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Lavoro: risultati e proposte

Date post: 22-Jan-2018
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LAVORO: RISULTATI E PROPOSTE Articoli di Irene Tinagli, Pietro Ichino, Luca Ricolfi, Carlo Calenda e Marco Bentivogli e Tommaso Nannicini tratti dai siti http://www.pietroichino.it/ , http://www.irenetinagli.it/ http://www.lavoce.info/ http://www.ilsole24ore.com/ e https://www.democratica.com/ Raccolta a cura di Antonino Leone
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Page 1: Lavoro: risultati e proposte

LAVORO: RISULTATI E PROPOSTE

Articoli di Irene Tinagli, Pietro Ichino, Luca Ricolfi, Carlo Calenda e Marco

Bentivogli e Tommaso Nannicini tratti dai siti http://www.pietroichino.it/ ,

http://www.irenetinagli.it/ http://www.lavoce.info/

http://www.ilsole24ore.com/ e https://www.democratica.com/

Raccolta a cura di Antonino Leone

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OLTRE IL JOBS ACT: NUOVE MISURE PER IL

LAVORO

Articolo di Irene Tinagli pubblicato su L'Economia del Corriere della Sera 26 Giugno 2017.

TENIAMOCI IL JOBS ACT O SONO GUAI DI IRENE TINAGLI

Caro Direttore,

nel momento in cui il governo avanza nuove idee per sostenere l’occupazione è importante aprire un dibattito serio sugli strumenti da

mettere in campo. Per questo ho appezzato molto l’articolo di Dario Di Vico di lunedì scorso sulle ipotesi di possibili correttivi al Jobs Act.

Credo tuttavia che la prima cosa che tutti noi dovremmo fare sia evitare la tentazione di una riedizione degli sgravi del Jobs Act, una sorta di “Jobs Act 2.0”. Quelle misure erano e devono restare temporanee. Il loro

obiettivo era dare una scossa ad un mercato del lavoro in crisi da troppo tempo.

Ha ragione chi dice che era una misura anticiclica: la stessa che hanno fatto moltissimi altri Paesi durante la crisi, dalla Francia agli Stati Uniti - d’altronde sarebbe una follia spendere tutti quei soldi nei periodi in cui le imprese assumono a prescindere. Ma l’efficacia di quelle misure (e i risultat i

sull’occupazione sono oggettivamente positivi) è legata non poco proprio alla loro temporaneità, al fatto che le imprese hanno voluto prendere su un treno che pensavano unico. Se si inizia a lanciare il

messaggio che quel treno periodicamente ripasserà, è probabile che le imprese non reagiranno con la stessa solerzia.

Il secondo errore da evitare è attribuire al Jobs Act colpe che non ha, e cercare quindi di modificar lo

per affrontare problemi che non può risolvere alla radice. Mi riferisco in particolare ai giovani, che spesso faticano più di un cinquantenne a trovare lavoro, e ai contratti a tempo determinato che, al

diminuire degli sgravi per le assunzioni a tempo indeterminato, sono tornati a salire.

La difficoltà occupazionale dei giovani non è legata solo al costo del lavoro ma alle competenze, all’esperienza, alle imprese sempre meno disposte ad investire per formare giovani e orientate a

lavoratori subito operativi. Per questo il Jobs Act da solo non può bastare – anche se, va detto, la riduzione della disoccupazione giovanile dal 43% al 34% è un risultato notevole in così poco tempo.

Sarà però difficile poter migliorare ancora molto insistendo sugli sgravi o rendendoli più selettivi, così come sembra orientato fare il Governo (e in realtà come ha già fatto perché già esistono sgravi specifici per l’assunzione di giovani).

Gli studi internazionali concordano in larga parte sul fatto che sgravi troppo selettivi, vincolati a condizioni soggettive ed oggettive troppo rigide tendono ad essere inefficaci. Per poter ridurre

ulteriormente la disoccupazione giovanile occorre aspettare gli effetti di riforme come l’alternanza scuola lavoro, la diffusione delle competenze digitali, la nuova Agenzia per le politiche attive. E’ chiaro, ci vorrà tempo, ma un ragionamento serio richiede anche uno sguardo di medio-lungo periodo.

Sui contratti e tempo determinato, invece, le considerazioni sono altre. E’ vero, come sostiene il giuslavorista Tiraboschi, che i contratti temporanei di per sé non sono un problema, fluidificano il

mercato e dobbiamo concentrarci solo sulle transizioni. Ma l’esperienza e gli studi ci mostrano che

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possono creare problemi nei momenti di crisi. L’economista Pierre Cahuc, insieme a due colleghi spagnoli, ha analizzato i casi di Francia e Spagna. Prima della crisi avevano entrambe tassi di disoccupazione attorno all’8%. Con la crisi la Francia ha visto crescere la disoccupazione di 2 punti

(nel 2013 era al 10%), la Spagna invece di quasi venti punti (nel 2013 sfiora il 27%). Pur tenendo conto dei diversi sistemi-paese, gli economisti imputano questa differenza alla diversa normativa dei

contratti, e stimano che il 45% dell’incremento della disoccupazione spagnola si sarebbe potuto evitare se la Spagna avesse avuto la stessa normativa francese, che è più rigida sulla rescissione dei contratti temporanei. Da questo punto di vista l’ipotesi del governo di una riduzione strutturale del

costo dei contratti a tempo indeterminato per incentivarne l’uso potrebbe essere una scelta lungimirante, che forse non aumenterà l’occupazione nel breve periodo, ma potrà dare stabilità al

mercato del lavoro e competitività alle imprese. Così come sarebbe positiva l’introduzione di uno sgravio per le aziende che fanno formazione, avanzata da Marco Leonardi: renderebbe meno fragili i lavoratori, più qualificato il nostro mercato del lavoro e più produttive le imprese. Anche in questo

caso, però, difficilmente si potranno vedere effetti immediati. Ma d’altronde, superata l’emergenza, solo scelte ponderate e lungimiranti potranno consolidare la ripresa e darle un respiro più ampio.

