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La vita quotidiana a Milano alla fine del IV secolo...

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Laboratorio HOC del Politecnico di Milano Via delle Rimembranze di Lambrate, 14 20134 Milano Pagina 1 La vita quotidiana a Milano alla fine del IV secolo d.C. Narrazione multimediale per il Museo Civico Archeologico di Milano A cura di HOC-LAB, Politecnico di Milano La narrazione
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Laboratorio HOC del Politecnico di Milano Via delle Rimembranze di Lambrate, 14 20134 Milano  Pagina 1 

La vita quotidiana a Milano alla fine del IV secolo d.C.

Narrazione multimediale per il Museo Civico Archeologico di Milano

A cura di HOC-LAB, Politecnico di Milano

La narrazione

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Introduzione Questo è il racconto di cosa fecero il 10 marzo del 398 d.C. alcuni personaggi di Milano “romana”. Milano, dall’inizio del quarto secolo, era diventata una delle capitali dell’impero ed era quindi sede di un grandioso palazzo imperiale, che l’imperatore abitava occasionalmente nei suoi vari spostamenti. Il palazzo ospitava quelli che oggi chiameremmo i “ministeri”. Milano era anche sede di uno dei più importanti vescovati dell’epoca, soprattutto grazie alla attività del vescovo Ambrogio. Infine, essendo collocata al centro della pianura padana, Milano ferveva di vita economica, un po’ come ora. I personaggi di cui seguiremo la giornata sono Flavio Manlio Teodoro (già avvocato ed ora alto funzionario imperiale), Vinicia Tertullina (sua moglie), Manlio Epittèto (un liberto di Manlio), Paolo (un diacono), e Gaio Novellio Vittore (un patrizio pagano, non ancora convertito al Cristianesimo).

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Un alto funzionario: Flavio Manlio Teodoro Flavio Manlio Teodoro è nato nel 350 d.C. a Milano. È stato avvocato ed è ora un importantissimo funzionario imperiale. Nel 397 è stato nominato prefetto del pretorio della diocesi d’Italia, Africa e Illirico, vale a dire di fatto governatore di buona parte dell’impero d’Occidente. È sposato con Vinicia Tertullina e ha due figli: Manlia e Teodoro (‘junior’, diremmo oggi). Teodoro è cristiano ed il suo nome vuol dire, in greco, “dono di Dio”. Abita a Milano in una grande casa non lontana dal palazzo imperiale (vicino alle attuali piazza Cordusio e piazza Duomo). Il risveglio È il 10 marzo del 398 d.C. (“ante diem sextum Idus Martias”, avrebbero detto i Romani). Manlio Teodoro viene svegliato da uno schiavo africano verso le ore 7 (“hora secunda”). La sua ricca casa è dotata di notevoli “comfort”, tra cui il riscaldamento ed un bagno. Si lava velocemente con l’acqua di un catino e, direttamente nella sua camera, si accinge a fare colazione. Uno dei suoi numerosi schiavi (ne possiede 11) gli serve dell’arrosto freddo di maiale, con un po’ di focaccia: sono avanzi della cena della sera precedente. Il figlio Manlio lo interrompe per invitarlo ad ascoltare le richieste di alcune persone che hanno bisogno di lui (“clientes”) e che da tempo aspettano alla porta, per la “salutatio” mattutina. Manlio Teodoro ascolta tutti con benevolenza e accontenta chi può: è buono d’animo, ma sa anche che aiutando gli altri la sua fama crescerà. Aiutato da un altro dei suoi schiavi, indossa poi la toga, ai piedi mette i calzari e si avvia verso il palazzo imperiale. Al palazzo imperiale Manlio Teodoro esce di casa per andare al palazzo imperiale. Passa per il Foro, luogo a lui ben noto perché vi ha esercitato per anni la sua professione di avvocato. Lì incontra degli amici, tra cui alcuni senatori della città e il liberto Manlio Epittèto, un ex-schiavo che lui stesso ha liberato. Quando arriva a palazzo – un complesso enorme, non un semplice edificio – passa nella grande sala a volta: un grandissimo locale, circondato da un ampio corridoio rivestito di tessere di vetro, che sotto la luce del giorno sono straordinariamente luminose. Camminando velocemente sui preziosi pavimenti di mosaico, ammira le splendide statue ed i numerosi oggetti preziosi esposti. Si ferma anche ad esaminare la preziosa coppa di vetro lavorato, esposta in una nicchia, che è arrivata da Treviri (in Germania), un’altra capitale dell’Impero. A palazzo fervono i preparativi per festeggiare solennemente il quarto consolato dell’imperatore Onorio e le sue prossime nozze con Maria, la figlia del potente generale vandalo Stilicone, che avverranno proprio a Milano tra breve. Al lavoro Manlio Teodoro è prefetto del pretorio (governatore, diremmo oggi) dell’Italia, dell’Africa e dell’Illirico e quindi ha un suo ufficio nel palazzo imperiale. Lì trova un messaggio dell’imperatore Onorio, che legge immediatamente: il messaggio è asciutto, diretto e quasi brusco. L’imperatore è preoccupato degli introiti ridotti derivanti dalle tasse pagate dai nobili di Milano e altre città d’Italia (i cosiddetti “decurioni”): molti di loro si stabiliscono, anche in modo fittizio, in campagna, per pagare meno tasse. Ma le guerre contro i barbari che premono alle frontiere dell’impero e contro i vari usurpatori che scorrazzano per l’Italia richiedono ingenti risorse: l’imperatore ha bisogno che gli introiti ritornino ai livelli precedenti. Manlio Teodoro, quindi, convoca una riunione del senato

