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L'abominevole diritto

Date post: 14-Feb-2016
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33
Matteo M. Winkler Gabriele Strazio L’abominevole diritto Gay e lesbiche, giudici e legislatori Prefazione di Stefano Rodotà
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Matteo M. Winkler

Gabriele Strazio

L’abominevole dirittoGay e lesbiche, giudici e legislatori

Prefazione di Stefano Rodotà

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www.saggiatore.it

Prefazione © Stefano Rodotà, 2011© il Saggiatore S.p.A., Milano 2011

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Sommario

Prefazione 11di Stefano Rodotà

1. Homo phobicusMatthew Shepard 19 – Definizioni: omosessualità, transessua-

lismo, travestitismo e transgenderismo 22 – Luoghi comuni:

gay lifestyle e la confusione tra orientamento sessuale e iden-

tità di genere 23 – Gay panic e violenza 28 – Gay si nasce o si

diventa? La prima ipotesi: determinismo 32 – La seconda ipo-

tesi: volontarismo 35

2. «Generazione Dudgeon». Nel nome della privacyLe leggi antisodomia 39 – Vita privata, ma non per le persone

omosessuali 41 – Il caso Lawrence 45 – Il caso Dudgeon dinan-

zi alla Corte europea dei diritti umani 49 – La tutela della vita

privata nel panorama comparato 52

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3. «La privacy è ora il nemico». La riprova del liberalismoUtilitarismo e depenalizzazione dei rapporti omosessuali 57 – La

«giurisprudenza del coming out» 61 – I limiti dell’utilitarismo 64 –

Omosessualità e pedofilia: le ragioni di una colpevole confusione

67 – Il dibattito sul piano globale 70 – La situazione in Italia 73

4. Don’t ask, don’t tellI gay nell’esercito: quattro casi alla Corte europea dei diritti

umani 79 – L’ideologia del Don’t ask, don’t tell: origini e di-

mensione normativa 84 – Dimensione religiosa e dimensione

sociale 87 – Analisi critica del Don’t ask, don’t tell: perché è

inaccettabile 90 – Norme antidiscriminazione e principio di

uguaglianza 97 – Diritti speciali per gli omosessuali? 101

5. Prevenire e punire l’omofobia: hate crimes e hate speechI delitti a stampo omofobico 107 – Struttura dei crimini d’odio

112 – Hate speech: un problema per i giuristi 116 – Libertà di

pensiero e di espressione e hate speech 121 – Omofobia: la si-

tuazione italiana 123

6. «Separate but equal». Unioni civili, domestiche e registratePerché il matrimonio. Si può contrattualizzare la vita di coppia?

131 – La legge danese del 1989. Il modello scandinavo 136 – I

modelli di regolazione nell’Europa continentale: dai Pacs alla

rivoluzione di Zapatero 141 – Le unioni civili come matrimo-

ni di «serie B»: la segregazione moderna nell’epoca dei diritti

146 – Il diritto fondamentale di contrarre matrimonio 149 –

Odissea nel caso italiano 154 – Il dibattito sui Dico: molto ru-

more per nulla 157

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7. «Finché legge non vi separi». Il matrimonioUbi lex voluit dixit 163 – Matrimonio e natura 167 – Matrimonio

e procreazione 170 – Matrimonio e filiazione 173 – La teoria

del piano inclinato 176 – Il dibattito in Italia 181 – Unioni omo-

sessuali e Corte costituzionale 185

8. Anzitutto genitori: le esperienze omogenitoriali agli occhi del diritto

Omosessualità e diritto di famiglia: le «osservazioni sfortunate

e maldestre» di un caso europeo 193 – L’uso ideologico del

«superiore interesse del minore» 197 – La parola agli esperti

200 – Desiderio di maternità: le tecniche di procreazione

medicalmente assistita 203 – Desiderio di paternità: maternità

surrogata 209 – Adozione. L’«inversione a U» della Corte di

Strasburgo 212

Ringraziamenti 221Note 223Indice dei nomi 321

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Prefazione di Stefano Rodotà

Lo sguardo del diritto aiuta spesso a cogliere il fondo delle co-se. Così è certamente per tutto quel che riguarda il sesso, per quello che, dal Trattato di Maastricht fino all’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, compare come «orientamento sessuale». Il diritto si è storicamente fatto tramite di interdetti feroci, di discriminazioni formalizzate, di vere e proprie persecuzioni. Proprio per aver vestito quest’abi-to, ancora non del tutto dismesso, è giusto definirlo «abomine-vole». Ma davvero questo deve essere considerato un destino per il diritto tutte le volte che incontra la vita?

Questo è un libro sull’eguaglianza, la grande e inadempiu-ta promessa della modernità. Coglie l’eguaglianza nel suo mo-mento più profondo, nel tessersi delle relazioni personali e affettive, nella libera costruzione della personalità. Qui, dun-que, all’eguaglianza è dovuto un particolare rispetto: per la delicatezza delle situazioni che le sono affidate le garanzie de-vono essere più intense e sincere. Sappiamo che così non è, massime in Italia. Ma sappiamo pure che, visitando il mondo,

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il diritto non è sempre così abominevole. Un altro diritto, dun-que, è possibile.

Ma non è soltanto una questione di eguaglianza. È anche, per certi versi soprattutto, una questione di dignità. Non è un caso. Dopo la rivoluzione dell’eguaglianza, infatti, i tempi più recenti hanno conosciuto la rivoluzione della dignità. «La di-gnità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutela-ta»: così si apre la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Ma la nostra Costituzione ci dà un’indicazione anco-ra più precisa. La norma sull’eguaglianza, l’articolo 3, si apre con parole particolarmente forti e significative: «Tutti i cittadi-ni hanno pari dignità sociale». Eguaglianza e dignità, dunque non possono essere separate, e quest’ultima si presenta imme-diatamente come dignità «sociale», dunque come principio che regola i rapporti tra le persone, il nostro essere nel mon-do, il modo in cui lo sguardo altrui si posa su ciascuno di noi. Ricordate Jean-Paul Sartre? «Le Juif dépend de l’opinion pour sa profession, ses droits et sa vie.»

