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Le Esperienze di Giovani a Teatro 2011 Privilegiare ... · realizza piuttosto in quel sottile...

Date post: 15-Feb-2019
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«“ G iovani a TeaTroè un progetto di ampio respiro costruito su un impianto articolato e multi- forme di produzione culturale, che pun- ta non tanto a confezionare un prodotto, quanto a promuovere il processo neces- sario per realizzarlo. La restituzione sulla scena non è infatti che l’esito ultimo di un percorso di costruzione che è il nucleo e il senso primo del nostro progetto. Un pro- cesso inteso come una costellazione di at- tività saldate da una rete di relazioni, di rap- porti con le persone, con il mondo della scuo- la, con gli insegnanti, con gli operatori, con le istituzio- ni, con le università, con realtà nazionali e internaziona- li. Un processo che diventa creazione di un ambiente cul- turale dove le idee circolano e vengono messe a confron- to in quanto appartengono a uno sforzo personale e col- lettivo, un processo i cui effetti culturali trascendono il prodotto finale. Partendo da queste premesse programmatiche abbia- mo superato il piano della fruizione, tanto caro alle po- litiche pubbliche e talvolta anche a quelle private, privi- legiando quell’animazione culturale del contesto socia- le che si ripromette, in ambito artistico, di ricercare il ta- lento e sperimentare nuovi linguaggi, generi, rapporti, modelli, sempre attenta alle ricadute benefiche sui siste- mi con cui interagisce. Questo è il vero portato di “Gio- vani a Teatro” e in particolare delle sue “Esperienze”: ri- appropriarci dei processi di produzione culturale sem- pre più demandati a terzi e relegati entro canali di rice- zione passiva. Abbiamo scelto di rivolgere la nostra attenzione al futu- ro investendo sulle nuove generazioni, sulla loro forma- zione ed educazione, sfruttando il fascino e la forza co- municativa delle arti performative. Il problema di fon- do, nel nostro approccio, è capire il mondo giovanile. Per questo ci siamo rivolti prevalentemente al teatro con- temporaneo, perché per linguaggio, immagini, messag- gi e strumenti comunicativi è il più comprensibile da par- te dei ragazzi. Ma non abbiamo disdegnato nemmeno le forme tradizionali, come dimostra il successo che riscuo- tono le antiche maschere della commedia dell’arte all’in- terno delle scuole. Quanto all’articolazione delle iniziative, abbia- mo sempre considerato il nostro progetto co- me un animale vivo, caratterizzato da una forte necessità di innovazione continua, attuata innestando nuove modalità, nuo- ve visioni, nuovi linguaggi. Finora que- sta esigenza di costante superamento dei risultati ottenuti ha dato luogo a un pro- gressivo aumento delle proposte, ma non escludo che in futuro vi possa essere an- che la sostituzione di alcune attività con al- tre inedite, qualora si rivelassero più rispon- denti alle finalità generali. Tra le novità previ- ste, all’interno delle «Esperienze» trova quest’anno spa- zio anche qualche progetto di natura musicale. Sono le prime tessere di un disegno progettuale che veda al cen- tro la musica e che dobbiamo ancora formulare dettaglia- tamente nei suoi contenuti. In questo senso ci aspettiamo molto dal laboratorio «Inchiostro sulla scena», vale a di- re dalla costruzione, da parte dei ragazzi iscritti al labora- torio, di una rivista dedicata a musica e arti sceniche: at- traverso quello strumento spero potrà emergere dalla lo- ro viva voce quali siano i loro interessi prevalenti e qua- le sia il contesto culturale più idoneo a coinvolgerli.» Privilegiare il processo al prodotto Gianpaolo Fortunati introduce le «Esperienze» 2010-2011 a cura di Leonardo Mello Giuliana Musso in Nati in casa (foto Officine Fotografiche). L’artista vicentina guida all’interno delle «Esperienze» un laboratorio composito dal titolo «Teatro d’indagine». A sinistra, un momento di «Capire il teatro», le lezioni-spettacolo svolte nelle scuole dall’Istituto della Commedia dell’Arte internazionale. Gianpaolo Fortunati – vicepresidente della Fondazio- ne di Venezia e Presidente di Euter- pe Venezia, la società strumentale del- la stessa Fondazione che si dedica al- le performing arts – in questo interven- to tratto da un’intervista illustra le li- nee-guida del progetto «Giovani a Te- atro», con una particolare atten- zione al variegato settore del- le «Esperienze». prosa — 75 Le Esperienze di Giovani a Teatro 2011 prosa / Le Esperienze di Giovani a Teatro 2011
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Page 1: Le Esperienze di Giovani a Teatro 2011 Privilegiare ... · realizza piuttosto in quel sottile alchemico equilibrio fra le diverse componenti dell’arte scenica e di cui le paro-le

«“Giovani a TeaTro” è un progetto di ampio respiro costruito su un impianto articolato e multi-

forme di produzione culturale, che pun-ta non tanto a confezionare un prodotto, quanto a promuovere il processo neces-sario per realizzarlo. La restituzione sulla scena non è infatti che l’esito ultimo di un percorso di costruzione che è il nucleo e il senso primo del nostro progetto. Un pro-cesso inteso come una costellazione di at-tività saldate da una rete di relazioni, di rap-porti con le persone, con il mondo della scuo-

la, con gli insegnanti, con gli operatori, con le istituzio-ni, con le università, con realtà nazionali e internaziona-li. Un processo che diventa creazione di un ambiente cul-turale dove le idee circolano e vengono messe a confron-to in quanto appartengono a uno sforzo personale e col-lettivo, un processo i cui effetti culturali trascendono il prodotto finale.

Partendo da queste premesse programmatiche abbia-mo superato il piano della fruizione, tanto caro alle po-litiche pubbliche e talvolta anche a quelle private, privi-legiando quell’animazione culturale del contesto socia-le che si ripromette, in ambito artistico, di ricercare il ta-lento e sperimentare nuovi linguaggi, generi, rapporti, modelli, sempre attenta alle ricadute benefiche sui siste-mi con cui interagisce. Questo è il vero portato di “Gio-vani a Teatro” e in particolare delle sue “Esperienze”: ri-appropriarci dei processi di produzione culturale sem-pre più demandati a terzi e relegati entro canali di rice-zione passiva.