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cittadino per discutere la cosa e scrive un messaggio per il suo fidato liberto Manlio Epittèto, responsabile degli approvvigionamenti della città, perché vada a vedere subito cosa succede in campagna e in particolare nel Lodigiano. Corrispondenza con Simmaco Manlio Teodoro trova, tra i vari messaggi, una lettera dell’importante senatore di Roma Quinto Aurelio Simmaco, un pagano colto e filosofo. Simmaco è preoccupato per le violenze che si sono scatenate tra pagani, cristiani e ariani. Ricorda ancora la foga con cui il vescovo milanese Ambrogio si scagliava contro i pagani e come, nel 381, avesse convinto l’imperatore a rimuovere l’antica statua della Vittoria, simbolo pagano della potenza di Roma, dall’aula del senato e come questo lo abbia addolorato. Manlio Teodoro detta la sua risposta, che viene trascritta su un foglio di papiro. Manlio Teodoro capisce le ragioni di Simmaco, ma fa anche presente che l’uccisione, avvenuta pochi mesi prima, nel maggio del 397, dei tre missionari inviati da Ambrogio dieci anni prima nell’Anaunia (attuale Val di Non in Trentino) non abbia certo contribuito a pacificare gli animi tra pagani e cristiani. Il pranzo La quiete dell’ufficio di Manlio Teodoro viene disturbata da una delegazione dei panettieri (“pistores”). Questi chiedono una riduzione delle tasse per tener basso il prezzo del pane, dato che invece il prezzo del grano continua a crescere, anche per via delle speculazioni dei grandi proprietari terrieri (“possessores”). Manlio Teodoro dapprima li tratta bruscamente, poi li tranquillizza dicendo che verranno presi provvedimenti per abbassare il prezzo del grano. È giunto il momento del pranzo: Manlio si reca in un locale in cui si può mangiare velocemente e in modo informale: una “taberna”, una specie di bar-trattoria dell’epoca. Sul bancone in pietra, rivolto verso la strada, cinque contenitori di cibo già pronto fanno bella mostra di sé, insieme a dei boccali di vino. Manlio sceglie del pesce di lago con salsa forte ("garum") e si siede a mangiare in uno dei tavoli all’interno. La sua guardia del corpo, costituita da schiavi fidati, aspetta fuori. Pomeriggio alle terme Nel pomeriggio Manlio Teodoro si reca alle terme Erculee (in una zona tra gli attuali Corso Europa e Corso Vittorio Emanuele). Viaggia comodamente in lettiga, al riparo dalla sporcizia della strada, piena di escrementi. Passa accanto a residenze di prestigio e condomini dei poveri (non esisteva distinzione tra quartieri ricchi e poveri). Attraversa la piazza della cattedrale e del battistero (attuale piazza Duomo) e finalmente giunge alle terme. Una magnifica statua di Ercole lo accoglie all’ingresso. Manlio Teodoro entra e guarda con disapprovazione un gruppo di donne civettuole che sorridono: “aveva proprio ragione il nostro vescovo Ambrogio a disapprovare la promiscuità delle terme” pensa. Manlio percorre tutti gli ambienti, dalle zone calde a quelle tiepide e fresche. Un bel massaggio con olii profumati e quattro chiacchiere con gli amici lo rimettono decisamente in forma! “Relax” a casa Nel tardo pomeriggio Manlio Teodoro torna a casa e si dedica alla lettura. La sua ricca biblioteca vanta numerosi rotoli di papiro (“volumina”) e anche pergamene con le opere di famosi filosofi e retori, sia greci che romani. Naturalmente, essendo lui cristiano, sono anche presenti i libri sacri e le opere dei padri della chiesa.