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MERCATO DEL LAVORO: L’EREDITA’ DELLA CRISI E IL PESO DEL DEBITO

Sul versante del lavoro dal 2015 le cose sono andate un po’ meglio, ma peggio che

nella maggior parte della UE: perché noi non abbiamo ancora risolto il problema del

debito pubblico, né rimosso le grandi strozzature, tasse e burocrazia innanzitutto, che

impediscono al Pil di crescere a un ritmo sufficiente

. Articolo di Luca Ricolfi, sociologo, professore di Analisi delle politiche pubbliche nell’Università di

Torino, pubblicato sul Messaggero e sul sito della Fondazione David Hume il 25 novembre 2017 – In argomento v. anche la mia intervista del 17 ottobre, Mercato del lavoro: i risultati ottenuti e quel

che resta da fare – A questo articolo di Luca Ricolfi ne farà seguito nei giorni prossimi uno mio . . Come spesso succede nei divorzi fra coniugi, anche nell’imminente,

e a quanto pare ineluttabile, divorzio fra il Pd e le tre sigle della Sinistra Purosangue (Mdp, Si, Possibile), le ragioni vere, le ragioni

ultime della separazione, non si conoscono con certezza: antipatie personali? disaccordi sulla suddivisione dei seggi in Parlamento? dissensi politici sui programmi?

Una cosa però la sappiamo con sicurezza: le ragioni dichiarate, quelle che riempiono i telegiornali e le pagine dei quotidiani, vertono

essenzialmente sul mercato del lavoro. La Sinistra Purosangue attacca frontalmente le politiche occupazionali di questi anni, a partire dal Jobs Act; il Pd non solo non si sogna di rinnegare quelle

politiche, ma attribuisce ad esse il merito di aver creato un milione di posti di lavoro. Temo che nessuna di queste due posizioni regga a un’analisi fredda.

Tuttavia penso che vi sia un’asimmetria: il punto debole della Sinistra Purosangue sono le proposte, quasi tutte penalizzanti per le imprese e melanconicamente ispirate a un mondo che non c’è più; il

punto debole della sinistra riformista, invece, è la descrizione, il racconto di questi anni. Un racconto che, con il comprensibile obiettivo di difendere quel che si è fatto, rischia di non vedere né quel che realmente è accaduto, né quel che si sarebbe potuto fare, di più e di meglio.

Che cosa è accaduto, fra il 2014 e oggi? Sì, è vero, i posti di lavoro dipendente sono aumentati di circa 1 milione. Ma questo non prova che

ciò sia avvenuto grazie alle politiche del governo: senza un’analisi statistica accurata, che al momento manca (e probabilmente è inattuabile, con i dati di cui si dispone), si potrebbe altrettanto bene sostenere che il merito è della ripresa dell’economia europea, che a sua volta sarebbe merito della

Bce e del Quantitative Easing. Giusto qualche giorno fa Draghi è sembrato dire proprio questo, quando ha messo in relazione la politica monetaria e i 7 milioni di nuovi posti di lavoro creati

nell’Eurozona negli ultimi 4 anni. E se proprio volessimo farci un’idea, rozza e approssimativa, degli eventuali meriti delle politiche attuate in Italia, quel che dovremmo fare non è certo confrontare gli ultimi quattro anni (di lenta ripresa) con i precedenti quattro (di crisi profonda), ma semmai chiederci

come è andata nel resto d’Europa. Ebbene, se lo facciamo (grafico 1), il risultato è desolante: fra il 2013 e il 2016 gli occupati sono cresciuti del 2.2% in Italia, ma del 3.8% (quasi il doppio) in Europa.

A fronte del +2.2% dell’Italia, la Francia ha fatto +2.7, la Germania +3.9%, il Regno Unito +5.2, la Spagna: +6.9. Solo 8 paesi (fra cui Grecia e Cipro) hanno fatto peggio di noi, mentre ben 24 su 33 hanno fatto meglio.

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Grafico 1

Fonte Eurostat

Se poi andiamo a vedere la composizione di questi nuovi posti di lavoro, il quadro si fa ancora più allarmante. Il tasso di occupazione precaria era all’11% a metà degli anni ’90, è cresciuto di un paio

di punti nel ventennio successivo, ma poi, in soli tre anni, fra il 2014 e il 2017, ha fatto un ulteriore balzo di altri 2 punti: oggi è al massimo storico, oltre la soglia del 15% (grafico 2). E questo record si mantiene anche se teniamo conto della riduzione del numero delle collaborazioni, ossia del tipo di

contratti che il Jobs Act e la decontribuzione si preoccupavano di disincentivare.

Grafico 2

Fonte Istat

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Questo dato sembra contrastare con le cifre che vengono spesso presentate a difesa delle politiche di questi anni, cifre da cui risulta che l’incremento di posti di lavoro è equidistribuito: mezzo milione di posti di lavoro permanenti (stabili), mezzo milione di posti di lavoro temporanei (precari). Ma è una

trappola statistica, e non è un buon argomento a favore delle politiche che si vogliono difendere. La realtà è che il tasso di occupazione precaria in Italia, anche dopo i record negativi macinati nel triennio

2015-2016-2017, resta relativamente contenuto: il 15% è più o meno la media europea, un dato analogo a quello della Germania, e migliore di quelli di Francia e Spagna (grafico 3). Ma un paese che ha “solo” il 15% di lavoratori a termine, se vuole evitare che il tasso di precarietà salga, è costretto

ad assumere a tempo indeterminato almeno l’85% dei nuovi dipendenti. Se ne assume a tempo indeterminato solo il 50%, inevitabilmente registrerà un aumento del tasso di occupazione precaria.

Ecco perché hanno ragione sia quanti si rallegrano che metà dei nuovi posti di lavoro siano stabili, sia quanti deplorano che il tasso di precarietà sia in continua ascesa.

Grafico 3

Fonte Eurostat

Parlando di record negativi, ce n’è purtroppo anche un altro che abbiamo conquistato in questi anni: nel 2016 l’Italia è diventata il paese con il tasso occupazione giovanile più basso d’Europa (grafico

4). E’ vero che è da molti anni che siamo agli ultimi posti, ma non era mai successo che fossimo il

fanalino di coda.

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Grafico 4

Fonte Eurostat

Quanto al tasso di occupazione complessivo, nonostante i progressi degli ultimi anni, siamo ancora al di sotto dei livelli pre-crisi, ma anche qui è importante distinguere: il tasso di occupazione degli

italiani è ancora sotto di un punto, quello degli stranieri di quasi 10. E questo non perché gli stranier i abbiano conquistato più posti degli italiani, ma per la ragione opposta: nel decennio della crisi gli

italiani hanno perso più di 1 milione di posti di lavoro, gli stranieri ne hanno conquistati quasi 800 mila, ma il loro tasso di occupazione è crollato lo stesso perché l’afflusso di stranieri è stato eccessivo rispetto alle capacità di assorbimento del mercato del lavoro (grafico 5).