Abbiamo scelto di rivolgere la nostra attenzione al futu-ro investendo sulle nuove generazioni, sulla loro forma-zione ed educazione, sfruttando il fascino e la forza co-municativa delle arti performative. Il problema di fon-do, nel nostro approccio, è capire il mondo giovanile. Per questo ci siamo rivolti prevalentemente al teatro con-temporaneo, perché per linguaggio, immagini, messag-gi e strumenti comunicativi è il più comprensibile da par-te dei ragazzi. Ma non abbiamo disdegnato nemmeno le forme tradizionali, come dimostra il successo che riscuo-tono le antiche maschere della commedia dell’arte all’in-

terno delle scuole. Quanto all’articolazione delle iniziative, abbia-

mo sempre considerato il nostro progetto co-me un animale vivo, caratterizzato da una

forte necessità di innovazione continua, attuata innestando nuove modalità, nuo-ve visioni, nuovi linguaggi. Finora que-sta esigenza di costante superamento dei risultati ottenuti ha dato luogo a un pro-gressivo aumento delle proposte, ma non

escludo che in futuro vi possa essere an-che la sostituzione di alcune attività con al-

tre inedite, qualora si rivelassero più rispon-denti alle finalità generali. Tra le novità previ-

ste, all’interno delle «Esperienze» trova quest’anno spa-zio anche qualche progetto di natura musicale. Sono le prime tessere di un disegno progettuale che veda al cen-tro la musica e che dobbiamo ancora formulare dettaglia-tamente nei suoi contenuti. In questo senso ci aspettiamo molto dal laboratorio «Inchiostro sulla scena», vale a di-re dalla costruzione, da parte dei ragazzi iscritti al labora-torio, di una rivista dedicata a musica e arti sceniche: at-traverso quello strumento spero potrà emergere dalla lo-ro viva voce quali siano i loro interessi prevalenti e qua-le sia il contesto culturale più idoneo a coinvolgerli.» ◼

Privilegiareil processo al prodottoGianpaolo Fortunati introducele «Esperienze» 2010-2011

a cura di Leonardo Mello

Giuliana Musso in Nati in casa ( foto Officine Fotografiche).L’artista vicentina guida all’interno delle «Esperienze»un laboratorio composito dal titolo «Teatro d’indagine».

A sinistra, un momento di «Capire il teatro», le lezioni-spettacolosvolte nelle scuole dall’Istituto della Commedia dell’Arte internazionale.

Gianpaolo Fortunati– vicepresidente della Fondazio-

ne di Venezia e Presidente di Euter-pe Venezia, la società strumentale del-la stessa Fondazione che si dedica al-le performing arts – in questo interven-to tratto da un’intervista illustra le li-nee-guida del progetto «Giovani a Te-

atro», con una particolare atten-zione al variegato settore del-

le «Esperienze».

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Una delle Grandi qUesTioni in cui si dibatte da sempre un uomo di teatro potrebbe essere rias-sunta con una domanda: com’è possibile tramanda-

re un’esperienza?A differenza di coloro che operano in altri campi dell’ar-

te e di cui sopravvivono le opere, il teatro appare come un’arte che si scrive sull’acqua, consegnata com’è, inevita-bilmente, all’impermanenza del presente. Di Sofocle, Sha-kespeare, Molière, che furono anche grandi poeti, ci ri-mangono in fondo soltanto delle parole, perché in real-tà nulla ci rimane del loro teatro. Anche se in tempi di re-staurazione come questi sembrerà un’affermazione ereti-ca, la drammaturgia non consiste in un testo scritto, ma si realizza piuttosto in quel sottile alchemico equilibrio fra le diverse componenti dell’arte scenica e di cui le paro-le [...] non sono che un elemento, spesso nemmeno quel-lo predominante.

Un uomo di teatro è inevitabilmente consegnato al qui e ora dell’evento: la forma in cui consiste l’opera non può vivere se non nell’accadere irripetibile della scena. [...] An-che Artaud, Appia, Stanislawski, Grotowski, Kantor ci

hanno lasciato delle parole, ma il profumo delle loro rea-lizzazioni teatrali si è perduto per sempre, o al massimo si è consegnato al ricordo, all’immaginazione e alle specu-lazioni dei loro successori. Com’è stata tramandata, o più spesso tradita, la loro straordinaria esperienza? Quali ge-sti, quali segni ci hanno lasciato in eredità? Dove rintrac-ciare oggi, in un mondo teatrale sempre più museificato e mercificato, il senso di una continuità vitale, di un passag-gio del testimone? [...]

Molti anni fa un importante festival canadese [...] mi pro-pose [...] di realizzare EDIPO con un gruppo di attori del luogo, svincolando perciò la produzione dell’opera dal di-retto coinvolgimento del Lemming. Io rifiutai. Mi sem-brava sbagliato realizzare un’opera così delicata con un gruppo di attori che non sposassero a monte il pensie-ro teatrale che il lavoro implicava. [...] Nulla di più terrifi-cante [...] di vedere attori del tutto impreparati ad affron-tare la scena [...]. Questo è un orrore, qualunque cosa si sia detta o scritta sul mio lavoro, che so di avere sempre cer-cato di evitare.

Oggi sento, però, la necessità di accettare una scom-messa impossibile: preparare, in tre settimane di lavoro, trenta giovani attori e realizzare con loro, guidati da at-

tori del Lemming, l’EDIPO contemporaneamente e per molti giorni in cinque diversi luoghi di una stessa città. La prima tappa di questo progetto si svolgerà a Venezia fra febbraio e maggio 2011. Il progetto si chiama, non a ca-so, «L’Edipo dei Mille», e risponde a una doppia esigen-za. Da una parte sento il bisogno di verificare se sia dav-vero possibile, in qualche modo, trasmettere a degli allievi [...] l’esperienza di EDIPO. Dopo che lo spettacolo in tut-ti questi anni è sempre rimasto nel repertorio della com-pagnia come straordinaria palestra di formazione per la crescita professionale e umana degli attori del gruppo, og-gi sento venuto il momento di lasciare che quest’opera vi-va anche di una vita autonoma. Mi affascina soprattutto la possibilità di realizzare una pedagogia in grado di tra-scinare nel rischio della prassi un nutrito gruppo di allie-vi. Come si può, del resto, divenire attori se non metten-dosi alla prova? [...] Esiste poi un’altra ragione che sta alla base del progetto e che mi appare oggi ancora più cogente: quella politica. Si sa che la storia della spedizione dei Mil-le, a cui il titolo del progetto allude, si confonde col mito e la leggenda. Appare in effetti incredibile che un gruppo sparuto di ragazzi giovanissimi, volontari e male armati, abbia potuto sbaragliare un agguerrito esercito borboni-co e contribuire in modo decisivo alla nascita del nostro Paese. Quello che ancora di potentemente simbolico ri-

verbera in noi di questa storia esemplare, è l’insegnamen-to che a volte anche l’azione di pochi uomini è in grado di produrre grandi trasformazioni. Per noi si tratta, una vol-ta di più, di dimostrare che è possibile trasformare ciò che è apparentemente utopico in un atto concreto. Che si può, anche a dispetto di un sistema teatrale più che mai immo-bile e reazionario, affermare una differenza che non è sol-tanto ideale ma concreta e praticata. Nulla, in effetti, è più apparentemente utopico e paradossale, anche da un pun-to di vista produttivo, di un lavoro come EDIPO. Un so-lo spettatore laddove nella società dei consumi la comuni-cazione spettacolare si rivolge esclusivamente a una mas-sa indifferenziata. La richiesta di una partecipazione atti-va e personale [...] e soprattutto l’esplosione sensoriale ed emotiva, quella profonda intimità fra estranei, quello stra-no senso di fratellanza, che questo lavoro induce in cia-scun partecipante [...]. In questa Italia divisa e devastata, ridotta a macerie, narcotizzata e ferita dal chiacchiericcio e dallo strepito televisivo, anche questo piccolo spettacolo per un solo spettatore, e che per altro finirà per propagarsi nell’intero spazio urbano di una città, può contribuire in modo attivo a qualche piccola ma reale trasformazione. ◼