Perché, allora, una così impegnativa e promettente pre-messa è stata troppe volte abbandonata, per non dire tradita? Commentando con giusti accenti critici la più importante sen-tenza della Corte costituzionale in questa materia (n. 138/2010), Nicola Colaianni ha richiamato un pensiero, realistico e ama-ro, di Arturo Carlo Jemolo che, riflettendo proprio sugli orien-tamenti della Corte, così scriveva nel 1971: «preoccupazione di non porsi in contrasto con indirizzi del Governo o delle Camere o dell’opinione pubblica, di non sospingere il legisla-tore se non dove questi ha sicuramente il desiderio di essere sospinto». Questo giudizio negativo ha conosciuto negli anni

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Prefazione 13

successivi più di una significativa smentita. Ma proprio que-sta constatazione preoccupa, e pone l’interrogativo inquietan-te intorno al permanere di quell’attitudine nella materia che ne esigerebbe un franco abbandono, perché all’omosessuale altri-menti si preclude lo stesso diritto al vivere.

Vi è un vincolo formale insuperabile che obbliga la Corte co-stituzionale a tenere la linea manifesta nella sentenza del 2010, qui definita «pilatesca»? Un breve sguardo al di là dei nostri angusti confini ci dice che non è così. Due giorni prima che la Corte italiana si pronunciasse, il Tribunal constitucional del Portogallo, in una situazione normativa sostanzialmente ana-loga alla nostra, assumeva un atteggiamento del tutto opposto, ritenendo legittima una legge sul matrimonio tra persone del-lo stesso sesso.

La lettura chiusa dell’articolo 29 della Costituzione in ma-teria di famiglia ci riporta a spiriti e modalità interpretative da tempo passati, sicuramente abbandonati agli inizi di quegli an-ni settanta oggi ritenuti da taluni meritevoli di condanna, e che invece hanno costituito la più ricca stagione per i diritti dell’in-tera storia repubblicana. Con la riforma del diritto di famiglia del 1975 non solo venne abbandonato l’impianto gerarchico del codice civile. Venne adottato un non-modello di famiglia, nel senso che questa veniva affidata alla dinamica degli affetti, al-la forza delle relazioni, non più ingabbiata in schemi obbligan-ti. Lì soffiava lo spirito della Costituzione, mentre ora di nuovo sembra prendere il sopravvento la logica del codice civile.

L’equivoco dei rapporti tra Costituzione e codice civile ha una lunga storia. All’Assemblea costituente, proprio quando si discutevano le norme sulla famiglia, due tra i costituenti cer-

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to non classificabili come conservatori, Piero Calamandrei e Vittorio Emanuele Orlando, manifestarono i loro dubbi sull’ar-ticolo che sanciva l’«eguaglianza morale e giuridica dei coniu-gi», riferendosi al fatto che il codice civile prevedeva che fosse il marito «il capo della famiglia». Rispose loro Maria Maddalena Rossi, affermando fieramente che, se quello era il codice civile, le donne italiane lo avrebbero cambiato. Sorprende in due giu-risti di quella levatura, più ancora della sostanza della critica, la mancata consapevolezza che con la Costituzione si stabiliva una nuova gerarchia delle fonti, sì che il codice civile doveva essere interpretato alla luce della Costituzione, e non viceversa.

Il ritorno a questo tipo di orientamento è stato messo in lu-ce da molti tra i critici della sentenza della Corte costituzionale, da due punti di vista: perché il principio d’eguaglianza, dunque l’articolo 3, non è stato adoperato, come si doveva, per leggere l’articolo 29 sul matrimonio, ma di nuovo si è operata una in-versione logica e metodologica, attribuendo a quest’ultimo una posizione sovraordinata; e perché l’istituto matrimoniale è sta-to ricostruito con l’occhio al codice civile. Non sono mancati, in passato, mutamenti anche clamorosi negli orientamenti della Corte proprio nella materia familiare, e al legislatore sono sta-ti rivolti inviti a tener conto delle dinamiche sociali e cultura-li che interessano la famiglia. Proprio perché oggi i tempi non sembrano propizi a mutamenti significativi, anche da una sen-tenza «pilatesca» può essere tratto qualche spunto per una azio-ne politica e giuridica volta a rimuovere gli ostacoli oggi levati, alla cui denuncia questo libro dà un contributo della massima importanza, mostrandone l’infondatezza e divenendo così esso stesso uno strumento prezioso perché quell’azione possa esse-

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Prefazione 15

re continuata. Chi lo leggerà dovrebbe almeno riflettere, e for-se vergognarsi, di una distanza sempre maggiore tra il nostro e gli altri paesi proprio in una materia dalla quale ormai si misu-ra la civiltà di un popolo.

La Corte costituzionale ha riconosciuto la rilevanza costi-tuzionale delle unioni omosessuali, poiché siamo di fronte a una delle «formazioni sociali» di cui parla l’articolo 2 della Costituzione. Da questa constatazione la Corte trae una con-clusione importante: alle persone dello stesso sesso unite da una convivenza stabile «spetta il diritto fondamentale di vivere libe-ramente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuri-dico con i connessi diritti e doveri». Sono parole impegnative: un «diritto fondamentale» attende il suo pieno riconoscimento. Non è ammissibile, dunque, la disattenzione del Parlamento, perché in questo modo si privano le persone di diritti costitu-zionalmente garantiti.

Vi è poi una seconda affermazione, che mostra come non sia corretto prospettare un’incompatibilità assoluta tra il mo-dello del matrimonio tradizionale e quello dell’unione omo-sessuale. È sempre la Corte che parla: «può accadere che, in relazioni a ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniuga-ta e quella della coppia omosessuale». Una barriera è caduta. Il Parlamento non potrà usare l’argomento, utilizzato in passato, di un presunto obbligo di non creare «contiguità» tra disciplina del matrimonio e disciplina delle unioni di fatto. La Corte, inol-tre, dichiara esplicitamente di voler vegliare sul modo in cui il Parlamento darà attuazione a quanto stabilito nella sentenza.