Grafico 5

Fonte ISTAT

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Qual’ è il bilancio, dunque? Se proviamo a sgombrare il campo dalle controversie ideologiche mi pare piuttosto semplice. In

questi ultimi quattro anni, sul versante del lavoro, le cose sono andate meglio di prima, ma peggio che nella maggior parte degli altri paesi europei. Ed è normale che sia così, perché noi non abbiamo

ancora risolto il problema del debito pubblico (che anzi si è un po’ aggravato), né rimosso le grandi strozzature, tasse e burocrazia innanzitutto, che impediscono al Pil di crescere a un ritmo sufficiente. Possiamo fare tutte le leggi che vogliamo per regolare o deregolare il mercato del lavoro, ma il

problema di fondo resta sempre quello: se il Pil non cresce almeno a un ritmo del 2-3% l’anno, è impossibile garantire sia un flusso cospicuo di nuovi posti di lavoro, unico modo sano di dare un po’

di ossigeno alle famiglie, sia un aumento della produttività, unico modo per essere competitivi sui mercati internazionali. Anche il problema del tasso di precarietà dipende in modo cruciale dalla dinamica del Pil: finché il Pil ristagna, o cresce poco, è normale che le imprese temano che la domanda

che oggi c’è domani non ci sia più, e si cautelino con i contratti a termine. Pensare che il trend si possa invertire aumentando i vincoli e i costi delle imprese è semplicemente ingenuo.

Questo, mettere le imprese in grado di creare posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, è il nodo vero. Ma è un nodo che, in quanto passa per una significativa riduzione del debito pubblico, nessuna forza politica è in grado di affrontare sul serio.

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LAVORO: COSA E’ IMPUTABILE AL JOBS ACT E

COSA NO

Non c’è stato aumento dei licenziamenti – L’aumento dell’occupazione è un effetto

soltanto indiretto, dovuto alla crescita – Alle riforme del 2012 e 2015 è invece

imputabile il drastico calo del contenzioso giudiziale in materia di cessazione dei

rapporti di lavoro

Articolo di Pietro Ichino pubblicato sul sito della Fondazione David Hume il 26 novembre 2017, a seguito della pubblicazione, sullo stesso sito e sul quotidiano il Messaggero, dell’articolo di Luca

Ricolfi, Mercato del lavoro: l’eredità della crisi.

L’ultimo articolo di Luca Ricolfi sugli effetti della riforma del

lavoro del 2015 costituisce un contributo prezioso, su di un tema spinoso, all’innalzamento del livello di un dibattito fin qui

pesantemente inquinato sia dalla faziosità, sia da un uso dei dati statistici, da tutte le parti in contesa, per il quale l’aggett ivo “grossolano” è un eufemismo. In questo dibattito in un paio di

occasioni ho commesso anch’io, involontariamente, un errore nella lettura del dato statistico sul numero dei nuovi rapporti di lavoro

stabili e di quelli a termine, creati nell’ultimo triennio: è vero che i primi sono più numerosi dei secondi, ma ha ragione Luca Ricolfi quando osserva che essi sono in percentuale inferiore rispetto allo

stock che si registrava all’inizio del triennio, determinandosi così una sua sia pur modesta riduzione.

Il terzo dei cinque grafici che corredano l’articolo di Luca Ricolfi.

Detto questo, propongo di arricchire il quadro statistico fornito e illustrato da Luca Ricolfi con due dati ulteriori, che mi paiono importanti per una valutazione degli effetti della riforma: due dati

entrambi sorprendenti, resi ancor più sorprendenti se considerati congiuntamente. Il primo è quello che vede una sostanziale invarianza, negli ultimi anni, del numero dei licenziamenti in rapporto al

numero dei contratti di lavoro a tempo indeterminato in essere, siano essi costituiti prima dell’entra ta

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in vigore della riforma del 2015, o dopo: un dato che obbliga a una riflessione approfondita sul peso relativo che hanno la legge da un lato, dall’altro la cultura diffusa e le relazioni sindacali, nel determinare i comportamenti degli imprenditori e in particolare la loro propensione all’esercizio della

facoltà di recedere dal rapporto con i dipendenti. Parrebbe che una riduzione incisiva del vincolo al recesso produca, almeno nel breve periodo, un mutamento del comportamento degli imprenditor i

molto meno rilevante di quanto ci si sarebbe atteso. Resta da chiedersi se e quanto su questo mancato effetto della riforma pesi la volatilità del dato legislativo e in particolare il rischio di una controriforma a seguito delle prossime elezioni politiche, oppure a opera della Corte costituzionale; e se un

mutamento più rilevante debba attendersi nel medio periodo, se la riforma supererà indenne ques ti due scogli.

Il secondo dato sorprendente, apparentemente contraddittorio rispetto al primo, è quello che dà conto della drastica riduzione del contenzioso giudiziale registratasi fra il 2012 – anno nel quale è entrata

in vigore una prima parte della riforma dei licenziamenti e dei contratti a termine – e la metà del 2017. I dati forniti dal ministero della Giustizia consentono di quantificare questa riduzione intorno ai due

terzi. Gli stessi dati dicono, per converso, che questa riduzione si sta verificando soltanto nel settore del lavoro privato: in quello del pubblico impiego, dove né la riforma del 2012 né quella del 2015 hanno avuto applicazione, il flusso dei nuovi procedimenti iscritti a ruolo resta sostanzialmente

invariato. Il che autorizza a ipotizzare, in attesa di verifiche rigorose, che siano proprio quelle due riforme la causa del fenomeno osservato.