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Oggi la sua lettura è “Contra Celsum”, un’opera del famoso Origene, uno dei padri della Chiesa vissuto ad Alessandria d’Egitto circa duecento anni prima. Legge ad alta voce, come era costume all’epoca, con crescente fervore. A Manlio Teodoro piace anche scrivere e comporre testi di filosofia, astronomia e geometria. Questo pomeriggio di relax è un esempio di “otium”, che per i Romani ha un significato positivo e ben diverso dal nostro “ozio”. L’"otium" è l’attività intellettuale, culturale e contemplativa, contrapposta al "negotium" (da "nec otium" = non ozio), l’attività commerciale o pubblica. Il banchetto La moglie di Manlio Teodoro, Vinicia Tertullina, ha organizzato una magnifica cena, cui sono invitati non solo i personaggi in vista della città ma anche un importante senatore di Roma, Rufio Volusiano Lampadio, che è di passaggio a Milano. Tutti gli ospiti si adagiano nel triclinio e conversano piacevolmente, mentre dei musici e dei giocolieri li intrattengono. Vengono servite gustose ed elaborate pietanze, tra cui il prosciutto in crosta che Manlio apprezza particolarmente. È notte fonda ormai quando l’ultimo ospite si allontana, malfermo sulle gambe: è il vecchio Claudio, che ha alzato troppo il gomito. Fortunatamente ci sono i suoi servi per sorreggerlo fino a casa e difenderlo da possibili aggressioni: Milano di notte è buia (non c’è illuminazione!) e pericolosa. Manlio Teodoro si reca nella sua stanza e si addormenta sul suo morbido materasso di lana poggiato su un letto di legno, dalle gambe intarsiate con prezioso avorio. Il suo schiavo fidato si addormenta sul pavimento di fronte alla porta della camera: proteggere di notte il suo padrone è uno dei suoi compiti principali.

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Una matrona: Vinicia Tertullina Vinicia Tertullina è una nobile matrona di Milano, figlia di un ricco mercante divenuto decurione della città, Massimo Vinicio Marsiano. Nel 381, all’età di 15 anni, è andata in sposa a Flavio Manlio Teodoro. Dei cinque figli che ha avuto solo due sono sopravvissuti: Teodoro, il primogenito, che ormai ha quasi 15 anni, e Manlia di 12 anni. Vinicia è una devota cristiana cattolica, battezzata dal vescovo Ambrogio. Suo padre, prima di convertirsi al cattolicesimo, era stato ariano, come molti altri concittadini, quando a Milano era vescovo l’ariano Aussenzio. Ora però, nel 398, dopo l’intensa attività pastorale di Ambrogio (divenuto vescovo nel 374 e deceduto nel 397 d.C.), i cattolici sono largamente predominanti a Milano. Il risveglio Vinicia sta dormendo profondamente nella sua camera privata (non dorme, infatti, con il marito abitualmente) quando viene svegliata alle 6 (“hora prima” per i Romani) dalla sua schiava favorita, quella che ha l’onore di dormire davanti alla sua porta. Mentre la schiava le pettina i lunghi capelli, Vinicia pensa alla giornata che l’aspetta: non solo dovrà occuparsi, come sempre, dell’organizzazione della servitù per le faccende domestiche, ma quella sera ci sarà un banchetto in onore di un importante senatore di Roma, Lampadio, e sta a lei organizzarlo. Di certo non farà sfigurare il marito! Per la mattinata si veste in modo sobrio, indossando una lunga tunica sottile fermata sotto il seno da una cintura. Le faccende domestiche Dopo una breve colazione, a base di zuppa di farro (un avanzo dalla sera precedente) Vinicia incontra Claudio Claudiano, il pedagogo. Si assicura che abbia cominciato le sue quotidiane lezioni di greco al figlio Teodoro. Saluta brevemente anche la figlia Manlia, occupata all’arcolaio. Sta imparando a filare molto bene, pensa compiaciuta. Dopo avere parlato con i suoi cuochi per decidere il menù del banchetto serale, esce, verso le 10 (“hora quinta”), per far visita all’amica Tullia. Nella strada affollata la sua portantina fatica ad avanzare, tra i pedoni e i carri che portano le mercanzie. Percorre la via principale (il “cardo”) che attraversa la città da Nord a Sud, e arriva a casa di Tullia, una bella “domus” nell’area della attuale piazza Scala. A casa dell’amica “Cara Vinicia” l’accoglie Tullia con calore “vieni, devo raccontarti una cosa terribile…”. Tullia conduce l’amica nella sua bella casa, nella stanza riservata alle donne (chiamata con termine greco “gineceo”). La brutta notizia è che un ricco liberto ha ‘esposto’ la figlioletta appena nata, abbandonandola a un crocevia, e questa è morta di freddo. Nel foro, il giorno prima, non si parlava di altro. Eppure il vescovo Ambrogio aveva tuonato, dal pulpito della chiesa e nei suoi scritti, contro questa pratica orribile. E anche adesso, dopo la sua morte avvenuta l’anno passato, il suo successore, il vescovo Simpliciano, continua con vigore nelle sue prediche a scagliarsi contro tale metodo brutale di controllo delle nascite. Tullia e Vinicia fanno parte di una organizzazione religiosa che combatte queste pratiche, eredità del paganesimo o frutto dell’indigenza, e aiutano i poveri e bisognosi.