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16 L’abominevole diritto

Sorprende, piuttosto, la scarsa attenzione dei giudici costi-tuzionali per il modo in cui il tema è affrontato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Qui si coglie una net-ta discontinuità. Nell’articolo 21 si vieta ogni discriminazione basata sull’orientamento sessuale. E, soprattutto, nell’articolo 9 si stabilisce che «il diritto di sposarsi e di costituire una fami-glia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio». La distinzione tra «il diritto di sposarsi» e quello «di costituire una famiglia» è stata introdotta proprio per con-sentire la costituzione legale di unioni distinte da quelle tra per-sone di sesso diverso, dunque anche quelle tra omosessuali. E il passo avanti rappresentato dalla Carta diventa ancor più evi-dente proprio se si fa un confronto con quel che dispone l’ar-ticolo 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, dov’è scritto che «uomini e donne hanno diritto di spo-sarsi e di costituire una famiglia secondo le leggi nazionali che disciplinano l’esercizio di tale diritto». Confrontando questo ar-ticolo con quello della Carta, si colgono differenze sostanziali. Nella Carta scompare il riferimento a «uomini e donne». Non si parla di un unico «diritto di sposarsi e di costituire una fami-glia», ma si riconoscono due diritti distinti, quello di sposarsi e quello di costituire una famiglia. La conclusione è evidente. Nel quadro costituzionale europeo, al quale l’Italia deve riferir-si, esistono ormai due categorie di unioni destinate a regolare i rapporti di vita tra le persone. Due categorie che hanno ana-loga rilevanza giuridica, e dunque medesima dignità: non è più possibile sostenere che esiste un principio riconosciuto – quello del tradizionale matrimonio tra eterosessuali – e una eccezione (eventualmente) tollerata – quella delle unioni omosessuali. E

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Prefazione 17

questo è un argomento che vale in primo luogo per contrastare le interpretazioni tendenti a ritenere che il legislatore italiano sia obbligato a restare rinserrato nel fortilizio del tradizionale istituto matrimoniale.

In un paese che onora la civiltà della discussione e rispetta i diritti delle persone, queste dovrebbero essere le linee-guida per il legislatore. Poiché, invece, questi temi sono ormai oggetto della prepotenza ideologica di chi vuole imporre i propri valo-ri, definendoli non negoziabili, può essere utile ricordare che il mondo cattolico non è riducibile alle gerarchie vaticane e a chi se ne fa portavoce. Nel 2008 la rivista dei gesuiti, Aggiornamenti sociali, ha pubblicato una serie di scritti sulle unioni omosessua-li, con i quali si può dissentire su alcuni punti, ma che prospet-tano una conclusione assai impegnativa. Al politico cattolico si dice che «non spetta al legislatore indagare in che modo la re-lazione viene vissuta sotto altro profilo che non sia quello impe-gnativo dell’assunzione pubblica della cura e della promozione dell’altro». E si sottolinea che, una volta riconosciuto il valo-re sociale della convivenza, «risulterebbe contrario al principio di eguaglianza escludere dalle garanzie certi tipi di convivenze, segnatamente quelle tra persone dello stesso sesso». Poiché si tratta di diritti fondamentali della persona, il riconoscimento «è istanza morale prima che garanzia costituzionale».

Non si potrebbe dire meglio, anche se poi non tutte le con-clusioni di una affermazione così perentoria sono soddisfacenti. Ma si deve aggiungere che nessuno può disinteressarsi di que-sto tema considerandolo affare di altri. Intervistata dal New York Times, Martha Nussbaum ha detto: «Se mi risposerò, sa-rò preoccupata del fatto che sto godendo di un privilegio ne-

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gato alle coppie dello stesso sesso». Anche la più intima tra le decisioni non può farci distogliere lo sguardo dal vivere in so-cietà, dalla condizione e dai diritti di ogni altra persona, lonta-na o vicina che sia.

Gravi, allora, sono il silenzio e l’inerzia del Parlamento. Scomparsa ogni iniziativa, sia pur pallidissima, sulle unioni di fatto. Bloccate le norme contro l’omofobia. Intanto nel paese dilaga l’aggressione verso l’altro, il diverso, la persona da re-spingere, recidendo legami sociali, cancellando solidarietà, pie-gando il linguaggio a ogni forma di rifiuto e di intimidazione. Il diritto può riscattarsi dal suo abominio se riprende almeno la sua forza simbolica, la sua funzione di legittimazione di princì-pi e comportamenti civili. In questa direzione, e per uscire dalla regressione nella quale siamo precipitati, nulla sarebbe più for-te del riconoscimento pieno dei diritti degli omosessuali.

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1. Homo phobicus

Matthew Shepard

È da poco passata la mezzanotte del 7 ottobre 1998 al Fireside Lounge, un locale di Laramie, una cittadina dello Stato del Wyoming. Nella sala da biliardo, tre ragazzi stanno conversan-do. Uno porta un lungo ciuffo biondo sulla fronte, il suo nome è Matthew Wayne Shepard, ha ventun anni, «viso pulito e pie-no di promesse»,1 eccellente studente della facoltà di Scienze politiche con aspirazioni da diplomatico. Gli altri due, Aaron J. McKinney e Russell A. Henderson, sono noti in città per es-sere ragazzi piuttosto irrequieti, che non disdegnano il consu-mo di droga. I due hanno poco in comune con Matthew, se non una circostanza del tutto casuale: Matthew, che quella sera ha bevuto troppo, non se la sente di guidare fino a casa e chiede a McKinney e Henderson un passaggio.

Il giorno seguente, verso sera, il corpo martoriato di Matthew viene rinvenuto a poche miglia fuori città da un ciclista che inizialmente l’aveva scambiato per uno spaventapasseri.2 Tra

Se una pallottola dovesse entrarmi nel cervello, possa questa infrangere le porte di repressione dietro le quali si nascon-dono i gay nel paese.

