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L’esodo dall’Indocina · rifugiati in aziende agricole di stato,nel sud del paese.L’Unhcr vi...

Date post: 19-Feb-2020
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79 4 L’esodo dall’Indocina Flight from Indochina Gli sconvolgimenti seguiti alle vittorie comuniste, nel 1975, nelle ex colonie fran- cesi dell’Indocina – Viet Nam, Cambogia e Laos – causarono la fuga, nei due decen- ni successivi, di più di tre milioni di persone. Il prolungato esodo di massa dalla regione e l’energica risposta internazionale alla crisi spinsero l’Unhcr in un ruolo di agenzia leader, in un’operazione umanitaria complessa, costosa e di grande impatto mediatico. Quando, nel 1975, i primi rifugiati fuggirono dal Viet Nam, dalla Cambogia e dal Laos, il totale del bilancio annuale dell’Unhcr, a livello mondiale, era inferiore a 80 milioni di dollari l’anno. Nel 1980, tale cifra era passata a oltre 500 milioni di dollari 1 . Gli esodi di popolazione provocati dai conflitti dell’Indocina, esacerbati dalla rivalità fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, come pure con la Cina, misero alla prova, fino al punto di rottura, la capacità degli stati della regione di assorbire i rifu- giati. Misero, inoltre, alla prova l’impegno degli stati occidentali per il reinsedia- mento dei rifugiati che fuggivano dal comunismo. Alla fine, riunirono gli stati inte- ressati nella ricerca di soluzioni. Nel caso del Viet Nam, fu ideato l’Orderly Departure Programme (programma di partenze organizzate), in base al quale le autorità vietna- mite accettarono di consentire la partenza pianificata verso i paesi di reinsediamen- to, per evitare le partenze per mare, clandestine e pericolose. Il programma costituì la prima occasione in cui l’Unhcr partecipò ad iniziative volte a prevenire un pro- blema di rifugiati, anziché limitarsi a far fronte alle sue conseguenze. Altri pro- grammi innovativi comprendevano misure contro la pirateria e per il salvataggio in mare dei boat people vietnamiti. Durante le prime fasi della crisi, il reinsediamento dei rifugiati in paesi esterni alla regione costituì una soluzione che riduceva la pressione sui paesi di primo asilo. Negli anni ’80, tuttavia, col passare del tempo i governi occidentali erano sempre più preoc- cupati per il gran numero di rifugiati che arrivavano nei loro paesi. Erano divenuti, inoltre, più sospettosi circa le motivazioni della loro partenza, considerandone molti come migranti economici piuttosto che rifugiati. Si sentì sempre più spesso afferma- re che il reinsediamento a tempo indeterminato perpetuava la necessità dell’asilo. A partire dal 1989, quindi, furono adottate nuove misure, nel quadro di un “Piano d’a- zione globale”, per regolamentare le partenze e nel contempo incoraggiare e facilita- re il rimpatrio dei richiedenti asilo della regione. Si trattò di una vera svolta negli orientamenti occidentali circa il fenomeno dei rifugiati. Come le future crisi degli anni ’80 avrebbero dimostrato fin troppo chiaramente, i paesi occidentali, pur soste- nendo il principio dell’asilo, non erano più disposti a prevedere il reinsediamento in massa dei rifugiati.
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4 L’esodo dall’Indocina

Flight from Indochina

Gli sconvolgimenti seguiti alle vittorie comuniste, nel 1975, nelle ex colonie fran-cesi dell’Indocina – Viet Nam, Cambogia e Laos – causarono la fuga, nei due decen-ni successivi, di più di tre milioni di persone. Il prolungato esodo di massa dallaregione e l’energica risposta internazionale alla crisi spinsero l’Unhcr in un ruolo diagenzia leader, in un’operazione umanitaria complessa, costosa e di grande impattomediatico. Quando, nel 1975, i primi rifugiati fuggirono dal Viet Nam, dallaCambogia e dal Laos, il totale del bilancio annuale dell’Unhcr, a livello mondiale,era inferiore a 80 milioni di dollari l’anno. Nel 1980, tale cifra era passata a oltre500 milioni di dollari 1.

Gli esodi di popolazione provocati dai conflitti dell’Indocina, esacerbati dallarivalità fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, come pure con la Cina, misero allaprova, fino al punto di rottura, la capacità degli stati della regione di assorbire i rifu-giati. Misero, inoltre, alla prova l’impegno degli stati occidentali per il reinsedia-mento dei rifugiati che fuggivano dal comunismo. Alla fine, riunirono gli stati inte-ressati nella ricerca di soluzioni. Nel caso del Viet Nam, fu ideato l’Orderly DepartureProgramme (programma di partenze organizzate), in base al quale le autorità vietna-mite accettarono di consentire la partenza pianificata verso i paesi di reinsediamen-to, per evitare le partenze per mare, clandestine e pericolose. Il programma costituìla prima occasione in cui l’Unhcr partecipò ad iniziative volte a prevenire un pro-blema di rifugiati, anziché limitarsi a far fronte alle sue conseguenze. Altri pro-grammi innovativi comprendevano misure contro la pirateria e per il salvataggio inmare dei boat people vietnamiti.

Durante le prime fasi della crisi, il reinsediamento dei rifugiati in paesi esterni allaregione costituì una soluzione che riduceva la pressione sui paesi di primo asilo. Neglianni ’80, tuttavia, col passare del tempo i governi occidentali erano sempre più preoc-cupati per il gran numero di rifugiati che arrivavano nei loro paesi. Erano divenuti,inoltre, più sospettosi circa le motivazioni della loro partenza, considerandone molticome migranti economici piuttosto che rifugiati. Si sentì sempre più spesso afferma-re che il reinsediamento a tempo indeterminato perpetuava la necessità dell’asilo. Apartire dal 1989, quindi, furono adottate nuove misure, nel quadro di un “Piano d’a-zione globale”, per regolamentare le partenze e nel contempo incoraggiare e facilita-re il rimpatrio dei richiedenti asilo della regione. Si trattò di una vera svolta negliorientamenti occidentali circa il fenomeno dei rifugiati. Come le future crisi deglianni ’80 avrebbero dimostrato fin troppo chiaramente, i paesi occidentali, pur soste-nendo il principio dell’asilo, non erano più disposti a prevedere il reinsediamento inmassa dei rifugiati.

La guerra e l’esodo dal Viet Nam

I trent’anni di guerra quasi ininterrotta che tormentarono il Viet Nam, dal 1945 al1975, furono contrassegnati da terribili sofferenze e massicci esodi di popolazione. Aseguito della sconfitta francese di Dien Bien Phu, nel maggio 1954, la prima guerraindocinese si concluse con la creazione di uno stato comunista nel nord (la Repubblicademocratica del Viet Nam, chiamata anche Viet Nam del nord) e uno stato separato nelsud (la Repubblica del Viet Nam, nota anche come Viet Nam del sud). Con l’insedia-mento nel nord di un governo comunista, oltre un milione di persone, fra il 1954 e il1956, si trasferì a sud. Fra loro erano quasi 800mila i cattolici, i due terzi circa dellapopolazione cattolica totale del nord. Si ebbe anche un più ridotto trasferimento nelladirezione opposta, con circa 130mila sostenitori del movimento comunista del VietMinh che furono trasportati a nord, a bordo di navi polacche e sovietiche 2.

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MACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAUMACAU

OCEANO INDIANO

OCEANO PACIFICO

Mar Cinesemeridionale

Mar di Giava

Mar degli Arafura

MarCinese

Orientale

Mar delGiappone

500 10000

Chilometri

HONG KONG

VIET NAM

REPUBBLICAREPUBBLICADEMOCRADEMOCRATICATICAPOPOLARE DELPOPOLARE DEL

LALAOSOS

REPUBBLICADEMOCRATICAPOPOLARE DEL

LAOS

MYANMAR

BRUNEIDARUSSALAM

MALAYSIA

FILIPPINEFILIPPINEFILIPPINE

MALAYSIA

INDONESIA

SINGAPORE

REPUBBLICA POPOLARE CINESEREPUBBLICA POPOLARE CINESEREPUBBLICA POPOLARE CINESE

BHUTAN

CAMBOGIACAMBOGIACAMBOGIA

REPUBBLICA DI REPUBBLICA DI COREACOREAREPUBBLICA DI COREA

REPUBBLICA POPOLARE DEMOCRATICA DI COREA

THAILANDIATHAILANDIATHAILANDIA

NEPAL

BANGLADESHINDIA

INDONESIA

Confine di stato

Movimento di rifugiati

LEGGENDA

MACAO

GIAPPONEGIAPPONEGIAPPONE

L’esodo dall’Indocina, 1975–95 Cartina 4.1

Nel 1960 ripresero i combattimenti nel Viet Nam del sud. Le forze anticomuniste,appoggiate dagli Stati Uniti, che finirono con l’inviare oltre 500mila uomini, cercava-no di arrestare la penetrazione nel Sudest asiatico del comunismo, sostenuto da sovie-tici e cinesi. La guerra del Viet Nam provocò sempre maggiori ondate di esodi, in tuttie tre i paesi dell’Indocina. Questo fu perlopiù interno, ma in alcuni casi debordò dallefrontiere nazionali, come nel caso dei “khmer del delta”, che fuggì in Cambogia incerca di scampo dai combattimenti nel Viet Nam 3. Alla fine degli anni ’60, nel pienodella guerra, si calcola che la metà dei 20 milioni di abitanti del sud fosse stata costret-ta all’esodo 4.

L’accordo di pace di Parigi, del 27 gennaio 1973, pose temporaneamente fine alconflitto, aprendo la porta a un ruolo maggiore per l’Unhcr, che lanciò un program-ma da 12 milioni di dollari per assistere gli sfollati nel Viet Nam e nel Laos, con pro-getti di ricostruzione. Il programma fu rapidamente eclissato, però, dalla ripresa delleostilità, all’inizio del 1975, e dalla caduta di Saigon nelle mani delle forze rivoluzio-narie, il 30 aprile. Lo stesso anno, dei regimi comunisti si insediavano nei due paesilimitrofi, il Laos e la Cambogia.

A differenza del movimento ultra-estremista dei khmer rossi, che nell’aprile 1975prese il controllo della Cambogia, dei dirigenti più convenzionali, filosovietici, con-quistarono il potere nel Viet Nam e nel Laos. Grazie al suo precedente intervento neidue paesi, prima dell’aprile 1975, l’Unhcr fu in grado di mantenere i contatti con igoverni di Hanoi e Vientiane rispettivamente. L’Alto Commissario Sadruddin Aga Khanvisitò nel settembre 1975 entrambi i paesi, ispezionando progetti realizzati dall’Unhcrper aiutare gli sfollati di guerra a far ritorno alle loro case.

Nel nord del Viet Nam, l’Unhcr fornì aiuti all’agricoltura, alla sanità e alla rico-struzione, per una parte dei 2,7 milioni di sfollati. Molti di essi erano fuggiti dai com-battimenti del sud, mentre altri erano stati strappati alle loro case dai bombardamen-ti americani sul nord, fra il 1965 e il 1972. Nel sud, l’Unhcr fornì oltre 20mila ton-nellate di viveri e altri soccorsi a milioni di sfollati, che cercavano di rifarsi una vitadopo la guerra.

La caduta di Saigon

Progressivamente l’Unhcr spostò sempre più il centro della propria attività di assistenzaagli sfollati nel Viet Nam, all’aiuto a coloro che erano fuggiti dal paese. Negli ultimi gior-ni che precedettero la caduta di Saigon, nell’aprile 1975, circa 140mila vietnamiti, stret-tamente legati al precedente governo del Viet Nam del sud, furono evacuati dal paese ereinsediati negli Stati Uniti. L’evacuazione, organizzata dagli stessi americani, fu seguitada un esodo più ridotto di vietnamiti che riuscirono a raggiungere, via mare e con mezzipropri, alcuni paesi vicini del Sudest asiatico. Alla fine del 1975, ne erano arrivati circa5mila in Thailandia, 4mila a Hong Kong, 1.800 a Singapore e 1.250 nelle Filippine.