La riduzione del tasso di contenzioso giudiziale costituisce un fatto di grande rilievo, non solo per l’amministrazione della Giustizia, ma anche e soprattutto per il sistema delle relazioni industriali; e indirettamente anche per l’efficienza del sistema economico nel suo complesso. Il tasso di

contenzioso giudiziale italiano in materia di lavoro costituiva un’anomalia negativa, nel panorama europeo: solo in Italia la regola era che ogni licenziamento fosse accompagnato da un ricorso al

giudice del lavoro e che dunque il severance cost per entrambe le parti fosse normalmente appesantito

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dalle spese legali e dall’alea di un giudizio sulla quale pesa sempre molto l’orientamento personale del magistrato. Solo in Italia avvocati e giudici erano di fatto protagonisti di primaria importanza del sistema delle relazioni industriali.

Il fatto che quell’anomalia stia avviandosi a essere superata, in parallelo con l’allineamento del nostro diritto del lavoro rispetto allo standard prevalente nei grandi Paesi occidentali, costituisce un

progresso non disprezzabile nella direzione di una maggiore attrattività dell’Italia per gli investitor i stranieri. Che è la precondizione, insieme alla riduzione del debito pubblico e dunque della pressione fiscale, per quella crescita economica senza la quale non può crescere né il potere contrattuale né il

benessere dei lavoratori. Quanto al fatto che il superamento di quell’anomalia non si accompagni a un aumento della frequenza

dei licenziamenti, esso ci autorizza forse a ritenere che l’unica categoria in qualche misura danneggiata dalla riforma dei licenziamenti del 2012-2015 sia quella degli avvocati giuslavorist i. Esso dovrebbe comunque convincere anche chi ha a cuore sopra ogni altra cosa la sicurezza e il

benessere dei lavoratori dipendenti regolari dell’opportunità che la riforma del lavoro non venga manomessa prima che si siano potuti verificare in modo rigoroso e valutare pragmaticamente i suoi

effetti.

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IL PRESENTE E IL FUTURO PROSSIMO DELLA

RIFORMA DEL LAVORO

Articolo di Pietro Ichino pubblicato su il Foglio, 8 gennaio 2018

Tra le grandi difficoltà che incontrano i riformatori seri non ci sono soltanto le resistenze preventive dei conservatori, ma anche e soprattutto la pretesa di quasi tutti – i contrari come i favorevoli – che

gli effetti della riforma si vedano istantaneamente o in tempi brevissimi. Questo non si dà quasi mai: né nel caso della riforma attuata per mezzo di nuove norme legislative, né, tanto meno, nel caso della riforma organizzativa, che incide direttamente sulla capacità di un’amministrazione di implementa re

nuovi schemi.

La fretta di vedere i risultati contagia tutti. Oggi, in particolare, noi che due anni fa abbiamo

progettato, approvato e sostenuto con la maggiore convinzione la riforma del lavoro dobbiamo resistere alla tentazione di usare i dati forniti dall’Istat sull’aumento dell’occupazione registratosi da allora, pur molto rilevante, come dimostrazione della bontà di quella legge. Può servire per uscire

bene da un talk show, ma è un argomento privo di consistenza: nessuno può dire seriamente se e quale aumento dell’occupazione si sarebbe verificato in Italia, come effetto della incipiente crescita

economica, se la riforma non fosse stata fatta. Viceversa, sul fronte delle politiche attive del lavoro – quelle che dovrebbero sostenere sul piano economico e dell’assistenza il passaggio dal vecchio lavoro al nuovo, la riqualificazione professionale mirata agli sbocchi occupazionali concretamente possibili

– dobbiamo riconoscere onestamente che il livello dell’implementazione della riforma è ancora molto modesto, per un difetto di riorganizzazione effettiva dell’apparato ministeriale.

Una cosa possiamo, invece, e dobbiamo affermare con forza e saper spiegare all’opinione pubblica : questa riforma, insieme a quella delle pensioni del 2012, e insieme al rispetto da parte nostra degli impegni presi nei confronti dei nostri Partner europei in materia di bilancio statale, costituisce un

presupposto indispensabile senza il quale

1. non sarebbe stata neppure pensabile la politica monetaria espansiva della BCE, che costituisce uno dei fattori più rilevanti della nostra crescita attuale;

2. non sarebbe neppure pensabile oggi l’avvio di un programma di grandi investimenti dell’UE finanziati mediante l’emissione dei project bonds, che può costituire il primo atto di una politica economico-industriale espansiva promossa e gestita al livello continentale;

3. il nostro Paese non potrebbe aspirare credibilmente ad attuare il trasferimento spontaneo e graduale di forza-lavoro dalle imprese marginali, o comunque a bassa produttività, alle

imprese più tecnologicamente avanzate e più capaci di valorizzare il lavoro degli italiani:

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trasferimento senza il quale è difficile ottenere quel significativo aumento della produttività del lavoro del quale il nostro sistema ha disperato bisogno;

4. il nostro Paese non potrebbe aspirare a tornare attrattivo per gli investimenti diretti esteri,

allineandosi per questo aspetto alla media UE: obiettivo che, se raggiunto, può portare con sé un aumento di oltre 50 miliardi (tre punti percentuali e mezzo rispetto al nostro PIL) del flusso

annuo di investimenti stranieri in ingresso.

Certo, l’attrattività dell’Italia per gli operatori economici internazionali dipende anche da un suo allineamento rispetto ai maggiori partner europei per quel che riguarda la pressione fiscale su imprese e lavoro, il costo dell’energia, l’efficienza delle amministrazioni pubbliche e in particolare di quella

giudiziaria: tutti campi, pure questi, nei quali negli ultimi anni si sono fatti dei passi avanti rilevanti. Ma insieme a questi anche l’allineamento del nostro diritto del lavoro rispetto ai migliori standard

europei, compiuto con la riforma del 2015, costituisce un passo avanti di primaria importanza nella direzione necessaria. Ed è indispensabile che le nuove norme varate non si rivelino volatili, quindi inaffidabili: hanno un effetto negativo sul piano economico, da questo punto di vista, sia i preannunc i

di contro-riforma contenuti nei programmi elettorali di diversi partiti oggi all’opposizione, sia i tentativi di contro-riforma per via giudiziaria e in particolare per mezzo di ricorso alla Corte

costituzionale.