Harvey Milk

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20 L’abominevole diritto

i primi ad accorrere sul luogo la vicesceriffo Reggie Fluty, che riporterà: «Matt giaceva supino, con la testa appoggiata sullo steccato e le gambe allungate. Le sue mani erano fermamente legate dietro di lui e appena allacciate a quattro pollici da terra a un palo […] le soli parti del viso non coperte dal sangue era-no solcate dalle lacrime».3

Una telefonata raggiunge i genitori di Matthew in Arabia Saudita, svegliandoli nel pieno della notte. Li informa che il fi-glio ha subìto un’aggressione ed è stato ricoverato in fin di vita all’ospedale di Poudre Valley, nel vicino Colorado. Ha riporta-to una frattura cranica all’altezza dell’orecchio destro, con danni permanenti al cervello e conseguenze irrimediabili sulla capacità di regolare il battito cardiaco e la temperatura corporea.4

Una volta in macchina, anziché dirigersi verso la casa di Matthew, McKinney e Henderson deviano oltre le colline che costeggiano l’autostrada a est della città, in un luogo denominato Sherman Hills. Giunti di fronte a uno steccato, fermano l’auto, afferrano Matthew e lo trascinano fino allo steccato, legando-gli i polsi con una corda. Iniziano a picchiarlo, McKinney estrae una Magnum 357 e lo colpisce ripetutamente alla testa, mentre Henderson assiste alla scena illuminata solo dai fari dell’auto.

«Venuto al mondo prematuramente, se n’è andato altret-tanto prematuramente.»5 Con queste parole, una settimana più tardi, Rulon Stacey, presidente dell’ospedale, annuncerà alla stampa la morte del ragazzo, avvenuta a mezzogiorno del 12 ottobre 1998. Tornato nel suo ufficio dopo la conferenza stam-pa, Stacey troverà una mail sul suo computer: «Piangi di fron-te alle telecamere come un bambino per tutti i tuoi pazienti o solo per i froci?».6

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1. Homo phobicus 21

La polizia non impiega troppo tempo per scoprire i colpe-voli. Tornati in città subito dopo l’aggressione, McKinney e Henderson vengono coinvolti in una rissa e la polizia accor-sa sul luogo trova nel furgone di McKinney le scarpe e la car-ta di credito di Matthew. A casa di Henderson viene invece recuperato il portafogli. Incriminato per aggressione, rapina e omicidio, Henderson confessa e testimonia contro McKinney, salvandosi così dalla sedia elettrica. Quest’ultimo, invece, si giu-stificherà affermando di essere stato investito da «panico gay» nel momento in cui si trovava in macchina.

Nel corso del processo, McKinney riferirà che la sua reazio-ne violenta era dovuta a un gesto di Matthew, che durante il viaggio in auto avrebbe messo una mano sulla gamba dell’impu-tato e gli avrebbe leccato l’orecchio. Solo a quel punto, la furia omicidia di McKinney si sarebbe scatenata.7 Chiamato a pro-nunciarsi in merito alla difesa avanzata da McKinney, il giudi-ce Barton R. Voigt della Seconda corte distrettuale di Laramie la dichiarerà inammissibile.8 «Mio figlio è morto a causa della sua ignoranza e intolleranza» tuonerà Denis Shepard, nel corso dell’ultima udienza del processo, rivolto a McKinney.9

Al termine dell’udienza, la giuria decreterà McKinney col-pevole di omicidio, e solo grazie allo sforzo dei genitori di Matthew il giudice acconsentirà a convertire la condanna a morte in ergastolo.10

Nel corso dei funerali di Matthew e durante tutto il proces-so, un picchetto di seguaci della Chiesa battista di Westboro di Topeka (Kansas), mostrerà cartelli con slogan contro il proces-so: «Matt Shepard marcisce all’inferno», «L’Aids uccide i froci» e «Dio odia i gay».11 Il capo della setta, il reverendo Fred Phelps,

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22 L’abominevole diritto

domanderà al comune di Casper, città natale di Matthew, il per-messo di erigere un monumento marmoreo di due metri con il volto di Matthew Shepard e una targa: «Matthew Shepard, en-trato all’inferno il 12 ottobre 1998 sfidando il precetto divino: “Non avrai con un maschio relazioni come si hanno con una donna: è abominio”. Levitico 18, 22».12

Definizioni: omosessualità, transessualismo, travestitismo e transgenderismo

Ciascuno di noi nasce con un «sesso biologico», siamo cioè maschi e femmine. Diverso dal sesso biologico è l’orientamento sessuale. Matthew, per esempio, era omosessuale. Era quindi attratto da persone dello «stesso» (dal greco homòs) sesso.13 L’omosessualità è una species del genus «orientamento sessuale», che nel suo al-veo ricomprende l’eterosessualità e la bisessualità.14

L’omosessualità non deve essere confusa con il «transessua-lismo», che non ha nulla a che fare con l’orientamento sessuale, bensì riguarda la cosiddetta «identità di genere», cioè l’identi-ficarsi dell’individuo come uomo o come donna. Nel transes-sualismo sussiste «un conflitto tra identità di genere e sesso fisico»15 chiamato, in linguaggio clinico, «disforia di genere». In buona sostanza la persona transessuale si identifica completa-mente con il sesso opposto, si sente donna anche se fisicamente è uomo, e viceversa. L’omosessuale, al contrario, non percepi-sce alcun conflitto rispetto alla propria identità di genere.

Fenomeno ancora diverso è il «travestitismo» (corrispon-dente al termine inglese crossdressing), che è soltanto una for-

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1. Homo phobicus 23

ma di «feticismo sessuale».16 Mentre nel transessualismo si rileva l’esigenza, percepita come indispensabile dall’indivi-duo, di assumere il sesso opposto, il travestito si sente appa-gato già soltanto con l’«apparire» come una persona di sesso opposto.

È diffuso nel linguaggio corrente anche il termine transgen-der o transgenderism. Queste espressioni, che possiedono un valore più che altro sociopolitico, si riferiscono a un insieme di categorie differenti, quali per esempio il travestitismo, e in ge-nerale individuano coloro che vivono in una condizione di non-conformità rispetto al loro sesso biologico.

Ciascuna di queste categorie meriterebbe riflessioni a sé. Tanto per citarne qualcuna, il transessualismo genera diversi problemi sul piano giuridico, come in tema di riassegnazione del sesso, che in molti paesi è stato risolto con apposita legge.17 Non solo. È valido il matrimonio tra un uomo e una transessua-le che ha quale sesso biologico quello maschile?18 È ammissibile la partecipazione di una transessuale (con massa muscolare ti-picamente maschile) a una competizione sportiva femminile?19

Si tratta di questioni che, pur suscitando interesse, non posso-no trovare approfondimento in questa sede.