La prima reazione dell’Unhcr fu di trattare quei movimenti come degli strascichidella guerra, anziché come l’inizio di una nuova crisi di rifugiati. Nel novembre 1975,in un appello per raccogliere finanziamenti, l’Alto Commissario Sadruddin Aga Khansottolineò che i programmi per i vietnamiti e i laotiani rimasti nel loro paese o chene erano fuggiti rappresentavano “azioni umanitarie fra loro collegate, destinate ad

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assistere coloro che erano stati più gravemente sradicati dalla guerra e dalle sue con-seguenze” 5.

Col crescere del malcontento nei confronti del nuovo regime comunista, però,aumentava anche il numero di quanti abbandonavano il paese. Nel giugno 1976, ilgoverno di Hanoi privò il governo rivoluzionario provvisorio, costituito nel sud dopola caduta di Saigon, di ogni residuo di autonomia, unificando il paese col nome diRepubblica socialista del Viet Nam. Varò, inoltre, un programma per il reinsediamen-to degli abitanti delle città nelle campagne, nelle cosidette “nuove zone economiche”.Oltre un milione di persone fu internato in “campi di rieducazione”; molte vi mori-rono, mentre altre decine di migliaia vi avrebbero languito sino alla fine degli anni’80. Col passare del tempo, d’altra parte, apparve chiaro che il predominio della popo-lazione di origine cinese nel settore privato dell’economia era contrario alla visionesocialista delle nuove autorità.

All’inizio del 1978, furono formalmente adottate misure per espropriare le impre-se appartenenti a privati, in maggioranza cinesi.Tali azioni coincisero con un marcatodeterioramento nei rapporti fra il Viet Nam e la Cina, che a sua volta rifletteva i rap-porti sempre più tesi del Viet Nam stesso con l’alleato della Cina, la Cambogia. La posi-zione ufficiale delle autorità nei confronti degli abitanti di origine cinese (noti colnome di “hoa”) divenne sempre più ostile. Nel febbraio 1979, le forze cinesi attacca-rono delle zone di frontiera vietnamite, e i rapporti normali ripresero soltanto undecennio dopo.

Nel 1977, circa 15 mila vietnamiti chiesero asilo in paesi del Sudest asiatico. Allafine del 1978, il numero degli esuli fuggiti a bordo di imbarcazioni era quadruplicatoe il 70% di loro era costituito da vietnamiti di origine cinese. Molti altri loro conna-zionali della stessa origine si rifugiarono nella stessa Cina. Provenivano principalmentedal nord del Viet Nam, dove vivevano da decenni ed erano in maggioranza modestipescatori, artigiani e contadini. In seguito la Cina lanciò un progetto per sistemare irifugiati in aziende agricole di stato, nel sud del paese. L’Unhcr vi collaborò con unadonazione di 8,5 milioni di dollari alle autorità cinesi e con l’apertura di un ufficio aPechino. Alla fine del 1979, oltre 250mila abitanti del Viet Nam si erano rifugiati inCina 6. La Cina fu praticamente l’unico paese dell’area del Sudest asiatico che concessenon solo l’asilo, ma anche l’insediamento in loco ai rifugiati fuggiti dal Viet Nam.

I boat people

Alla fine del 1978, erano quasi 62mila i boat people vietnamiti ospitati in campi profu-ghi, in tutto il Sudest asiatico. Con l’aumentare del loro numero, aumentava anche l’o-stilità delle popolazioni. La tensione era accresciuta dal fatto che molte delle imbarca-zioni che approdavano sulle rive dei paesi della regione non erano piccoli pescherec-ci in legno, bensì navi da carico dallo scafo in acciaio, noleggiati dalle mafie regiona-li attive nel traffico dei clandestini, e che trasportavano oltre 2mila persone alla volta.Nel novembre 1978, per esempio, un cargo da 1.500 tonnellate, lo Hai Hong, appro-dava a Port Klang, in Malaysia, chiedendo l’autorizzazione per scaricare il suo caricoumano, costituito da 2.500 vietnamiti. Quando le autorità della Malaysia esigetteroche la nave fosse rimandata al largo, il Delegato dell’Unhcr nel paese sostenne che i

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vietnamiti a bordo erano considerati “di competenza dell’Alto Commissariato” 7. Taleposizione fu ribadita da un telegramma della Sede centrale dell’organizzazione, cheindicava che “in futuro, a meno che esistano chiare indicazioni contrarie, coloro chearrivano per via mare dal Viet Nam sono considerati, prima facie, di competenzadell’Unhcr” 8. Per oltre un decennio, ai vietnamiti che giungevano in un campo pro-fughi gestito dall’Unchr fu automaticamente riconosciuto lo status di rifugiato, con lapossibilità di un ulteriore reinsediamento in un paese terzo.

All’inizio dell’esodo indocinese, nel 1975, nessun paese della regione aveva aderitoalla Convenzione Onu del 1951 sui rifugiati o al Protocollo del 1967. Nessuno dei paesiche ricevevano i boat people vietnamiti concedeva loro un permesso di soggiorno a tempoindeterminato, e alcuni non accordavano neppure l’asilo temporaneo. Singapore rifiuta-va di lasciare sbarcare i rifugiati che non avessero una garanzia di reinsediamento entro90 giorni. Di frequente, la Malaysia e la Thailandia respingevano le imbarcazioni dallerispettive coste. Quando, nel 1979, si registrò una spettacolare escalation degli arrivi divietnamiti via mare – oltre 54mila nel solo giugno – il “respingimento” divenne di ordi-naria amministrazione, e probabilmente migliaia di vietnamiti morirono in mare.

A fine giugno 1979, gli allora cinque membri dell’Associazione delle nazioni delSudest asiatico (Asean) – Filippine, Indonesia, Malaysia, Singapore e Thailandia –avvertirono che avevano “raggiunto il limite della sopportazione e deciso di non accet-tare più nuovi arrivi” 9. Di fronte a tale minaccia diretta al principio dell’asilo, il

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Alcuni componenti di un gruppo di 162 vietnamiti, arrivati in Malaysia a bordo di un piccolo peschereccio, naufraga-to a pochi metri dalla riva. (UNHCR/K. GAUGLER/1978)

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Riquadro 4.1 Le conferenze internazionali sui rifugiati indocinesi

La conferenza di Ginevra del 1979

A metà del 1979, degli oltre 550milaindocinesi che, a partire dal 1975,avevano cercato asilo nel Sudestasiatico, circa 200mila erano statireinsediati, mentre gli altri 350mila circasi trovavano ancora nei paesi di primoasilo della regione. Nei sei mesiprecedenti, per ogni individuo partito invista del reinsediamento, ne eranoarrivati nei campi profughi altri tre. Afine giugno 1979, gli stati membridell’Associazione delle nazioni del Sudestasiatico (Asean) annunciarono che nonavrebbero più accettato alcun nuovoarrivo. I “respingimenti” erano all’ordinedel giorno, e lo stesso istituto dell’asiloera in pericolo. “Il problema”, dichiaròl’Alto Commissario Poul Hartling,“trascende chiaramente le possibilità disoluzione” i.

Tra il 20 e il 21 luglio 1979, 65 governirisposero all’invito del Segretario generaledelle Nazioni Unite a partecipare ad unaconferenza internazionale sui rifugiatiindocinesi. Gli impegni assunti in quellasede dalla comunità internazionale furononumerosi e significativi: ad esempio, alivello mondiale le offerte direinsediamento passarono da 125mila a260mila. Il Viet Nam s’impegnò a tentaredi far cessare le partenze illegali,favorendo al loro posto quelle organizzatee dirette, a partire dal paese stesso.L’Indonesia e le Filippine s’impegnarono aistituire dei centri regionali perl’istruttoria delle domande direinsediamento, per renderla più rapida, ele nuove promesse di contributi all’Unhcrraggiunsero un totale di circa 160 milionidi dollari, sia in denaro che in beni eservizi, importo più che doppio rispettoalla somma dei quattro anni precedenti.

Benché non fosse stato preso alcunimpegno formale relativamente all’asilo,la conferenza diede il proprio avallo aiprincipi generali dell’asilo e del nonrespingimento (non refoulement). Comeaveva affermato, nella sua dichiarazioneiniziale, il Segretario generale dell’Onu, ipaesi di primo asilo desideravano che irifugiati non rimanessero nei loro paesioltre un certo tempo. Fu cosìformalizzata una sorta di do ut des: asilotemporaneo (“primo asilo”) nellaregione, contro un reinsediamentopermanente altrove; in altri termini,

come qualcuno lo definì, “una spiaggiaaperta contro una porta aperta”.

Il respingimento delle imbarcazionivietnamite che cercavano di prendere illargo fu, in linea di massima, sospeso. Ilnumero degli arrivi nella regione subì unnetto calo, quando il Viet Nam cominciòad infliggere pesanti multe nei casi dipartenza clandestina, mentre iniziava unpiccolo movimento di partenze direttedal paese stesso. Nello spazio di 18 mesi,oltre 450mila rifugiati indocinesi furonoreinsediati dai campi profughi del Sudestasiatico. Fra il 1980 e il 1986, mentre ilreinsediamento superava il ritmo degliarrivi, in diminuzione, i funzionariresponsabili dei rifugiati cominciavano aparlare con crescente ottimismo di unasoluzione della crisi regionale.

Nel periodo 1987-88, tuttavia, si registròuna nuova brusca impennata nel numerodegli arrivi dal Viet Nam, e apparvechiaro che il precedente consenso nonreggeva più. I paesi occidentali, difronte alla crescente marea deirichiedenti asilo indocinesi chebussavano alla loro porta, e persuasi chei nuovi arrivati non avessero più dirittoautomaticamente allo status di rifugiato,avevano gradualmente ridotto lepossibilità di reinsediamento eintrodotto criteri più selettivi. L’accordodel 1979 – l’asilo temporaneo, chedoveva essere seguito dalreinsediamento in un paese terzo – nonera più operante. Osservava l’AltoCommissario Jean-Pierre Hocké che: “Colpassare del tempo, si è progressivamenteeroso il consenso su cui era fondata lanostra impostazione del problema deirifugiati indocinesi” ii.

La Conferenza di Ginevra del 1989e il Piano d’azione globale

Nel giugno 1989, dieci anni dopo laprima conferenza sui rifugiati indocinesi,se ne tenne, sempre a Ginevra, unaseconda. I 70 governi partecipanti viadottarono una nuova strategiaregionale, che prese il nome di Pianod’azione globale (Comprehensive Plan ofAction – Cpa). Si trattò di un importantetentativo per una soluzione multilateraledel problema dei rifugiati vietnamiti, euno dei primi casi in cui il paesed’origine svolse un ruolo essenziale,

assieme ad altri paesi e ad altriorganismi interessati, sia della regioneche esterni ad essa, per contribuire allasoluzione di una crisi di rifugiati divaste proporzioni.

Il Cpa si prefiggeva cinque obiettiviprincipali: primo, ridurre le partenzeclandestine attraverso misure ufficialicontro coloro che organizzavano lepartenze via mare e mediante massiccecampagne d’informazione, e promuoveremaggiori possibilità d’emigrazione legalenell’ambito del Programma di partenzeorganizzate; secondo, dare asilotemporaneo a tutti i richiedenti finoall’accertamento della loro posizionegiuridica e in attesa di una soluzioneduratura; terzo, determinare l’eventualestatus di rifugiato di tutti i richiedentiasilo conformemente alle norme e aicriteri adottati internazionalmente;quarto, reinsediare in paesi terzi irichiedenti riconosciuti come rifugiati,nonché tutti i vietnamiti che sitrovavano nei campi profughianteriormente alle date limite regionali;quinto, riportare e reinserire nel paesed’origine i candidati non consideratirifugiati iii.

L’attuazione del Piano fu affidataall’Unhcr, col sostegno finanziario deipaesi donatori. Fu istituito un appositoComitato direttivo, presiedutodall’organizzazione stessa e composto darappresentanti di tutti i governi cheavevano assunto, nell’ambito del Cpa,impegni in materia di asilo,reinsediamento o rimpatrio.