L’inserto dedicato al lavoro del quotidiano “Libero” del 24 novembre 2017 Detto questo in linea generale, ci sono poi due dati statistici che possono, senza alcuna forzatura,

essere considerati molto significativi riguardo all’impatto immediato delle riforme del lavoro attuate progressivamente tra il 2012 e il 2015: due dati entrambi sorprendenti se considerati isolatamente,

ma resi ancor più sorprendenti se considerati congiuntamente. Il primo è quello che vede una sostanziale invarianza, negli ultimi anni, del numero dei licenziamenti in rapporto al numero dei contratti di lavoro a tempo indeterminato in essere, siano essi costituiti prima dell’entrata in vigore

della riforma del 2015, o dopo. Un dato, questo, che per un verso smentisce nel modo più netto la tesi secondo cui la riforma avrebbe “precarizzato” i rapporti di lavoro nel nostro Paese; per altro verso,

obbliga a una riflessione approfondita sul peso relativo che hanno la legge da un lato, dall’altro la cultura diffusa e le relazioni sindacali, nel determinare i comportamenti degli imprenditori e in particolare la loro propensione all’esercizio della facoltà di recedere dal rapporto con i dipendenti.

Parrebbe che una riduzione incisiva del vincolo al recesso produca, almeno nel breve periodo, una fluidificazione del tessuto produttivo e del mercato del lavoro meno rilevante di quanto ci si sarebbe

atteso. Il secondo dato sorprendente, solo apparentemente contraddittorio rispetto al primo, è quello che dà conto della drastica riduzione del contenzioso giudiziale registratasi fra il 2012 – anno nel quale è

entrata in vigore una prima parte della riforma dei licenziamenti e dei contratti a termine – e la metà del 2017. I dati forniti dal ministero della Giustizia consentono di quantificare questa riduzione

intorno ai due terzi. Gli stessi dati dicono, per converso, che questa riduzione si sta verificando soltanto nel settore del lavoro privato: in quello del pubblico impiego, dove né la riforma del 2012 né quella del 2015 hanno avuto applicazione, il flusso dei nuovi procedimenti iscritti a ruolo resta

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sostanzialmente invariato. Il che autorizza a ipotizzare, in attesa di verifiche più rigorose, che siano proprio quelle due riforme la causa del fenomeno osservato. Questa riduzione drastica del tasso di contenzioso giudiziale costituisce un fatto positivo di grande

rilievo, non solo per l’amministrazione della Giustizia, ma anche e soprattutto per il sistema delle relazioni industriali; e indirettamente anche per l’efficienza del sistema economico nel suo complesso.

Il tasso di contenzioso giudiziale italiano in materia di lavoro costituiva un’anomalia negativa, nel panorama europeo: solo in Italia la regola era che ogni licenziamento fosse accompagnato da un ricorso al giudice del lavoro e che dunque il severance cost per entrambe le parti fosse normalmente

appesantito dalle spese legali e dall’alea di un giudizio sulla quale pesa sempre molto l’imprevedibilità dell’orientamento personale del magistrato cui il procedimento sarà affidato. Solo

in Italia avvocati e giudici erano di fatto protagonisti di primaria importanza del sistema delle relazioni industriali. Il fatto che quell’anomalia stia avviandosi a essere superata, in parallelo con l’allineamento del nostro

diritto del lavoro rispetto allo standard prevalente nei grandi Paesi occidentali, costituisce un progresso importante nella direzione di una maggiore attrattività dell’Italia per gli investitori stranier i.

Che è la precondizione, insieme alla riduzione del debito pubblico e dunque della pressione fiscale, per quella crescita economica senza la quale non può crescere né il potere contrattuale né il benessere dei lavoratori.

GIOVANI E OCCUPAZIONE: QUALI SOLUZIONI?

Articolo di Irene Tinagli pubblicato su La Stampa del 11/01/2018

Caro direttore,

gli ultimi dati sull'occupazione hanno riportato l'attenzione sulla questione dei giovani: se infatti da un lato si registra un continuo calo dei tassi di disoccupazione giovanile (scesa di 7,2 punti solo nell'ultimo anno), dall'altro è stato osservato che resta uno dei tassi più alti d'Europa e che molti dei

nuovi contratti sono, comunque, a tempo determinato. Essendo già in campagna elettorale, alcuni hanno colto l'occasione per incolpare le riforme degli ultimi anni. Chi promette abolizioni, chi

correzioni, chi approfitta per chiedere nuovi sgravi o bonus. La verità è che la questione del lavoro dei giovani è vecchia di decenni. Come nota Paolo Baroni alla fine del suo articolo di mercoledì scorso il rapporto tra tasso di disoccupazione giovanile e degli adulti

che abbiamo oggi è più o meno lo stesso che avevamo nel 1977: tre volte tanto. E' evidente che il

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problema affonda le radici in nostre debolezze storiche: un'istruzione distante dal mondo del lavoro; un sistema imprenditoriale ancorato a modelli produttivi poco innovativi e incapace di assorbire nuove competenze (per questo abbiamo la particolarità di uno "skills mismatch" in cui i giovani

risultano più sovraqualificati che sottoqualificati) ed infine un sistema di servizi per l'imp iego incapace di agevolare l'incontro tra domanda e offerta di lavoro e men che meno le attività di

orientamento e formazione. C'è quindi bisogno di una risposta strutturale, che riformi in profondità queste dimensioni. Al di là delle polemiche elettorali, i governi di quest'ultima legislatura hanno iniziato a muoversi nella

direzione giusta, intervenendo su due assi: la riforma della scuola, con la revisione dei piani formativi e l'introduzione dell'alternanza scuola-lavoro, ed uno stimolo forte alle imprese attraverso il piano

Industria 4.0 (che dovrebbe innalzare la domanda di nuove competenze) ed il Jobs Act, che ha dato certezze ed incentivi alle imprese. I primi risultati, come mostrano i dati, iniziano a vedersi. Adesso occorre consolidare questo miglioramento proseguendo le riforme e affrontando le due dimensioni

rimaste a metà del guado: la formazione professionale ed i servizi per l'impiego. Ogni anno in Italia vengono spesi miliardi di euro in migliaia di programmi di formazione della cui

effettiva efficacia non abbiamo alcun riscontro, e nei quali viene privilegiata la logica dell'aula piena piuttosto che dei risultati occupazionali. Riformare questo sistema, legare fondi e programmi al raggiungimento di veri risultati dovrebbe essere una priorità del nostro Paese di cui invece non parla

più quasi nessuno. Per quanto riguarda i servizi per l'impiego, sappiamo che l'Italia ha un sistema eterogeneo ed

