cioè la basilica forense che fu eretta sullo spiazzo di San
Giusto. Di essa rimangono parte delle colonne che formavano l‟edificio,
anch‟esse ricostruite dalla Sovraintendenza, dove la parte in pietra è originale
dell‟epoca, mentre i mattoni sono stati aggiunti per ridare la rotondità ed il
diametro delle colonne stesse. Bisogna tener presente che a differenza del
“tempio” capitolino, che era un luogo di culto, la “basilica” forense era un luogo
pubblico dove veniva amministrata la giustizia e serviva a tenere riunioni,
anche pubbliche. La basilica era molto grande infatti, guardando i resti, si può
calcolare che essa avesse almeno una lunghezza di ottantotto metri ed una
larghezza di ventiquattro. Si può notare la scala d‟accesso alla basilica e la
“vasca” il cui contorno è visibilissimo a terra e
dove, probabilmente, sedevano i giudici. Sul perimetro si può notare un
canale, il quale certamente raccoglieva l‟acqua piovana, che veniva scaricata
dalle gronde della basilica e poi convogliata in un grande pozzo, ora non
visibile perché coperto dal manto stradale.
Da questa imponente opera si presume che in quell‟epoca la città di Tergeste
avesse assunto un importante ruolo nell‟amministrazione romana. Infatti fu un
grosso nodo di comunicazione, anche perché l‟importantissima città di Aquileia
commerciava intensamente con l‟Europa centrale ed orientale. Dato che il
nome di Quintus Baienus Blassianus è stato rilevato
su parecchie lapidi rinvenute tra i resti della basilica,
si ipotizza che lo stesso fosse o il costruttore o un
cittadino benemerito o più semplicemente una
persona che avesse ricoperto importanti cariche civili
o militari e quindi degno di essere ricordato ai
posteri. Altra testimonianza, datata tra il primo e il
secondo secolo dopo Cristo, è il bellissimo teatro
romano, probabilmente fatto erigere dal famoso ed
insigne cittadino di Tergeste, che fu Quinto Petronio
Modesto, e del quale teatro oggi è ben conservata la
parte interna, manca infatti la facciata, che era adorna di numerosissime
statue, come dimostrano i numerosi frammenti architettonici e i gruppi di
statue che furono rinvenuti. Il teatro romano sarebbe stato il più bel
monumento romano che avremmo potuto avere se, nel Medioevo, come è
successo un po‟ dappertutto, ma specialmente a Roma, i signorotti ed i prelati
di allora non avessero saccheggiato le parti migliori dei templi pagani per
erigere chiese, palazzi e castelli. Più che un teatro esso era considerato
un‟Arena, anche se non aveva la classica forma ellittica, in quanto venivano
proposti anche spettacoli con i gladiatori. Del resto il nome del rione oggi
conosciuto come “Rena Vecia” deriva appunto da Arena Vecchia o vecchio
teatro che vogliasi dire.
Era il periodo “aureo” della Tergeste di allora, lo dimostrano i numerosi
tempietti, che furono eretti. Ad esempio quello dedicato alla dea delle messi,
Cibele, i cui pochi resti sono stati rinvenuti presso l‟arco di Riccardo; quello in
onore di Bona Dea ritrovato scavando le fondazioni della Riunione Adriatica di
Sicurtà sul lato della via S.Caterina oppure quello dedicato al dio Beleno nei
pressi della via Bramante. Data l‟importanza che aveva assunto Tergeste,
anch‟essa avrà avuto il suo Foro, situato probabilmente sempre sul colle di San
Giusto, ma non avendone ritrovati i resti, nemmeno sotto la Cattedrale, si
presume che potesse trovarsi, da qualche parte, sotto l‟attuale castello. Fu
ritrovata solamente una grande base sulla quale era eretta una statua equestre
in bronzo aureo del più insigne dei Tergestini,
Fabio Severo. Probabilmente, la statua fu predata
dai barbari che la credevano d‟oro o per essere
fusa onde poter forgiare nuove armi. Sul
basamento rinvenuto c‟è inciso il più antico
documento tergestino che magnifica i meriti di
questo personaggio. Egli fu dapprima un
magistrato a Tergete e poi senatore a Roma
durante l‟impero di Antonino Pio. In seguito si
adoperò sempre per rendere grande Roma
capitale e la sua città natale. I nobili, i ricchi
mercanti, nonché i notabili della città fecero
costruire delle splendide ville con pavimenti in
mosaico, fontane e giardini a Barcola a Sistiana e
Santa Croce, mentre sui colli soprastanti sorsero ville agricole e molte fattorie.
I commerci nel porto fiorivano tanto che si pensa a parecchi piccoli porticcioli
disseminati lungo la costa: uno lungo la riva Grumula, uno a Barcola – il cui
nome latino era Vallicula che significa appunto porticciolo, e quello principale
alle spalle dell‟attuale piazza dell‟Unità d‟Italia. Ciò a dimostrare appunto che il
teatro romano si affacciava sul mare. La romana Tergeste doveva essere,
certamente, una gran bella, ricca e fiorente città e visse a lungo un periodo
felice di pace, serenità e prosperità. Purtroppo le cose belle sono destinate a
finire, infatti Trieste dovette subire, ad ondate successive, invasioni di barbari
di ogni genere finché nel 568 i Longobardi la rasero completamente al suolo e
tutti gli abitanti, che non riuscirono a mettersi in salvo, vennero trucidati. Nel
571, i Triestini superstiti, portando con sé, gelosamente, le reliquie dei santi e
le poche e povere cose che erano riusciti a salvare, faticosamente,
ricostruirono le loro case cinte con nuove mura di difesa. Ma la pace era finita e
per molti secoli i Triestini dovettero solamente combattere.
Nel periodo romano anche a Tergeste, come nel resto dell‟impero, sorsero le
prime comunità cristiane e pertanto anche qui ci furono le persecuzioni ed i
martiri. Una delle più significative testimonianze fu casualmente scoperta nel
1963 durante l‟esecuzione dei lavori in una scuola e scavando il manto stradale
davanti ad essa, in via Madonna del Mare. Nel sottosuolo viene conservata
l‟antica basilica della Madonna del Mare, che non
ha niente a che vedere con la moderna chiesa
in piazzale Rosmini. Si trova in uno spazio
angusto, anche perché per ripristinare la
strada soprastante si è dovuto fare una copertura
in cemento armato poggiante su grosse
travature portanti. Questa basilica aveva una
pianta a forma di croce. Per quanto è dato sapere,
potrebbe essere la prima chiesa di Trieste. Poter
stabilire l‟epoca della prima costruzione è
quasi impossibile. Si può notare un mosaico ricco di
motivi ornamentali, decorativi e ricchi di colori,
che però sovrasta uno più modesto,
formato da tessere bianche e nere. E‟ quasi certo che, per abbellire la chiesa,
fu posto sopra l‟originale pavimento uno più ricco e decorativo e che si può far
risalire al quinto o sesto secolo. Si può supporre che il pavimento sottostante
sia stato costruito per erigere un tempio in conseguenza della liberalizzazione
del culto cristiano decretato da Costantino nel 313. Potrebbe, ma non se ne è
sicuri, che la prima chiesa sia stata eretta sopra, allargandolo, un sacello
cristiano, magari risalente al duecento, dove erano sepolti i martiri cristiani. Di
martiri cristiani Tergeste ne ha avuti molti. Di quelli di cui si hanno notizie, i
primi risalgono all‟epoca dell‟imperatore Antonino Pio, tra gli anni 140 e 150 e
sono Giacinto, Marco, Galliano e Giasone seguiti, pochi anni dopo, da Lazzaro e
Apollinare. Il secolo seguente, sotto l‟imperatore Valeriano, furono martirizzati
Zenone e Giustina ed alla fine del secolo abbiamo i santi più famosi, che sono
San Servolo, San Sergio ed infine San Giusto, giustiziato nel 303. Tanti altri,
meno noti, furono sepolti in questo sacello. La vicina via Santi Martiri è la
testimonianza del ritrovamento dei resti di questi santi nella basilica
paleocristiana della Madonna del Mare.
Chiusa questa parentesi, eravamo rimasti all‟anno 568 e all‟invasione dei
Longobardi ed all‟inizio del periodo più buio e più difficile da capire per la città
di Trieste. Mancano notizie riferenti a questo periodo e non ci sono
testimonianze scritte dirette anche a causa dei saccheggi e delle distruzioni che
avvenivano ad ogni passata barbarica. Si sa che i Bizantini liberarono questa
regione annettendola al loro impero, però successive invasioni barbariche tra le
quali, per la prima volta, quella di torme di Slavi agli inizi del settimo secolo,
fecero ripiombare la regione in uno stato di prostrazione. I Bizantini, nel
frattempo, avevano fondato l‟esarcato di Ravenna, che avrebbe avuto la
giurisdizione sulla regione veneta e sull‟Istria, che divennero “province militari”
create sulla falsariga delle “province di frontiera” dei Romani. Ogni uomo di
Trieste e del territorio doveva essere pronto a difendere e vigilare le frontiere
orientali, lungo le Alpi Giulie, dai Germani e dagli Slavi e lungo l‟Isonzo dai
Longobardi, che avevano Cividale come capitale. Con questo consolidamento,
per centocinquanta anni, Trieste non subì invasioni di sorta e poté, grazie al
porto, sviluppare traffici con l‟oriente smerciando il sale, prodotto nelle
numerose saline, e i suoi pregiati vini. Nel 752 i Longobardi, oramai civilizzati,
rovesciarono l‟esarcato bizantino di Ravenna, impadronendosi pure dell‟Istria.
Ai Bizantini rimase solamente la costa veneta con l‟isola di Grado. Nel
frattempo i Carolingi stavano sviluppando il Regno d‟Italia e, liberando il
Veneto dai Longobardi, lo annessero al regno della Chiesa. Fu il periodo delle
guerre religiose tra Sacro Romano Impero e quello orientale dei Bizantini e con
alterne vicende i territori passarono da un blocco all‟altro finché non nacque
quella grande potenza, che fu Venezia e che dominò per quasi mille anni.
Trieste, al di fuori di queste vicende, rimase
un feudo carolingio di stampo tedesco, agli
ordini del duca Giovanni, che impose nuove
tasse, servizi obbligatori, la leva militare ed
infine chiamò in Istria gruppi di Slavi ai
quali donò terre e pascoli appartenenti agli
Istriani. Quest‟ultimo episodio ricorda
fatti, a noi, più recenti e tristemente noti.