Sopra: EDIPO – tragedia dei sensi per uno spettatoredel Teatro del Lemming (foto di Roberto Domeneghetti).

L’Edipo dei Milledi Massimo Munaro*

*Questo è un estratto in anteprima del testo integrale di Massimo Munaro, che sarà pubblicato a gennaio da Titivillus in un volume dedicato a EDIPO – tra-gedia dei sensi per uno spettatore.

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In vista di una futura esperienza laboratoriale, Marco Martinel-li sarà a Venezia l’8 febbraio per un incontro incentrato sulla non-scuola da lui fondata a Ravenna con il Teatro delle Albe e sul pro-getto «Eresia della felicità», che alla non-scuola è strettamente le-gato. In questa conversazione gli chiediamo di partire proprio da quest’ultimo.

«eresia della feliciTà» nasce da una sorta di commissione di Ermanna Montanari, che di-rigerà la prossima edizione del festival di San-

tarcangelo. Lei mi ha chiesto di radunare tutte le nostre tribù, cioè tutte le non-scuole che – partendo dall’espe-rienza pilota di Ravenna – abbia-mo disseminato in giro per il mon-do, dal Brasile all’Africa, dal Belgio a Mazara del Vallo, da Scampia a Co-negliano Veneto. L’idea è riunire al-lo Sferisterio di Santarcangelo due-cento adolescenti da tutto il mondo, che arriveranno lì per porgere il lo-ro ringraziamento a Vladimir Maja-kovskij utilizzando alcuni suoi versi. Per l’occasione si è scelto il Majakov-skij prerivoluzionario, lirico, che sen-te la tempesta nell’aria e come un ra-dar ce la segnala con i suoi versi scin-tillanti. Duecento adolescenti che rendono omaggio a un poeta suici-da... Del resto chi, se non un ragazzo di quell’età, può comprendere la ten-sione del cervello che ti tiene in bili-co tra il desiderio di essere e la pulsio-ne a scomparire? Per questo la mani-festazione si intitolerà «Eresia della felicità», e non sarà uno spettacolo ma una creazione a cielo aperto: per tut-ti i dieci i giorni del festival saremo lì a lavorare con i ra-gazzi su questo poeta, iniziando dal suo primo testo tea-trale, che si intitola proprio Vladimir Majakovskij e la cui natura è assolutamente lirica e visionaria. Una creazione a cielo aperto che mi ricorda quando eravamo nel cuore del Senegal a preparare il nostro Ubu: le prove non era-no mai «chiuse» perché gli abitanti del villaggio si avvi-cinavano a noi e restavano a guardarci. Sembrava davve-ro di condividere un’unità con lo spettatore già nel mo-mento delle prove. Per noi è stata un’esperienza talmen-te forte che vorremmo provare a ricrearla a Santarcange-lo. La nostra presenza a Venezia a febbraio si inserisce in questo ambito e prende spunto dalla tribù di Conegliano, cittadina in cui già da qualche tempo torniamo ogni an-no. Da questo collegamento è nata l’idea di Cristina Pa-lumbo, che ci ha chiesto di pensare un progetto per il ter-ritorio veneziano. E devo dire che, dopo tanto sud, tan-ta Scampia, tanta Africa, l’ipotesi di intervenire sul vuo-to esistenziale che s’incontra nel nostro nord ci affascina,

perché è una scommessa forte quanto lottare contro la cocaina e contro la camorra. Nei giovani del Settentrione c’è un’angoscia che va combattuta e con la quale dobbia-mo fare i conti da adulti, da persone che devono sentire la responsabilità del dialogo con chi ci sostituirà.

L’esperienza della non-scuola risale, se non sbaglio, alla fine de-gli anni novanta.

In realtà nasce nel ’91, ma – dopo sette anni di vita ca-tacombale a Ravenna – acquista visibilità nel ’98 grazie ai Polacchi, che sono il primo spettacolo in cui le Albe met-tono sullo stesso palco attori professionisti e adolescen-ti. I primi tempi non sapevamo bene cosa andare a fa-re nelle scuole. Sentivamo che era importante andare lì, ma ci era assolutamente ignoto con che metodo, con che pratica di teatro affrontare quel mondo. E devo dire che sono stati i ragazzi stessi a suggerirci la strada. Vedeva-mo in loro un’assoluta ignoranza per il teatro convenzio-nale, che loro consideravano e tuttora considerano una sorta di punizione corporale, ma dall’altra parte avver-tivamo una loro urgenza dionisiaca, un bisogno di far esplodere il corpo, la psiche, il desiderio. Di questo fon-do dionisiaco la non-scuola si è nutrita come un vam-

piro fin dall’inizio. Un bel giorno poi Goffredo Fofi ci ha dato un suggerimento che suonava anche come una sfida: trasportare il nostro sistema dalla ricca Ravenna a Scampia. Noi eravamo confortati da un dato: quattro-cento ragazzi che ogni anno frequentavano la non-scuo-la dopo un decennio si erano trasformati in varie migliaia di spettatori e avevano in un certo senso cambiato il vol-to della città, perciò abbiamo accettato. Ed è stato pro-prio da Scampia in poi che abbiamo cominciato a spo-starci in giro per il mondo e a verificare che, pur nel-le diversità che ci sono tra gli adolescenti di Scampia e di Chicago, in tutti loro esiste davvero un’urgenza di vi-ta, un desiderio bruciante di vivere cui la società dei co-siddetti grandi rarissimamente sa non dico dare soluzio-ni ma almeno proporre delle strade praticabili. Il teatro invece è una strada, per gli adolescenti ma anche per noi, che ci viviamo dentro da più di trent’anni e nel rappor-to con i piccoli troviamo una fonte di rigenerazione. ◼

«Eresia della felicità»e l’arte pedagogicadi Marco Martinelli

a cura di Leonardo Mello

«Arrevuoto Scampia Napoli», progetto triennale di Marco Martinelli. Una scena del primo movimento, Pace!, che ha debuttato il 21 aprile del 2006 al Teatro Auditorium di Scampia (teatrostabilenapoli.it).