Luoghi comuni: gay lifestyle e la confusione tra orientamen-to sessuale e identità di genere

Esistono inoltre termini che evocano nell’opinione comune una qualche connessione rispetto all’omosessualità, ma che invece con essa non c’entrano nulla.

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24 L’abominevole diritto

Nell’immaginario collettivo, il cosiddetto «stile di vita gay» (gay lifestyle) corrisponde, per esempio, a una vita fat-ta di pantaloni in cuoio, borse di Dior, musica trash e rappor-ti promiscui.

In verità, vi sono molti gay e lesbiche che se ne stanno na-scosti, mentre fra quelli che si sono dichiarati (che hanno fat-to, cioè, coming out)20 non tutti, comunque, hanno un’attività sessuale particolarmente intensa. Ma questa realtà, si sa, deve scontrarsi con i luoghi comuni che vorrebbero identificare i gay come persone sessualmente depravate, insomma dei perverti-ti. Invece, «indagini condotte nel decennio passato […] hanno […] mostrato che le differenze nella frequenza dei rapporti ses-suali tra omosessuali ed eterosessuali sono minime».21 Come di-re: i gay non fanno più sesso degli eterosessuali.

Vi è poi il paradigma del ruolo sessuale: «È […] opinio-ne diffusa che le coppie formate da persone dello stesso sesso prendano a modello quelle formate da persone di sesso opposto e che, di conseguenza, un/a partner assuma un ruolo “maschi-le” e l’altro, o l’altra, ne assuma uno “femminile”».22 In verità, questa logica si espone a due obiezioni. Anzitutto essa è con-traddetta dalla prassi, che mostra invece la tendenza, esatta-mente contraria, di maggiore reciprocità dei ruoli.23

La seconda obiezione è più complessa. Come si è detto, leg-gende metropolitane vorrebbero che nei rapporti omosessua-li maschili vi sia sempre un soggetto «passivo» e uno «attivo». Questa logica, però, risponde a una motivazione di natura pret-tamente eterosessista, dunque ideologica, che vorrebbe l’atto sessuale uomo-uomo esattamente speculare rispetto all’atto ses-suale uomo-donna, identificando quindi uno dei due uomini

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1. Homo phobicus 25

come donna. Casualmente, tale ruolo spetta al soggetto ricetti-vo del rapporto. Ecco allora che nella mente popolare l’omo-sessuale (passivo) assurgerebbe a null’altro che a un’espressione del genere femminile, finendo per diventare un puro strumen-to di piacere.24

Ovviamente, in spregio a queste tesi ridicole, il gay resta bio-logicamente uomo e la lesbica biologicamente donna: ecco che la confusione popolare, molto più diffusa di quanto si pensi, tra omosessuale e transessuale, ovvero tra identità di genere e orientamento sessuale, si traspone nel linguaggio corrente e dà luogo a inimmaginabili paradossi.25

Un’ultima convinzione, ancora oggi davvero diffusa, è che l’omosessualità sia una malattia, talvolta contagiosa. Tale cre-denza, che in verità non ha alcun fondamento scientifico, ha avuto un discreto successo in campo giudiziario. Anzi, è pro-prio rispetto a questa assurda teoria che «il diritto e la medici-na si sono unite in una stretta alleanza».26

Per esempio, ancora nell’edizione del 1952 il famoso Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’Ame-rican Psychological Association (Apa), la fonte più autorevole degli Stati Uniti in questo campo, annoverava l’omosessualità tra le «psicopatologie». Al riguardo, è sufficiente leggere alcune sentenze di quegli anni per rendersi conto di quanto i tribuna-li fossero vicini alle conclusioni raggiunte dalla comunità scien-tifica. Quando dovevano affrontare casi di sodomia, infatti, i giudici mutavano il loro linguaggio per qualificare le persone omosessuali e i loro rapporti nel modo più spregevole: aggetti-vi come «sordido»,27 «orribile e rivoltante»,28 «sporco»29 appa-iono di frequente nelle decisioni delle corti degli anni sessanta

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e settanta del secolo scorso, a testimoniare che l’atteggiamento della società nei confronti dell’omosessualità trovava nei giudi-ci degli alleati preziosi.

Simili teorie hanno trovato accoglimento anche sul piano le-gislativo. Si può segnalare, in questo ambito, la legge introdot-ta dal Congresso americano nel 1952, che considerava passibili di espulsione dal territorio degli Stati Uniti tutte le persone «af-fette da personalità psicopatica».30

Il problema che interessa ai giuristi, in questo ambito, è co-me si può «etichettare» una persona senza entrare nel merito della patologia stessa. In altre parole, il compito del giudice non è quello di introdurre nel processo le determinazioni dei medici, bensì di valutarle. In merito alla legislazione sopracita-ta, per esempio, nel 1967 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha confermato l’espulsione di un ragazzo gay canadese precisando che «il Congresso ha usato l’espressione “personalità psicopa-tica” non in senso clinico, ma per rendere efficace il suo propo-sito di escludere dall’ingresso [nel territorio degli Stati Uniti] tutti gli omosessuali e i pervertiti»,31 sicché «il Congresso co-manda che agli omosessuali non sia concesso l’ingresso».32 A questa tesi – fatta propria dall’estensore della sentenza, il giu-dice conservatore Thomas C. Clark, che il presidente Truman ha a suo tempo definito «non un uomo cattivo, ma solo un gran figlio di puttana»33 – si oppone un’opinione dissenziente del giudice William J. Brennan, noto liberale: «Una simile in-terpretazione, per com’è stata applicata dalle autorità immigra-torie» scrive quest’ultimo «non è soltanto offensiva, ma […] completamente deficitaria sotto il profilo del principio del giu-sto processo».34

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Il punto è che, anche ammettendo per assurdo che l’omo-sessualità sia una psicopatologia, com’è possibile affermare che una persona è psicopatica senza sottoporla ad analisi? In termi-ni giuridici, ciò significa sottoporre una persona a una misura restrittiva, particolarmente grave come l’espulsione, senza una verifica clinica, ma unicamente sulla base di un’etichetta crea-ta ad hoc dal legislatore in virtù di teorie del tutto contestabili, e comunque soggette a una rapida evoluzione.