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In chiesa Vinicia e l’amica Tullia decidono di recarsi nella cattedrale, dedicata al Salvatore (nell’area occupata dall’attuale Duomo di Milano). Ben protette da sguardi indiscreti nella loro lettiga, attraversano una serie di viuzze e giungono alla cattedrale. La chiesa è monumentale, a pianta rettangolare divisa in cinque navate da colonne di marmo. Le due matrone partecipano a una riunione di preghiera. Il presbitero (ovvero il sacerdote anziano) intona un inno composto anni prima dallo stesso vescovo Ambrogio. Vinicia ha una bellissima voce: la si nota nel canto antifonato in cui l’assemblea si alterna al sacerdote. L’assemblea è composita: uomini e donne, schiavi e liberi, patrizi e poveri. La chiesa è aperta a tutti. Preparazione per la serata Tornata a casa, Vinicia si prepara per la serata. Due schiave hanno scaldato l’acqua per il bagno e hanno riempito la tinozza. Vinicia si concede un lungo bagno rilassante e poi si fa abbigliare con gli abiti e gioielli più costosi e preziosi. Indossa un magnifico abito di porpora che si è fatta confezionare con una stoffa proveniente dall’oriente, degli orecchini di smeraldo, una collana d’oro e un bracciale molto grosso, che tutte le sue amiche le invidiano. Una parrucca di capelli biondi completa la sua elaborata acconciatura. Il vescovo Ambrogio deplorava il lusso eccessivo, ma Vinicia non riesce proprio a rassegnarsi a uno stile più modesto: in fondo è la moglie del governatore. Il banchetto Gli ospiti che arrivano vengono fatti accomodare nella splendida sala del triclinio. Quando arriva Vinicia, Manlio Teodoro si alza per accoglierla. Questo dà l’avvio al banchetto, in cui si susseguono portate elaborate: una serie di antipasti con uova, olive, focacce e un tortino di ortiche. A seguire, un pasticcio di formaggio e una zuppa di pesce. Poi le carni: pollo, braciole di maiale e prosciutto in crosta. Per addolcire il palato, al termine del pasto vengono serviti datteri ripieni, pan dolce e omelette al latte. Tra le varie portate viene servito il costoso vino Falerno mescolato con miele e spezie. Le cibarie sono disposte in preziosi piatti d’argento. Alla fine, gli ospiti si congedano, dopo che gli schiavi hanno preparato nelle apposite tovagliette qualche avanzo da portare a casa, per la prima colazione del giorno dopo. Un ultimo compito resta a Vinicia: dirigere gli schiavi perché puliscano la sala.

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Un liberto: Manlio Epitteto Manlio Epittèto è stato catturato e fatto schiavo da ragazzo in una città della Mesopotamia, ai confini dell’Impero d’Oriente, nella guerra continua di quella zona di frontiera contro i Parti. È di buona famiglia e sa leggere e scrivere in greco e latino. Messo in vendita al mercato degli schiavi dal condottiero che lo ha avuto come parte del bottino, è stato acquistato dal padre di Manlio Teodoro per 20 solidi (cifra notevole, con cui si potevano all’epoca acquistare 40 jugeri di terra, circa 5 ettari). Intelligente e svelto, viene messo a controllare la produzione del grano nelle proprietà della famiglia. Per la sua abilità gli viene accordata una percentuale dei guadagni e, in pochi anni, diventa abbastanza ricco da acquistare la propria libertà, pagando 60 solidi. Cresciuto con Manlio Teodoro, ha sviluppato nel tempo un legame di fedeltà e affetto, contraccambiato, nei riguardi del suo padrone. Anche da liberto resta quindi nella casa di famiglia, con il nome di Manlio Epittèto. Grazie alle sue doti d’ingegno e alla sua familiarità con Manlio Teodoro, è diventato un funzionario di stato di buon livello e lavora nella segreteria del coordinatore di tutti gli uffici del palazzo imperiale (il “Magister Officiorum”). Avendo fama di abile gestore (“manager” diremmo oggi) ha il delicato compito di verificare la regolarità dell’approvvigionamento del grano (“Annona”) per Milano. Il risveglio Manlio Epittèto viene svegliato alle 6 ("hora prima" per i Romani) dal servo che aveva passato la notte fuori dalla sua porta. Il servo porta l’acqua con la bacinella, lo aiuta a lavarsi e profumarsi. Si veste con una semplice tunica e consuma, come colazione, dei resti di pesce freddo che si era portato a casa dal banchetto cui aveva partecipato la sera precedente. Si fa portare il cavallo e, accompagnato da due servi, anch’essi a cavallo, si avvia verso sud: deve andare a controllare nella zona di Lodi ("Laus Pompeia") la produzione di grano che continua a scendere. Uscita da Milano Manlio Epittèto ed i servi a cavallo si fanno strada a stento nelle strade già affollate. Lungo il percorso si vedono i muri delle case dei ricchi mercanti e anche le case in legno ("insulae"), a più piani, della gente comune. Arriva alla Porta Romana (nell’area dell’attuale piazza Missori), le cui pesanti ante erano state chiuse al tramonto e riaperte all’alba. Dopo le scorrerie nella valle padana degli eserciti dei vari usurpatori e pretendenti al trono imperiale, anche una capitale come Milano non si sente sicura. Alla porta Manlio Epittèto affitta due muli (per il trasporto di merci) e tre cavalli (per il ritorno): la corporazione dei trasporti fornisce un servizio accurato. La via porticata Il piccolo corteo di Manlio Epittèto e dei suoi servi esce dalla Porta Romana e si avvia lungo la via porticata che da poco (sotto l’imperatore Graziano) era stata inaugurata per creare un ingresso splendido alla città da sud, in direzione di Roma. La strada è magnifica: larga 9 metri e lastricata secondo la migliore ingegneria dei Romani. Il porticato, lungo 600 metri, racchiude ricche botteghe, spesso affrescate a vivaci colori, con merci di elevata qualità. Il traffico è già pesante: i carri di fornitori si mescolano con i pedoni e le portantine delle matrone e dei ricchi aristocratici. A metà della strada Manlio si ferma per una breve visita alla chiesa dei Santi Apostoli (dove oggi c’è la chiesa di san Nazaro), costruita da pochi anni (nel 382), per volontà del