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«a viva voce» è il titolo del laboratorio di can-to condotto da Giuseppina Casarin e da me in programma da fine marzo a fine maggio 2011,

a l l’interno del-le «Esperienze» di Giovani a Teatro, e rivolto appun-to a un gruppo di giovani.

L’idea centrale è quella della tra-smissione orale di un’esperienza, e della sperimenta-zione di come que-sta esperienza pos-sa essere fruita og-gi, da una genera-zione sempre più distante dalla cul-tura a cui questi canti si riferiscono.

Giuseppina Ca-sarin si occupe-rà dell’area vene-ziana, Anna Ma-ria Civico di quella calabrese, Larysa Nikolenko, Rafia Akter Kazi e Eugenia Belibov si occuperanno delle loro rispettive aree di pro-venienza (Ucraina, Bangladesh, Moldavia).

L’incontro con il canto tradizionale è un fatto molto personale.

Per quanto riguarda la mia esperienza, si tratta di un in-teresse nei confronti di come la «civiltà umana» si rappre-senta; dei segni che produce, che parlano di lei rivelando le sue corde più profonde, forse le più elementari, quindi le più importanti. In definitiva per me l’incontro col can-to tradizionale è una chiave per conoscere l’essere uma-no nella sua più autentica teatralità, che è poi la mia ve-ra passione. All’interno di questo laboratorio infatti io mi occuperò di «mettere in scena» questi ragazzi nell’espri-mersi attraverso questi canti.

L’idea di lavorare con un gruppo di giovani ci appassio-na perché siamo convinte che l’esperienza del cantare in-sieme e del cantare questo repertorio sia fonte di gran-de soddisfazione; c’è in esso una forte componente libe-ratoria, che personalmente mi affascina moltissimo: po-ter chiamare ciò che si sente con il proprio nome: rabbia, amore, nostalgia, desiderio, dolore, felicità... attraverso parole che sono pura poesia; evidenti, senza fraintendi-menti, eppure del tutto surreali.

La musica, è a grande discrezione di chi la esegue: quel-la che conosciamo noi oggi, e che cantiamo, e che tra-

smettiamo, rivela il desiderio di restare agganciati «a mo-do nostro» a una lunga radice quasi estinta; in ogni ca-so la nostra esperienza si nutre di passaggi «a viva voce», di canti imparati da altri moderni «cantori», ognuno dei quali ha lasciato la propria traccia, il proprio segno, nella partitura non scritta ma ben codificata di questa musica.

Non è possibile per noi, che non siamo mai state mon-dine né cantori di un villaggio, eseguire questi canti sen-za sentire la necessità di assumerne tutta la loro dirom-pente carica espressiva: non si possono semplicemente ci-tare, né edulcorare o banalizzare, né riempire di suoni o strumenti che «non servono»: essi ti costringono a cerca-re qualcosa di più essenziale, di più urgente, una connes-sione personale e intima più autentica possibile...

Ecco perché di-venta interessan-te frequentarli: ri-cercarli, eseguirli, trasmetterli. Per-ché provocano un intimo processo di ri- appropriazione della nostra stessa «natura umana».

Abbiamo voluto partire da Venezia, città che purtrop-po ha conservato ben poco del suo repertorio di canti tradizionali; pro-seguiamo verso la Calabria, dove è ancora possibile assistere ad even-ti magnifici di re-ligiosità popolare; terminiamo a Est

dell’Europa, luogo da cui provengono moltissimi nuovi cittadini, portatori di nuove culture e nuovi canti.

Il contesto in cui viviamo oggi ha a che fare più con la solitudine che con la partecipazione, con la paura che con il coraggio, con l’aggressività che con la tenerezza: insom-ma, non si canta più, né una ninnananna, né un canto di lavoro, né un canto d’amore... almeno non in quel modo, diretto, spontaneo.

Attraverso un atto semplice ed emozionante come quello del far suonare la propria voce, e del farla suo-nare «tra gli altri»; attraverso l’esecuzione di canti che portano con sé un grosso bagaglio di informazioni, che fanno riferimento ad una cultura diversa dalla nostra, noi auspichiamo che l’Esperienza sia quella di avvici-narsi a tutto ciò con interesse e curiosità, affinando la propria capacità di cogliere le differenze, vedere i det-tagli; che, insomma, non è tutto uguale e che è necessa-rio posizionarsi! e che nello stesso tempo è importan-te ritrovare il gusto del fare le cose con altri, comuni-care, mettersi in relazione... insomma individuare una via d’uscita per affrontare le contraddizioni del nostro problematico presente (che, a mio avviso, non può che essere il rispetto degli altri, come regola di civiltà). ◼

A proposito di«A Viva Voce»Un incontrocon il canto tradizionale

di Sandra Mangini

Sandra Mangini e Giuseppina Casarin in E noi siam lavoratore.

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la drammaTUrGia iTaliana più recente ha sapu-to rinnovarsi grazie alla ricerca portata avanti dai gruppi, a quella operante in spazi fuori dai circu-

iti istituzionali, a quella in cui ir-rompe finalmen-te la varietà degli idiomi che caratte-rizza il nostro Pae-se. A quest’ultimo territorio, spesso concentrato nel-la scena di narra-zione e declinato nella forma mo-nologante, è de-dicata la rassegna che col contribu-to del la Fonda-zione di Venezia e della Regione Ve-neto, oltre che col sostegno dell’Ate-neo di Ca’ Fosca-ri ho programma-to nel marzo 2011. La sede ospitante sarà da un lato la sala Giovanni Poli a Santa Marta, do-ve i performers in-vitati si esibiranno nell’assolo, dall’al-tro lo spazio semi-nari della Fondazione stessa in cui i protagonisti presen-teranno il proprio lavoro attraverso un dialogo serrato collo scrivente e cogli iscritti alla rassegna. Si tratta per ora solo di una prima serie di artisti che appartengono ad alcune regioni dell’Italia centrale e meridionale, e specificamente la Puglia di Oscar De Summa, Gianfran-co Berardi, Gaetano Ventriglia e Roberto Corradino, l’Abruzzo di Andrea Cosenti-no, il Lazio di Daniele Timpano. È previ-sta una seconda serie aperta ad altre terri-torialità, dal Piemonte alla Calabria, dalla Sicilia alla Toscana e all’Emilia Romagna. Ovviamente sarà presente anche il Vene-to, che non ha mancato di proporsi con particolare vigore in una simile direzione, col rilancio della tradizione espressa nel vernacolo colto e poetico. Basti pensare alla utilizzazione di firme tanto autorevo-li quali Rigoni Stern, Meneghello e Zan-zotto nei fortunati montaggi in scena ad opera di Marco Paolini. La strategia è in effetti quella di permettere un confronto