Nell‟ottocentoquattro gli Istriani si appellarono all‟imperatore Carlo Magno, che
nella piana del Risano convocò un‟assemblea cui parteciparono tutti i comuni
istriani e così pure Trieste, nella quale fu deciso che il duca Giovanni ridesse i
privilegi tolti ai comuni. Ecco che, pur facendo parte del regno dei Carolingi, i
comuni e così pure Trieste, si amministrarono da soli. La flotta del Ducato di
Venezia, in Adriatico, arginò le scorrerie di Saraceni e Slavi delineando così la
sua potenza sul mare riconosciuta anche dai comuni istriani che vissero una
sorta di vassallaggio relativamente ai traffici marittimi. Le cose si stavano
mettendo male, perché il Regno d‟Italia non aveva più né la capacità né la
forza di difendere i confini. Trieste e le città istriane furono praticamente
abbandonate e dovettero difendersi da sole quando, tra la fine dell‟800 e gli
inizi del 900, ci furono le invasioni di Ungari e Slavi. Con l‟aiuto dei vescovi,
che nel frattempo avevano ottenuto maggiori poteri, resistettero a quella
bufera. Trieste non fu mai vassalla a nessuno, però dovette versare i tributi e
le tasse non più al re, ma al Vescovo Giovanni e ai suoi successori, in quanto lo
stesso re aveva ceduto tutti i suoi diritti sulla città. Un balzello annuo doveva
infine essere versato pure a Venezia per riconoscere la sua supremazia sul
mare. In realtà Trieste, pur essendo un libero comune e governandosi con i
suoi magistrati, doveva pagare tasse a Venezia ed al Vescovo riconoscendo
così l‟autorità del
Sacro Romano Impero.
Siamo arrivati appena
intorno all‟anno mille e
già quante cose sono
successe in questa
nostra terra. Ho
dovuto rintracciare
notizie su vari libri,
testi, volumi e
manuali, talvolta
discordanti tra loro per
le personali
interpretazione date dagli autori. Anch‟io, evidentemente, ho dovuto scegliere,
ragionare e dare quella interpretazioni che ho ritenuto più possibile aderente
alla realtà. Adesso passiamo al millennio seguente, altri libri, altre notizie da
vagliare, altre fatiche. Non avrei mai pensato che queste “fatiche” potessero
essere così piacevoli, perché scopro notizie e nozioni che, per uno storico
possono sembrare ovvie, ma per me sono cose nuove e inaspettate....e
pensare che a scuola la “storia” la digerivo male. Praticamente passiamo al
“medioevo” che letteralmente significa l‟età di mezzo, tra quella antica e quella
moderna. Il termine “medioevo” fu usato per la prima volta dal tedesco
Cristoforo Keller nella sua “Historia medii aevi” dai tempi di Costantino alla
caduta di Costantinopoli del 1453. Convenzionalmente però, la fine del
medioevo e l‟inizio dell‟era moderna si fa coincidere con la scoperta
dell‟America, nel 1492. La valutazione, comunque, di questo periodo è del tutto
simbolico in quanto è stato variamente modificato dagli studiosi, secondo che,
da un lato la decadenza, dall‟altro il rinnovamento, siano stati valutati da un
punto di vista artistico, culturale, religioso, politico, economico, sociale, ecc.
Ma ritorniamo alla nostra Trieste e riprendiamo lo studio da dove l‟avevamo
lasciato. Come punto fisso prendiamo il 948, anno in cui il debole re Lotario,
erede ormai di un regno d‟Italia sempre più allo sfacelo e in balia dei feudatari,
consegnò la città di Trieste ed il suo territorio, che si estendeva per un raggio
di tre miglia oltre le mura, al vescovo Giovanni concedendo la completa
immunità a lui ed ai suoi successori. La parola immunità, all‟epoca, e nel
particolare periodo storico-politico in cui fu concessa, aveva un significato
particolare e cioè che tutte la cariche pubbliche e l‟amministrazione della città
passavano, in pratica, dalle mani dei funzionari governativi a quelle del
vescovo. Trieste, pertanto, divenne una città autonoma, non più legata al resto
del territorio formato dall‟ Istria da una parte e dal Friuli dall‟altra, e governata
dal suo vescovo. La città, all‟epoca, non era densamente popolate, il Caprin,
nelle sue ricerche stima che Trieste avesse forse seimila abitanti ma,
probabilmente, anche meno.
Fu un periodo “buio” per tutta la regione. Il Friuli, a causa delle invasione dei
Magiari, non aveva quasi più abitanti, sembrava di essere ritornati alla
preistoria, la gente viveva in tuguri fatti di paglia impastata col fango, si
vestivano con le pelli e si nutrivano con quel poco che riuscivano a cacciare o
coltivare in miseri e piccoli orti. Anche a Trieste la situazione non era
certamente migliore.
A questo punto ho dovuto alzare gli occhi dai libri, dagli elaborati, dallo
schermo del mio computer e fare una riflessione e farmi una domanda: - Ma gli
sfarzi che Roma aveva portato in questi lidi dov‟ erano andati a finire? Cenere,
polvere, oblio, letargo, oscurità, periodo “buio” infatti. Invece di progredire la
vita, la civiltà, gli usi, i costumi regredivano in modo tale, come detto, che
sembrava di riessere alla preistoria.
C‟era tutto un fermento di eventi, il Regno Italico passò in mano ai re
germanici, infatti Ottone I° aggregò parte dell‟Italia settentrionale al ducato di
Carinzia. Ma anche questa situazione era
destinata a durare poco tempo in quanto,
essendo in piena epoca feudale, il re
abbandonò i territori nelle mani di conti,
marchesi e nobili in genere che erano e
diventavano suoi feudatari, che reggevano
ed amministravano città, castelli ed interi
territori restando del tutto autonomi e
dovendo al re solamente portare aiuto e
armati nelle guerre tra regnanti. E‟ per
questo che a Trieste, dopo il mille,
cominciammo ad avere vescovi con nomi
teutonici, mentre in Istria e nel Friuli
avemmo i nobili di origine germanica. Ne è
esempio che ad Aquileia il patriarca
Popone ricostituì la sua diocesi
ricostruendo pure la grande basilica poi consacrata nel 1301. E‟ così che
Aquileia divenne sempre più grande fino a diventare una vera e propria
potenza sia economica che militare. I vescovi di allora avevano ben altro ruolo
di quelli dei giorni nostri, erano difatti dei veri e propri guerrieri e, tra l‟altro,
fedeli vassalli del re. Non solo non erano degli ecclesiastici e non dicevano
messa, ma il più delle volte erano anche analfabeti. Questi vescovi venivano
nominati dal re e non più, come un tempo, dal popolo e dal clero ed erano
vestiti di armature in ferro anziché di paramenti sacri.
Questo andamento di cose non lasciò insensibili i papi, che cominciarono a
seccarsi di questo caos imperante e dichiararono, per intanto, decaduti tutti i
vescovi di nomina reale o che avevano, magari con l‟oro, comperato la loro
nomina e che erano più dediti a riscuotere tasse e gabelle dai loro vassalli che
curare le anime dei fedeli. Cosa successe nel resto d‟Italia non ci è dato di
sapere, però sappiamo che, per quanto riguarda Trieste, nel 1082 l‟imperatore
Enrico IV°, vista la situazione della città, spogliata e impoverita dalla politica
vescovile, la consegnò al patriarca di Aquileia in modo che avesse un
protettore più sicuro. Anche questa situazione era destinata ad essere
transitoria, infatti nei primi anni dopo il 1100, la città fu di nuovo in mano ai
vescovi estendendo il loro territorio ed esigendo decime e tasse anche da
Umago, Capodistria ed altre cittadine istriane. Essendo il territorio
notevolmente allargato ed ingrandito ci volle un gran numero di “servi fedeli”
che svolgessero i lavori amministrativi ed erariali per conto del vescovo. Ecco
che, in embrione, cominciò a formarsi una sorta di ceto medio, di borghesia
che in seno ai vari agglomerati urbani cominciavano ad avere una certa
importanza e considerazione da parte del popolino. La classe contadina, con
l‟espandersi dell‟agricoltura, cominciò ad avere il suo peso nella società d‟allora
ed appaiono anche le prime forme di attività artigianali autonome.
La difesa delle coste dai pirati del mare era a carico del potere vescovile, che
per far fronte a queste spese, “inventò” e cominciò ad avvalersi delle dogane.
Iniziamo così il dodicesimo secolo, ricco di fermenti, e stiamo avviandoci a
grandi passi al periodo comunale. Dopo centocinquant‟anni che la città fu in
mano dei vescovi, cominciò lentamente a liberarsi e togliersi di dosso questo
giogo, questo dominio che ormai le stava stretto. Capodistria nel 1177 ebbe il
suo vescovado, i vassalli più lontani erano passati ad altri signori, pertanto il
vescovo di Trieste si ritrovò con un territorio ristretto e soffocato da alcune
grandi potenze, quali il patriarcato di Aquileia, la contea di Gorizia, ma
soprattutto da Venezia.
Venezia infatti si stava
sviluppando nell‟Adriatico
estendendo il suo dominio o
perlomeno la sua influenza
su tutta la costa istriana e
dalmata. Tutte le cittadine
costiere di Istria e Dalmazia
dovettero sostenere una
sorta di vassallaggio, in
quanto la flotta veneta
teneva sgombri i mari dai
pirati. Trieste non fu
dammeno versando tributi a Venezia in orne* di vino. Nel 1202, la flotta
veneziana, al comando del doge Enrico Dandolo, e con al seguito migliaia di
soldati a cavallo francesi, prima di recarsi in Oriente per la crociata promossa
da papa Innocente III°, veleggiò sulle nostre coste per rintuzzare eventuali
velleità di protesta. Anche Trieste accolse con grandi fasti il doge con il suo
seguito.
*orna= recipiente a forma di cono nel quale le donne facevano il bucato e
aveva una capacità variante
dai settanta ai cento litri.