Mentre gli impegni del 1979 per l’asiloerano generici, quelli di dieci anni dopoerano più precisi; prevedevano che:“L’asilo temporaneo sarà accordato atutti i richiedenti, i quali riceveranno unidentico trattamento, indipendentementedalle modalità dell’arrivo, fino al terminedella procedura di determinazione delloro status”. In quasi tutta la regionetali impegni furono onorati, seppure conqualche eccezione. La Thailandia, inparticolare, interruppe il respingimentodelle imbarcazioni, mentre Singaporenon permise più lo sbarco delle personesalvate in mare né degli arrivi diretti. InMalaysia, per buona parte degli anni1989-90, le autorità locali avevanol’ordine di dirottare verso le acqueinternazionali le imbarcazioni in arrivo.

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Grazie all’effetto combinato deidisincentivi nei campi profughi (fra cui lafine dell’assistenza al rimpatrio, per irifugiati arrivati dopo il settembre 1991)e delle campagne svolte dall’Unhcrattraverso i media nel Viet Nam, il Cpariuscì finalmente ad arrestare l’esodo deirichiedenti asilo originari di tale paese.Mentre, nel 1989, avevano chiesto asilonell’area del Sudest asiatico circa 70milavietnamiti, nel 1992 furono solo in 41 afarlo, e da allora le cifre sono rimastetrascurabili.

All’epoca della conferenza del 1989 sulCpa, nei campi profughi del Sudestasiatico erano presenti in totale 50.670rifugiati vietnamiti, arrivati entro iltermine massimo. Di questi, quasi unquarto erano già stati respinti da almenoun paese di reinsediamento e un altroquarto non erano prioritari, secondocriteri di reinsediamento sempre piùrestrittivi. Alla fine del 1991, erano statiquasi tutti reinsediati. Dei richiedentiasilo giunti dopo il termine ultimo, intotale 32.300 furono riconosciuti comerifugiati e reinsediati, mentre altri 83.300rimpatriarono dopo che la loro domandaera stata respinta. In totale, durante gliotto anni del Cpa, oltre 530milavietnamiti e laotiani furono trasferiti inpaesi terzi per un reinsediamento.

Nessuno dei paesi che s’impegnarono amettere in atto le procedure per ladeterminazione dello status di rifugiato,tranne le Filippine, aveva aderito allaConvenzione Onu del 1951, e nessunoaveva una precedente esperienzalegislativa o amministrativa in materia.Nondimeno, i cinque principali paesi diprimo asilo – Filippine, Hong Kong,Indonesia, Malaysia e Thailandia –adottarono procedure che accordassero airichiedenti asilo la possibilità di contattarel’Unhcr, un’intervista completa per ladeterminazione dello status di rifugiato,l’assistenza di un interprete, nonché unapossibilità di revisione della decisione daparte di una seconda autorità. A HongKong, inoltre, i richiedenti potevano anchericorrere in tribunale.Complessivamente, circa il 28 % deirichiedenti asilo vietnamiti che avevanochiesto lo status di rifugiato, con leprocedure introdotte dal Cpa, lo ottenne.A Hong Kong, dove fu intervistato ilmaggior numero di richiedenti (60.275),si registrò anche il più basso tassod’accettazione (18,8 %). La facoltà di cui

disponeva l’Unhcr di riconoscere, in virtùdel suo mandato, i rifugiati costituìun’importante rete di sicurezza, pergarantire che nessun candidatorispondente ai requisiti fosse rifiutato erinviato nel Viet Nam.

Per raggiungere un consenso sulrimpatrio in tale paese, i governipartecipanti al Cpa avevano concordato,nel 1989, che “in prima istanza, si faràogni sforzo per incoraggiare il rimpatriovolontario [di coloro la cui domanda èrespinta]… Se, trascorso un ragionevolelasso di tempo, apparisse chiaro che ilrimpatrio volontario non procede alritmo desiderato, si prenderebbero inesame delle alternative riconosciuteaccettabili, nel quadro delle prassiinternazionali” iv. Anche se nessunol’avrebbe detto apertamente, moltiriconobbero allora che ciò significavaritorno non volontario.

Hong Kong aveva cominciato a selezionaregli arrivi un anno prima degli altri paesidella regione e, nel marzo 1989, aveva giàorganizzato il primo rimpatrio volontarionel Viet Nam in oltre un decennio. Neimesi successivi, tuttavia, il governoritenne insufficiente il numero dei rimpatrivolontari e passò a misure più drastiche. Il12 dicembre 1989, approfittandodell’oscurità, oltre un centinaio di

poliziotti scortarono un gruppo di 51vietnamiti – uomini, donne e bambini –fino a un aereo in attesa, che li riportò adHanoi. Le proteste internazionalipersuasero le autorità della coloniabritannica a soprassedere ad altri rimpatrinon volontari ma, con un nuovo sviluppodella situazione, il Regno Unito, HongKong e il Viet Nam conclusero, nell’ottobre1991, un accordo per l’attuazione di un“Programma di rientri organizzati”.

In ultimo, anche i paesi dell’Aseanfirmarono i rispettivi accordi per unProgramma di rientri organizzati,nell’ambito dei quali l’Unhcr s’impegnavaa coprire le spese di trasporto ed afornire un supporto logistico, ribadendoperò che non avrebbe partecipato amovimenti che implicassero l’uso dellaforza. Alla fine, tuttavia, la distinzionefra ritorno volontario e non volontariodiventò meno netta, a causa dellacrescente tensione che regnava neicampi dei profughi vietnamiti e deifrequenti scoppi di violenza cheavvenivano in quelli di Hong Kong. Apartire dal 1992, il ritmo dei rimpatri siaccelerò e l’Unhcr ebbe l’incarico dicoordinare l’assistenza al reinserimento edi vigilare sugli oltre 109mila vietnamitiche, in definitiva, tornarono nel loropaese nel quadro del Cpa.

* La tabella si riferisce al reinsediamento o rimpatrio dai paesi o territori di primo asilo.** Compresi 367.040 cambogiani non contanti come arrivi nei campi profughi dell’Unhcr inThailandia, ma rimpatriati sotto l’egida dell’organizzazione nel 1992-93, come anche i richiedenti asilovietnamiti esclusi a seguito della selezione.

0

100

200

300

400

500

600

700

800

900

Vietnamiti Cambogiani Laotiani

Rimpatrio **Reinsediamento

Mig

liaia

Indocina: reinsediamento erimpatrio, 1975–97*

Figura 4.1

Segretario generale dell’Onu convocò a Ginevra, in luglio, una conferenza internazio-nale sui “rifugiati e sfollati nel Sudest asiatico” [cfr. riquadro 4.1] 10. “Una grave crisiè in atto nel Sudest asiatico”, affermò l’Alto Commissario Poul Hartling in una notad’informazione preparata per la conferenza; “per centinaia di migliaia di rifugiati esfollati... è in pericolo il diritto fondamentale alla vita e alla sicurezza” 11.

La conferenza del 1979 permise di scongiurare una crisi immediata. Con quello che eradi fatto un accordo tripartito fra i paesi d’origine, quelli di primo asilo e quelli di reinse-diamento, i paesi dell’Asean si impegnarono a continuare a concedere l’asilo temporaneo,a condizione che il Viet Nam si sforzasse di prevenire le partenze illegali e di promuoveredelle partenze organizzate, e che i paesi terzi accelerassero il ritmo del reinsediamento.L’Indonesia e le Filippine si impegnarono, inoltre, a creare dei centri regionali per l’esamedelle candidature, per contribuire a un più rapido reinsediamento dei rifugiati e, salvo alcu-ne vistose eccezioni, cessò il “respingimento” delle imbarcazioni in mare. I reinsediamentinei paesi terzi, che avevano avuto luogo al ritmo di circa 9mila al mese nel primo semestredel 1979, passarono a circa 25mila al mese nella seconda metà dell’anno. Fra il luglio 1979e il luglio 1982, oltre 20 paesi – con alla testa gli Stati Uniti, l’Australia, la Francia e il Canada– assorbirono in complesso 623.800 rifugiati indocinesi 12.

Da parte sua, il Viet Nam si impegnò a compiere ogni sforzo per far cessare le par-tenze illegali e attuare un protocollo d’accordo firmato, nel maggio 1979, con l’Unhcrper il lancio del Programma di partenze organizzate 13. In base a tale accordo, le auto-rità vietnamite avrebbero autorizzato l’uscita dei cittadini che desideravano abbando-nare il paese, per il ricongiungimento familiare o per altri motivi umanitari, mentrel’Unhcr avrebbe curato il coordinamento con i paesi di reinsediamento per ottenere ivisti d’ingresso. Malgrado un avvio lento, il programma accelerò gradualmente ilritmo e, nel 1984, le partenze annuali erano ormai aumentate a 29.100, superando gliarrivi via mare nella regione, che erano 24.865.

Per buona parte degli anni ’80, malgrado una diminuzione degli arrivi nell’area emalgrado il rispetto degli impegni per il reinsediamento, continuò l’esodo dei vietna-miti per mare, con un enorme costo in vite umane. Uno studioso ha valutato nel 10%il numero dei boat people dispersi in mare, aggrediti dai pirati, annegati o morti per disi-dratazione 14. Il programma anti-pirateria e le iniziative per il salvataggio in mare [cfr.riquadro 4.2] ebbero il loro successo, ma ogni insuccesso era una tragedia.Un’imbarcazione arrivata nelle Filippine nel luglio 1984 riferì che, durante i 32 giornitrascorsi in mare, una quarantina di navi erano passate nelle sue vicinanze, senza forni-re alcun aiuto. Nel novembre 1983, il direttore della Divisione protezione internaziona-le dell’Unhcr, Michel Moussalli, parlava di “scene al di là di ogni immaginazione...Diciotto persone partono in una piccola imbarcazione e, nella traversata del golfo diThailandia, sono attaccate dai pirati; una ragazza che resiste allo stupro è uccisa e un’al-tra ragazzina di 15 anni è rapita. L’imbarcazione viene poi ripetutamente speronata e glialtri 16 passeggeri, che non sono di alcuna utilità per i pirati, muoiono tutti in mare” 15.

Col passare degli anni, nei paesi occidentali cresceva la stanchezza nei confrontidei boat people vietnamiti e aumentavano i sospetti circa le motivazioni della partenza dialcuni di loro. Toccò all’Unhcr garantire il rispetto degli impegni dei governi per ilreinsediamento, sia per tutelare il principio stesso dell’asilo, sia per evitare che perso-ne particolarmente vulnerabili fossero abbandonate nei campi profughi del Sudest

I RIFUGIATI NEL MONDO

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L’esodo dall’Indocina

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Riquadro 4.2 La pirateria nel Mar Cinese meridionale

La pirateria nel Sudest asiatico è anticaquanto la stessa navigazione nellaregione. Per i boat people indocinesi fuuna ulteriore fonte di angoscia e, perquanti cercavano di proteggerli, unarduo problema. Nel solo 1981, quandoin Thailandia arrivarono 452imbarcazioni, trasportando 15.479rifugiati, le statistiche dell’Unhcr eranoagghiaccianti: ben 349 imbarcazionierano state abbordate, in media trevolte ciascuna; 578 donne erano statestuprate e 228 rapite, mentre 881persone erano morte o disperse.

Il programma antipirateria

In risposta a una generale ondata disdegno su scala mondiale e alle vociche chiedevano di agire, alla fine del1981 l’Unhcr lanciò un appello per laraccolta di fondi e, nel giugno 1982,fu varato ufficialmente un programmacontro la pirateria, con una dotazionedi 3,6 milioni di dollari, messi adisposizione da 12 paesi.

In un primo tempo, in Thailandia leiniziative antipirateria consistetterosoprattutto in un pattugliamentomarittimo e aereo, che si tradusse inuna graduale diminuzione del numerodegli attacchi. Tuttavia, come osservòall’epoca l’Alto Commissario PoulHartling: “Anche se la quantità èdiminuita, la qualità degli attacchi,se posso così esprimermi, è inaumento... Quello che ascoltiamo fainorridire ancor più che in passato”. Irapporti “parlano di crudeltà,brutalità e barbarie al di là di ogniimmaginazione. I rifugiati sonoaccoltellati e bastonati. Sicommettono omicidi, rapine e stupri,cose dell’altro mondo” v.