ravvicinato tra simili filoni in cui la sperimentazione del nuovo si coniuga in forme differenziate, tra l’autobiogra-fia scanzonata e la Storia collettiva, tra un decentrato lo-calismo da strapaese e l’apertura verso il mondo. Ora, il dialetto può limitarsi alla dizione locale, al suono spor-co non più toscocentrico, quasi applicando il Manifesto per il nuovo teatro di Pasolini, oppure spingersi a una phonè slabbrata, violentemente arcaica, quasi da lingua morta, o ancora mescolarsi in una forte ibridazione espressio-nistica alla lingua standard creando così un gioco di re-

gistri alternati. Il segno caratteriz-zante che omolo-ga costoro nondi-meno risiede nel fatto che questo performer monolo-gante è padrone assoluto delle pa-role che pronun-cia, dei racconti che dispiega, sen-za più rimandare ad un autore e ad un regista esterni. Insomma, un in-terprete di se stes-so, responsabiliz-zato e in grado di coprire tutti i ruo-li connessi al fare teatro, dalla scrit-tura alla recita al-la messinscena. Si tenga conto anco-ra come la compa-tibilità tra versan-te autorale e quello performativo tro-va convincenti ri-sposte nell’audien-

ce più giovane, garantendo in tal modo un futuro al no-stro teatro. Il laboratorio, aperto agli studenti universi-tari e liceali (da qui l’inserimento dell’evento nelle ini-

ziative del progetto Giovani a Teatro ge-stito dalla Fondazione di Venezia), oltre che agli studiosi e agli spettatori, ospita-to nel cuore della Città, intende studia-re in gruppo i meccanismi della stesura di un copione, ricostruendo il momento del concepimento, per essere poi sotto-posto ad una vivisezione tesa ad illumi-nare laicamente, ovvero tecnicamente, il segreto del parto, nella complicità condi-zionante tra circuito, committenza, assi-milazione recitativa, memoria del pubbli-co, immagine di sé che il protagonista va costruendo man mano nel farsi della sua carriera. Grazie all’interazione tra reci-ta e analisi, lo studio si trasforma in gio-co, e il divertimento diviene cultura. ◼

Per un teatrodelle lingue

di Paolo Puppa

Venezia – Teatro Giovanni Poliore 20.30

9 marzoDiario di provincia

di Oscar De Summa10 marzo

Conferenza – Riccardo IIdi Roberto Corradino

16 marzoAngelica

di Andrea CosentinoBriganti

di Gianfranco Berardi23 marzo

Otello alzati e camminadi Gaetano Ventriglia

24 marzoDux in scatola

di Daniele Timpano Gianfranco Berardi in Briganti.

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anche qUesT’anno le esperienze di Giovani a Teatro riservano am-pio spazio alla drammaturgia. Ol-

tre al momento dedicato agli assoli teatrali, curato da Paolo Puppa (cfr. p. 79), tra feb-braio e maggio si terrà la quarta edizione di «Parole in forma scenica», che questa volta conterà sulla partecipazione attiva di quat-tro autori d’eccezione, coinvolti in un arti-colato percorso laboratoriale che coinvol-gerà gli iscritti GaT: Mariangela Gualtieri, Antonio Tarantino, Vitaliano Trevisan e Paolo Puppa. Gli esiti del corso 2009-2010 saranno in concomitanza presi in carico da un gruppo di punta del teatro nostrano co-me i Babilonia Teatri, anch’essi esponen-ti di una scrittura teatrale inedita e per cer-ti versi estrema. In queste pagine offriamo un assaggio dello stile di ciascuno di loro, indicando anche le date in cui sarà possibi-le vedere questi testi trasformati in altret-tanti spettacoli, tutti ospitati al Teatro Fon-damenta Nuove.

Mariangela GualtieriL’animale chiamato Dioda Caino(recitato da un Demone illusionista)

L’animale chiamato Diosbatte i suoi capellifino all’unto del cielo.

Si mostra in tabernacoli scurila sua luce trattiene nell’ombra,nell’ombra sudicia.

L’animale chiamato Diospinge in pericolose contrade.

Ti vuole solo. Perdutosul punto del piantostanco ti vuole.

Ah l’animale! come chiama! e come morde!come atterrisce e manca!

Nel buio ti riempie di unapaura sepolta nel vivo di teti tiene chiuso nella più orba delle tue notti.

Che cosa vuole?Cosa vuole da te?

Antonio TarantinoComunisti contro comunisti.Cortile del carcere di Turida Gramsci a Turi (I testi Ubulibri, 2009)

primo comUnisTa …come no! Le nostre energie devono esse-re immolate alla rivoluzione russa che sarebbe la rivoluzione proletaria mondiale! E la Germania? Dice: ma c’è l’accerchia-mento capitalistico e i reazionari di tutto il mondo si sono uni-ti in una santa crociata contro lo spettro dell’orribile comuni-

smo che non deve più aggirarsi in Europa ma bisogna spedirlo a fare del turismo in Cina dove c’è Ciucianciò oppure nel Congo dove c’è Bin-go Bongo! Sono tutte palle! La cosiddetta ri-voluzione proletaria è quindici anni che imper-versa nell’ex impero zarista ma è quindici an-ni che si è piantata in mezzo alla melma dell’in-verno moscovita! Compagni: facciamoci furbi! A me tutte ‘ste giustificazioni non mi convin-cono e vi dico che se ci fossero ancora Marx ed Engels ci sputerebbero in faccia a tutti quan-ti, galera o non galera, e prenderebbero a peda-te in culo tutta la terza internazionale, che lan-cia delle parole d’ordine di merda! Ma chi caz-zo è questo Stalin? Un rapinatore di banche un ladro di pecore e un bastardo criminale secon-do la miglior tradizione mongola! Cos’ha detto Lenin nel testamento? In breve ha detto: com-pagni, mandate affanculo quel bastardo prima che sia lui a mettervelo su per il buco del culo, che fin qui poco male tanto un culo proletario o un culo capitalista alla fine si assomigliano in base alla legge della penetrabilità dei culi! ma quel che non va bene è che il compagno Stalin, lui e la sua Ghepeù più quel maiale di Lavrentij Beria mandano a ramengo la rivoluzione prole-taria più tutti i compagni del mondo più le spe-

ranze di palingenesi: sì, la palingenesi!!! ah ah ah! Parliamo di palle in genere!!!

secondo comUnisTa Ecco il disfattista! ecco che gratta gratta rispunta l’individualista! Intanto tu dovrai render conto del-le tue gravi parole all’ufficio politico del collettivo del carce-re di Turi che si riunirà stasera dopo l’ora d’aria e vediamo co-sa avrai da dire, che se non giustifichi le tue affermazioni sa-rai espulso dal gruppo così te la dovrai vedere da solo con gli anarchici individualisti come te e con i delinquenti comuni, che manco quelli ci vogliono un granché bene. Stammi bene a sentire, compagno dal fiato corto: un individuo è un indivi-duo e i comunisti sono i primi a riconoscerne il valore reale. Ma un gattino cieco non è un individuo perché non può espli-care pienamente e liberamente tutte le caratteristiche e la po-tenza della sua specie: chiaro?