La medicina, in questo ambito, è arrivata prima della giu-risprudenza. Nel 1973 l’Apa cancella l’omosessualità dal Manuale, con sommo dispiacere di qualche esperto che ancor oggi rimpiange la versione precedente.35 Ancora nel 1978 un giudice scriveva che riconoscere la libertà di associazione a un gruppo di studenti omosessuali equivarrebbe a concedere «a persone affette da morbillo di godere di un diritto, costituzio-nalmente garantito, di associarsi in violazione della quarante-na […], chiedendo al governo di abrogare l’imposizione della quarantena ai malati di morbillo».36

In seguito, però, anche i giudici sembrano essersi adeguati al progresso della medicina. L’omosessualità come malattia rap-presenta dunque un luogo comune smentito dalla prassi psi-chiatrica e a oggi negato – salvo qualche raro caso, dettato però più dalla politica che, come sarebbe logico, da un’esperien-za clinica – dall’intera letteratura in materia. Semplicemente, «l’orientamento sessuale non dice nulla della salute menta-le, della capacità di relazione, della struttura morale di un soggetto».37

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Gay panic e violenza

Un altro aspetto degno di nota riguarda la violenza nei confron-ti di gay e lesbiche, violenza che talvolta la legge e la società giu-stificano sulla base di una «colpevolizzazione» della vittima.

Per capire meglio il problema, è opportuno tornare per un attimo a Matthew Shepard. Cal Rerucha era l’ufficiale di poli-zia incaricato delle indagini sull’omicidio. Durante un’intervista del canale Abc News – commentando la presenza al funerale del picchetto dei protestanti seguaci del reverendo Fred Phelps, che inneggiavano all’odio nei confronti delle persone omoses-suali – osserva che «la parte più triste dell’intero caso fu il fu-nerale di Matthew, quando questa gente rifiutò di lasciare che Matthew fosse sepolto con dignità. Non ho mai visto nessu-no odiare così tanto».38 «La tensione era tale» ricorda poi un giornalista «che il padre di Shepard fu costretto a indossare un giubbotto antiproiettile sotto la giacca mentre parlava al fune-rale di suo figlio.»39

I risultati dell’intervista a Rerucha, insieme a quelli di inter-viste svolte dalla giornalista Elizabeth Vargas del programma 20/20 di Abc News, sono raccolti in un’apposita inchiesta gior-nalistica apparsa nel 2004, a detta della quale il caso Shepard sarebbe tutta una montatura: secondo il programma, si trat-terebbe di un semplice delitto provocato dall’abuso di alcol e droga, e non vi sarebbe alcun nesso con l’omosessualità di Matthew o con l’odio nei confronti delle persone omosessuali. Oltretutto, l’inchiesta ha messo in luce alcuni particolari inquie-tanti che il processo aveva mancato di evidenziare: Matthew sa-rebbe stato sieropositivo e sull’orlo del suicidio.40

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Ecco che la lente attraverso cui mettere a fuoco la vicenda di Matthew non è più quella della violenza contro un innocente. Ora Matthew è l’aggressore, il carnefice, il colpevole.

Il lavoro della Vargas «contiene per lo più speculazioni, det-tagli scandalosi, nuovi testimoni inattendibili e confessioni ri-visitate».41 Ovviamente, non è possibile entrare nel dettaglio dell’inchiesta in questa sede, anche se ci preme sottolineare che fu l’avvocato difensore degli imputati, e non il pubblico mini-stero, a sollevare la questione dell’omosessualità di Matthew, attraverso l’utilizzo di una difesa – ben nota nel processo pena-le – che giustifica un’aggressione come effetto del «panico gay» procurato da un’avance della vittima. «A un certo punto» rac-contò McKinney alla polizia, come riferisce Vargas «Shepard afferrò la mia gamba e mi leccò l’orecchio […] fu allora che, per reazione, iniziai a picchiarlo con la mia pistola […] gli chie-si il portafoglio e me lo diede.»42

Tuttavia, «anche dopo che Shepard gli diede il denaro, McKinney ha continuato a picchiarlo».43 La polizia indagò per capire il motivo di tale gesto e non riuscì a individuare altra ra-gione se non l’omosessualità di Matthew. Anche la fidanzata di McKinney, Kristen Price, la pensava così: «Mi dicevo: le cose si metterebbero meglio per McKinney se la sua violenza fos-se vista come una reazione di panico a un’avance omosessua-le indesiderata».44

In questa visione, la vittima avrebbe dunque scelto con-sapevolmente di morire. Si tratta di una tesi molto diffusa e radicata.

Quando, nel 1973, l’Apa decise di cancellare l’omosessua-lità dall’elenco delle psicopatologie, uno dei membri più auto-

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revoli dell’associazione, Charles Socarides, si scagliò contro la decisione. Secondo Socarides «l’omosessualità è […] piena di aggressività, distruttività, disonestà».45 Sono i gay a essere pe-ricolosi, non gli altri, e coloro che usano violenza contro i gay lo fanno per una reazione psicologica del tutto legittima: ecco il gay panic.

Il «panico gay» sarebbe una «reazione psicotica violenta in un imputato latentemente omosessuale, la cui autoproiettata eterosessualità risulta minacciata. L’azione scatenante può esse-re stata una mera sollecitazione non violenta verbale o gestuale da parte della vittima. La sollecitazione ha provocato nell’im-putato la perdita temporanea della capacità di distinguere il bene dal male».46 L’elemento scatenante del «panico gay» po-trebbe anche consistere, come si è sostenuto nel caso Shepard – ma vi è il fondato sospetto che si tratti di una menzogna –47 in un’avance gay.