In quell‟occasione trecentrentasei Triestini firmarono un patto in cui si
sarebbero rispettati i beni dei Veneziani, che nel territorio triestino essi non
avrebbero mai pagato tasse di alcun genere e che avrebbero aiutato i
Veneziani a combattere la pirateria sul mare ed infine avrebbe “offerto” a
Venezia un tributo annuo di cinquanta orne di vino. La cosa importante di
questo accordo fu che esso fu firmato dai Triestini e non dal vescovo, che era il
signore della città, il che fa supporre che essi godessero di una certa libertà
amministrativa anche se il primo in testa dei firmatari era il gastaldo, sorta di
capo amministrativo nominato dal vescovo e comunque rappresentante del re.
Pochi anni dopo appare, per la prima volta, nominato il podestà. Il vescovado,
oberato di debiti , andò sempre più in miseria, mentre i cittadini ed il comune
videro aumentare
considerevolmente le
proprie ricchezze perché il
porto di Trieste era punto di
partenza e di arrivo per i
pellegrini, che si recavano
in Terra Santa facendovi
accorrere numerosi
mercanti. Nel 1253 per
sanare, almeno in parte, i
propri debiti concesse molti
privilegi, ad esso riservati,
al Comune e contemporaneamente nel 1283 non riconobbe più la sua
appartenenza all‟Impero, ma divenne vassallo diretto del patriarca di Aquileia.
Trieste fu quindi praticamente alle dirette dipendenze di Aquilieia. La città era
formata da cittadini che emergevano dall‟età feudale, con una coscienza
nuova, desiderosi di riscattarsi e governarsi da soli, ma, come oggi del resto, la
città aveva un retroterra ostile ed il mare, suo sfogo naturale, impedito da
Venezia, che nei commerci non ammetteva concorrenza alcuna. Sostenendo
perciò la causa di Aquileia che vantava diritti pure sulle cittadine istriane,
assieme al potente conte di Gorizia, Trieste si trovò coinvolta nel primo grosso
conflitto con Venezia.
Correva l‟anno 1289 e un grosso esercito veneziano venne qui, deciso a
distruggere o almeno a punire in modo esemplare Trieste. I Veneziani
costruirono una cittadella fortificata sul pendio dell‟attuale colle di Romagna e
che arrivava, per intenderci, fino all‟attuale tribunale. Il patriarca di Aquileia ed
il conte di Gorizia guidarono un poderoso esercito per soccorrere Trieste. I
Veneziani, dopo alcune piccole scaramucce, diedero una somma di danaro al
conte di Gorizia perché se ne ritornasse a casa. Il patriarca di Aquileia, visto
l‟esercito dimezzato, se ne ritornò anche lui nei suoi territori.
I Triestini, da soli, resistettero tenacemente alla superiorità di Venezia, tanto
da indurre il patriarca a ricostituire l‟esercito, tornare indietro e mettere in fuga
le truppe veneziane dalla cittadella di Romagna che i Triestini poi distrussero.
Nel 1291 fu firmata la pace tra Venezia e il patriarca di Aquileia e fu così che
Trieste dovette abbattere le mura sul lato mare consegnando le navi a Venezia.
Sembrerebbe che il secolo finisse male per la città invece, al contrario, esso si
chiuse in modo più che positivo. Nel 1295, pagando un grosso debito del
vescovo, Trieste acquistò tutti i diritti civili che esso aveva, facendo terminare
il potere che i vescovi avevano esercitato per quattrocento anni. La città era
finalmente padrona di se stessa terminando, con ciò, il periodo feudale ed
iniziando quello
comunale che vide la
città padrona del
proprio destino.
Quanti intrighi, quanti
grovigli, quante
macchinazioni,
quante complicanze,
tutto vortica nella mia
testa, devo fermarmi
un po‟ per cercare di
mettere a fuoco la
situazione. Non è
facile! Contemporaneamente vedo Istri, Romani, barbari invasori, vescovi,
Veneziani, Longobardi, tutto in una ridda di lampi contrapposti che mi fanno
vacillare, vedo mura, castellieri, fortificazioni, battaglie, distruzioni, saccheggi,
anche un po‟ di pace per fortuna. Credo che sia ora di smettere per un poco,
rileggere tutto, riordinare le idee, metterle in sequenza e capire.
Io che all‟inizio pensavo fosse una cosa da poco, dissi: - Cosa vuoi, Trieste è
piccola non ci sarà tanto da scoprire nella sua storia! Invece mi sono ritrovato
in una cosa più grande di me e delle mia capacità. Ma io sono testardo e non
desisto, per niente non ho un cognome tedesco, adesso mi concedo un attimo
di respiro, una pausa di riflessione e poi via di nuovo alla ricerca di notizie che
mi facciano continuare in questa mia analisi, anche se non è facile capire la
storia né tantomeno leggerla, perché ognuno interpreta un fatto storico, un
episodio, come meglio crede, come a lui conviene capire e credere e,
certamente, io non posso fare eccezione.
Siamo giunti al Trecento e vediamo un quadro generale per farci un‟idea della
situazione.
L‟Europa trecentesca fu colpita da gravi calamità naturali, carestie ed
epidemie ricorrenti vi portarono la fame e ne decimarono la popolazione. Il
secolo XIV° fu anche quello della guerra dei cent‟anni, dell‟avanzata dei Turchi
Ottomani in Asia e in Europa (1354), del papato avignonese, dello scisma
d‟Occidente. Gli ideali universalistici naufragarono col venir meno della forza
delle istituzioni, papato e Impero, che li sostenevano e di cui Dante fu l‟ultimo
assertore, testimone della misera fine di Enrico VII° di Lussemburgo (1313).
Ma alla caduta di quegli ideali, alla luce dei quali s‟era svolta tutta la vita civile
del medioevo, corrispondeva l‟affermazione nella realtà e nel pensiero dell‟idea
di Stato nazionale, maturata nelle grandi monarchie occidentali di Francia, d‟
Inghilterra, di Castiglia, d‟Aragona nel corso di conflitti secolari, mentre
nell‟area imperiale si consolidava la pluralità degli Stati regionali o cittadini di
Germania e d‟Italia (formata da signorie e città-stato del nord e del centro,
repubbliche marinare, domini della Chiesa, regno angioino di Napoli) e, a
Oriente, i regni di Boemia e d‟Ungheria andavano acquistando posizioni
rilevanti. L‟impero bizantino sommerso dalle colonie veneziane, genovesi,
catalane e ridotto a proporzioni sempre più esigue dai Turchi, ormai insediati
nei Balcani, andava perdendo ogni ruolo politico. Da questa visione europea
della situazione, restringiamo il punto focale per tornare alla situazione di casa
nostra. Ricercando nelle biblioteche notizie e nozioni inerenti il trecento
triestino si possono trovare moltissimi libri e pertanto moltissime idee, il più
delle volte in contrasto tra di loro. La vera verità non la sapremo mai! Anche
qui, soggettivamente, bisogna interpretare e analizzare e dare una propria
risultanza.
Prendiamo in considerazione un episodio nostrano, tra tanti, noto come la
congiura dei Ranfi. La prima domanda spontanea che ci si pone è: - Chi erano i
Ranfi? Anche qui proviamo ad inquadrare storicamente la situazione. In questo
periodo, nel trecento, si svilupparono molte signorie che non erano altro che
città o territori guidati da un‟unica famiglia. In molti casi si trattava di veri e
propri feudatari, che non dipendevano più da nessuno. Successe pure che
molte famiglie nobili e molto ricche, che possedevano piccoli castelli e magari
molte terre coltivate, con il danaro conquistarono il potere. In giro c‟erano
molte e maggiori ricchezze, si svilupparono molte attività ed arti. I signori,
infatti, vollero costruirsi case lussuose, palazzi e chiese, e quindi potenziarono
e protessero le arti e gli artisti. Trieste cominciò a svilupparsi anche grazie a
soldi provenienti dalla Toscana, perché in quell‟epoca i grandi usurai, cioè quelli
che prestavano soldi o, come si diceva allora, tenevano banco (termine dal
quale è derivato l‟attuale “banca” e “banchiere”) erano tutti toscani e
principalmente fiorentini. Con la loro politica di astuti commercianti,
sicuramente, contribuirono ad arricchire il Comune. Chiarito un po‟ quello che
era il periodo, la vita, la
situazione di e a Trieste,
ritorniamo appunto ai Ranfi.
Si trattava di una famiglia
di nobili, con molta
probabilità di origine
tedesca, vassalli del
vescovo. Il nome di Marco
Ranfo risulta spesso citato e
scritto in documenti
diplomatici, si desume da
ciò che doveva trattarsi,
senza dubbio, di un
personaggio altamente importante nella vita politica della città. Si sa che
possedeva una casa in Cavana eretta, si presume, su di un fondo che oggi si
configura con il sito di via del Cavazzeni 1 e, molto probabilmente, era sua
anche la torre Tigor, oltre a terre e vigne varie. Sembrerebbe che la famiglia
fosse formata dal padre e da cinque figli, due maschi e tre femmine.
Ci sono vari documenti, tra il 1318 e il 1350, che riportano testi, frasi, nozioni
sulla famiglia dei Ranfi. C‟era il divieto assoluto di costruirsi la casa su terreni
di quella famiglia e, anzi, chiunque incontrasse un Ranfo poteva ucciderlo, anzi
ne avrebbe ricevuto anche un premio. Nessuno poteva sposare una donna dei
Ranfi e uno che avesse ucciso un Ranfo non poteva e non doveva essere
ingiuriato. Queste sono le notizie certe, ma il perché di tanto accanimento
contro la famiglia non è dato di sapere; nessun scritto in merito è stato mai
rinvenuto. Supposizioni, illazioni, pensieri ce ne sono tanti, dati dal fatto che
potrebbero aver creato dei torbidi in città o forse, cosa più grave, aver minato
la sicurezza del Comune. Potrebbero addirittura aver tentato di impadronirsene
per farne una propria signoria oppure, non ultimo, potrebbero essersi
macchiati di un tradimento filoveneziano.
Indipendentemente da fatti
leggendari, romanzati,
storicizzati, frutto di realtà
accaduta o fantasie del
popolo sta di fatto che
nel 1313 il potere della
città fu saldamente in
mano al Comune e che
tra il 1315 e 1318
emanò i primi “statuti”
che furono la prima
codificazione delle leggi
riguardanti la città. Venne
così creato il famoso “sigillo
trecentesco” della città tuttora
riconosciuto. Si tratta di una torre
con ai lati due alabarde e la scritta: “Sistilanu publica
Castilir mare certos dat michi fines” con sotto il nome Tergestum. Il significato
della frase che circonda il nostro sigillo è: “Sistiana, la via pubblica, Castellier e
il mare mi danno confini certi – Tergeste”. Così era praticamente descritto il
territorio del Comune di Trieste che andava, appunto, da Sistiana lungo i monti
della Vena fino alla Val Rosandra e si chiudeva al mare. Un territorio
piccolissimo, come oggi del resto, ma che a Trieste quella volta, bastava,
circondata com‟era da grandi potenze.