Vitaliano TrevisanStanza n. 1da 4 stanze con bagno

[...]medUsa pausa

Mi leggerai veroMi hai già letto

perseo Non dovresti lasciare in giro i tuoi taccuinimedUsa Li lascio sempre in giro

Mai nascostiSe uno li leggesono cazzi suoi noHo sempre pensato così

perseo Infattisono cazzi mieipausaLi aveva letti anche lui

medUsa Non lo soCome faccio a saperlo

perseo Ma tu li lasciavi in giro

Un’esplosionedi drammaturgieGli autori di«Parole in forma scenica» (quarta edizione)

VeneziaTeatro Fondamenta Nuove

ore 21.0023 febbraio

The Enddi Babilonia Teatri

22 marzoIl buio era me stesso

di Mariangela Gualtieri29 aprile

4 stanze con bagnodi Vitaliano Trevisan

3 maggioGramsci a Turi

(versione oratoriale)di Antonio Tarantino

12 maggioIntervista alla Marchesa.

Riflessioni di Luisa Casatidi Paolo Puppa

80 — prosa «Il Male»pr

osa

/ «Il

Mal

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medUsa Te l’ho dettoche non me n’è mai fregato un cazzopausaPreferirei che tu non mi leggessi

perseo Cercavodi ricostruireMa è inutilele storie si formano da sépausaComunqueè un buon iniziomolto apertoleggeDalle donne imparo sempre qualcosaè ancora questa la mia conclusione oggisempre più o meno la stessaMai pensato diversamentealla fineE cosìalla finehanno sempre avuto ragionetuttePartendo da mia madre naturalmenteE anche leicome poi tutte le altreaveva avuto ragionealla fineAnche se è vero che mia madre non l’ho uccisacome tutte le altre

[...]

Paolo Puppada Intervista alla Marchesa.Riflessioni di Luisa CasatiScena quinta

[...]lei Una volta, in treno a Cortina, ho conosciuto Visconti, il

conte comunista, sì, sì, il regista. Molto compìto. Era anco-ra un ragazzino. Pareva molto attratto da me. E invece poi mi hanno riferito che aveva altri gusti. Ogni tanto lei mi ha chie-sto della ragazza. Posso dire solo che tendeva ad aumentar-si gli anni quand’era piccola, e a portare tacchi incredibili per parere più alta e invecchiarmi. Era gelosa di me. Che ci pote-vo fare? L’ho messa dalle suore e poi l’ho iscritta a Oxford per-ché studiasse letteratura. Tutto inutile. Ha fatto di testa sua. Contenta lei. Nel ’25 quando, interrompendo gli studi è anda-ta sposa al visconte di Hastings, ossia Francis John Clarence Westerna Plantagenet, questo lo ricordo bene, mi aveva tenu-to all’oscuro di tutto. Anche la famiglia di lui, molto blasona-ta, non era stata avvertita. Non è che si vergognassero di me, per la mia vita fuori delle righe. Ma no, quei bigotti non sop-portavano le idee comuniste della giovane coppia. Mio genero in compenso mi ha fatto poi un ritratto, nel ’34. Anche lui un ritratto. La ragazza, certo, da me ha ereditato il gusto di viag-giare, oltre alla tendenza ad andare spesso in collera. Si sono recati in Australia, nei mari del Sud, nel Messico, dappertutto.

lUi Mi sono informato su Cristina. Ha frequentato, dopo la na-scita di Moorea, nome scelto in onore dell’isola dei Mari del Sud, il pittore Ribera, di cui suo marito Francis John voleva diventare allievo.

lei Pare che in quel periodo la ragazza abbia avuto una sto-ria colla famosa Kahlo, tipo molto indipendente, sì, la mo-glie di Ribera.

lUi Ah, una storia con una donna?lei Sì, e allora? Una storia, molto intensa anche se breve. La

ragazza, l’ho cresciuta al culto della libertà, libertà di espri-mersi. Nel ’43, ha divorziato e l’anno dopo ha sposato Wogan Philipps, anche lui in odore di comunismo. Chissà perché se li cercava sempre rossi, i suoi uomini. Insieme hanno aperto, mi pare, una tenuta agricola da qualche parte, ma io non ci ho mai messo piede, perché non ero gradita. Già, questo Philipps temeva di dovermi mantenere. Tre anni fa, comunque, lo sa bene se si è informato, la ragazza s’è beccata un tumure al se-no, e zac, finito. Calato il sipario, molto presto, su di lei. Pri-ma di sua madre. Buffo, no? Anche ingiusto, in fondo. So che

aveva inciso dei nastri, in cui parlava di me, mah, e il marito li ha distrutti. Meglio così, forse.

[...]

Babilonia TeatriVoglio il mio boiada The End

[...]voglio il mio boianon mi vedrete con le mutande piene di merdanuotare nel mio stesso piscionon mi farò lavare da una troia che non sa la mia linguanon passerò gli ultimi anni col pannolonenon passeggerò con altri vecchi rincoglioniti mentre voi a casa scopatenon vedrò la vostra faccia di culo una volta al mesenon mangerò sbobba imboccatonon mi alimenterò con una sonda piantata in pancia non avrò una sacca piena di piscio attaccata al mio lettonon offrirò lo spettacolo del mio cervello che marciscenon aspetterò che mi si formino le piaghe sul culonon guarderò la tv parcheggiato in un salonenon conterò i miei denti caderenon ascolterò le urla dei miei compagni di stanzanon sopporterò i loro lamentila loro folliele loro agonienon li vedrò morirenon aspetterò il mio turnonon mi farò ficcare in bocca pastiglie di cui non so pronunciare il nomenon ascolterò le vostre rassicurazionii vostri incoraggiamentile vostre bugiele vostre domande sul mio stato di salutenon sopporterò il vostro imbarazzola vostra impotenzanon vi darò la possibilità di recitare la vostra partenon vi rivolgerò le mie accusenon scaglierò contro di voi il mio rancorenon combatterò nessuna inutile battaglianon cambierò ideanon smetterò di fumare di bere di mangiareresterò uguale a me stessonessuno vedrà le mie lacrimele ho sempre versate nel mio buio privatolà resterannolà dove mi chiudo a piangere a godere solosolo piangosolo mi prendo in mano l’uccellonon vi permetterò di strapparmi alla mia solitudinenon vedrò i vostri figlinon li alleverònon laverò le vostre pentolele vostre lenzuolale vostre mutandenon vi farò da monitoda presagioda insegnamentome ne andrò senza lasciare traccianon voglio sporcareperdere inutilmente i capellidiventare uno scheletroversare su camici bianchi la mia bile il mio vomitobasterà un colpo di pistolauno soloeconomicovelocesenza controindicazioni [...]