A partire dal 1984, il programmaantipirateria dell’Unhcr si orientòsempre più su operazioni a terra. InThailandia, la polizia e la capitaneriadi porto registravano i pescherecci,fotografavano gli equipaggi erealizzavano campagne d’informazionesulle ammende inflitte ai pirati.L’Unhcr aiutava le vittime degliattacchi a contattare la polizia el’autorità giudiziaria, seguiva iprocedimenti in tribunale,organizzava il viaggio di testimonidall’estero, e forniva servizi

1979, invece, quando gli arrivi deivietnamiti nella regione balzarono a177mila e il “respingimento” delleimbarcazioni era al culmine, nefurono salvate solo 47. La metà deisalvataggi, per di più, fu effettuatada navi appartenenti a tre soli paesi.

Nell’agosto 1979, l’Unhcr convocò aGinevra una conferenza sul tema deisalvataggi in mare, da cui emerse unprogramma noto con la sigla Disero(Disembarkation Resettlement Offers –Offerte di reinsediamento per glisbarchi). Otto paesi occidentali, fra cuigli Stati Uniti, s’impegnavanocongiuntamente a garantire ilreinsediamento a tutti i profughivietnamiti salvati in mare da navicommerciali battenti bandiera di statiche non accoglievano i rifugiati invista del reinsediamento. Il nuovoimpegno sembrò avere un effettoimmediato: negli ultimi cinque mesidel 1979, infatti, furono soccorse inmare 81 imbarcazioni con 4.031persone a bordo. Nel maggio 1980,l’Unhcr donò al governo thailandeseuna motovedetta veloce, non armata,come gesto simbolico per potenziare lasorveglianza in mare. Nel frattempo,alcune navi appartenenti aorganizzazioni umanitarie private, e inparticolare la Kap Anamur e l’Ile delumière, cambiarono attività, passandodall’approvvigionamento dei campiprofughi situati nelle varie isole alsalvataggio delle imbarcazioni. Intotale, fra il 1975 e il 1990 furonosalvati in mare 67mila vietnamiti.

Il problema di questo programma erache la garanzia di reinsediare entro 90giorni tutti i vietnamiti salvati inmare non quadrava con le linee guidadel Piano d’azione globale del 1989,le quali richiedevano che ogni nuovoarrivato fosse oggetto di unaselezione per la determinazione delsuo status. Sia il Disero, sia un altroprogramma similare che glisuccedette, noto con la sigla Rasro(Rescue at Sea Resettlement Offers –Offerte di reinsediamento per isalvataggi in mare), finirono conl’essere interrotti, poiché i paesi dellaregione non si mostravano disposti alasciare sbarcare i boat people salvati.

d’interpretariato per le indagini, gliarresti e i processi. Nel 1987, solol’8% delle imbarcazioni chegiungevano in Thailandia furonoattaccate. Ci furono rapimenti estupri, ma non furono segnalatidecessi dovuti alla pirateria.

Nel 1988, però, la violenza degliattacchi riprese ad aumentare in modoallarmante, con oltre 500 morti odispersi; nel 1989, la cifra superò le750 unità. Nell’agosto 1989, unfunzionario dell’Unhcr che avevaintervistato i superstiti diun’aggressione, riferì che i piratiavevano fatto salire gli uomini ad unoad uno dalla stiva, li avevano bastonatie poi uccisi a colpi d’accetta. Ivietnamiti che si erano buttati inacqua erano stati colpitidall’imbarcazione stessa, affogati euccisi, con un totale di 71 morti, fracui 15 donne e 11 bambini. L’aumentodella violenza in mare, secondo gliesperti, era anche dovuto al successodegli interventi a terra. Le indagini piùsofisticate facevano aumentare ilnumero degli arresti e delle condanne,il che da un lato scoraggiava gliopportunisti occasionali, ma dall’altrofaceva sussistere un nucleo duro dicriminali professionisti che nonvolevano lasciare testimoni.

Infine, sembra che anche iprofessionisti si stancassero dellacaccia che veniva loro data. Dopo lametà del 1990, non furono più riferiticasi di attacchi di pirati ai danni diimbarcazioni vietnamite e, neldicembre 1991, ebbe termine ilprogramma antipirateria dell’Unhcr.“La guerra ai pirati non è finita”,affermava il rapporto di valutazionefinale, “ma ha raggiunto uno stadioin cui può essere efficacementecondotta” dalle autorità nazionali.

I salvataggi in mare

Dal 1975 alla fine del 1978,arrivarono nei paesi di primo asilo110mila boat people vietnamiti.All’inizio, i comandanti delle navisembravano desiderosi di aiutare leimbarcazioni in difficoltà e, in queitre anni, navi di 31 paesi diversisalvarono i rifugiati che si trovavanoa bordo di un totale di 186imbarcazioni. Nei primi sette mesi del

asiatico. Non era, beninteso, di competenza dell’Unhcr concedere o rifiutare l’ammis-sione permanente in un altro paese, in quanto tale potere spettava ai governi. Alla finedegli anni ’80, tuttavia, declinava la disponibilità della comunità internazionale alreinsediamento di tutti i richiedenti asilo vietnamiti, e il numero dei reinsediamentistentava a tenere il passo col ritmo degli arrivi nei paesi di primo asilo.

Poi, a metà del 1987, gli arrivi dei vietnamiti ripresero ad aumentare. Incoraggiatida un allentamento delle restrizioni agli spostamenti interni e dalla prospettiva delreinsediamento in paesi occidentali, migliaia di vietnamiti del sud avevano scopertoun nuovo itinerario, che li portava attraverso la Cambogia e poi, con una breve traver-sata, sulla costa orientale della Thailandia. A fine anno, le autorità thailandesi comin-ciarono a intercettare le imbarcazioni e a rimandarle in alto mare.

Decine di migliaia di vietnamiti del nord seguivano, invece, un altro nuovo itine-rario, attraverso la Cina meridionale verso Hong Kong. Nel 1988, nel territorio bri-tannico si riversarono oltre 18mila boat people. Si trattava di gran lunga del numero piùalto dopo la crisi del 1979. Originari in maggioranza del nord del Viet Nam, eranouna popolazione che si era dimostrata di scarso interesse per la maggioranza dei paesidi reinsediamento. Di conseguenza, il 15 giugno 1988, l’amministrazione di HongKong annunciò che i vietnamiti arrivati a partire da tale data sarebbero stati ospitati inappositi centri d’internamento, in attesa di un colloquio di “selezione” per l’accerta-mento del loro status giuridico. Nel maggio 1989, le autorità della Malaysia ricomin-ciarono a dirottare verso l’Indonesia le imbarcazioni in arrivo, come già avevano fattoun decennio prima.

Una nuova formula

Alla fine degli anni ’80, era ormai chiaro per praticamente tutti gli interessati alla crisidei rifugiati indocinesi che era venuto meno il consenso raggiunto, nel 1979, a livel-lo regionale e internazionale. Era necessaria una nuova formula, che tutelasse l’asiloma scindendolo dalla garanzia del reinsediamento. Nel giugno 1989, si tenne quindia Ginevra una seconda conferenza internazionale sui rifugiati indocinesi e fu raggiun-to un nuovo consenso. Il Piano d’azione globale, come fu battezzato, ribadiva alcunielementi dell’accordo del 1979: in particolare, l’impegno a preservare il primo asilo,a ridurre le partenze clandestine e a promuovere l’emigrazione legale, come pure areinsediare i rifugiati in paesi terzi. Conteneva, inoltre, alcuni elementi nuovi, fra cuiin particolare l’impegno a porre in atto procedure regionali per la determinazionedello status di rifugiato e a rimandare nei paesi d’origine coloro la cui domanda fosserespinta [cfr. riquadro 4.1].

I nuovi impegni per l’asilo riuscirono a far cessare, in Thailandia, il respingimen-to in mare, ma la Malaysia non abbandonò la propria politica, consistente nell’allon-tanare le imbarcazioni dalle proprie acque territoriali. Ad eccezione di Singapore, tuttii paesi di primo asilo rinunciarono alla garanzia di reinsediamento. I 50mila vietna-miti arrivati nei campi profughi entro il termine ultimo (nella maggioranza dei paesi,il 14 marzo 1989) furono reinsediati in paesi terzi. Quelli giunti dopo tale data dove-vano essere oggetto di una selezione per l’accertamento del loro status giuridico. Il VietNam applicò sanzioni contro le partenze clandestine, e l’Unhcr lanciò una campagna

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nei media, destinata a familiarizzare i potenziali richiedenti asilo col nuovo dispositi-vo regionale, che prevedeva ormai il ritorno in patria di quelli fra loro la cui doman-da fosse respinta.

Al Piano d’azione globale è stato generalmente attribuito il merito di aver ripristi-nato nella regione il principio dell’asilo.Alcuni studiosi, però, hanno giudicato tali misu-re contrarie al diritto di lasciare il proprio paese, chiedendosi se l’Unhcr avrebbe dovu-to – anche tacitamente – tollerare di fatto tali azioni ad opera del Viet Nam 16. Il Pianod’azione globale costituì, per di più, il primo esempio di introduzione di una data limi-te. Coloro che erano fuggiti prima di essa erano automaticamente accettati per il reinse-diamento nei paesi terzi, mentre quelli arrivati dopo dovevano innanzitutto subire unaselezione, per la determinazione del loro status giuridico.

Se il successo della conferenza del 1979 era legato agli impegni assunti dai paesidi reinsediamento, quello del Piano d’azione globale dipendeva dagli impegni assun-ti dai paesi di primo asilo e da quelli d’origine. Nel dicembre 1988, sette mesi primadella conferenza di Ginevra, l’Unhcr e il Viet Nam avevano firmato un protocollo d’ac-cordo, in base al quale il Viet Nam avrebbe consentito il rimpatrio volontario dei pro-pri cittadini senza penalizzarli per la fuga, avrebbe ampliato e accelerato il Programmadi partenze organizzate, e avrebbe consentito all’Unhcr di vigilare sui rimpatriati e difacilitarne il reinserimento.

Si è sostenuto che il Programma di partenze organizzate rappresentò un “fattored’attrazione” che, di fatto, incoraggiò a partire. Se in molti casi ciò può esser statovero, esso consentì però a coloro che volevano andar via di farlo con mezzi legali,anziché in modo illegale e pericoloso. Anche se costituì effettivamente un fattore di

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Malaysia32.0%

Hong Kong24.6%

Indonesia15.3%

Thailandia14.7%

Filippine6.5%

Singapore4.1%

Giappone1.4%

Macao0.9%

Altri0.6%

Totale = 796.310

Arrivi di boat people vietnamiti, secondo il paese/territorio di primo asilo, 1975–95

Fig. 4.2

I RIFUGIATI NEL MONDO

Riquadro 4.3 I rifugiati vietnamiti negli Stati Uniti

A partire dal 1975, gli Stati Unitiaprirono le porte ad oltre un milionedi vietnamiti. Benché attualmente ilcontingente più numeroso viva inCalifornia, si sono stabiliti in tuttigli stati americani e in quasi tutte leprincipali città.

I vietnamiti sono arrivati in numeroseondate. Oltre 175mila si rifugiarononegli Stati Uniti nei primi due annidopo la caduta di Saigon, avvenuta nel1975. Nella gran maggioranzaarrivarono nel giro di alcune settimane,e furono ospitati in quattro campiprofughi, allestiti alla bell’e meglio sudelle basi militari. Una decina diorganizzazioni private, perlopiùreligiose, furono incaricate del lororeinsediamento, in località grandi epiccole di tutto il paese. Si occuparonodegli alloggi e organizzarono corsid’inglese, inserirono nelle scuole ibambini ed i ragazzi e aiutarono gliadulti a trovare lavoro.