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vescovo Ambrogio. Entra per una breve preghiera e scambia due chiacchiere con il diacono Paolo, suo amico. Ripreso il cammino, quando i cavalieri arrivano in aperta campagna possono finalmente procedere al trotto. Verso Lodi Manlio Epittèto percorre, verso Lodi (“Laus Pompeia”, l’attuale Lodi vecchia), la via consolare Emilia. Le campagne sono ben coltivate. Lungo la strada Manlio vede una piccola chiesa campestre, al cui interno sono sepolti alcuni cittadini illustri, con un cimitero intorno. Nelle zone circostanti non ci sono abitazioni. Dopo poco più di un’ora c’è un luogo di ristoro (“mutatio”) equivalente alle stazioni di servizio che si possono trovare oggi lungo le autostrade. Manlio si ferma a consumare uno spuntino a base di pane, cipolle e formaggio e a dare un po’ di biada ai cavalli. Rifiuta la offerta di cavalli freschi, dato che i suoi sono ancora in ottimo stato e procede celermente verso la sua meta. La raccolta delle tasse Verso le 11 (“hora sesta” per i Romani) Manlio Epittèto arriva a Lodi e incontra i notabili locali (“decurioni”) nella Curia. Manlio mostra loro la pergamena del governatore, che lo incarica di controllare la produzione di grano, in generale e soprattutto a Lodi, che ultimamente ha ridotto i suoi contributi. I decurioni, che sono anche i proprietari terrieri, spiegano che sono tempi difficili, che c’è stata una pesante carestia e che inoltre si sentono ancora gli effetti delle devastazioni portate dagli eserciti dei vari pretendenti al trono imperiale. Anche il vescovo locale, Bassiano, intervenuto nella Curia, fa notare la difficile situazione delle campagne, come già aveva sottolineato il vescovo Ambrogio nelle sue lettere all’imperatore pochi anni prima. Manlio promette che farà presente queste cose al governatore ma li invita comunque ad aumentare i loro sforzi per fornire maggiori contributi. Poi fa caricare sui muli che si era portato un carico di sacchi di grano, che poi depositerà nel magazzino ("horreum") di Milano, e si affretta sulla strada del ritorno, scortato dai suoi schiavi. A teatro Manlio Epittèto si affretta a cavallo verso Milano, lasciando indietro i servi con i muli ed il grano, perché vuole partecipare allo spettacolo teatrale iniziato alle 11 che durerà fino alle 18. Arrivato nel primo pomeriggio, fa un veloce bagno nella vasca della casa ("balneum"), si deterge con la cenere e con l’acqua attinta dal pozzo di casa, si cosparge di olio, si profuma ed indossa la sua veste più bella. Il teatro si trova vicino alla casa (nella zona della attuale Borsa), per cui vi si reca a piedi. Arrivato al teatro, che contiene circa 10.000 spettatori, si gode il suo spettacolo preferito: il mimo. Siede in un posto che un tempo era di prestigio: il “bisellium”, un posto doppio, riservato agli antichi seviri. Manlio Epittèto ha preso l’abitudine di occuparlo anche se purtroppo per lui, il titolo di Seviro, non viene più attribuito a liberti di successo come lui è. Il mimo in scena non può essere paragonato al celebrato Pilades, ma è pur sempre un mimo di grande qualità. Dopo il teatro Dopo lo spettacolo teatrale è quasi il tramonto e Manlio Epittèto si affretta verso casa prima che venga buio. Arrivato a casa, consuma una cena frugale: una minestra di farro con due fettine di guanciale di maiale. Dopo la cena, alla luce di una lucerna, si reca nella biblioteca di

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Manlio Teodoro, adiacente alle sue stanze, sceglie un libro di Aristotele sulla retorica (in greco) e legge per circa un’ora. Poi, stanco della lunga giornata, si reca nella sua camera da letto, si spoglia con l’aiuto di un servo e si addormenta.