prosa — 81Le Esperienze di Giovani a Teatro 2011

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il progetto intitolato «pedagogia della scena» – pro-dotto e organizzato dalla Fondazione di Venezia con Euterpe Venezia e da Fondazione Milano Teatro Scuola Paolo Gras-

si e curato da Maurizio Schmidt in collaborazione con Cristina Pa-lumbo – permette a un maestro dell’arte teatrale come Anatolij Va-sil’ev di dirigere per la prima volta la sua attenzione ai formatori te-atrali. Qui di seguito riportiamo le riflessioni di due artisti stranieri – l’israeliano Boaz Trinker e il rumeno Miklós Bács – selezionati dal maestro russo come allievi del corso che si svolge in questo perio-do all’isola della Giudecca.

Boaz TrinkerNissan Nativ Acting StudioTel Aviv

«dieci anni fa la mia attenzione si è rivolta al teatro pro-fessionale, e tre anni più tardi ho deciso di dedicarvi la mia vita. Ma la realtà ha un suo modo di imporsi su di noi, e la strada che intendevo percorrere era già fitta di compromessi. Anche dopo avere cominciato a studiare al Nissan Nativ Acting Studio, che ho sempre considera-to la più prestigiosa scuola d’arte drammatica in Israele, trovavo difficile dedicarmici completamente, obbligato a lavorare di notte per poter vivere, pagare l’affitto e l’iscri-zione. Se infatti in Europa la formazione post diploma è gratuita, in Israele non lo è, e presto ho imparato che non ero il solo a dover accettare compromessi, ma lo faceva-no anche altre parti del sistema.

L’avidità dei teatri, che nel reclutare un sempre maggior numero di abbonati non conosce limiti; i registi, il cui va-lore professionale si misura in relazione al nutrito nu-mero del loro «pubblico»; gli attori, la cui attività pri-maria richiede sempre meno etica professionale; i fre-quentatori dei teatri, le cui scelte in ambito scenico si sono ridotte a un profilo culturale drammaticamente basso (mentre cresce il successo delle produ-zioni teatrali di massa); il sistema che si dà lustro con talenti e celebrità «meteo-re»; tutto questo fa sì che il contribu-to della formazione teatrale sia di-ventato superfluo. Come in mol-ti altri aspetti della nostra vita moderna, ci siamo adattati a un declino del livello quali-tativo degli standard.

Nissan Nativ, che è stato a capo della mia scuola, per tutta la vi-ta ha predicato di non arrendersi mai. Na-to nei Paesi Bassi, è sta-to allievo di Étienne De-

croux, ha fondato uno studio a Tel Aviv e l’ha diretto per quarantatré anni, insegnando diciotto ore alla settimana fino alla sua morte un paio di anni fa, all’età di ottanta-sei anni. Sposato al suo lavoro, è sempre stato molto cri-tico nei confronti dell’industria del teatro. Ecco una del-le sue frasi più ricorrenti: «Per padroneggiare l’esercizio a cui vi sto introducendo, dovreste ripeterlo innumerevo-li volte. Sfortunatamente, non possiamo concederci que-sto lusso». Personalmente vivo «L’Isola della Pedagogia» come uno strumento nella lotta ai compromessi con me stesso. Qualcuno ha previsto che cosa ci aspetta se si con-tinua sul sentiero delle concessioni, qualcosa è a rischio estinzione, un fondamento essenziale sta per essere spaz-zato via dal mondo. Dobbiamo chiederci: possiamo vive-re con questo presagio? Può la nostra società permetter-si questa perdita? Serve un grande investimento da par-te delle istituzioni e degli individui per resistere a questa forza distruttiva e il pensiero che questa sfida sia stata rac-colta è straordinario. Posso solo sperare di saltare nell’ac-qua ed essere travolto da questa corrente sottomarina.»

Miklós BácsBabes-Bolyai UniversityCluj-Napoca –Romania

«in Un mondo in cui il concetto di relatività è sempre più attuale e dove il cambiamento dei modelli, a partire dall’inizio del secolo, genera cataclismi nel sistema odier-no del valori umani, un’isola può diventare non solo un’ancora di salvezza, ma anche un punto fisso per l’ini-zio di una ricostruzione, il luogo dove possiamo impara-re nuovamente il vero significato del termine «educato-re» (pedagogo), lo schiavo che prende per mano il bam-bino e lo accompagna a scuola, verso la conoscenza, do-ve tentiamo di trasformare in una realtà più oggettiva una vocazione molto personale come la formazione teatrale.

Al fine di assumerci questa responsabilità, occorre ave-re una vasta conoscenza, perseveranza e conoscere se

stessi. L’incontro con Anatolij Vasil’ev, un ve-ro maestro, è l’opportunità per un nuovo

inizio, la possibilità di riflettere insieme su una vera e fondamentale ricerca, al fine di generare nuovi modelli nella formazione teatrale.

Attraverso la selezione di speciali-sti provenienti da tutto il mondo, il progetto offre l’opportunità di un in-contro morenico, sia con un gran-de pedagogo, che con noi stessi; il

carattere olistico e multietnico assicura di fatto il successo del progetto.

In un mondo in cui la globa-lizzazione è una realtà, l’ela-borazione di una nuova me-todologia per l’insegnamen-to dell’arte della recitazione – che comprenda il paradosso «individuo/gruppo», trasfor-mandolo in una forza capace di creare valori autentici – di-venta non solo una sfida ma

anche una necessità vitale.» ◼

Anatolij Vasil’evforma i formatoriLe testimonianzedi due partecipantia «Pedagogia della scena»

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il 14, 15 e 16 dicembre si sono svolti al Teatro Junghans del-la Giudecca tre incontri alla

scoperta di un maestro del teatro contemporaneo: Anatolij Vasil’ev. Tra immagini e parole, lo stesso Vasil’ev ha ripercorso i suoi qua-rant’anni di teatro tra regia e peda-gogia e per la prima volta ha mostrato i video dei suoi pri-mi lavori, ha chiacchierato con gli ospiti, ha risposto al-le domande del pubblico, si è concesso senza riserve. Un momento unico reso possibile dalla presenza del maestro in occasione del Laboratorio internazionale di formazio-ne per docenti di teatro, «Pedagogia della scena», che lo vedrà impegnato con trentu-no allievi fino al 2012.