Gli americani reagirono positivamentea quella prima ondata. Molti di loroprovavano un senso di colpa perl’intervento degli Stati Uniti nel VietNam, ed erano contenti di poteraiutare i rifugiati. Organizzazioniconfessionali e della società civilepatrocinarono i nuovi arrivati,aiutandoli ad orientarsi nelle nuovelocalità di residenza. Per questo primogruppo, le cose andaronostraordinariamente bene: inmaggioranza, provenivano dallaborghesia cittadina del Viet Nammeridionale; oltre un quarto deicapifamiglia aveva un’istruzioneuniversitaria, e più del 40% avevafrequentato la scuola secondaria.Nell’insieme, si trattava di un grupporelativamente qualificato, urbanizzato eflessibile vi. Pur essendo arrivati negliStati Uniti in un momento di graverecessione economica, nel 1982 il lorotasso di occupazione era superiore aquello dell’intera popolazioneamericana. In California, in Texas e aWashington sorsero vere e propriecolonie vietnamite e, ben presto,

imprese appartenenti a connazionalierano in grado di soddisfare i bisognidelle nuove comunità.

Una seconda ondata di rifugiativietnamiti cominciò ad arrivare negliStati Uniti nel 1978. Si trattava deicosiddetti boat people, fuggiti davantialla sempre più dura repressionepolitica in corso nel loro paese,specialmente contro gli abitanti dietnia cinese. Benché sia difficile unastima esatta, si ritiene che in totale,fra il 1978 e il 1997, entrarono negliUsa oltre 400mila boat peoplevietnamiti vii. I boat people eranomeno ben preparati per vivere negliStati Uniti: in generale, erano menoistruiti e piuttosto di origine rurale,rispetto ai connazionali arrivati nel1975, e pochi conoscevano giàl’inglese. Molti di loro erano statiperseguitati nel Viet Nam,traumatizzati in alto mare e avevanodovuto sopportare le dure condizionidi vita nei campi profughi dei paesidel Sudest asiatico che solo conriluttanza accettavano la loropresenza temporanea. Inoltre, adifferenza della prima ondata divietnamiti, molti dei quali fuggiti conle famiglie, un gran numero di boatpeople erano uomini, arrivati da soli.

Quando giunse questo secondogruppo, molti americani avevanocominciato a stancarsi dei rifugiati.L’ostilità nei confronti degli immigrati,alimentata dalla recessione economica,si tradusse in varie località inaggressioni contro i vietnamiti, mentreandava anche calando il sostegno delgoverno americano al programma per irifugiati. Nel 1982 fu ridotta la duratadell’assistenza ai nuovi arrivati e,benché la situazione economica fosseancora peggiore che nel 1975, fuadottata una serie di provvedimentiper inserire quanto più rapidamentepossibile i rifugiati sul mercato dellavoro. Molti boat people finirono inlavori mal retribuiti, spesso senza averpotuto imparare l’inglese néambientarsi nel paese. Ciò malgrado,

secondo una ricerca commissionatadal governo nel 1985sull’autosufficienza dei rifugiati delSudest asiatico, la loro condizioneeconomica era paragonabile a quelladi altre minoranze.

Il Programma di partenzeorganizzate, varato nel 1979, offrìai vietnamiti la possibilità diemigrare direttamente dal VietNam negli Stati Uniti.Inizialmente mirato ai familiaridei rifugiati vietnamiti giàimmigrati e ai sud-vietnamiti cheavevano avuto legami con ilgoverno americano, fu in seguitoesteso ai cosiddetti amerasiatici(figli vietnamiti di militariamericani), nonché agli exprigionieri politici e agli exinternati nei campi dirieducazione. Nell’ambito delprogramma, fra il 1979 e il 1999entrarono negli Stati Uniti oltre500mila vietnamiti.

Molti di loro incontraronoparticolari difficoltà per rifarsi unavita negli Stati Uniti. Gli exprigionieri politici e gli ex internatinei campi di rieducazionearrivavano traumatizzati dalleesperienze vissute nel Viet Nam.Avevano, inoltre, un’età superiore aquella della maggior parte dei boatpeople o dei rifugiati arrivati nel1975. Per loro fu più difficiletrovare lavoro, e le occupazioni cheriuscirono a trovare spesso nonerano all’altezza della loro precedoinserimento sul piano siaeconomico sia psichico.Nell’insieme, tuttavia, lamaggioranza del milione e più divietnamiti che si sono reinsediatinegli Stati Uniti – e soprattutto laseconda generazione di vietnamiti-americani – si sono adattati bene eoggi fanno parte integrante dellasocietà statunitense.

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attrazione, fu solo uno dei molti fattori che incoraggiarono a partire. Anzi, è statosostenuto da alcuni commentatori che, sin dal 1975, gli Stati Uniti e altri paesi occi-dentali avevano dimostrato interesse ad incoraggiare le partenze, anche per dimostra-re al mondo che gli abitanti della metà meridionale del Viet Nam “votavano con ipiedi”, abbandonando il paese a seguito della vittoria comunista 17.

Il 30 luglio 1989, il governo americano e quello vietnamita pubblicarono unadichiarazione congiunta, secondo cui avevano raggiunto un accordo sull’emigrazionedegli ex prigionieri politici e dei loro familiari. Con tale accordo, si ebbe un enormeaumento delle partenze nel quadro del Programma di partenze organizzate, che nel1991 raggiunsero un massimo di 86.451. La cifra comprendeva 21.500 ex internatinei campi di rieducazione con i loro familiari, e poco meno di 18mila minori ame-rasiatici, figli di militari americani dislocati nel Viet Nam. In totale, gli Stati Uniti rein-sediarono oltre un milione di vietnamiti [cfr. riquadro 4.3].

Durante gli otto anni del Piano d’azione globale, oltre 109mila vietnamiti rimpatria-rono. Per aiutarli a reinserirsi, l’Unhcr versò a ognuno di loro un’indennità in contanticompresa fra 240 e 360 dollari, che fu corrisposta in più rate dal ministero del Lavoro,degli Invalidi di guerra e degli Affari sociali. Inoltre, l’organizzazione spese oltre 6 milio-ni di dollari in 300 microprogetti, realizzati in tutto il paese per l’approvvigionamentoidrico, l’istruzione e le infrastrutture collettive. Nel settore dell’occupazione e della crea-zione di posti di lavoro, l’Unhcr partecipò al Programma internazionale della Comunitàeuropea, che concesse oltre 56mila prestiti, di importi compresi fra 300 e 20mila dolla-ri, ai rimpatriati come agli altri abitanti del paese.Tali prestiti facilitarono notevolmente losviluppo delle piccole imprese e furono rimborsati all’88%.

Sebbene l’80% dei rimpatriati fosse concentrato soprattutto nelle otto provincecostiere, ve ne furono che ritornarono in tutte le 53 province del Viet Nam, da nord asud. Per rendere ancora più impegnativo il compito di monitoraggio dell’Unhcr, il 25%circa dei rimpatriati cambiò residenza almeno una volta dopo il ritorno dai campi pro-fughi, trasferendosi nelle aree urbane, in cerca di lavoro. I funzionari dell’Unhcr chevigilavano sulla reintegrazione dei rimpatriati riferirono che la grande maggioranza delleloro richieste riguardava questioni di assistenza economica, e che “il monitoraggio nonaveva rivelato alcun indizio di persecuzioni a danno dei rimpatriati” 18.

I rifugiati cambogiani in ThailandiaFra i paesi d’asilo del Sudest asiatico, la Thailandia fu l’unico a sopportare il peso ditutte e tre le popolazioni rifugiate indocinesi, di cui la più numerosa era quella cam-bogiana. La Thailandia non aveva aderito alla Convenzione Onu del 1951 sui rifugia-ti, ma accettò di firmare, nel luglio 1975, un accordo con l’Unhcr, impegnandosi acollaborare per fornire aiuti umanitari temporanei alle persone costrette con la forzaad abbandonare le loro case, nonché a cercare soluzioni durature, compreso il rimpa-trio volontario o il reinsediamento in paesi terzi. Un mese prima, una decisione delgoverno thailandese aveva stabilito che i nuovi arrivati sarebbero stati ospitati in campigestiti dal ministero dell’Interno. Tale decisione rivelava un atteggiamento ambiguo eperfino contraddittorio, che si sarebbe ritrovato in buona parte delle successive poli-

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tiche del paese nei confronti della popolazione esule in territorio thailandese. Essadichiarava: “Qualora dei profughi tentino di entrare nel Regno, saranno prese misureper allontanarli con la massima rapidità possibile. Se fosse impossibile respingerle, talipersone saranno internate in appositi campi” 19.

Il 17 aprile 1975, i comunisti rivoluzionari che da anni conducevano in Cambogia laloro lotta armata, entravano trionfalmente nella capitale, Phnom Penh, e cominciavano asvuotarla sistematicamente dei suoi abitanti. Sebbene il nuovo regime dei khmer rossi diquella che era stata ribattezzata la Kampuchea democratica non si rivelasse mai pienamen-te al mondo, e neppure al popolo cambogiano, il suo misterioso leader, Pol Pot, diresse unabrutale campagna per liberare il paese dalle influenze straniere e istituire un’autarchia agra-ria 20. Durante i quattro anni di dominio dei khmer rossi in Cambogia, il regime fece eva-cuare le principali città, abolì i mercati e la moneta, impedì ai monaci buddisti di pratica-re la loro religione, espulse i residenti stranieri e creò in tutto il paese dei campi di lavorocollettivizzati 21.All’epoca dell’invasione vietnamita, all’inizio del 1979, oltre un milione dicambogiani era stato giustiziato o era morto di fame, di malattia o di sfinimento per il lavo-ro, mentre altre centinaia di migliaia di abitanti erano sfollate.

Anche se un numero rilevante di cambogiani riuscì ad abbandonare il paese, fu benpoca cosa rispetto al volume dell’esodo interno che interessò la popolazione sotto il bru-tale regime dei Khmer rossi. L’Unhcr ritiene che, fra il 1975 e il 1978, solo 34mila cam-bogiani fossero riusciti a riparare in Thailandia, mentre altri 20mila si rifugiarono nel Laose 170mila nel Viet Nam 22. Quando, all’inizio del 1979, esplose l’esodo dei rifugiati indo-cinesi, la Thailandia accolse un afflusso relativamente modesto di esuli vietnamiti, ma ametà dell’anno ospitava con riluttanza, in campi gestiti dall’Unhcr, 164mila rifugiati cam-bogiani e laotiani. A seguito dell’invasione vietnamita che rovesciò il regime dei khmerrossi, altre decine di migliaia di cambogiani fuggirono verso la frontiera orientale dellaThailandia. Questa invasione insediò al potere un altro regime comunista, in quella che fuallora ribattezzata Repubblica popolare della Kampuchea.

Nel giugno 1979, i soldati thailandesi raggrupparono oltre 42mila rifugiati cambo-giani ospitati nei campi profughi vicino alla frontiera e li spinsero giù per le pendici sco-scese di Preah Vihear, in Cambogia.Almeno diverse centinaia di persone, e probabilmen-te varie migliaia, rimasero uccise nei campi minati sottostanti. Un giorno dopo l’iniziodei respingimenti, il rappresentante del Comitato internazionale della Croce rossa lanciòun appello urgente per farli cessare; gli fu ordinato di lasciare la Thailandia. Nel timore diuna reazione negativa del governo, di fatto l’Unhcr tacque, sebbene si trattasse del piùrilevante caso di respingimento forzato (refoulement) che l’organizzazione avesse conosciu-to dalla sua creazione. Come osservò in seguito un alto funzionario, responsabile dellaprotezione, “il fatto clamoroso che l’Unhcr non protestasse, formalmente o pubblica-mente, contro l’espulsione in massa dei cambogiani dalla Thailandia nel 1979, va vistocome uno dei momenti meno gloriosi del suo operato nel campo della protezione” 23.