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Un diacono: Paolo Paolo è un diacono di circa 30 anni della basilica dei Santi Apostoli (attuale san Nazaro), che si trova lungo la via porticata che esce da Milano in direzione Sud, verso Roma. Paolo viene da una famiglia aristocratica, originaria di Treviri e trasferitasi successivamente a Milano: per accedere a cariche religiose importanti infatti è necessaria una educazione di qualità, che solo le famiglie di un certo rilievo possono assicurare. La famiglia vive in una ricca villa fuori città, lungo la strada che porta a Lodi (l’antica "Laus Pompeia"), Paolo invece vive in una piccola e semplice casa presso la basilica. Ha avuto una infanzia fortunata: il suo precettore, Severino, lo ha istruito sui testi greci della ricca biblioteca di famiglia. Ha anche ricevuto i rudimenti della vita militare, ma poi ha preso una strada diversa: all’età di 22 anni ha conosciuto il vescovo Ambrogio e questi, compresa la sua vera inclinazione, gli ha proposto di diventare diacono. Paolo ha accettato e dopo un duro lavoro di penitenza e purificazione ha ricevuto il battesimo nel battistero di San Giovanni alle Fonti, costruito da Ambrogio nella zona antistante l’attuale Duomo di Milano. Assistenza ai poveri Paolo si sveglia molto presto, recita le preghiere del mattino e poi, dopo una veloce colazione, si reca presso la residenza del Vescovo, vicino alla Cattedrale (attuale piazza del Duomo). Mentre sta uscendo incrocia il suo amico Manlio Epittèto , che sta andando a Lodi: lo saluta sollecitandolo, in qualità di funzionario addetto all’approvvigionamento, a offrire un aiuto da parte dello stato per i poveri. Come per tutti i diaconi, il compito di Paolo è aiutare il vescovo, in particolare in attività di gestione amministrativa dei beni della chiesa, opere assistenziali verso i poveri, distribuzione dell’Eucarestia e predicazione del Vangelo. La società di Milano alla fine del IV secolo è divisa in due: i ricchi e i poveri. Non esiste quasi più un ceto medio borghese, come nei secoli precedenti. Ambrogio si era adoperato moltissimo per aiutare i poveri e aveva spesso, nelle sue lettere, accusato i ricchi di sfruttarli. Il popolo lo adorava per questo. Educazione religiosa Fino all’ora di pranzo Paolo si dedica alla educazione dei giovani alla religione, presso la residenza vescovile. Legge una lettera di San Paolo ad alta voce e la commenta: il suo pubblico è vario come sempre. Ci sono giovani colti, di buona famiglia, che sanno leggere e scrivere, ma ci sono anche donne e perfino schiavi: il cristianesimo raccoglie tutti. Ci sono tanti aspetti del cristianesimo da approfondire: il tirocinio per diventare cristiani è molto pesante e dura tre anni, caratterizzati da prove imposte al catecumeno, cioè l’aspirante cristiano: digiuni, astinenza sessuale, preghiere, esercizi e lunghi corsi di catechesi. L’insegnamento a viva voce (catecumenato) è obbligatorio per accedere al battesimo. Il primo pomeriggio Dopo un parco pranzo a base di focaccia e olive, Paolo si occupa di questioni amministrative per la diocesi ecclesiastica. In particolare si dedica agli aspetti economici: la chiesa di Milano non è affatto povera, ha possedimenti in Italia e anche in Africa, vicino all’attuale Tunisi. Per ordine del vescovo Simpliciano deve poi recarsi fuori città, a Ovest, in una località tra Porta Vercellina e Porta Ticinese , a somministrare l’Eucarestia a un’anziana matrona cristiana gravemente ammalata. Lungo la strada, passa davanti al recinto del cimitero che