Tutto il trecento, per la nostra città, è un continuo barcamenarsi tra le potenze
di terraferma e Venezia che aveva a se tutte le cittadine istriane della costa
che facevano concorrenza a Trieste nei commerci via mare. Unico cuscinetto,
ad est, era la cittadina di Muggia che rimase ancora nelle mani del patriarca di
Aquileia divenendo così la più terribile avversaria di Trieste al punto che erano
impossibili, se non proprio proibiti, i matrimoni tra Triestine e Muggesane e
viceversa. Si arriva al 1553 quando i Triestini andarono a devastare il territorio
di Muggia ma, vennero richiamati all‟ordine da Venezia che ancora aveva
ingerenza nelle nostre faccende, tant‟è che il più dei podestà di Trieste erano
veneziani. Il podestà veniva eletto dal popolo ed essendo quasi sempre lui
veneziano e non friulano o triestino, significava che il partito che prevaleva in
città era un partito che sosteneva ed era sostenuto da Venezia. L‟Austria
cominciava ad espandersi a danno del Patriarcato di Aquileia, prendendone
alcune terre ed insidiando i signorotti ad essa fedeli. Un caso a noi vicino è
quello del conte di Duino.
Quello che Venezia non ammetteva assolutamente era la concorrenza sul mare
avendo il monopolio dei traffici marittimi. Avvenne però che nel 1368 un
vascello veneziano, adibito al pattugliamento del nostro golfo, intercettasse
una barca piena di sale il cui proprietario era un certo Panfili. All‟ intimazione
dell‟alt da parte veneziana, il Panfili girò la prua della sua barca puntando
decisamente sul porto di Trieste. I Veneziani, anch‟essi, entrarono nel porto e
pretesero di poter confiscare la barca contrabbandiera ed arrestare il suo
comandante. Successe, invece, che i Veneziani ricevessero un sacco di botte e
sembrerebbe che il comandante venisse addirittura ucciso. Per la paura di una
ritorsione da parte veneziana, Trieste mandò immediatamente a Venezia una
delegazione per chiedere scusa. Venezia ne approfittò per imporre ai Triestini
di esporre il gonfalone di Venezia per Pasqua e per Natale, cosa che non
avevano mai fatto prima, ma che questa volta, per il quieto vivere,
accettarono. Ma si vede che tutto ciò non fu ritenuto sufficiente, tant‟è vero
che i Veneziani prepararono un grosso esercito per fare la guerra a Trieste. La
flotta veneziana, con l‟ esercito comandato da Domenico Michiel, cominciò
l‟assedio di Trieste. Tutto ciò accadde alla fine del 1368. La città era ben
munita e i Triestini si difesero strenuamente tanto che le truppe veneziane si
trovarono in notevole disagio. L‟assedio però si fece sempre più duro e i
Triestini dovettero chiedere aiuti che furono rifiutati, dapprima dal patriarca di
Aquileia e poi dal conte di Gorizia. I Triestini provarono allora a chiedere
sostegno a Francesco di Carrara ed anche al Visconti, signore di Milano, ma
ottennero uguale rifiuto, anche perché nessun principe italiano voleva aver
beghe, liti e contrasti con la potente Venezia. Quando ormai le armate di
Venezia cominciarono ad aprire le prime brecce nella resistenza della città, i
Triestini si offrirono in sudditanza al duca Leopoldo d‟Austria, che accettò
subito essendo egli già in possesso di gran parte del territorio alle spalle di
Trieste, ma gli mancava lo sbocco al mare. Il duca Leopoldo delegò il conte di
Duino a rappresentarlo per la firma dell‟atto di dedizione da parte dei Triestini,
dove riconoscevano di essere stati, fin dal passato, in signoria ai duchi
d‟Austria.
Ottenuta la firma dell‟atto di dedizione, il duca Leopoldo, inviò un potente
esercito in soccorso di una città oramai stremata, dopo un anno di stretto
assedio, attaccando il potente campo veneziano. In un primo momento, anche
perché i Veneziani furono colti di sorpresa, sembrò che gli Austriaci dovessero
facilmente prevalere, ma con abile mossa i due comandanti veneziani
accerchiarono gli Austriaci facendoli fuggire a precipizio. Per i Triestini, caduta
ogni speranza, non restò altro che arrendersi.
Tutti temettero una vendetta spietata di Venezia, ma così non fu. Venezia
pretese solamente l‟esilio di quelli che erano stati gli avversi e, rispettando la
città, chiesero un atto di dedizione al Doge. Per cautelarsi da ogni evenienza
esterna, Venezia fece costruire a difesa un castello sul colle di San Giusto, che
loro chiamarono Caboro, e il “castello a marina” dove oggi c‟è il palazzo della
Regione, già palazzo del Lloyd.
Trieste fu, era ed è sempre stata una città tormentata, infatti neanche i
Veneziani durarono a lungo. Nel 1378 iniziò quella che fu chiamata la “guerra
di Chioggia” che vide da una parte Venezia e dall‟ altra Genova, il potente re
d‟Ungheria, il patriarca di Grado, il signore di Padova e il duca d‟ Austria. A
quel punto, con tante gatte da pelare, i Veneziani non seppero dove correre
per difendersi.
Genova riuscì ad espugnare Chioggia, mentre gli alleati occuparono tutte le
città istriane che erano suddite di Venezia. Dobbiamo arrivare al 1380 perché il
patriarca di Aquileia, con un grosso esercito, venisse, diceva lui, a liberarla dai
Veneziani saccheggiandola, assieme ai Genovesi. Fu così che Trieste dovette
firmare l‟ennesimo atto di dedizione, questa volta al patriarca aquileiese
consegnandogli, simbolicamente, le chiavi della città. Anche questa
appartenenza fu di breve durata. Il 9 agosto del 1382, Trieste, con l‟aiuto del
conte di Duino che si impossessò della città con la violenza, finì nelle mani del
duca d‟Austria e dovette sottoscrivere quell‟atto che poi fu detto di “dedizione
all‟Austria”.
Le turbolenze cittadine che ne seguirono, fanno capire quanti contrasti ci
fossero in città contro quell‟atto che, però, fece in modo che i Triestini
salvassero tutti i loro liberi statuti e rimanessero liberi di agire nei riguardi dei
potenti vicini.
Se fosse stato meglio
rimanere fedeli a
Venezia piuttosto che
all‟Austria, nessuno
può azzardare una
risposta, sta di fatto
che, ragionando, allora
Venezia non aveva
alcun interesse di
avere una potenziale
concorrente portuale,
mentre l‟Austria
necessitava di uno
sbocco al mare.
Trieste, bisogna dire il
vero, non è mai stata
austriaca perché,
anche se era “dedita”
all‟Austria, serbò
sempre la sua indipendenza interna sia di fronte ai duchi prima, arciduchi poi e
imperatori d‟ Austria che la ressero fino al 1918. Trieste mantenne sempre la
sua libertà che le permise di conservare e sviluppare la sua cultura italiana,
anche nei secoli seguenti. Con questo atto di dedizione all‟Austria finì il
trecento triestino e sancì pure
la fine del Libero Comune che
era stato il sogno di moltissimi
triestini.
A questo punto della storia si
può fare una considerazione
che ritengo profonda: - Trieste
e i Triestini hanno sempre
avuto troppi nemici, troppi
avversari, troppi interessi,
troppi tornaconti, troppe
invidie, troppi rancori che si
sono riversati contro questa
splendida e viva città. Stiamo
parlando della fine del 1300,
oggi siamo nel 2001, siamo
addirittura in un altro millennio,
ma pensandoci bene anche se
senza guerre, distruzioni e saccheggi, le lotte per il potere, sia politico che
economico, continuano, forse più subdole, più in silenzio, chi non sta attento,
forse, non se n‟ accorge nemmeno, ma per la città fanno altrettanto male. In
economia, il porto e il suo punto franco contesi da Fiume, Capodistria,
Monfalcone, Porto Nogaro, Venezia; in politica, pur essendo Trieste il
capoluogo regionale, il Friuli, e Udine in particolare, vuole togliere, se possibile,
molte istituzioni politico-amministrative proprie del capoluogo in modo che
esso diventi Udine. Fatto con metodi moderni, che differenza c‟è tra questo
stato di cose e quello che c‟era dalle origini di Trieste fino alla fine del
trecento?? Non voglio andare oltre, anche perché, credo, che tutto questo sarà
materia di chiusura di questa ricerca, che mi sta appassionando sempre più
man mano che procedo, infatti ci vogliono ancora 700 anni per arrivare ai
giorni nostri. Forza e coraggio!
Gli Austriaci imposero alla città solamente la nomina del capitano, che era
preposto all‟osservanza delle leggi e il controllo dei tributi finanziari. Egli
dovette semplicemente tutelare gli interessi della cittadinanza e far rispettare
gli Statuti, che rimasero sempre in vigore. Praticamente i Triestini
continuarono a governarsi da sé, anche nelle relazioni con i vicini. Il duca
d‟Austria pretese per sé solo la metà delle tasse, ma alcuni anni dopo cedette
alla città anche questo privilegio, per cui potremmo dire che Trieste continuò,
praticamente, ad essere un comune libero, sempre con un territorio limitato,
ma in pace. Nel vicino Friuli, invece, ogni castello era in guerra con il vicino
finché Venezia, stanca, non conquistò tutto il territorio annettendolo a sé. Del
quattrocento ci sono tanti documenti conservati, che lo storico Jacopo Cavalli
poté scrivere un libro sulla vita triestina del 1400. Sappiamo così che i
commerci cominciarono a riprendere fiorenti, specialmente con l‟entroterra e
pure l‟artigianato, per molto tempo da pochi esercitato, riprese vigore e si
sviluppò notevolmente. Il maggior benessere della città fu dato dalla vendita
del sale ricavato dalle numerose saline disseminate lungo la costa; dall‟olio dei
suoi pregiati e numerosi oliveti situati nella valle delle Noghere e nella zona di
San Dorligo e dal buon vino delle sue colline prodotto, come all‟epoca dei
Romani, nella zona che va da Sistiana a Barcola. Sul Carso, al contrario, si
sviluppò e fiorì la pastorizia. Sul Carso, oltre ai già noti villaggi di epoca
romana, distrutti dai barbari e poi ricostruiti, quali Santa Croce, Sistiana,
Aurisina e Slivia, si aggiunsero
dei nuovi, come Opicina,
Trebiciano, Contovello e
Basovizza.