In questo scenario, la conferenza di Ginevra del luglio 1979 chiese ai paesi terzi degliimpegni per il reinsediamento, per alleggerire la pressione sulla Thailandia. Dei 452milaindocinesi reinsediati nel 1979–80, quasi 195mila venivano dai campi profughi thailan-desi. Nell’ottobre 1979, questo paese aveva annunciato una politica di “porte aperte”, neiconfronti dei cambogiani che avevano continuato a concentrarsi alla frontiera, in cerca diviveri e di sicurezza. Per i nuovi arrivati, l’Unhcr fu invitato a creare appositi “centri d’ac-

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coglienza”, che sarebbero stati sorvegliati non dal ministero dell’Interno ma dalle forzearmate. Il motivo, sosteneva il governo thailandese, era che “un certo numero dei cam-bogiani che fuggono in Thailandia sono guerriglieri. Quindi, per tenerli sotto controlloin zone sicure, devono essere coinvolti i militari thailandesi” 24.

L’Unhcr impegnò poco meno di 60 milioni di dollari per rispondere alle neces-sità di un numero massimo di 300mila rifugiati cambogiani, e creò un’apposita UnitàKampuchea presso l’Ufficio regionale di Bangkok, per coordinare la realizzazione el’amministrazione dei centri d’accoglienza. Mai prima l’Unhcr era stato così coinvol-to nella costruzione e nella gestione dei campi profughi. Fra i molti risultati del suointervento operativo alla frontiera cambogiana vi fu la creazione, in seno all’organiz-zazione, di una Unità emergenze, che da allora ha svolto un ruolo essenziale in ognigrande crisi di rifugiati.

All’inizio del 1980, il principale centro d’accoglienza, Khao-I-Dang, ospitava già oltre100mila cambogiani. Fra questi si trovavano molti minori non accompagnati, fonte di par-ticolare preoccupazione per l’Unhcr e altre agenzie [cfr. riquadro 4.4]. Godendo di unastraordinaria pubblicità nei media – vantaggio a volte dubbio – Khao-I-Dang divenne,almeno per qualche tempo, quello che un osservatore definì “probabilmente... il campoprofughi con i servizi più completi al mondo” 25. In quel periodo, era più popolato di qua-lunque città della Cambogia. Nel marzo 1980, quando si raggiunse una punta con 140milaospiti, a Khao-I-Dang lavoravano ben 37 organizzazioni non governative (Ong): ciò riflet-teva la proliferazione, allora in atto a livello mondiale, delle attività delle Ong.

Per i cambogiani, tuttavia, le porte della Thailandia non sarebbero rimaste apertea lungo. Nel gennaio 1980, solo tre mesi dopo aver annunciato la politica di “porteaperte”, il governo thailandese faceva marcia indietro, annunciando che i centri d’ac-coglienza erano ormai chiusi per i nuovi arrivati. Da allora in poi, dichiarò, questisarebbero stati ospitati in accampamenti alla frontiera, e non avrebbero potuto aspira-re al reinsediamento in un paese terzo.

I campi di frontiera

Fra il 1979 e il 1981, gli aiuti umanitari ai campi alla frontiera cambogiana furonocoordinati da una missione congiunta, capeggiata dal Fondo delle Nazioni Unite perl’infanzia (Unicef) e dal Comitato nazionale della Croce Rossa. Alla fine del 1981,l’Unicef si ritirò ufficialmente come agenzia leader Onu per il programma di soccor-si umanitari alla frontiera: da un lato, per concentrarsi sull’assistenza allo svilupponella stessa Cambogia e, dall’altro, per protestare contro la crescente militarizzazionedei campi frontalieri, soprattutto da parte delle redivive forze dei khmer rossi.

A partire dal 1979, l’Unhcr era stato responsabile di Khao-I-Dang e di altri “centrid’accoglienza” per i rifugiati cambogiani, ma aveva evitato di assumere un proprioruolo nei campi alla frontiera. A un dato momento, alla fine del 1979, l’Unhcr si eraofferto di fungere da agenzia agenzia leader dell’Onu nella zona di confine.Tuttavia, lecondizioni che impose – fra cui l’allontanamento di tutti i soldati e di tutte le armi daicampi e il trasferimento dei campi stessi lontano dalla frontiera – furono allora consi-derate irrealistiche. Inoltre, almeno alcuni donatori internazionali ritennero chel’Unhcr non fosse qualificato per gestire un’emergenza così rilevante e complessa.

I RIFUGIATI NEL MONDO

Riquadro 4.4 I minori indocinesi non accompagnati

Quando, nel 1979, i rifugiaticambogiani cominciarono ad affluireattraverso la frontiera thailandese, fra diloro si trovava un gran numero dibambini e adolescenti sotto i 18 anni,apparentemente privi di parenti, chefurono definiti “minori nonaccompagnati”, o “separati”. Sindall’inizio furono lanciati urgenti appellialla comunità internazionale perreinsediarli all’estero, ma la lorosituazione era complessa e la ricerca disoluzioni idonee si rivelò assaiproblematica.

Molti adolescenti erano stati reclutaticon la forza, vari anni prima, nellebrigate giovanili dei khmer rossi. Alcuniavevano perduto la famiglia, mentrealtri ne erano rimasti separati a causadegli sconvolgimenti seguitiall’invasione vietnamita della Cambogia,nel 1978. Altri ancora erano orfani,avendo perduto entrambi i genitori. Conun’indagine più approfondita, tuttavia,si accertò che molti minori avevanofamiliari che vivevano in Cambogia, invicinanza del confine, se non addiritturanello stesso campo profughi. Era questoil punto cruciale della controversia. Neldicembre 1979, pertanto, l’Unhcrraccomandò cautela rispetto aqualunque iniziativa precipitata per ilreinsediamento in paesi terzi el’adozione permanente, finché fossecompiuto ogni tentativo per farricongiungere i minori nonaccompagnati o separati con i parentisuperstiti, in Cambogia o nei campipresso la frontiera.

L’anno seguente, una ricerca promossada un’organizzazione non governativanorvegese, Redd Barna (“Salvate ibambini”), e da altre Ong, acquisì lacertezza dell’esistenza in vita di moltigenitori. Dopo aver esaminato oltre2mila pratiche, Redd Barna giunse allaconclusione che più della metà deigiovani ospiti dei campi era stataseparata dai genitori dalle circostanze,e non dalla morte di questi. In alcunicasi, li credevano morti a causa dellalunga separazione o di voci infondate;altri dichiaravano falsamente che igenitori erano morti, pensando che lacondizione di “non accompagnati”avrebbe facilitato il reinsediamento inun paese terzo. “Dalle indicazioniraccolte risulta”, concludeva ilrapporto di Redd Barna, “che la

maggioranza dei genitori dei minorinon accompagnati sono ancora vivi esi trovano in Kampuchea, e pertanto lepossibilità di ricongiungimento sonoconsiderevoli” viii.

Il rapporto si dimostrò esatto sul primopunto, ma errato sul secondo. Per tuttoil decennio successivo, la politica dellaguerra fredda ebbe ragione di ogniiniziativa mirante al ricongiungimentodelle famiglie cambogiane. Se è veroche, in fin dei conti, centinaia di minorinon accompagnati o separati ritrovaronodei familiari nei campi presso il confine,la grande maggioranza di loro furono,invece, reinsediati in paesi terzi, sia chevi avessero parenti o no.

Il “superiore interesse delminore”

La normativa generale relativa albenessere della famiglia e delbambino, sulla quale si basa la prassiin materia di minori nonaccompagnati o separati, accorda aigenitori il diritto-dovere di prendersicura dei figli fino al raggiungimentodella maggiore età. Se i genitori sonodeceduti o irreperibili, il principiouniversalmente applicato a livellointernazionale è quello della tutela del“superiore interesse del minore”,fornendogli temporaneamentesicurezza e assistenza, mentre si cercadi rintracciare un familiare o diaffidarlo a un altro adultoresponsabile.

Il problema sorge quando il principiodell’“unità familiare” si scontra conquello del “superiore interesse delminore”, come è così spesso avvenutoin Indocina. Circa il 7% dei vietnamitiarrivati nei paesi di primo asilo eranominori non accompagnati. Alcunierano stati separati dai familiaridurante i caotici anni della guerra oavevano perduto i genitori in maredurante la fuga. Per molti bambini eragazzi, tuttavia, la separazione daigenitori era voluta: non meno di unterzo di loro fuggivano non tantodall’oppressione politica, quanto dafamiglie che non funzionavano. Inaltri casi, i genitori mandavano via ifigli nella speranza di garantire lorol’istruzione e una vita migliore inOccidente.

Negli anni ’70 e ’80, quando lostatus di rifugiato era concessoimmediatamente a quasi tutti i boatpeople vietnamiti, il dibattito suiminori non accompagnati eraincentrato sul miglior modo diproteggerli nei campi di primo asilo,e poi di reinsediarli con buoneprospettive di successo. Conl’istituzione, tuttavia, di procedureregionali per la determinazione dellostatus, nell’ambito del Piano d’azioneglobale dell’Unhcr, il problema delrimpatrio dei minori, per tornarenelle loro famiglie nel Viet Nam,assunse enorme importanza

Nel 1989 l’Unhcr istituì in ogni paesedi primo asilo un apposito comitato,composto da rappresentanti delgoverno, dell’Unhcr e di organismicompetenti nel settore dell’assistenzaall’infanzia, che era chiamato apronunciarsi caso per caso sullasoluzione più rispondente al“superiore interesse” del minore.L’Unhcr insisteva sull’esigenza dellarapidità, perché un soggiornoprolungato nei campi profughi erapotenzialmente dannoso per i minorinon accompagnati, ancor più che pergli adulti o i bambini accompagnatida familiari. Nel novembre 1990,nella regione rimanevano 5milaminori non accompagnati in attesadi decisione, e la procedurastraordinaria era oggetto di durecritiche. Più di una Ong accusòl’Unhcr di propendere per il rimpatrioe di creare, per raggiungere taleobiettivo, ritardi ingiustificati per uneventuale reinsediamento.

I minori non accompagnati per iquali, al termine della procedura, furaccomandato il reinsediamento –quasi un terzo degli interessati –partirono per cominciare una nuovavita. Quelli, invece, per cui fuproposto il rimpatrio rimasero ingenere nei campi profughi. Inrealtà, la procedura straordinariasignificò che molti minori furonotenuti in sospeso più a lungo deglialtri candidati all’asilo. Alla fine del1993, oltre 2.600 minori, arrivatinei campi quando avevano meno di16 anni, erano ormai usciti da talefascia d’età e rientravano dunquenella normale procedura applicataagli adulti.

94

Nel gennaio 1982, la United Nations Border Relief Operation, Unbro (l’Operazionedelle Nazioni Unite di soccorso) assunse alla frontiera il coordinamento dell’operazioneumanitaria. La sua missione era chiara: fornire la prima assistenza a coloro che erano fug-giti nella “terra di nessuno” lungo la frontiera fra la Thailandia e la Cambogia; non aveva,però, un esplicito mandato di protezione, né era incaricata di cercare soluzioni durature perla popolazione affidata alle sue cure.

Nel giugno 1982, le due fazioni non comuniste della resistenza cambogiana, che com-battevano contro l’occupazione vietnamita del paese, si unirono alle forze dei khmer rossi,che erano pure rifugiate nei campi frontalieri, costituendo a livello tripartito il “Governodi coalizione della Kampuchea democratica” (Gckd). Mantenendo un seggionell’Assemblea generale dell’Onu e una serie di campi base lungo la frontiera thailandese,il Gckd esercitò per tutto il decennio una costante pressione politica e militare su PhnomPenh, e la guerra civile che seguì provocò nuove ondate di violenze nei campi.

Fra il 1982 e il 1985, il personale dell’Unbro partecipò a oltre 95 evacuazioni di campiprofughi dalla zona frontaliera, di cui 65 sotto il fuoco dell’artiglieria 26. Nel 1984-85,un’offensiva vietnamita durante la stagione secca riuscì a spostare dalla frontiera verso l’in-terno del territorio thailandese la maggioranza dei campi di fortuna, ma essi rimasero affi-dati alle cure dell’Unbro, sotto la gestione del Gckd e senza accesso al reinsediamento. Aseguito della chiusura ufficiale ai nuovi arrivati, nel 1980, della frontiera e dei centri d’ac-coglienza, Khao-I-Dang divenne per molti cambogiani delle zone frontaliere una sorta di“terra promessa”, un’oasi al riparo dai tiri d’artiglieria e dal reclutamento forzato, cheoffriva la possibilità, per quanto remota, della fuga. Ma anche Khao-I-Dang aveva i suoispecifici problemi in materia di protezione. Coloro che aspiravano ad entrarvi dovevanofare i conti con la corruzione e gli abusi dei trafficanti di clandestini e degli addetti allasicurezza, solo per entrare nel campo e, una volta dentro, spesso gli “illegali” dovevano peranni subire intimidazioni, sfruttamento e correndo il rischio di essere scoperti, prima diessere registrati e di avere l’intervista per un possibile reinsediamento.