inadeguato (i dipendenti sono pochi e, secondo il monitoraggio ISFOL/INAPP, solo il 27% ha istruzione universitaria) eppure servirebbero anche a far funzionare meglio altre riforme: l'alternanza scuola-lavoro e l'orientamento funzionerebbero meglio se ci fossero strutture che supportassero le

scuole e le imprese nel processo di profilazione, orientamento, incontro tra domanda e offerta. Invece molte scuole si sono ritrovate sole, senza l'esperienza e le competenze adeguate a svolgere queste

nuove funzioni. Dovremmo non solo potenziare ma riorientare parte dei nostri servizi per l'impiego interamente sulla priorità giovanile. Come? Prendendo esempio dalla Germania, dove nel 2010 sono nate nelle

principali città le Agenzie Professionali per i Giovani. Come spiega in modo accurato un documento appena pubblicato dai giovani economisti del think tank Tortuga (tortugaecon.eu), non si tratta di

nuove strutture create da zero, ma di una riorganizzazione che ha consentito di concentrare in uffic i e sportelli dedicati ai giovani tutta una serie di attività che partono dall'orientamento già alle scuole medie, e includono formazione, supporto sociale, psicologico, consentendo di seguire un giovane in

tutto il suo percorso, per non lasciarlo mai solo. Di questo hanno bisogno i giovani di oggi: di non essere lasciati soli. Di avere supporto per orientarsi, fare le proprie scelte, investire nelle proprie

competenze e nel proprio futuro. L'Italia, con la riforma delle politiche attive del Jobs Act, ha creato le premesse per una riforma in tal senso, ma l'ha lasciata a metà. Potrebbe completarla, riorientandone una parte ai giovani, come in

Germania. Non si tratterebbe di inventarsi nulla di nuovo, ma di potenziare strutture esistent i, riorganizzandone funzioni e obiettivi, introducendo criteri di valutazione basati su risultati misurab ili.

Certo, con l'attuale assetto costituzionale un tale piano richiede l'adesione delle Regioni, ma proprio su questo dovrebbe concentrarsi la politica oggi: chiamare a responsabilità tutti i livelli istituziona li e proporre un "patto per i giovani" che fissi un percorso condiviso con obiettivi da realizzare nella

prossima legislatura. Purtroppo questo avvio di campagna elettorale appare sbilanciato su altri fronti: pensioni, dentiere,

cani da compagnia, e così via. Non è difficile capirne il perché. I giovani tra i venti e i trenta anni sono poco più di sei milioni, gli italiani sopra i sessanta anni sono quasi tre volte tanto. Eppure qua non è in gioco solo un risultato elettorale, ma la capacità di un Paese di rimettersi in moto in modo

duraturo ed inclusivo, senza lasciare indietro nessuno.

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Un Piano industriale per l’Italia delle competenze

Articolo di Carlo Calenda e Marco Bentivogli pubblicato su Il Sole 24 Ore 12 gennaio 2018

La fine degli stimoli della Bce, l’evoluzione, certo non orientata a maggior flessibilità, dell’Eurozona e la restrizione dei parametri di valutazione sugli Npl,

renderanno il 2018 un anno potenzialmente critico per la tenuta finanziaria del Paese. L’unica strada

percorribile è quella di continuare a muoversi lungo il “sentiero stretto” percorso in questa legisla tura ovvero riduzione del deficit, aumento di Pil e

inflazione. Per il 2019 il Documento di economia e finanza prevede un rapporto deficit/Pil allo 0,9%.

Eventuali margini di flessibilità si potranno negoziare solo a fronte di un convincente “Piano industriale per il Paese” focalizzato su crescita e investimenti. A tutto ciò si aggiunge la sfida di una rapidissima innovazione tecnologica che mette in discussione modelli produttivi e organizzazione del

lavoro. Se l’Italia non saprà essere all’altezza andremo incontro a un secondo shock sistemico come quello vissuto nella prima fase della globalizzazione. Riteniamo che l’avvio della campagna elettorale

mostri una diffusa mancanza di consapevolezza rispetto a questa situazione. La parola d’ordine sembra essere “abolire”, scaricando i costi sulla “fiscalità generale” e alimentando l’equivoco che essa sia altro rispetto ai soldi dei cittadini. Questo equivoco è alla base di decenni di irresponsabil ità

finanziaria che hanno portato l’Italia vicino al default nel 2011. Noi pensiamo invece che la parola d’ordine debba essere “costruire” un futuro fondato su tre pilastri: Competenze, Impresa, Lavoro.

1 | Competenze e Impresa: la situazione del Paese

Competenze La rivoluzione digitale crea e distrugge occupazione e non è possibile prevedere con certezza quale

sarà il saldo netto. Le dieci professioni oggi più richieste dal mercato non esistevano fino a 10 anni fa e il 65% dei bambini che ha iniziato le scuole elementari nel 2016 affronterà un lavoro di cui oggi

non conosciamo le caratteristiche. Nella grande riallocazione internazionale del lavoro, l’occupazione crescerà nei Paesi che hanno investito sulle competenze digitali e si ridurrà in quelli che non le hanno acquisite in maniera adeguata ad affrontare la trasformazione del tessuto produttivo. In Italia ci sono

profondi gap da colmare: solo il 29% della forza lavoro possiede elevate competenze digitali, contro una media Ue del 37%. Un divario che rischia di aumentare ulteriormente considerando la bassa

partecipazione di lavoratori a corsi di formazione (8,3%) rispetto alla media Ue di 10,8% e a benchmark quali Francia 18,8% e Svezia 29,6%. Il lavoro nell’impresa 4.0 dovrà superare il paradosso italiano per cui i giovani finiscono troppo presto

di studiare, iniziano troppo tardi a lavorare e quando trovano un lavoro, interrompono completamente i loro rapporti con la formazione. A questo fine, proponiamo il riconoscimento del diritto soggettivo

del lavoratore alla formazione in tutti i rapporti di lavoro e la sua definizione come specifico contenuto contrattuale. Impresa