Sempre dagli scritti si può
rilevare che i Triestini già nel
„400, nei giorni festivi, usavano
andare a Opicina in una storica
trattoria dove si mangiava molto
bene e veniva servito un ottimo
vino del Carso. Gli allevatori di
Basovizza e di Trebiciano
affidavano ai “mandrieri”, pastori
di origine slava e croata, le loro
mandrie per essere portate al
pascolo estivo fino al Monte Re.
Sempre su questi scritti si può
leggere che Trieste era punto di
raccolta e di partenza di pellegrini, che si imbarcavano su navi che li portavano
nelle Marche e precisamente al santuario di Loreto per proseguire poi per
Roma. A Trieste si eressero molti ospizi atti ad ospitare questi pellegrini che,
spesso, erano poveri e bisognosi d‟aiuto. Ci furono, in quel periodo, gravi
epidemie di peste che provocarono la morte di molti abitanti. Il Comune, per
alzare il livello e il tenore di vita da tanta miseria, favorì la venuta di
commercianti ed artigiani italiani, per lo più veneti e friulani. In seguito a
questa liberalizzazione all‟immigrazione, giunsero anche i primi Ebrei ai quali si
ricorreva per prestiti in danaro. Contrariamente a quello che sarebbe adito a
pensare, gli Ebrei furono molto meno esosi negli interessi di quello che, nel
secolo precedente, furono i Toscani. Fu così che i Triestini li ben tollerarono,
anche perché disponevano di molta moneta liquida cosa che, in quei tempi,
non era facile trovare. Nacque così la prima comunità ebrea in Trieste.
L‟economia non fu proprio florida al principio del quattrocento, però fu l‟inizio di
una certa agiatezza. Infatti nei primi decenni di questo secolo si costruì la
loggia comunale dove i componenti delle tredici casate si radunavano per
decidere i provvedimenti da
assumere per il buon
andamento della città.
Le tredici casate erano: Leo,
Pellegrini, Bonomo, Belli,
Burlo, Giuliani, Baseggio,
Argento, Cigotti, Toffani,
Stella, Padovino e Petazzi.
Sembra quasi di leggere lo
stradario di Trieste.
Per quanto le tredici famiglie
maggiorenti si dessero da
fare, l‟economia stentava a
decollare anche perché i
Carniolici, che allora erano gli
abitanti dell‟attuale Slovenia,
per i loro traffici e commerci,
preferirono appoggiarsi alle cittadine istriane piuttosto che a Trieste. Fu allora
che i Triestini decisero di acquistare un castello, quello di Castelnuovo (oggi
Podgrad) sulla strada di Fiume, da dove, assieme agli altri due castelli di Moccò
e di San Servolo, poterono bloccare la strada ai Carniolici, che venivano con
lunghe file di asini, deviandoli ed obbligandoli ad andare a Trieste.
Nella città di
Trieste, un po‟
scherzosamente e
un po‟ anche per
dileggio, i Carniolici
furono chiamati
“cici”.
Capodistria e
Muggia
protestarono per
questa situazione,
ma Venezia, aveva
altre gatte da
pelare. Era in corso
una guerra tra il re
d„Ungheria e il re
d‟Austria ed
essendo, in un
certo qual modo,
Venezia alleata
dell‟Austria, non
ebbe tempo per
pensare alle piccole
beghe delle città
istriane con Trieste.
Scoppiarono allora,
tra i signorotti della
regione, che
parteggiavano alcuni per l‟Austria ed altri per l‟Ungheria, delle piccole
guerricciole alle quali partecipò pure la nostra città.
Per porre fine a questa situazione che si era venuta a creare, nel 1443
l‟imperatore d‟Austria Federico III° inviò a Trieste uno dei suoi più capaci
uomini, cioè il toscano Enea Silvio Piccolomini. Essendo anche periodo di grandi
scismi, all‟imperatore d‟Austria venne conferita l‟autorità di nominare alcuni
vescovi. Fu allora che nel 1447 venne nominato vescovo di Trieste Enea Silvio
Piccolomini, persona che si rivelò illuminata. Ma proprio per questa sua
peculiarità, era destinato a rimanere per
poco tempo a Trieste, tant‟è che nel 1450
divenne vescovo di Siena e pochi anni dopo
ancora divenne Papa con il nome di Pio II°.
Gli ingegni, in quell‟epoca, erano rari
pertanto quei pochi che ci furono, riuscirono
ad emergere anche grazie all‟appoggio dei
potenti e degli imperatori. Dove non
arrivava l‟ingegno, arrivava la potenza del
denaro. Federico III° fu un imperatore
particolarmente povero, anche perché
dovette indebitarsi per sostenere tutte le
guerre con il re d‟Ungheria. Decise allora,
per procurarsi denaro fresco, di “affittare” al
comune di Trieste l‟esercizio del capitano e
delle altre cariche governative. In parole povere il Comune di Trieste tornò ad
essere completamente padrone di se stesso perché, pagando, veniva a
mancare anche il Capitano, che era l‟unico rappresentante imperiale.
Tutto farebbe pensare che, finalmente, fosse arrivata un po‟ di pace. Macché!
Venezia, tra una pausa e l‟altra delle sue guerre, pensò bene di sistemare la
“questione triestina” chiedendo la liberazione delle strade del Carso in modo
che tutti quelli, che avessero voluto andare a commerciare, potessero passare.
Chiesero pertanto la cessione del castello di Castelnuovo. Venezia, allora,
deteneva il monopolio del sale, che per i tempi era fonte di grande ricchezza, e
non voleva concorrenza da parte di Trieste che pure possedeva le sue saline e
aveva il suo commercio del sale.
Fu così che nel 1463, per la terza volta, assediarono Trieste costruendo dei
bastioni per metterci le loro bocche da fuoco. I Triestini lavorarono come dei
matti. Di notte ripristinavano le brecce che le bombarde veneziane, durante il
giorno, avevano aperto, opponendo una resistenza che fece meravigliare gli
stessi Veneziani. La strapotenza di Venezia era indiscussa e nessuno,
tantomeno Trieste, avrebbe potuto sconfiggere. Fu Papa Pio II°, che non
dimenticò mai i Triestini, a intercedere e con i suoi uffici, firmò la pace. Trieste
dovette, purtroppo, cedere i suoi tre castelli di Castelnuovo, Moccò e San
Servolo, dovette impegnarsi a non portare per mare il suo sale ne tantomeno
cederlo ai mercanti veneziani però, in cambio, fu salvata dal saccheggio e dalla
distruzione.
Seguì un periodo piuttosto brutto e confuso per la città. La cronaca, e quindi
non la storia, di quel periodo è piuttosto mutilata. Fu infatti scritta e poi
tagliata diverse volte a seconda del colore politico, dell‟appartenenza partitica
dei copisti che, intenzionalmente, vi fecero delle omissioni ed inserirono degli
errori. Nel 1467 una piccola minoranza di nobili, venne cacciata in esilio per
non aver rispettato gli Statuti. Il 31 dicembre dello stesso anno, assieme al
losco figuro che fu il capitano di Duino, tale Nicolò Luogar, rientrarono in città
gridando al tradimento. Il Luogar tentò di annullare gli Statuti e le libere
elezioni, di far firmare al Comune un atto solenne di abdicazione dei diritti a
favore dell‟imperatore. A questo punto, toccati nelle loro libertà, i Triestini si
opposero in armi facendo prigioniero il capitano di Duino. Il Luogar ottenne la
libertà in cambio del rilascio dei prigionieri triestini che si trovavano nelle
carceri di Duino. I Triestini, che a lui si erano rivolti e lo avevano sostenuto,
furono tutti impiccati tra gli archi della loggia municipale. L‟imperatore,
constatata la ribellione della città, decise di punirla esemplarmente ordinando
al capitano Nicolò Luogar di raccogliere un esercito nella Carniola, e facendolo
marciare contro i rivoltosi. Lo scontro avvenne nei paraggi di Ponziana e fu uno
scontro epico nel quale, i Triestini guidati da Cristoforo Cancellieri si batterono
eroicamente fino alla morte. Vinta ogni resistenza, si narra che il vincitore
diede la città ai suoi uomini che la saccheggiarono, la bruciarono e
sembrerebbe che la città fu rasa al suolo. Per tenere doma la città, l‟imperatore
fece costruire il castello di San Giusto.
Trieste, pian piano,
cominciò a riprendersi, ma
certamente il periodo non
era dei più tranquilli. Nel
1469 quelli che furono il
terrore della Cristianità, i
Turchi, fecero la loro
comparsa da queste parti
spingendosi fino a
Castelnuovo. L‟impero turco
stava sviluppandosi verso l‟Europa e lungo i Balcani. Conquistarono la Grecia,
la Macedonia, gli altri stati balcanici e su su fino ad arrivare alle porte di Vienna
che venne stretta d‟assedio. Dalle nostre parti, però quelli che vennero non
erano veri e propri Turchi, ma bande di predoni che comprendevano elementi
di razze diverse, ma tutti avidi di bottino. Passarono come una meteora, infatti
come una furia giunsero, razziarono, bruciarono, uccisero e rapirono donne e
bambini per venderli come schiavi, poi sparirono, scomparvero velocemente
come velocemente erano giunti. Il punto più vicino dove furono viste le truppe
regolari Turche, fu la piana di Zaule. Negli anni seguenti i Turchi, sempre
evitando la città di Trieste, attraverso l‟altipiano carsico, passarono nel Friuli
dove i Veneziani per arginarli eressero la fortezza di Palmanova.
Morto l‟imperatore Federico d‟Austria, amico dei
Veneziani, gli successe Massimiliano che trovò
subito modo di litigare. Ecco che nel 1508
Venezia mosse guerra all‟Austria. Lo scontro
avvenne a Pieve di Cadore dove l‟esercito
veneziano, guidato da Barlotomeo d‟Alviano,
mise in fuga gli Austriaci. Per l‟ ennesima volta
Venezia, con le sue galere, bombardò Trieste,
unica città imperiale sul mare rimasta. Essendo
caduta pure Gorizia, ai Triestini non rimase altro
che arrendersi per evitare un‟altra distruzione.