Mentre l’Unhcr continuava ad amministrare Khao-I-Dang, continuava anche glisforzi, in larga misura infruttuosi, per negoziare un rimpatrio volontario e organizza-to in Cambogia. Con la crescita dei gruppi di resistenza e con l’intensificarsi del con-flitto, i movimenti dalla zona frontaliera verso la Cambogia divennero sempre più dif-ficili. Un osservatore spiegava:

Non solo il governo vietnamita e quello della Rpk [Repubblica popolare di Kampuchea] hannominato il lato cambogiano della frontiera, ma anche, dare punto di vista della Rpk, gli ospiti deicampi profughi sono ormai inevitabilmente legati ai gruppi di resistenza. Questi temono quindi diessere considerati traditori e di rischiare persecuzioni in caso di rimpatrio. Ciò fa cambiare il lorostatus giuridico da sfollati a rifugiati sur place... Allo stesso tempo, i gruppi politico–militari hannosempre più preso il controllo della popolazione dei campi e dei valichi d’ingresso alla frontiera conla Kampuchea, rendendo molto difficile il ritorno nel paese a coloro che lo desiderino 27.

Nel settembre 1980, l’Unhcr aveva aperto a Phnom Penh un piccolo ufficio, com-posto da due persone, e aveva annunciato il varo di un programma di aiuti umanitari peri rimpatriati cambogiani, allora valutati in 300mila (compresi 175mila rientrati dallaThailandia). Il programma doveva fornire gli aiuti alimentari essenziali, sementi, attrez-zi agricoli e generi per la casa ai rimpatriati, in cinque province di frontiera. L’iniziativa

L’esodo dall’Indocina

95

si rivelò prematura di circa un decennio.Malgrado consultazioni protrattesi per anni,l’Unhcr non riuscì a trovare un terreno diintesa fra Bangkok e Phnom Penh, e i rientriorganizzati dai campi alla frontiera thailande-se non ebbero luogo. Fra il 1981 e il 1988,ufficialmente solo un rifugiato cambogianorimpatriò da un campo dell’Unhcr 28.

In incontri svoltisi a Parigi nell’agosto 1989,le quattro fazioni rivali di quello che era statointanto ribattezzato “Stato della Cambogia”, nonriuscirono a compiere alcun progresso fonda-mentale nella ricerca di una soluzione globale 29.Su una cosa, però, riuscirono a mettersi d’accor-do: ai rifugiati cambogiani in Thailandia e aquelli sfollati alla frontiera thailandese, per untotale approssimativo di 306mila persone, dove-va esser consentito, alla conclusione di un accor-do di pace, di far ritorno alle loro case volonta-riamente e in condizioni di sicurezza. Il falli-mento della conferenza di Parigi rese, tuttavia,tale prospettiva decisamente ipotetica e, nel set-tembre 1989, il ritiro dei rimanenti 26milamilitari vietnamiti, precipitò la Cambogia in unanuova guerra civile. Nelle regioni di frontieraebbe inizio un nuovo ciclo di esodo forzato.

Nell’ottobre 1991, a Parigi fu finalmen-te firmato, sotto l’egida delle Nazioni Unite,un accordo in base al quale queste avrebberoistituito un’amministrazione transitoria. LaCambogia fu dunque posta sotto il controllodi un’Autorità transitoria delle NazioniUnite (Untac) in attesa di elezioni su scalanazionale [cfr. capitolo 4.1]. Il piano preve-deva, inoltre, i seguenti impegni da partedelle varie fazioni: disarmare e smobilitare il70% delle loro forze, liberare i prigionieri

politici, aprire le rispettive “zone” alle ispezioni internazionali e alla registrazione deglielettori, nonché permettere a tutti i rifugiati cambogiani esuli in Thailandia di rimpa-triare in tempo per iscriversi nelle liste elettorali e partecipare alle elezioni. Al momen-to della conclusione dell’accordo, i campi frontalieri dell’Unbro in Thailandia ospitava-no oltre 353mila rifugiati, mentre altri 180mila cambogiani erano sfollati all’internodel proprio paese. Nel quadro dell’accordo di pace, l’Unbro trasferì, a partire dalnovembre 1991, la gestione dei campi frontalieri all’Unhcr, che mise in moto i pro-grammi di rimpatrio.

I RIFUGIATI NEL MONDO

96

Queste bambine del campo di Aranyaprathet, inThailandia, erano fra le decine di migliaia di cambo-giani fuggiti sotto la minaccia delle armi dei khmer

rossi, che svuotarono città e villaggi dei loro abitanti.(UNHCR/Y. HARDY/1978)

Dal marzo 1992 al maggio 1993, l’Unhcr coordinò un programma di rimpatrio cheebbe come risultato la chiusura dei campi frontalieri e il trasferimento, in condizioni disicurezza, di oltre 360mila persone in Cambogia, in tempo per partecipare alle elezioni. Il3 marzo 1993, l’ultimo convoglio con 199 rimpatriati partì da Khao-I-Dang e il campo –che era stato aperto il 21 novembre 1979 – fu ufficialmente chiuso. Nel suo intervento allacerimonia di chiusura, l’Inviato speciale dell’Unhcr, Sérgio Vieira de Mello, definì Khao-I-Dang “un simbolo potente e tragico” dell’esodo cambogiano e della risposta umanitariainternazionale. Per l’Unhcr, aggiunse, “l’obiettivo principale e il risultato finale era stato dicreare un campo neutrale, in cui persone di qualunque affiliazione politica potessero tro-vare riparo”. Nel contempo, osservò Vieira de Mello, “Khao-I-Dang era anche divenuto untrampolino per il reinsediamento nei paesi terzi” 30. Dal 1975 al 1992, oltre 235mila rifu-giati cambogiani in Thailandia furono reinsediati all’estero, di cui 150mila negli Stati Uniti.La maggioranza di loro passarono dai cancelli di Khao-I-Dang.

I rifugiati laotiani in ThailandiaNel maggio 1975, quando la vittoria comunista nel Laos era tutt’altro che certa, gliaerei da trasporto americani trasferirono in Thailandia circa 2.500 laotiani di etniahmong dalla loro roccaforte montana. I hmong, un gruppo minoritario degli altopia-ni, che aveva aiutato gli Stati Uniti nella guerra del Laos, avevano perduto nei com-battimenti 20mila soldati; 50mila civili erano stati uccisi o feriti, e altri 120mila eranostati strappati alle loro case. 31 Molti preferirono non aspettare un nuovo regime poli-tico, ma fuggirono attraversando il fiume Mekong. Nel dicembre 1975, quando fu for-malmente istituita la Repubblica democratica popolare del Laos, i rifugiati laotiani inThailandia erano già 54mila, tutti, salvo 10mila, di etnia hmong.

Un funzionario dell’Unhcr nel Laos e in Thailandia diede questa analisi della fugadei hmong dal Laos: “Non v’è dubbio che la grande maggioranza dei rifugiati hmongsiano fuggiti a causa di un reale timore di rappresaglie o persecuzioni da parte del nuovoregime... [ma] vi sono state ulteriori ragioni economiche per la partenza dei hmong dalLaos, e per il momento scelto”. Non solo la guerra aveva distrutto vaste aree coltivate,con i bombardamenti o con i defolianti chimici, ma per di più, come spiegava:

Un gran numero di famiglie hmong si sono abituate a contare sempre più sui viveri lanciati dagliaerei, sugli aiuti distribuiti nei centri sociali, o sulla paga di soldato, portata a casa dai maschi adul-ti... Quando, nel 1975, questi mezzi di sussistenza alternativi sono bruscamente venuti a manca-re, decine di migliaia di hmong si sono trovati improvvisamente non solo col timore della ven-detta nemica, ma anche davanti a una scarsezza cronica di risorse... Se fossero rimasti nel Laos, èdifficile immaginare come avrebbero potuto evitare una carestia su larga scala 32.

Nel corso di una visita nel Laos, nel settembre 1975, l’Alto Commissario conclu-se un accordo col governo “per collaborare ad assistere i rifugiati laotiani che voglia-no rientrare al più presto nel loro paese d’origine” 33. L’anno dopo, il Laos raggiunseun accordo col governo thailandese per il rimpatrio dei rifugiati, ma benché l’Unhcrsi fosse impegnato a fornire il trasporto e un aiuto al reinserimento, nessun rimpatrioebbe luogo fino al 1980, quando 193 laotiani delle pianure tornarono alle loro case.

L’esodo dall’Indocina

97

Nell’ottobre 1974, l’Unhcr aveva aperto nella capitale,Vientiane, un proprio Ufficio,che fino a tutto il 1977, aiutò al rientro migliaia di persone, fornendo loro aiuti alimen-tari e attrezzi agricoli 34. A seguito di una visita, nel settembre 1978, dell’AltoCommissario Poul Hartling, l’Unhcr sospese ogni ulteriore attività in favore degli sfollatiall’interno del Laos.Annunciò invece un “riorientamento delle attività dell’Unhcr verso leprovince alla frontiera thailandese, in particolare nel sud del paese... al fine di prevenirel’esodo di coloro che potrebbero essere indotti ad abbandonare il Laos a causa delle dif-ficoltà economiche e della penuria cronica di generi alimentari in alcune zone” 35.

I RIFUGIATI NEL MONDO

Paese/territorio 1975–79 1980–84 1985–89 1990–95 Totale

di primo asilo 1975–95

Boat people vietnamiti

Hong Kong 79.906 28.975 59.518 27.434 195.833

Indonesia 51.156 36.208 19.070 15.274 121.708

Giappone 3.073 4.635 1.834 1.529 11.071

Corea. Rep. di 409 318 621 0 1.348

Macao 4.333 2.777 17 1 7.128

Malaysia 124.103 76.205 52.860 1.327 254.495

Filippine 12.299 20.201 17.829 1.393 51.722

Singapore 7.858 19.868 4.578 153 32.457

Thailandia 25.723 52.468 29.850 9.280 117.321

Altri 2.566 340 321 0 3.227

Totale parziale (boat people) 311.426 241.995 186.498 56.391 796.310

Thailandia (via terra) 397.943 155.325 66.073 20.905 640.246

Cambogiani 171.933 47.984 12.811 4.670 237.398

Laotiani 211.344 96.224 42.795 9.567 359.930

Vietnamiti 14.666 11.117 10.467 6.668 42.918

Totale (via mare e via terra) 709.369 397.320 252.571 77.296 1.436.556*

*Da segnalare, inoltre, 2.163 cambogiani, arrivati in Indonesia, in Malaysia e nelle Filippine dopo il 1995.

Arrivi di indocinesi, secondo il paese/territoriodi primo asilo, 1975–95

Fig. 4.3

98

Malgrado l’esodo dei laotiani delle pianure fosse cominciato lentamente, nel 1978i registri dei campi profughi indicavano già oltre 48mila arrivi in Thailandia. Alcunilaotiani erano fuggiti per il timore di essere imprigionati nei campi di rieducazione.Altri erano partiti a seguito della perdita della libertà politica, economica e religiosa.Da parte sua, l’Unhcr temeva – e i suoi timori erano condivisi dai funzionari thailan-desi – che la fuga degli abitanti delle pianure fosse provocata in gran parte dai pro-blemi economici del Laos e dalla prospettiva di un rapido reinsediamento in un paeseterzo, una volta accolti nei campi profughi situati sull’altra riva del Mekong.