L’atteggiamento assunto dall’ordinamento giuridico nei con-fronti del «panico gay» è estremamente significativo per capire l’approccio della società nei confronti dell’omosessualità. In ge-nerale, l’ordinamento riconosce che in taluni casi l’autore di un delitto può essere giustificato o scusato: ciò avviene, per esem-pio, nel caso della legittima difesa, ove rileva «l’esigenza insop-primibile dell’uomo di conservare se stesso […] opponendosi alle aggressioni altrui».48

In taluni ordinamenti, la difesa da «panico gay» – nella sua variante della «provocazione sessuale», cioè dell’avance – agiva un tempo proprio in base a questo meccanismo, come reazio-ne considerata legittima perché effettuata in risposta a un’offe-sa illegittima. Ma anche se non ci fosse stata alcuna avance, la

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colpevolezza dell’autore sarebbe in qualche modo mitigata, di-minuendo la sua capacità di intendere e di volere.49 In entram-bi i casi, l’autore della violenza subisce un trattamento penale attenuato proprio per effetto dell’operare delle due cause, sic-ché l’omosessualità della vittima, in un modo o nell’altro, giu-stifica il reato.

Appare chiaro, allora, che l’utilizzo del «panico gay» come valida difesa ha lo scopo di convertire il processo all’aggressore in un processo alla vittima e, in ultima analisi, all’omosessualità. «È una difesa da canaglie […] mette [Matthew] sotto proces-so» dirà Jeffrey Montgomery, portavoce dei National Coalition of Anti-Violence Programs, all’uscita dall’aula del tribunale di Laramie commentando la strategia difensiva degli avvocati di McKinney.50

Sotto il profilo teorico, la difesa in questione risulta inaccet-tabile perché il «panico gay» è soltanto una mistificazione: la legge non può cioè attribuire a chiunque la licenza di uccidere giustificandosi sulla base di un elemento soggettivo (la reazione violenta) pressoché sconosciuto alla letteratura psichiatrica.51 Se dunque nella difesa in questione non vi è nulla di psicolo-gico, essa non può ovviamente agire a livello di colpevolezza dell’autore della violenza.

D’altronde, la difesa da «panico gay» «tenta di attribuire all’omofobia dell’accusato tratti psicologici anormali, mentre si tratta, di fatto, del prodotto dei valori culturali sui quali l’ac-cusato mantiene il pieno controllo».52 Ammettere questa difesa, infatti, non soltanto lascia i violenti liberi di agire, ma alimenta altresì il «perpetuarsi della vittimizzazione di gay e lesbiche».53 La misura con cui l’ordinamento accetta l’utilizzo di una simi-

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le difesa nel processo è dunque lo specchio della cultura antio-mosessuale imperante all’interno della società. Questo genere di difesa, ove consentita, «è propria di uno sfondo politico di stampo omofobico […] i legislatori scrivono un’eccezione re-lativa al “panico gay” così da generare un’atmosfera sociale che consente a privati cittadini di agire in qualità di rappresentanti dello Stato nella violenza antiomosessuale».54

Si dovrebbero tenere a mente queste considerazioni quan-do, in occasione di aggressioni a danno di gay, lesbiche e per-sone transessuali, si sente pronunciare, come avviene spesso sui giornali, il termine «provocazione».

Gay si nasce o si diventa? La prima ipotesi: determinismo

Nella psicosi omofobica della vicenda di Matthew Shepard, il passaggio da assassino a vittima è rilevante anche sotto un al-tro aspetto.

Durante uno dei suoi comizi di fronte al Palazzo di giusti-zia di Laramie, uno dei seguaci del reverendo Phelps si rivolse ai pochi presenti. «Spero» esordì il pastore «che mentre era le-gato a quello steccato […] e prima di cadere in coma, Matthew Shepard abbia avuto il tempo di riflettere sul suo stile di vita.»55 Come dire: riflettano gay e lesbiche, e si pentano del loro stile di vita, prima che morte violenta li colga.

Su cosa, dunque, avrebbe dovuto riflettere Matthew prima di cadere nel coma che l’ha condotto poi alla morte? Soprattutto, è possibile che la riflessione sullo «stile di vita» omosessuale porti a un cambiamento della persona, e dunque a un rinnega-

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mento dell’omosessualità? In altre parole: omosessuali si nasce o si diventa?

Si tratta, in verità, di una questione che soffre di una certa superficialità e deriva dal confronto tra orientamento sessuale e altre caratteristiche individuali quali razza ed etnia. Nell’arco dell’ultimo mezzo secolo i legislatori di molte nazioni hanno approntato tutele giuridiche contro le disuguaglianze basate su caratteristiche personali immutabili, quali appunto la raz-za e l’etnia.56 Queste tutele sono dettate dal fatto che certe ca-ratteristiche sono innate e non sarebbe giusto né logico che l’individuo patisca sofferenze o discriminazioni per effetto di situazioni che non è in grado di modificare.

Questo approccio – che potremmo definire «determini-stico» – ha nondimeno dentro di sé il cancro del pregiudi-zio, tanto che chi si è ostinato a volergli dare un fondamento scientifico si è poi perso lungo il cammino. Come il neurologo Simon LeVay, che con le sue ricerche ha tentato di dimostra-re che l’omosessualità sarebbe legata a uno specifico gene.57 Peccato che le indagini di LeVay – il quale ancora oggi ritie-ne che le sue teorie «abbiano contribuito allo status delle per-sone omosessuali nella società» –58 contenessero spaventose falle metodologiche, tanto da essere immediatamente smen-tite anche da chi non aveva alcun interesse a difendere la co-munità gay.59

Come le ricerche di tale Dean Hamer, il quale nel 1993 ha dichiarato di aver scoperto che due fratelli, entrambi gay, pos-sedevano un ormone specifico (Xq28), in quantità maggiore rispetto a due fratelli di cui uno solo era gay.60 O come lo psi-cologo Michael Bailey, che suggerì che l’omosessualità maschi-

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le «è interamente innata», e ciò sarebbe riscontrabile a livello genetico. Tuttavia, dichiarava Bailey, «non è da lì che la rivolu-zione copernicana avrà luogo»:61 da dove venga questa rivolu-zionaria scoperta, però, Bailey si guarda bene dall’indicarcelo.