Trieste passò, nuovamente, sotto il dominio di
Venezia i cui possedimenti giunsero sino alla Alpi
Giulie. I Veneziani dotarono il castello di San
Giusto, che era ancora in costruzione, del bel bastione rotondo dove, oggi, è
ben visibile la lapide con il leone di Venezia. I Triestini, per liberarsi dai
Veneziani, cercarono di convincere la Corte di Vienna quanto fosse per loro
utile avere uno sbocco sul mare Adriatico. La corte asburgica, allora, non capì
tale importanza anche perché aveva altre cose a cui pensare che erano
rappresentate dalle beghe con l‟Ungheria. Venezia non ammetteva concorrenze
sul mare, così che per buona parte del cinquecento fu un periodo molto duro
per Trieste e la sua economia marittima, tanto da arrivare addirittura alla
fame.
Il diciassettesimo secolo fu anche peggiore del precedente. La città, a causa
delle pestilenze, fu ridotta ad avere circa tre mila abitanti, quasi come nel
medio evo e rischiò, quasi, di finire la sua esistenza di città. Trieste fu sfiorata
dalla guerra tra Austria e Venezia che durò dal 1615 al 1618 e si concluse con
la battaglia di Gradisca. In quel periodo gli Austriaci completarono la
costruzione del castello di San Giusto. Si narra che la città fosse in un tale
stato di miseria che quando, nel 1660, giunse a Trieste l‟ imperatore Leopoldo
I°, i reggenti la città non poterono nemmeno offrire una cena a base di pesce
all‟ augusto ospite, e si che Trieste era una città di mare. Si calcola che la
miseria fosse dovuta al fatto che la città non corresse con i tempi e che
rimanesse legata ai frutti ed ai proventi della terra che i vari signorotti
possedevano.
Ci ritroviamo agli inizi del 1700 e Trieste sembrava ancora una città
medioevale, cinta dalle mura e arroccata al colle di San Giusto sul quale
spiccano tuttora il castello e la basilica di san Giusto. Scendendo verso il mare
c‟erano tante piccole case in mezzo alle quali si erigeva la chiesa di Santa
Maria Maggiore, costruita dai Gesuiti nel corso del XVII secolo, ed era la più
grande chiesa di Trieste. In basso, verso il mare con le mura che fino a lì
arrivavano, c‟era la Piazza Grande con il Palazzo comunale e la sua loggia, la
torre del Mandracchio, il Teatro e la chiesa di San Pietro, nonché la Locanda
Grande che era l‟albergo della città. Tutti questi palazzi oggi non ci sono più,
almeno nella loro forma originale. Al di fuori delle mura c‟erano i campi
coltivati, le saline e lo squero dove si riparavano e costruivano le barche. La
città con il circondario poteva contare su di una popolazione di circa cinquemila
abitanti. Ma ecco che, nel „700, sta per capitare l‟evento più importante per la
storia della città e che decise il suo futuro. Il 18 marzo 1719, l‟imperatore
Carlo VI° dichiarò e proclamò lo stato di “porto franco” per la città di Trieste.
In pochi anni, grazie a questa sua
nuova situazione economica, la città si
trovò ad avere oltre trentamila abitanti.
Grati, i Triestini, nel 1728 eressero
una statua all‟imperatore Carlo VI° in
occasione della sua visita alla città,
riconoscenti anche per essere stati
scelti tra altri porti concorrenti che
ambivano a divenire porti franchi,
tra i quali Fiume, Buccari e San Giovanni
di Duino. La statua a Carlo VI°, ancor
oggi, è posizionata sul lato sinistro
in alto della Piazza dell‟Unità d‟Italia.
Pur essendo già tangibile un certo
benessere, la sola dichiarazione di porto
franco non fu sufficiente a far
progredire Trieste. Ci vollero altre
strategie e misure più energiche che solo Maria Teresa d‟ Austria, aiutata dal
figlio, il futuro Giuseppe II°, seppe proporre ed imporre alla città a scapito
dell‟antico municipio patrizio e privilegiato che dovette inchinarsi e cedere al
nuovo corso voluto dal governo centrale di Vienna.
Furono queste misure che fecero mutare il piccolo centro in una città moderna,
fresca, operosa, attiva e laboriosa. Tanto laboriosa da sentire, nel 1751, la
necessità di incaricare l‟architetto bergamasco Mazzoleni di proporre e far
realizzare la “fontana dei continenti”. Il Mazzoleni, avvalendosi di tre
“scalpellini di fino”, quali Giovanni Venturini, Giuseppe Grassi e Giambattista
Pozzo, fece eseguire questa fontana da erigere nella Piazza Grande. Pregò, nel
contempo, l‟abate Gian Domenico Bertoli di Aquileia, di dettare le epigrafi da
apporsi alla base della fontana stessa. In questa fontana, il Mazzoleni, volle
contenere una raffigurazione simbolica del commercio, con le sue statue
rappresentanti le quattro parti del mondo, la quinta allora si ignorava. Vi fu
rappresentata la fama che gridava al mondo l‟Emporio Triestino
rappresentando colli di merci, botti ed altri emblemi del traffico accatastati
sopra una piramide di blocchi di calcare, con ai lati le deità pagane appoggiate
in conchiglie marine, nelle quali sgorgava l‟acqua per poi precipitare nel bacino.
La statua dell‟Africa la si volle in marmo nero, alle altre diedero costumi
caratteristici. La lapide dettata dall‟abate Bertoli fu tutta una celebrazione a
questa città simbolo di un periodo storico, essa recita così: MEDIO HOC
SECULO (alla metà di questo secolo) FRANCISCO I ET MARIA THERESIA
REGNATIBUS (regnando Francesco I e Maria Teresa) CURA RUDOLPHI S.R.I.
COMITIS A CHOTEK (a cura di Rodolfo conte del S.R.I. Chotek) AERARI
PUBLICI REGENDORUMQUE COMMERCIORUM PRAESIDIS (reggente del
pubblico erario e presidente del commercio) SUB PREFECTURA (sotto la
prefettura) COMITIS NICOLAI AB HAMILTON (del conte Nicola de Hamilton)
URBIS TERGESTI INCREMENTA (fu dato incremento alla città di Trieste) AB
IPSIS IN CHOATA SUNT RERUM OMNIUM CLEMENTIS (con gli elementi di tutte
le cose) IGNIS CULTO VICINAE SYLVAE COPIOSIOR (copioso il fuoco della
vicina selva) AER EXPLETIONE SALINARUM PURIOR FACTUS (l‟aria purificata
col prosciugamento delle saline) TERRA FUNDO SANCTORUM MARTHIRYUM
AUCTA ( ampliata la terra col fondo dei S.Martiri) AQUA A SCATURIGINE
MONTIUM AD HUNC FONTEM DUCTA FUIT (l‟acqua adotta a questa fonte dalla
scaturigine dei monti). Sulla lapide posta sull‟altro lato, verso il mare, ha
un‟intenzione altezzosa e recita così: SENATUS TERGESTINUS CIVIUM
ADVENARUMQUE COMMODO HUNC FONTEM PERENNIS AQUAE AUGUSTAE
MUNIFICENTIA DEDUCTAE PUBLICO AERE POSUIT – A.S. MDCCLI. Tradotto ed
interpretato così: - Il Senato Triestino a comodo dei cittadini e dei forestieri
questa fonte, d‟acqua perenne, per augusta munificenza adotta, su area
pubblica fu posta – Anno di nostra salute 1751.
Maria Teresa decretò pure la libertà di culto a Trieste che permise alle varie
comunità religiose, che qui risiedevano, di costruire le proprie chiese. Unica
condizione che Maria Teresa pose fu che tutte le chiese non cattoliche fossero
addossate, almeno su di un lato, ad un edificio civile. Le mura furono
abbattute, interrate le saline, e su
questa bonifica fu costruita una
nuova zona di Trieste che in onore
della sovrana fu chiamata Borgo
Teresiano. La “nuova città” fu
costruita con belle strade dritte e bei
casamenti, dove c‟erano i magazzini,
gli uffici come pure le case dei
commercianti. Due tratti erano stati
scavati in profondità in modo da per
mettere al mare di penetrare.
Furono creati così il Canal Grande e
il Canal Piccolo, dove i navigli
poterono entrare ed essere più
comodi per le operazione di sbarco
ed imbarco dei prodotti e dei
passeggeri.
Ingrandendosi la città, successero
anche fatti di cronaca che, per
l‟epoca, fecero molto scalpore.
Prendendone uno a caso, anche perché uno dei protagonisti ha un nome
ancora noto a Trieste, è quello in cui Giovanni Gioachino Winckelmann, un
prussiano, fondatore dell‟arte moderna e padre dell‟ archeologia, nel 1768, di
passaggio per Trieste, prese alloggio alla già citata Locanda Grande, dove
venne accoltellato e ucciso a scopo di rapina, da tale Arcangeli. L‟assassino
venne preso e giustiziato, mediante “ruotazione” in piazza davanti alla locanda
dove aveva commesso il delitto.
Il corpo del defunto Winckelmann non si sa che fine abbia fatto, pertanto a
ricordo di questo fatto, ma soprattutto per rendere omaggio all‟illustre
personaggio, nel 1833 venne costruito un cenotafio, sarcofago senza cadavere,
ora custodito nell‟Orto lapidario di San Giusto. Nel secolo XVIII, con l‟evolversi
della città e con l‟aumento conseguente dei suoi traffici, vi giungevano sempre
più nuovi immigrati, molti dei quali furono i veri e propri autori dello sviluppo
della città. Essi erano provenienti da parecchi e diversi paesi come per esempio
il greco Ciriaco Catraro, abilissimo negli affari che divenne molto ricco e fu il
primo ad insistere perché a Trieste fosse costruita la Borsa. Possiamo ricordare
il livornese Matteo Giovanni Tommasini, commerciante e finanziere di grosso
spessore che progettò la costruzione di un nuovo teatro, ma che venne ripreso,
più tardi, dal siriano Antonio Pharaon detto Cassìs, altro ricco commerciante,
che ne ultimò la costruzione. In città, data la continua immigrazione in cerca
di fortune o per
sfuggire nei paesi di
origine a persecuzioni
politiche, giunsero
greci, svizzeri,
tedeschi del nord,
spagnoli, francesi e
italiani appartenenti
ai vari Stati ed infine
molti orientali. Con
tutte queste razze,
questi popoli, e di
conseguenza tante
lingue, la città avrebbe potuto divenire una Babilonia. Invece così non fu
perché i nuovi arrivati si uniformarono allo spirito della città e in brevissimo
tempo ne acquisirono sia la cultura, gli usi e costumi, che la parlata italiana.