Nel gennaio 1981, la Thailandia aprì un nuovo campo, Na Pho, per i profughi dellepianure, sistemandovi tutti i nuovi arrivati; il campo offriva solo limitate infrastrutture,razioni alimentari a livello di sopravvivenza e nessuna possibilità di reinsediamento 36. Lapolitica, definita dalla Thailandia come un “deterrente umanitario” – mantenere apertele frontiere, chiudendo al tempo stesso la porta al reinsediamento e limitando le infra-strutture dei campi profughi – sembrò avere effetto sull’esodo degli abitanti delle pia-

Paese di Cambogiani Laotiani Vietnamiti Totale

reinsediamento 1975–95

Australia 16.308 10.239 110.996 137.543

Belgio 745 989 2.051 3.785

Canada 16.818 17.274 103.053 137.145

Danimarca 31 12 4.682 4.725

Finlandia 37 6 1.859 1.902

Francia 34.364 34.236 27.071 95.671

Germania. Rep. fed. di 874 1.706 16.848 19.428

Giappone 1.061 1.273 6.469 8.803

Norvegia 128 2 6.064 6.194

Nuova Zelanda 4.421 1.286 4.921 10.628

Paesi Bassi 465 33 7.565 8.063

Regno Unito 273 346 19.355 19.974

Stati Uniti * 150.240 248.147 424.590 822.977

Svezia 19 26 6.009 6.054

Svizzera 1.638 593 6.239 8.470

Altri 8.063 4.688 7.070 19.821

Totale 235.485 320.856 754.842 1.311.183

*Esclusi gli arrivi nel quadro del Programma di partenze organizzate.

Reinsediamento dei rifugiati indocinesi,secondo la destinazione, 1975–95

Fig. 4.4

L’esodo dall’Indocina

99

nure. Il reinsediamento dei laotiani calò da oltre 75mila nel 1980 a circa 9mila nel 1982.Nello stesso periodo, gli arrivi di rifugiati dalle pianure scesero da 29mila a 3.200.

Quando, nel 1983-1984, gli arrivi dei laotiani ripresero ad aumentare, laThailandia decise di sperimentare un’altra strategia. Il 1° luglio 1985, il governoannunciò l’istituzione di una procedura di selezione alla frontiera. I profughi in arri-vo dovevano presentarsi agli uffici del comitato di selezione, in una qualunque delle

I RIFUGIATI NEL MONDO

100

Mardelle

Andamane

Golfo di

Thailandia

MarCinese

meridionale

MALAYSIA

CAMBOGIA

THAILANDIA

MYANMAR

VIET NAM

REPUBBLICA POPOLARE CINESE

REPUBBLICADEMOCRATICA

POPOLAREDEL LAOS

HANOI

VIENTIANE

Ban Vinai Ban Na Pho

Khao-I-DangBANGKOK

PHNOM PENH

150 3000

Chilometri

Cambogiani

Laotiani degli altopiani

Laotiani delle pianure

Centri di selezione

Vietnamiti

Campi per i rifugiati indocinesi

Confine di stato

Capitale di stato

LEGGENDA

Campi assistiti dall’Unhcr per i rifugiati cambogiani, laotianie vietnamiti in Thailandia, negli anni ’80 e ’90 Cartina 4.2

L’esodo dall’Indocina

101

nove province frontaliere, per un colloquio con i funzionari dell’Immigrazione, alquale i responsabili della protezione dell’Unhcr avevano la facoltà di assistere comeosservatori. Quelli considerati rifugiati erano mandati a Ban Vinai, il campo per ihmong, oppure a Na Pho, quello destinato ai laotiani delle pianure. Per coloro la cuidomanda era respinta, l’Unhcr aveva la possibilità di fare ricorso, prima che fosserointernati in attesa del rimpatrio nel Laos.

Alla fine del 1986, l’Unhcr riferiva che il 66% dei circa 7mila laotiani intervistatierano stati riconosciuti come rifugiati. Sebbene superiori alle previsioni iniziali, le cifrerivelavano che quasi nessuno dei richiedenti apparteneva all’etnia hmong. Le notizieche giungevano dalla frontiera indicavano che, in realtà, nel corso dell’anno parecchiecentinaia di hmong erano stati rimandati indietro. All’inizio del 1988, la posizione delgoverno thailandese nei loro confronti si era in una certa misura ammorbidita, proba-bilmente per effetto dell’impegno degli Stati Uniti ad aumentare le possibilità di rein-sediamento per i hmong. Dal 1985 al 1989, i funzionari thailandesi intervistarono circa31mila laotiani, dei quali il 90% ricevette lo status di rifugiato.

Il Piano d’azione globale invitava i governi della Thailandia e del Laos, d’intesa conl’Unhcr, ad accelerare i negoziati volti “a garantire la sicurezza degli arrivi e l’accesso alprocesso di selezione dei laotiani; nonché ad accelerare e snellire le procedure sia per ilrimpatrio degli esclusi che per il rimpatrio volontario... in condizioni sicure, dignitosee controllate dall’Unhcr” 37. Alla fine del 1990, l’Unhcr e il ministero thailandesedell’Interno avevano elaborato nuove procedure, conformi a quelle applicate su scalaregionale ai richiedenti asilo vietnamiti.All’Unhcr era consentito assistere alle interviste,interrogare gli stessi richiedenti, e ricorrere contro le decisioni del comitato thailande-se responsabile dell’istruttoria delle domande. In totale, dall’ottobre 1989 alla fine del1996, furono intervistati circa 10mila laotiani, di cui il 49% ricevettero lo status di rifu-giato e il 45% furono respinti, con la rimanenza dei casi in sospeso o comunque chiu-si. Il calo della percentuale di riconoscimento era anche dovuto al fatto che, di norma, ifunzionari thailandesi dell’Immigrazione non consideravano più la presenza di familia-ri in un paese di reinsediamento come un motivo sufficiente per l’approvazione.

Alla fine del 1993, tutti i campi per i profughi laotiani erano stati chiusi, ad ecce-zione di Na Pho. Il compito principale dell’Unhcr, dal lato thailandese della frontiera,fu allora di persuadere gli esuli a rimpatriare e, dal lato laotiano, di aiutarli a reinse-rirsi dopo il rimpatrio. Sebbene si ponesse principalmente l’accento sul rimpatriovolontario, a metà del 1991 il governo laotiano e quello thailandese concordarono sulfatto che “le persone respinte nel processo di selezione saranno mandate indietrosenza ricorrere alla forza, in condizioni di sicurezza e dignità” 38.

Alla fine del 1995, i rimpatriati dalla Thailandia nel Laos erano poco più di24mila: di essi, oltre l’80% beneficiavano dello status di rifugiato in Thailandia e, dun-que, non erano obbligati a rimpatriare se non di loro spontanea volontà. Nel caso di4.400 rimpatriati (in maggioranza di etnia hmong), la domanda d’asilo era statarespinta. A partire dal 1980, si calcola che fra 12 e 20mila laotiani ritornarono spon-taneamente dai campi profughi thailandesi.

Tutti i rimpatriati ricevevano lo stesso “pacco assistenza” standard, che compren-deva un’indennità in contanti equivalente a 120 dollari e una provvista di riso per unanno e mezzo. Gli altri aiuti standard, forniti prima della partenza dalla Thailandia,

I RIFUGIATI NEL MONDO

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consistevano in attrezzi agricoli e di falegnameria, sementi per ortaggi e zanzariere.Oltre a ciò, ogni famiglia che rimpatriava in un insediamento rurale riceveva unappezzamento di terreno per la casa, uno–due ettari di terra coltivabile e materiali dacostruzione. La maggior parte degli insediamenti rurali finanziati dall’Unhcr erano,inoltre, dotati di rete idrica, strade e scuole elementari. Nel 1996, gli osservatori del-l’organizzazione riferivano che “nel Laos, i rimpatriati non corrono rischi per la loroincolumità fisica. In generale, i rimpatriati si preoccupano di rifarsi una vita e di nutri-re la famiglia” 39.

L’Indocina segna una svolta

In quasi un quarto di secolo di esodi all’interno e all’esterno della regione, oltre tremilioni di persone fuggirono dai paesi d’origine, di cui circa 2,5 milioni trovaronouna nuova patria altrove e mezzo milione rimpatriarono. Nel corso di tali esodi, siricavarono molti insegnamenti in merito ai soccorsi internazionali e alla soluzione deiproblemi di rifugiati. Dal lato positivo, si può segnalare, a livello mondiale, lo straor-dinario impegno dei paesi di reinsediamento, e il fatto che la Cambogia, il Laos e ilViet Nam finirono con l’accettare dei programmi di rimpatrio o di reinserimento. Sitrovarono, inoltre, soluzioni innovative con il Programma di partenze organizzate e lemisure contro la pirateria e per i salvataggi in mare. Prima della crisi, la maggioranzadei paesi della regione non aveva sottoscritto la Convenzione Onu del 1951 sui rifu-giati; in seguito, vi hanno aderito la Cambogia, la Cina, la Corea del sud, le Filippine,il Giappone e la Papuasia-Nuova Guinea.

Dal lato negativo, ci sono le innumerevoli persone annegate, o che persero la vitao comunque soffrirono a causa di attacchi di pirati, stupri, bombardamenti o respin-gimenti, o di lunghi internamenti in condizioni disumane. Troppo spesso, comeosservò nel 1989 l’Alto Commissario Jean-Pierre Hocké, la vigilanza non fu costantee la solidarietà internazionale vacillò o venne meno:

Siamo tutti dolorosamente consci del fatto che quanto è stato raggiunto in questo spirito disolidarietà internazionale ha richiesto una costante vigilanza e sforzi sempre rinnovati davantialle spaventevoli tragedie e alle miserie umane, meno visibili, che hanno accompagnato l’eso-do dei rifugiati indocinesi. In certe occasioni, la volontà politica di dare asilo e di trovare solu-zioni durature ha vacillato o è addirittura venuta meno, dando luogo al completo rifiuto del-l’asilo, con i tragici respingimenti di imbarcazioni di rifugiati, a restrizioni all’accesso dell’AltoCommissariato ai richiedenti asilo, o al prolungato internamento di persone che rientranonelle nostre competenze, in condizioni disagiate, al di sotto delle norme minime comune-mente accettate 40.

La conferenza sui rifugiati indocinesi del 1979 vide grandi esternazioni circa lepreoccupazioni della comunità internazionale e l’impegno alla protezione dei rifugia-ti, ma diede anche origine al concetto di “primo asilo”, in base al quale la promessadi protezione di un paese è ottenuta grazie all’offerta di reinsediamento di un altro.Come osservò un ex funzionario dell’Unhcr, i due concetti ereditati dall’esperienzaindocinese – la ripartizione internazionale dell’onere e l’asilo temporaneo – “si sono

L’esodo dall’Indocina

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rivelati un’eredità di dubbio valore, suscettibile di essere applicata sia con grande van-taggio per la causa umanitaria, sia come comodo pretesto per scaricare una responsa-bilità ed evitare il biasimo” 41.

È stato osservato che la conferenza del 1989, che avallò il Piano d’azione globale,rappresentò non solo un grosso cambiamento della politica seguita nei confronti deirichiedenti asilo vietnamiti, ma anche una svolta nella posizione occidentale sul feno-meno dei rifugiati. Come avrebbero chiaramente dimostrato le crisi degli anni ’90, ipaesi occidentali non erano più disposti ad assumere impegni a tempo indeterminatoper il reinsediamento come soluzione permanente.Anche in seno all’Unhcr, in un rap-porto di valutazione del 1994 si osservava che “il disincanto nei confronti del reinse-diamento”, provocato dall’esperienza indocinese, “ha inciso negativamente sulla capa-cità dell’Unhcr di svolgere efficacemente tale funzione” 42.

Nella prospettiva di un nuovo secolo, si può guardare indietro all’esperienzadell’Unhcr con i rifugiati indocinesi, rendendosi conto che il problema non era ilreinsediamento, che comunque da solo non costituiva la soluzione. L’eredità del pro-gramma per i rifugiati indocinesi sta nel fatto che la comunità internazionale el’Unhcr furono impegnati, per un periodo lungo e difficile, nella ricerca di un insie-me di soluzioni che alla fine diede alla crisi una conclusione relativamente dignitosa.


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