Dopo gli anni della grande crisi 2007-2014, gli investimenti industriali e l’export sono finalmente ripartiti. Nel 2017 la crescita dell’export si è attestata intorno al 7%, quella degli investimenti

industriali, incentivati dal Piano Impresa 4.0, intorno all’11%. Una dinamica migliore di quanto registrato in Germania rispetto alla quale, però, i nostri investimenti industriali sono circa la metà in termini assoluti e il rapporto tra esportazioni e Pil resta inferiore di circa 20 punti. Un divario che

dipende da alcune fragilità peculiari del nostro tessuto produttivo: 1) il numero limitato delle imprese pienamente integrate nelle catene globali del valore (20% circa del totale); 2) le differenze di

performance territoriali e tra classi d’impresa; 3) condizioni di contesto - costo dell’energia, concorrenza, connettività - ancora spesso meno favorevoli rispetto ai competitor internazionali; 4) un

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mercato del lavoro ancora troppo centralizzato con modalità di determinazione delle condizioni salariali lontane dal contesto competitivo delle singole imprese. Quello che proponiamo è una politica industriale e del lavoro non retorica, fortemente focalizzata su

queste fragilità e in grado di produrre avanzamenti misurabili su ciascuno di questi temi. La base di partenza non può che essere quella delle politiche realizzate dagli ultimi due governi che hanno

contribuito a determinare una dinamica positiva di occupazione, reddito, esportazioni e di saldi di finanza pubblica. Oggi, al termine della legislatura, questi risultati non appartengono più a questo o a quel governo, ma sono piuttosto un patrimonio comune di regole, leggi, provvedimenti che

delineano un sentiero virtuoso di crescita e di nuove opportunità per gli investimenti.

2 | Priorità e azioni

Impresa 4.0 Il Piano nazionale Impresa 4.0 ha riportato la politica industriale al centro dell’agenda del Paese dopo vent’anni con una dotazione di risorse adeguate: circa 20 miliardi di euro nella legge di bilancio 2017

cui si aggiungono 10 miliardi di euro dell’ultima legge di bilancio. L’efficacia del piano è testimonia ta dalla ripresa degli investimenti delle imprese - che durante gli anni della crisi hanno subito una

riduzione di circa il 25% - e dalla crescita degli ordinativi interni nel corso del 2017. Pur confermando l’impostazione generale del Piano, per gli anni a venire occorrerà procedere lungo due direzioni. Da un lato occorrerà rifinanziare per il 2019 il Fondo Centrale di Garanzia per 2 miliard i

di euro, in modo da garantire circa 50 miliardi di crediti finalizzati agli investimenti delle Pmi. Dall’altro occorrerà sostenere l’investimento privato per l’acquisizione e lo sviluppo di competenze

4.0. In concreto: dovranno essere stanziati 400 milioni di euro aggiuntivi all’anno da destinare agli Istituti Tecnici Superiori con l’obiettivo di raggiungere almeno 100mila studenti iscritti entro il 2020 (in Italia attualmente gli studenti degli Its sono circa 9000 contro i quasi 800mila della Germania); i

Competence Center dovranno essere rafforzati al fine di costruire una vera rete nazionale, per lo sviluppo e il trasferimento di competenze digitali e ad alta specializzazione (sul modello del tedesco

Fraunhofer e dell’inglese Catapult); dovrà essere reso strutturale lo strumento del credito di imposta alla formazione 4.0, previsto attualmente in forma sperimentale. Lavoro 4.0

L’impresa 4.0 ha bisogno, oltre alle tecnologie e alle competenze, di nuovi modelli di organizzazione del lavoro, che vanno quindi incentivati come ulteriore tassello del Piano.

Dal punto di vista contrattuale occorre rispondere ad una produzione che sarà sempre più “sartoria le” e quindi il Contratto nazionale ha senso non solo se ne riduce drasticamente il numero delle tipologie - che negli ultimi anni è esploso - ma anche e soprattutto se il suo ruolo resta quello di “cornice di

garanzia” finalizzata ad assicurare il più possibile una dimensione di prossimità all’impresa. Va incoraggiato un vero decentramento contrattuale, utile anche ai programmi condivisi di

miglioramento della produttività, a livello territoriale, di sito e di rete. Questo processo, unitamente ai nuovi contenuti della contrattazione (welfare, formazione, orari, flessibilità attive) possono rappresentare il nuovo “patto per la fabbrica” in grado di centrare la sfida della produttività e

dell’innovazione a partire dalle Pmi per le quali la contrattazione territoriale può diventare una risorsa fondamentale. Permane in alcuni settori il rischio che i nuovi modelli organizzativi comportino una

riduzione del valore del lavoro che va contrastato con la capacità di costruire nuove tutele e diritt i sociali ma, soprattutto, con un salario minimo legale, per i settori non coperti da contrattazione collettiva.

Energia La Strategia Energetica Nazionale definisce la strada per affrontare le grandi questioni della riduzione

del gap di prezzo e di costo dell’energia; della sostenibilità degli obiettivi ambientali; della sicurezza di approvvigionamento e della flessibilità delle infrastrutture energetiche, rafforzando l’indipendenza energetica dell’Italia.

Al 2030, la Sen prevede azioni per 175 miliardi di investimenti, di cui oltre l’80% in energie rinnovabili ed efficienza, che devono dar vita a una nuova specializzazione industriale dell’Italia. Sul

versante della competitività, il varo della normativa sulle imprese energivore a partire dal 1° gennaio

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di quest’anno ha risolto il problema dello svantaggio sul prezzo dell’energia elettrica per circa 3mila aziende. Analoga norma andrà adesso rapidamente attuata per le aziende gasivore, insieme al corridoio di liquidità per allineare il costo del gas a quello del Nord Europa.

L’abbandono del carbone nel 2025 nella produzione elettrica necessita, oltre che degli investimenti in reti e rinnovabili, anche di un deciso coordinamento operativo e di un focus forte sul rafforzamento

e sulla diversificazione delle aree di approvvigionamento del gas. Concorrenza Negli ultimi anni l’Italia ha fatto passi avanti, ma molto ancora resta da fare. La faticosa esperienza

della prima legge “annuale” per la concorrenza il cui iter parlamentare è durato quasi tre anni mostra chiaramente quanto la concorrenza sia ancora guardata con sospetto.