La verità al momento risiede nel fatto che scientificamen-te non è mai stato provato nulla e non serve alcuna rivoluzione copernicana per rendersi conto che l’omosessualità è il prodot-to di una serie di fattori complessi, la cui interazione e influen-za sull’individuo sono ancora oggi del tutto incomprensibili e sconosciute.62 Del resto, l’omosessualità deve considerarsi – per usare le parole di una recente giurisprudenza – «una caratte-ristica profondamente personale immodificabile, ovvero mo-dificabile soltanto a costi inaccettabili».63 Non vi è nessuna accezione deterministica in questa affermazione. Si tratta, semplicemente, di una considerazione di fatto che rispecchia una realtà incontrovertibile, come dimostra la condizione di chi si nasconde e rifiuta di fare coming out: come illustrano le statistiche, «poco a poco, un’ansia sottile e una dolorosa pre-occupazione si impadroniscono di lui, fin quasi a soffocar-lo».64 Tra i gay e le lesbiche che ancora si trovano al di qua (o al di là, dipende da dove la si osserva) della sottile linea del coming out, «alcuni sono oppressi dalla colpa e dalla vergo-gna […] alcuni rivolgono verso se stessi l’ostilità e la ripro-vazione che gli altri mostrano nei loro confronti e iniziano a disprezzarsi o addirittura a odiarsi [finché] la loro autostima si indebolisce».65

Se «un terzo dei giovani che ogni anno si tolgono la vita è costituito da omosessuali e […] questi ultimi tentano di uc-cidersi da due a tre volte più spesso degli eterosessuali della

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stessa età»,66 allora sembra proprio che l’omosessualità abbia implicazioni che vanno ben al di là di una semplice concezio-ne biologico-genetica.

La seconda ipotesi: volontarismo

Ritenere, invece, che l’omosessualità sia il frutto di una libera scelta significa caratterizzarla come volontaria. È il cosiddet-to volontarismo: con uno sforzo più o meno intenso, l’omo-sessuale può cambiare, cioè diventare (o meglio, ritornare, in una logica tutta cristiana di redenzione) eterosessuale. Così, giuridicamente parlando, le persone omosessuali che vogliano accedere a determinate forme di tutela avrebbero la facoltà – qualcuno direbbe il dovere – di rinunciare al proprio «lato» omosessuale.

Infatti, tenendo nascosto il loro orientamento sessuale (ri-entrando così nell’alveo eteronormativo), le persone omoses-suali possono quindi godere degli stessi benefici di tutti gli altri cittadini: sposarsi, avere figli che la legge considera le-gittimi, mantenere il loro lavoro e prendere in affitto una ca-sa. Qualora, al contrario, decidano di rendere nota la propria omosessualità, essi avranno compiuto la scelta, tragica ma pur sempre consapevole, di perdere tutto questo. In questo ca-so, l’ordinamento non li potrà proteggere, perché essi avran-no volontariamente scelto di non conformarsi allo stereotipo di vita (eterosessuale). Insomma, si tratterebbe di una scelta sbagliata, e in quanto tale bisogna essere pronti a pagarne lo scotto.

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Questa situazione – con un termine mutuato da alcuni stu-di compiuti in ambito razziale – si definisce passing. Si tratta, in buona sostanza, di «un inganno che fa sì che una persona adot-ti determinati ruoli o identità dai quali la stessa sarebbe esclu-sa in assenza del nascondimento».67

Il volontarismo in materia di omosessualità è molto più pe-ricoloso del determinismo. Il rischio di considerare una carat-teristica personale come mutabile soltanto grazie alla buona volontà dell’individuo può indurre (erroneamente) a ritene-re che sia possibile, attraverso determinati metodi, obbliga-re quell’individuo a conformarsi alle convinzioni morali della maggioranza. In fondo, se una persona può mutare il proprio orientamento sessuale, perché non imporglielo? Questa creden-za si chiama conversion o conversion therapy.

Lo sforzo di «convertire» gli omosessuali all’eterosessuali-tà è caratteristica comune di epoche storiche e tradizioni di-verse. Al riguardo, lo stesso padre della psicanalisi Freud si è rivelato, in almeno un’occasione, molto scettico sulla possibili-tà di convertire un paziente omosessuale. «In generale» spiega Freud «impegnarsi a convertire un omosessuale […] in un ete-rosessuale non presenta maggiori speranze di successo del pro-cesso inverso.»68

Nel 1935 il dottor Louis William Max aveva presentato, nel corso di un convegno dell’Apa, una serie di studi che a suo giudizio dimostravano che «l’elettroshock non è in grado di convertire gli omosessuali a meno che la corrente non sia ammi-nistrata a intensità molto più elevate rispetto a quelle comune-mente praticate su soggetti umani».69 Nello stesso anno in cui il dottor Max pubblicava i risultati dei suoi deliranti studi, Freud

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rispondeva così a una donna che gli domandava se fosse pos-sibile curare suo figlio dall’omosessualità: «Nella maggioranza dei casi, ciò non è possibile [e] il risultato del trattamento non può essere previsto».70

Vi è una certa illogicità in tutte queste teorie. Anzitutto, l’elettroshock è del tutto inutile, perché non è in grado di pro-durre l’effetto desiderato. Esso è pure disumano, come disu-mana è la tendenza a incentrare il trattamento psicanalitico di pazienti omosessuali non su questi ultimi, bensì sulle convin-zioni dello psicanalista stesso, che viene così ad assumere, in quest’ottica, una posizione direttivo-suggestiva che rende il pa-ziente vittima di un processo subdolo di «terapeuticizzazio-ne».71 Infine, sul piano politico non è chiaro in virtù di quale esigenza dovrebbe imporsi la conversione delle persone omo-sessuali. In verità, «le persone non scelgono di essere o gay o etero [e] l’orientamento sessuale non è una scelta consapevole che può essere volontariamente mutata».72

Nel complesso, dunque, considerare l’omosessualità co-me una «patologia», in quanto tale soggetta all’interesse delle scienze mediche (o pseudotali), non è il punto di partenza ma il risultato del processo di segregazione, odio e discriminazione che le persone omosessuali hanno subìto nel corso della storia e subiscono ancora oggi. «La nevrosi che affligge noi omosessuali […] dipende anche e soprattutto dalla persecuzione sociale che siamo costretti a subire proprio perché siamo gay.»73 Questa persecuzione sociale prende il nome di «omofobia».74


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