Agli inizi qualche leggero screzio ed incomprensione ci fu tra le vecchie
famiglie patrizie che abitavano la case della città vecchia e la nuova
aristocrazia commerciale e straniera che abitava la città nuova, dove amava
farsi erigere dei sontuosi palazzi come, ad esempio, il ricco commerciante
greco Demetrio Carciotti che si fece costruire quella meraviglia architettonica
che è appunto il “palazzo Carciotti”. Contrariamente a quanto tutti credono, il
palazzo Carciotti non si limitava a quella che fino all‟anno scorso fu la
Capitaneria di Porto, bensì si estendeva a tutto quell‟edificio già occupato, fino
a poco fa, dall‟A.C.E.G.A.T., per intenderci tutto l‟isolato compreso tra riva Tre
Novembre, via Genova, via Cassa di Risparmio e via Bellini. Altro personaggio
di spicco della Trieste che contava, fu il conte Domenico Rossetti de Scander,
nobile, commerciante, letterato, giurista e storico. Nel 1810 egli fondò la
Società di Minerva che come scopo si prefiggeva di promuovere gli studi sulla
storia di Trieste ed elevare la vita culturale della città. Trieste, in quell‟epoca
sentì la necessità di avere un mezzo di informazione che non fosse il solito
passaparola e il sentito dire. Così nel 1784, un toscano, iniziò a stampare il
primo giornale edito a Trieste. “Osservatore Triestino” fu chiamato ed iniziò
con lo stampare poche copie, ma agli inizi dell‟800 già aveva una tiratura di
tutto rispetto.
Trieste cominciò ad essere “osservata” da parecchie potenze, tant‟è che il 29
aprile del 1797 anche Napoleone Bonaparte, con due generali e cento ussari
entrò in città. Pernottò una sola notte presso il Palazzo Brigido, sulla cui
facciata in via Pozzo del Mare esiste una lapide in ricordo dell‟ avvenimento, si
fece consegnare tre milioni di contributo e se ne andò con la cassa del
Comune.
I Francesi comunque ritornarono e vi rimasero dal 1805 al 1814. La loro
dominazione non fu delle più felici e l‟economia della città ne risentì, tanto da
far rimpiangere gli Austriaci. Furono create, dai Francesi, le famose “Province
Illiriche” nel cui territorio era compresa pure Trieste. Gerolamo Buonaparte,
fratello dell‟imperatore, già re di Westfalia e col titolo di principe di Montfort,
soggiornò a Trieste parecchie volte tanto che acquistò la palazzina, che oggi è
la sede del Presidio militare dove, nel 1822 nacque suo figlio che, vent‟anni
dopo, sposò Clotilde di Savoia. Si narra che, in punto di morte, il marito di
Clotilde raccomandasse la sua città natale a Vittorio Emanuele II. La villa oggi
si chiama “Villa Principe Napoleone” dal nome del figlio
di Gerolamo.
Il 14 maggio 1850, l‟imperatore Francesco Giuseppe I
pose la prima pietra per la costruzione della “ferrovia
meridionale” detta così perché, partendo da Trieste
attraverso Aurisina, che era il meridione dell‟Austria
saliva al settentrione, cioè nella capitale Vienna. La
città aveva raggiunto, ormai, i centocinquantamila
abitanti ed il vecchio Acquedotto Teresiano risultò
insufficiente per gli sviluppi della città tanto che nel
1859 venne costruita la centrale dell‟acquedotto di Aurisina. Nel 1864 fu
introdotta pure l‟illuminazione pubblica alimentata a gas. Trieste fu sede di
numerose compagnie di navigazione e scalo marittimo, si sentì perciò la
necessita che sorgessero le prime compagnie di assicurazione le quali fiorirono
in breve tempo.
Ci sono parecchi documenti che attestano l‟esistenza a Trieste di molte
fabbriche, dalle carte da gioco ai pallini da caccia. Esiste ancora oggi, in via
San Francesco vicino al nuovo palazzo della Regione, la "torre dei pallini” dove
appunto il piombo fuso veniva colato dall‟alto in una vasca d‟acqua gelida dove
solidificavano. A seconda dell‟altezza da cui veniva colato il piombo esso
prendeva la forma e il calibro desiderati.
C‟erano
pure
parecchi
cantieri
navali di
cui il più
famoso di
tutti fu il
“Cantiere
Panfili”,
fondato nel
1780 e
dove nel
1818
venne costruita la prima nave a vapore, varata con il nome di “Carolina”. Nel
1829 presso i Cantieri Panfili si apprestò la prima nave ad elica del mondo su
progetto di Giuseppe Ressel. Nel 1860 venne inaugurato il Cantiere San Marco
che era destinato a divenire uno dei più grandi ed importanti cantieri navali
d‟Italia e del mondo.
Mi fermo un solo momento a pensare che in tutto questo ben di Dio di
iniziative c‟era già, da parecchi anni, anche il mio avo Gaspare che aprì, nel
1799, “pubblica stamperia” in Trieste. Risale al 29 dicembre del 1881
l‟inaugurazione e l‟uscita della prima copia del giornale “Il Piccolo” che fu così
chiamato per il suo ridottissimo formato. Nella zona tra l‟attuale p.zza
Oberdan, foro Ulpiano e via Fabio Severo c‟erano le caserme austriache nelle
quali avevano sede anche le prigioni. Non si trattava di prigioni per detenere
delinquenti comuni, bensì prigioni militari. Infatti stiamo entrando nel periodo
detto dell‟irredentismo e della redenzione. Di quelle costruzioni militari, oggi,
rimane solamente la cella di rigore in cui fu rinchiuso Guglielmo Oberdan e che
è diventata monumento nazionale e sede del museo del Risorgimento.
Guglielmo Oberdan nel 1878 venne chiamato al servizio militare per prendere
parte all‟occupazione della Bosnia– Erzegovina,
ma egli disertò, fuggì in Italia per unirsi ai
patrioti triestini e istriani. Oberdan, perciò, era un
patriota e voleva fermamente che Trieste
venisse annessa all‟Italia. Ma la terza guerra
d‟indipendenza era da poco finita e l‟Italia firmò
un patto d‟alleanza con l‟Austria. Questo patto
a Oberdan e ai suoi amici patrioti proprio non
andava giù e pensò bene che ci volesse un‟
azione dimostrativa per esprimere il malcontento
della città di Trieste e scuotesse così i suoi
cittadini. Nel 1882, in occasione del quinto
centenario della “dedizione” di Trieste all‟Austria ci furono svariati
festeggiamenti tra i quali anche un‟esposizione che avrebbe dovuto essere
inaugurata da Francesco Giuseppe I° in persona. Oberdan pensò bene di
tornare a Trieste per tentare, con una bomba, di uccidere l‟imperatore. Egli
sapeva che l‟impresa fosse quasi impossibile per la protezione che l‟imperatore
avrebbe avuto e la difficoltà, quindi, di avvicinarlo per lanciare la bomba. Così
fu infatti, tanto che egli non giunse nemmeno a Trieste, anche perché tra i
patrioti si era infiltrata una spia austriaca che lo denunciò, facendolo arrestare
in una casa, a Ronchi, dove era in attesa del momento propizio per andare a
Trieste. Trovato in possesso di due bombe, venne tradotto a Trieste e portato
prima alle carceri, che si trovavano presso S.Maria Maggiore e quasi
immediatamente segregato nella caserma, in quella cella buia e senza finestre
che oggi, come detto, è l‟unica testimonianza della caserma austriaca.
Originariamente l‟edificio, costruito per volere di Maria Teresa nel 1769, fu
destinato a ospizio per i poveri e ospedale. Nel 1786 fu convertito in caserma e
carcere da Giuseppe II. Venne apprestata la forca e con ciò gli Austriaci
pensavano di spaventarlo e fare in modo che rivelasse tutti i segreti a sua
conoscenza, sui motti dei patrioti. Ma lui rifiutò perfino di chiedere la grazia
all‟imperatore, perché voleva morire per attirare, col suo sacrificio, l‟attenzione
di tutti gli Italiani sulle tristi condizioni politiche dei Triestini. Per questi motivi,
Oberdan venne ricordato come il primo volontario e il primo martire della
guerra di redenzione. Alle sette del mattino del 20 dicembre 1882, all‟età di 24
anni, venne giustiziato ed il suo corpo non fu mai più ritrovato.
A riunificazione avvenuta tutte le città d‟Italia, il cui stemma è posto sopra la
cella, si tassarono in ragione di un centesimo per abitante in modo da
raccogliere la somma necessaria ad abbattere, nel 1925, la vecchia caserma
austriaca e a costruire, nel 1927, il sacello dedicato a Guglielmo Oberdan,
nonché la casa del Combattente, dove hanno sede, appunto, tutte le
associazioni combattentistiche e pure il Museo del Risorgimento.
Nel vicino museo sono ricordati tanti altri patrioti che si sono distinti, per
ardimento, per unire la città di Trieste all‟Italia. Tra i tanti ricordiamo il
generale Petitti di Roreto, per primo sbarcato a Trieste il 3 novembre 1918. Ma
non dobbiamo dimenticare il capodistriano Gian Rinaldo Carli, che ancora nel
1700 auspicava l‟unione di tutti gli Italiani in uno stato sovrano. Poi tanti nomi,
allora sconosciuti, che nel 1848 si radunavano all‟interno del Caffè Tommaseo,
covo di irredentisti e patrioti che, alimentati dagli articoli del giornale “La
Favilla” svilupparono sempre più la coscienza nazionale. Fu così che tanti
giovani giuliani e dalmati parteciparono alle guerre del nostro Risorgimento tra
le fila dell‟esercito italiano e dei garibaldini. Di quelli sconosciuti che si
radunavano al caffè, spiccano
alcuni nomi che, per le loro
attività, partecipazione armata
o semplice sostegno
all‟irredentismo, divennero
famosi e sono oggi ricordati
quali Giusto Muratti -
bersagliere garibaldino,
Lorenzo Gatteri – pittore che su
tela riproduceva epiche
battaglie, Giuseppe Caprin –
che partecipò nel 1866 alla
battaglia di Bezzecca nel
Trentino, Domenico Lovisato –
nato a Isola d‟istria che seguì
Garibaldi nella III guerra del
Risorgimento, Gabriele
Foschiatti, Leone
Veronese....ecc.