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circonda il mausoleo imperiale e la Basilica di San Vittore al Corpo (ora presso il museo della Scienza e della Tecnica in via San Vittore), fuori da Porta Vercellina. Commosso al pensiero della morte, Paolo di ferma a leggere le scritte (“epigrafi”) di alcune lastre tombali: una in particolare, quella del presbitero Probo, lo colpisce: Probo è morto a 80 anni, un’età avanzatissima, quasi incredibile. Pensa con nostalgia al suo amico Giovanni appena sepolto, che di anni ne aveva 50. E poi c’è l’epigrafe della piccola Attica Lea, che “prematuramente cadde come un albero spogliato dei suoi frutti”. Che mistero la morte, perfino per un cristiano! Rientro a casa Al termine di una faticosa giornata di lavoro trascorsa in giro per la diocesi a eseguire gli ordini del vescovo, Paolo si avvia finalmente verso casa. Esce dalla porta della città in corrispondenza dell’attuale largo Augusto (non ne conosciamo il nome antico) e costeggia le poderose fortificazioni della città. Nel rosso vivo dei mattoni spicca il biancore di alcune grandi stele di marmo, un tempo destinate ad ornare monumenti e sepolcri illustri e ora riutilizzate come materiale edilizio a rinforzo degli angoli e delle basi dei muri. La stessa sorte è toccata ad altre statue antiche, i cui pezzi si intravedono tra i mattoni. Rientrato nella sua parrocchia, Paolo inizia la consueta distribuzione di pane ai poveri davanti alla basilica: moltissimi sono i poveri mantenuti a spese della chiesa.

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Un patrizio pagano: Gaio Novellio Vittore Gaio Novellio Vittore è un patrizio milanese, appartenente a una “gens” importante e di una ricchissima famiglia. I suoi possedimenti sono in tutta la “Liguria” (la regione che allora comprendeva l’odierna Liguria, il Piemonte e la Lombardia). Essendo molto ricco ed importante è divenuto “decurione” di Milano (cioè un membro del senato locale) ed ha amici influenti a Roma, dove si reca per affari diverse volte l’anno. La sua splendida casa si trova nella zona di Piazza Fontana, ad Est della piazza delle due Cattedrali (l’attuale piazza Duomo). Novellio Vittore non è cristiano, ma nessuno si azzarda a chiamarlo con il termine dispregiativo di pagano (parola coniata dai cristiani di città per gli abitanti dei villaggi di campagna non ancora convertiti). La sua famiglia è da sempre dedita al culto della dea orientale Cibele. La sua vita politica è stata perciò pesantemente ostacolata dal fatto di non essere cristiano, soprattutto al tempo del vescovo Ambrogio e dell’imperatore Teodosio, che, con l’Editto del 380 e i successivi decreti di attuazione del 391 e 392, aveva dato avvio a una politica di discriminazione verso i non cristiani. Il culto domestico Novellio Vittore viene svegliato di buon mattino dal suo schiavo personale, un siriano acquistato a caro prezzo al mercato. Questo schiavo gli è particolarmente caro perché anche lui dedito al culto di Cibele, al contrario della maggioranza degli altri schiavi che sono cristiani come i loro padroni. Il primo pensiero è rendere onore agli antenati e agli dei protettori della famiglia. Si reca quindi nella stanza dedicata al culto domestico: in un’apposita nicchia ci sono le statuette che rappresentano gli antenati. Sono i “lari famigliari” (dall’etrusco "lar", che significa “padre”), che proteggono la famiglia e la casa. Aiutato dal fedele servitore accende alcune lucerne per onorare i suoi antenati e resta per qualche minuto in meditazione. Novellio Vittore sa che dopo l’ultimo decreto dell’imperatore Teodosio di pochi anni prima (392), che vieta anche i sacrifici privati ai Lari delle case, potrebbe rischiare, se qualcuno lo denunciasse, addirittura la perdita della cittadinanza romana, con tutti i diritti e i privilegi connessi, e la confisca della sua casa. Ma non può rinunciare alla religione della sua famiglia, radicata profondamente nel suo animo. La mattina Consumato un veloce pasto a base di verdure bollite e formaggio (avanzi della sera prima), Novellio Vittore convoca i suoi numerosi fattori che si occupano della produzione agricola. Le coltivazioni sono svariate: farro, grano, legumi di vario genere (lenticchie, fagioli, ceci e cicerchia) nei territori di pianura, vino bianco nelle colline piacentine e vino rosso nella zona di Brescia, maiali e bovini nella pianura padana. L’imperatore Onorio ha richiesto un aumento delle tasse e quindi Novellio Vittore verifica lo stato della produzione nelle varie zone. Il suo liberto factotum lo aiuta nei conteggi. Un altro liberto si occupa della vendita dei beni nella bottega, situata al pian terreno della casa di famiglia. Un altro liberto infine, molto fidato, si occupa della vendita di grano e carne al “mercato nero” di Roma: attività pericolosa ma redditizia, soprattutto adesso che le importazioni di grano dall’Africa verso Roma sono state bloccate da pretendenti al trono imperiale. La riunione della Curia Dopo essersi occupato dei suoi affari, Novellio Vittore si reca alla riunione dei nobili locali nella Curia, che si affaccia sulla piazza del Foro. L’assemblea è stata convocata per discutere il messaggio in cui l’imperatore lamenta la riduzione dei tributi versati dai