Occorre, da un lato fare della manutenzione pro-concorrenziale dell’ordinamento un’operazione sistematica e veramente annuale, dall’altro, focalizzare meglio gli interventi con iniziat ive “settoriali”. Nella prossima legislatura sono almeno due i capitoli su cui è necessario concentrarsi. Il

primo è quello dei servizi pubblici locali ancora spesso poco efficienti mentre il secondo è quello delle concessioni: da quelle balneari alle autostrade. Anche qui è necessario disciplinare le modalità

di affidamento competitivo evitando ulteriori proroghe e le caratteristiche della concessione (modalità di determinazione dei ricavi e durata) oltre ad assoggettarne i contenuti alla massima trasparenza, pur riconoscendo la possibilità di introdurre correttivi sociali e cautele a difesa dell’occupazione e degli

operatori più piccoli. Banda Larga

Come per le reti di trasporto di persone e merci e le reti energetiche e idriche, una rete di telecomunicazioni moderna ed efficiente rappresenta un fattore chiave di competitività per il sistema Paese ma anche un servizio essenziale.

Su questo fronte la situazione italiana attuale presenta un preoccupante ritardo rispetto alle economie con le quali ci confrontiamo. Un ritardo che abbiamo iniziato a colmare con il Piano Banda Ultra

Larga del Governo, che prevede la copertura dell’85% della popolazione al 2020 con 100 Mbps. I dati dell’ultima consultazione pubblica del 2017 ci dicono che solo il 2% dei numeri civici naziona li è raggiunto da una connessione superiore a 100 Mbps, il 30% dispone di connettività oltre 30 Mbps,

mentre quasi il 70% dei civici non è coperto dalla banda ultra larga. Il carattere sistemico dell’infrastruttura Tlc, che ha bisogno di grandi investimenti di sviluppo e

ammodernamento suggerisce di verificare la possibilità di concentrare lo sviluppo della rete in un unico operatore, valutando con tutte le cautele del caso un’eventuale remunerazione con tariffe regolamentate. In tal modo sarebbe possibile utilizzare al meglio le risorse disponibili pubbliche e

private, evitando duplicazioni infrastrutturali e garantendo la massima concorrenza e neutralità nell’offerta di servizi retail.

Politica commerciale e internazionalizzazione Occorre giocare la partita dell’internazionalizzazione contemporaneamente in attacco e in difesa. In attacco, gli accordi di libero scambio sono lo strumento principale attraverso il quale favorire

l’accesso delle Pmi ai mercati esteri e vanno sostenuti a partire dalla ratifica della accordo con il Canada. Contemporaneamente, in difesa, dobbiamo perseguire l’obiettivo di creare un contesto di

regole condivise necessarie a garantire la natura equa del commercio internazionale e a mitigare gli effetti di una globalizzazione squilibrata come abbiamo fatto, assumendo un ruolo guida in Europa, nel caso del mancato riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato. La prossima

battaglia che dobbiamo portare avanti è quella per l’inclusione dei principi di sostenibilità ambienta le e sociale negli accordi di libero scambio. La stessa strategia duale dovrà continuare ad applicarsi per

l’attrazione degli investimenti diretti esteri. Da un lato, razionalizzazione e semplificazione della governance delle politiche di attrazione e definizione di nuovi strumenti nella convinzione che l’Italia ha bisogno di capitale di crescita. Dall’altro lato, tutela dell’interesse nazionale contro operazioni

predatorie verso imprese ad alto contenuto tecnologico anche usando la nuova golden power varata dal Governo a questo scopo. Infine il Piano straordinario per il Made in Italy, che ha coinvolto oltre

17mila imprese, deve essere prolungato e potenziato in particolare nelle direttrici dell’e-commerce e dell’aumento delle imprese esportatrici.

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3 |Gestire le trasformazioni

I processi di trasformazione dell’economia si sono fatti sempre più rapidi con l’accorciarsi dei cicli di sviluppo tecnologico che ha reso sempre più frequente l’emergere di tecnologie disruptive. La

nuova condizione di normalità è dunque quella in cui segmenti o interi settori industriali sono costantemente spiazzati. Occorre attrezzare il Paese a prendersi cura degli “sconfitti”; di quei

lavoratori e di quelle imprese che nel breve periodo sono vittime del cambiamento. Alcune iniziat ive sembrano aver dato risultati. È il caso della strategia di recovery settoriale attuata per i call center con salvaguardia salariale e il ritorno degli investimenti nei settori dell’alluminio e dell’acciaio.

Occorre però sistematizzare queste modalità di azione, ingegnerizzando per così dire il modello e massimizzando la velocità di intervento. Funzionale allo scopo sarebbe la possibilità di potenziare

nelle aree di crisi complessa soluzioni eccezionali: strumentazioni dedicate per le imprese beneficiar ie di agevolazioni (deroghe alle regole del mercato del lavoro e ammortizzatori sociali, semplificazioni e accelerazioni burocratiche/autorizzative, supporto prioritario del Fondo di Garanzia,

defiscalizzazioni) e iter accelerati per bonifiche e interventi infrastrutturali per poter rapidamente rilanciare l’attività d’impresa. Altro strumento fondamentale per ricostituire base manifatturiera sono

i Nuovi Contratti di Sviluppo destinati per l’80% al Mezzogiorno che spesso vedono protagonist i grandi aziende multinazionali. Il rifinanziamento dei Contratti di Sviluppo costituisce una priorità per gli anni a venire. Occorre infine varare un fondo equivalente al “Globalization Adjustment Fund”

dedicato alla riconversione di lavoratori e aziende spiazzati da innovazione tecnologica e globalizzazione.

Non esiste sviluppo, reddito e benessere senza investimenti, imprese e lavoro. Le scorciatoie conducono a vicoli ciechi e non di rado a veri e propri burroni. L’Italia è ancora fragile e le ferite della crisi ancora aperte. È fondamentale che chiunque governerà il Paese riparta da questa

consapevolezza e da queste priorità.

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Un milione di posti di lavoro in più da febbraio 2014, di cui più del 53% a tempo indeterminato. Tasso di occupazione (maschile e femminile) più alto da quando esistono le serie storiche Istat. Disoccupazione giovanile ai livelli più bassi degli ultimi cinque anni.

Dopo aver lavorato sulla quantità, adesso possiamo lavorare anche sulla qualità del lavoro, con l'introduzione del salario minimo legale a 9-10 euro l'ora, e con il sostegno per chi perde o non trova

occupazione, a cominciare dal Reddito d'inclusione.

(https://www.facebook.com/partitodemocratico.it/photos/a.113463676895.100870.77034286895/10155552471826896/?type=3&theater)


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