Questo fu il prologo della grande guerra, come venne chiamata la guerra che
l‟Italia combatté contro l‟Austria per annettere a sé le provincie di Trento e di
Trieste, capisaldi austriaci. Il 28 Giugno 1914 scoccò la scintilla che diede il
pretesto per lo scoppio della prima guerra mondiale. Uno studente serbo
attentò ed uccise a Sarajevo, l‟arciduca Francesco Ferdinando d‟Asburgo,
nipote dell‟imperatore Francesco Giuseppe e pretendente al trono di Austria e
Ungheria. Fu così che l‟Italia entrò nel conflitto, il quale iniziò il 24 Maggio
1915 e terminò il 4 novembre 1918, anche se, per la verità Trieste si liberò da
sola insorgendo con ribellione generale il 30 ottobre 1918 e si offerse con
delirio d‟amore all‟Italia chiamando le truppe, ferme a Venezia. Il 3 novembre
1918 esse giunsero con il cacciatorpedinere Audace, il quale attraccò a quel
molo che ancor oggi porta il suo nome e con un reggimento di bersaglieri che
sbarcarono alla stazione marittima. Davanti a tutti, fieri di giungere in una città
che si era liberata da sola, marciarono il generale Petitti di Roreto a fianco del
duca d‟Aosta.
Nel periodo che precedette questo storico evento
è doveroso ricordare i nomi dei Triestini che
presero parte attiva alla guerra e furono
moltissimi. Ne citeremo solo alcuni in
rappresentanza di tutti che eroicamente
combatterono quella guerra e che in parecchi
caddero per l‟ideale di proclamare e difendere
l‟italianità di Trieste: Scipio Slataper, Ruggero
Timeus, Pio Riego Gambini, Giuseppe Vidali, Emo
Tarabocchia, i gemelli Aurelio e Fabio Nordio,
Ruggero Fausto Timeus, Antonio Bergamas,
Gabriele D‟ Annunzio......fino a giungere alle medaglie d‟oro concesse a Ugo
Polonio, Carlo e Giani Stuparich, Giacomo Venezian, Francesco Rismondo,
Nazario Sauro, Guido Brunner, Guido Slataper, Spiro Xidias, Fabio Filzi e Guido
Corsi, nomi che, giustamente, furono ricordati dedicando loro altrettante vie
cittadine.
Concludendo.........
A questo punto posso dire, perché lo penso, che Trieste abbia assunto quella
che è la sua vera identità: essere italiana.
A grosse linee cerchiamo di riassumere la lunga, ma breve storia di Trieste e
dei Triestini. Trieste fu dapprima un castelliere, un piccolo scalo per scambi e/o
baratti con navi provenienti da oriente, poi divenne dominio romano, seguirono
invasioni e distruzioni alle quali seguì il dominio bizantino. Nel medioevo fu un
po‟ ai margini di eventi che sconvolsero, più il Friuli e le Venezie e pur
passando, alternativamente, sotto domini dei Veneziani, degli Austriaci, dei
vari Patriarchi fino all‟ottocento dove giunsero Tedeschi del nord attratti da una
cultura che amavano e che ritenevano superiore; i Greci provenienti da zone
povere spesso oppresse dai Turchi, per non parlare degli Slavi che giungendo,
per lo più, dal contado trovarono a Trieste un ambiente culturalmente molto
evoluto.
Trieste fu
sempre un po‟
autonoma
anche grazie
alla
testardaggine
dei Triestini,
che volevano
essere liberi di
amministrarsi
come meglio
credevano. Anche se, probabilmente, in città agli inizi c‟erano dei partiti politici
filo-austriaci, filo-veneziani e filo- patriarchini, la più grande preoccupazione,
che in ciò li univa, era salvaguardare e difendere la libertà del comune e dei
suoi statuti che davano facoltà alla città di amministrarsi da sola tramite il
Consiglio Maggiore e il Consiglio Minore, che si possono paragonare alle attuali
Camera dei Deputati e del Senato. Nemmeno il dominio di 500 anni da parte
dell‟Austria riuscì ad eliminare tutti questi privilegi. Solamente gli ultimi 150
anni di dominio austriaco furono un po‟ più pesanti anche perché, i Triestini,
decisero di togliersi di dosso il giogo austriaco e ciò comportò una maggiore
pressione e repressione sulla popolazione. Trieste è sempre stata piccola,
chiusa in se stessa a difendere il suo esistere e soprattutto la sua lingua che
nessun dominatore o semplice immigrato, riuscì mai a cancellare, anzi furono
loro che dovettero adattarsi, con vero piacere però, ad imparare non solo la
lingua italiana ma anche costumi, usi e tradizioni esistenti tanto che, dopo
pochi anni di permanenza, come succede tuttora, tutti si sentono e vogliono
essere considerati triestini. Questo è quello che la Storia destinò ai Triestini
cioè di restare italiani attraverso le innumerevoli vicende durante i secoli in
questo estremo lembo orientale della penisola. E‟ storia recente quella in cui i
Triestini dovettero nuovamente essere soggiogati da dominazioni straniere e
cioè dal 1943 al 1945 dai Tedeschi, nel 1945, per soli 40 giorni
fortunatamente, dai partigiani slavi ed infine per ulteriori nove anni, fino al
1954, dall‟amministrazione militare anglo-americana. Avrebbe dovuto essere
creato il Territorio Libero di Trieste,
quale cuscinetto tra oriente e
occidente ma, per fortuna, la
decisione dei quattro “Grandi” rimase
solamente sulla carta e alla fine del
1954 Trieste, con la sua ridottissima
provincia, ritornò all‟amministrazione
italiana. Anche la situazione
economica della città è cambiata. Da
città cantieristica si è passati a città di studi e di cultura. Le grandi industrie
sono emigrate o non sono state create a parte la Grandi Motori Trieste. Le
raffinerie petrolifere hanno cessato la loro attività e la zona è divenuta deposito
di greggio che tramite l‟oleodotto transalpino viene mandato fino nell‟alta
Germania. In cambio Trieste si è dotata di uno dei più importanti centri
mondiali di fisica nucleare, a Miramare, intitolato al premio Nobel Abdul Salam
che, per decenni, lo resse e lo diresse fino a farlo diventare il più ambito punto
di studio e di ricerca, meta dei migliori ricercatori mondiali. L‟Area di Ricerca di
Padriciano, altro complesso scientifico che l‟Europa, se non il mondo, c‟invidia.
Esso doveva sorgere a Vienna, ma fu scelta invece la località carsica per la sua
collocazione geografica e orografica, pur rimanendo a Vienna la direzione
logistica e amministrativa. Ultimo nato in ordine di tempo, ma forse anche
l‟opera più importante è il Protosincrotrone, o come più comunemente viene
detto “anello di luce”. Infatti in esso vengono studiate le risultanze dell‟
accelerazione delle molecole in questo anello. Trieste così è diventata un polo
della scienza, un centro di convegni mondiali e, sembra, si stia studiando la
creazione di un nucleo alberghiero di dimensioni tali da poter diventare sede
mondiale scientifica permanente. A questo proposito, sembra che un gruppo
americano abbia intenzione di rilevare e bonificare dall‟amianto l‟hotel Europa,
lungo la Riviera triestina, e adibirlo, appunto, esclusivamente a insediamento
di studiosi e scienziati di tutto il mondo.
N on è come agli inizi di questa ricerca dove gli scritti, le notizie, i documenti
erano rari e frammentari, ora non è più possibile spaziare a largo raggio, ogni
argomento, ogni
avvenimento, ogni
situazione ha bisogno di un
intero libro per essee
descritto. Tante persone,
molto più qualificate, hanno
già adoperato fiumi
d‟inchiostro per descrivere
un solo palazzo o un solo
castello o un solo museo. Io
posso solamente leggere,
imparare e recepire qualche
cosa perché la mia Trieste,
anche se piccola, ha tante
cose da offrire e da far
vedere a chi volesse
scoprirle. Una città come
Trieste, penso, sia unica al
mondo, sia per la sua
conformazione orografica, per la sua collocazione geografica, per la sua storia,
per la sua cultura, per la sua multietnicità, per il suo spirito, per la sua
mentalità che, alle volte, risulta un po‟ troppo chiusa o poco aperta alle novità,
allo sviluppo, alla modernità. I Triestini si rifugiano nel loro passato, che fu
splendido, ma non vogliono capire che non potrà mai più ritornare se non con
innovazioni sia tecnologiche che culturali, con la mentalità aperta che il nuovo
millennio deve e potrà portare. Solo rimboccandoci le maniche, stringendo i
denti e lavorando intensamente potremo essere nuovamente una grossa e
importante città nel mondo e non certamente cullandoci in nostalgici ricordi
che nulla producono e a nulla servono. In un‟Europa che cerca di unificarsi in
una sola grande nazione, in un‟Europa dove popoli che europei non sono,
vogliono entrare e farne parte a qualunque costo, dove si cerca di creare
un‟economia comune per il bene di tutti, dove perfino la moneta di scambio
sarà unica, a Trieste esistono ancora delle persone ottuse e retrograde. Esse
vorrebbero isolarsi e isolare la città quasi desiderassero ritornare all‟epoca dei
liberi comuni, con le piccole botteghe artigiane, gli usurai toscani o ebrei, con
un‟ economia basata sulla quotidianità senza sviluppo, senza domani, senza
progetti, senza futuro certo o almeno programmato, senza quella
imprenditorialità che, al giorno d‟oggi, necessita per poter guardare con una
certa serenità al futuro nostro ma soprattutto al futuro dei nostri figli e dei figli
dei nostri figli. Trieste svegliati, scuotiti, sii la Trieste che mai si è piegata a
nessuno, ma che sempre ha collaborato e ha accolto tutti in seno a sé per
poter cooperare ed essere accolta nel mondo intero!
Comunque sia, Trieste io t‟amo perché sei Trieste ed io sono fiero di essere
Triestino.
Giorgio Weiss