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decurioni mentre una notevole quantità di granaglie è venduta a caro prezzo al mercato nero di Roma. Novellio Vittore attraversa la piazza della Cattedrale e nota, con un certo disappunto, la folla di cristiani, che entra ed esce dalla basilica. Ricorda la solenne cerimonia a cui da bambino prendeva parte con tutta la famiglia presso il tempio di Giove, vicino alla porta della città che da esso prendeva il nome (Porta Giovia, nell’area occupata attualmente dal Castello Sforzesco). I devoti dei vecchi culti, dopo gli ultimi decreti di Teodosio, sono caduti in disgrazia e debbono celebrare i riti di nascosto nelle loro case. L’assemblea dei decurioni prepara una risposta per l’imperatore, motivando la diminuzione dei tributi con le devastazioni seguite alle scorrerie degli eserciti dei vari usurpatori e pretendenti al trono. In ogni caso, per evitare reazioni, si decide anche che ognuno dei possidenti aumenti la sua quota di tributi allo stato. Il culto “nascosto” di Cibele Dopo la riunione presso la Curia, Novellio Vittore entra in una taberna affacciata sul foro per consumare un veloce pasto, a base di pane e fagioli. Novellio Vittore è il capo della associazione dei “Dendrofori”, che raccoglie i lavoranti del legno e che fino a poco tempo fa organizzava ogni anno a primavera una processione per la dea Cibele. Oramai è impossibile organizzare la processione: pochi parteciperebbero, per il divieto imperiale e anche per timore delle aggressioni da parte dei cristiani. Il tempio di Cibele è stato chiuso dopo il decreto imperiale del 391 e i cristiani ne hanno proposto la demolizione. Novellio Vittore incontra segretamente, a casa di un amico fidato che abita vicino al palazzo imperiale, altri adepti del culto con cui discute cosa fare della “patera”, prezioso piatto rituale, dono dell’imperatore Giuliano, devoto della dea, durante una sua visita a Milano. L’oggetto prezioso rischia di finire in mano ai cristiani, che lo distruggerebbero, oppure preda di qualche scorreria di soldati dei vari eserciti in transito. Viene deciso di affidarlo a Rufinus, uno dei più fidati: piuttosto che vederlo finire in cattive mani è meglio nasconderlo, in attesa di tempi migliori, presso una casa amica a nord di Milano (nell’odierna Parabiago). Il circo Dopo il suo dovere come adepto al culto di Cibele, Novellio Vittore si appresta ad uno svago: assistere ad uno spettacolo al circo, spettacolo coinvolgente e assai meno crudele delle lotte cui un tempo si assisteva nell’anfiteatro. Tra coloro che gareggiano c’è Marcus, famoso auriga e suo conoscente: gli ha promesso che sarebbe andato a vederlo. Percorre quindi a piedi la via, passa di fronte ad uno degli ingressi del magnifico palazzo imperiale (nell’area attorno alla attuale via Brisa) ed entra dall’ingresso principale del circo, segnato da due imponenti torri. Il circo è immenso, gremito di spettatori che fanno il tifo: la maggioranza parteggia per i Verdi; ma Novellio Vettore tifa, come i suoi amici, per i Blu tra i quali gareggia Marcus. Lettura serale Nella serata Novellio Vittore si dedica al suo passatempo preferito: la lettura. La sua ricca biblioteca, costruita nel tempo dai suoi avi, contiene più di cento tra pergamene e rotoli di papiro. Filosofia e retorica sono tra le sue letture preferite. Oggi sceglie una pergamena di Cicerone. Una frase lo colpisce “carere debet omni vitio qui in alterum dicere paratus est”: deve essere privo di ogni vizio chi è pronto a rilevarli negli altri. La frase riassume un aspetto della morale classica ed è anche in sintonia con la nuova morale dei cristiani, espressa dalla frase del Vangelo “chi è senza peccato scagli la prima

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pietra”. Gaio Novellio Vittore ricorda anche come un suo antenato l’avesse voluta come epigrafe della statua posta nel santuario di famiglia, dove si veneravano gli antenati. Essendo ormai buio, consuma una veloce cena a base di carne di maiale e legumi, poi va a dormire nella sua stanza da letto, mentre il fedele servitore siriano si addormenta, accucciato a terra, di fronte alla sua porta.

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Conclusione Si è conclusa una giornata a Milano alla fine del IV secolo. Manlio Teodoro e gli altri personaggi hanno vissuto una giornata intensa: forse non “reale” ma sicuramente realistica. A ben guardare, la vita allora non era poi così diversa da quella di oggi: problemi individuali e sociali, difficoltà, tensioni, guerre, tasse, discriminazioni,… La “serenità classica” è un mito creato molti secoli dopo.


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