La prima serata ha affronta-to il «periodo pirandelliano» con la proiezione di fram-menti tratti da Sei personaggi in cerca d’autore (1989), Questa sera si recita a soggetto (1991) e Cia-scuno a suo modo (1993), risul-tato della collaborazione con il Teatro Scuola d’Arte Dram-matica di Mosca e, per l’ulti-ma pièce, con il Centro Tea-tro Ateneo di Roma. Il pub-blico è stato introdotto al-la visione degli spettacoli dai preziosi contributi di Fran-co Quadri e Paolo Puppa. Da parte di Quadri un ricor-do emozionato del primo in-contro con il teatro di Vasil’ev, quando vide (si trattava di Sei Personaggi in cerca d’autore) quei personaggi prendere vi-ta tra il pubblico stupito e partecipe di quel miracolo che è il teatro quando accade. Sempre in riferimento a quello spettacolo, Paolo Puppa ha parlato addirittura di una pri-ma dal sapore assoluto, come se, dopo tante messinscene dell’opera di Pirandello, per la prima volta si fosse tornati allo spirito della pièce del 1921. Quello con Pirandello è stato per Vasil’ev, come lui stesso ha ricordato, un incon-tro fondamentale, di stimolo anche per le successive ri-cerche sia come regista che come pedagogo. E forse negli etjud si può vedere una possibile soluzione di quei conflit-ti propri del teatro e cari a Pirandello: Teatro e Vita, For-ma e Vita, Realtà e sua rappresentazione.*

Il secondo appuntamento è stato incentrato sul perio-do russo e ha visto Vasil’ev a conversazione con Fausto Malcovati. La serata si è aperta con La Repubblica di Pla-tone (1992), spettacolo appartenente al ventennio di la-voro dedicato ai testi platonici che suggella il legame for-

male tra la maieutica socratica e l’approccio metodologi-co del pedagogo russo. Per Vasil’ev, Platone offre l’occa-sione di ragionare sull’essenza della parola, di delineare una metafisica delle parole. A differenza dei testi dram-matici, i testi platonici sono, infatti, costruiti senza sen-timenti: il conflitto dialogico si gioca esclusivamente a livello verbale. La Repubblica di Vasil’ev prende vita sui calcinacci e le rovine della sede del Teatro Scuola d’Arte Drammatica in ristrutturazione, dando l’impressione che si tratti dell’atto fondativo di un’utopia teatral-politica. A seguire la proiezione del primo atto di Cerceau di Viktor

Slavkin, presentato nel 1985 al Tea-tro Taganka di Mosca dopo tre an-ni di difficile lavoro con un gruppo di attori già affermati. Con questo spettacolo Vasil’ev considera con-clusa la sua escursione nel territo-rio della drammaturgia contempo-ranea o, meglio, ritiene di aver con

esso esaurito il tema della contemporaneità.**La serata francese è stata un omaggio all’attrice Valèrie

Dréville, da quindici anni impegnata nel lavoro con Ana-tolij Vasil’ev, che incontra nel 1992 alla Comédie-Françai-se durante la lavorazione di Le Bal Masquée, tragedia in versi di Lermontov nella quale incarna il ruolo della pro-

tagonista Nina. Seguono altri incontri con autori e generi molto diversi: Heiner Müller e Medea Ma-

terial, nel 2002, e il romanzo pornografico del Set-tecento francese, Thèrese Philosophe, nel 2008. Il la-voro su Thèrese viene raccontato con amore da Na-

tasha Isaeva, assistente per lo spettacolo, andato in scena all’Odéon di Parigi. Lo spettatore in sala ascolta il dram-ma radiofonico di Thèrese: la voce femminile della prota-gonista si alterna a quella maschile del suo caro aman-te, disserta di metafisica e si abbandona al piacere. Qual è la materia della parola? Suono o contenuto determina-no l’intonazione? Vasil’ev risponde alle domande scen-dendo nei dettagli del lavoro scenico. Ha concluso la se-rata un frammento dell’opera di Lermontov: la Dréville, giovanissima, affronta la morte in scena, con grande au-tenticità e pudore. L’attrice francese, convenuta a Venezia per l’occasione, ha raccontato la sua esperienza: «Conclu-so il Conservatorio credevo che la scuola fosse finita, ma la vera scuola è iniziata dall’incontro con Vasil’ev, il lavo-ro teatrale è una ricerca permanente». ***

Articolo curato dall’equipe di documentazione di «Pedagogia del-la scena»: *Francesca Picci, **Margherita Mauro, ***Giulia Tol-lis (Coordinamento di Maria Antonia Pingitore).

Tra i relatori si sono alternati Franco Quadri, Fausto Malcovati, Paolo Puppa e Claudio Longhi

Anatolij Vasil’ev raccontail suo teatroTre giornate di studioe incontri allo Junghans

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Paolo Baratta, presidente della Biennale dal 2008 dopo esserlo già stato alla fine degli anni novanta, è stato da poco nominato «vene-ziano dell’anno» (la cerimonia di consegna del riconoscimento si svol-gerà il 16 gennaio alle Sale Apollinee della Fenice). Il Premio, orga-nizzato dall’Associazione Settemari in collaborazione con la Cas-sa di Risparmio di Venezia e giunto alla xxxii edizione, motiva l’attribuzione riconoscendo a Baratta di «aver consolidata e diffu-sa, con signorile determinazione, la secolare presenza della Biennale nella vita e nel tessuto urbano della città, restituendo alla comunità edifici e ambienti prestigiosi, finalmente risanati, e suggerendo, con una visione strategica di largo respiro, il destino per Venezia quale privilegiata sede universale dell’arte e della cultura». Incontrandolo a distanza di un anno e mezzo dalla prima intervista (cfr. VMeD n. 29, pp. 10-11), cominciamo proprio dal rapporto tra Biennale e Venezia, chiedendogli quali progetti, dopo il ritorno in laguna del-lo straordinario patrimonio dell’Asac e la riapertura di Ca’ Giusti-nian, sono previsti per il futuro.

prima di TUTTo nosTra intenzione è procedere al completamento del nuovo padiglione centrale, do-ve è collocata la biblioteca, per farlo evolvere sem-

pre di più verso una casa de l -le arti, dove vi sia spazio anche per del le zone esposit ive, con fe ren -do quindi all’ex Padi-glione Italia un’ident ità che attual-mente non p o s s i e d e . In secondo luogo, com-patibilmen-te con le ri-sorse dispo-nibili, c’è la volontà di rendere at-tiva la Sala delle Colon-ne, che è un po’ il nostro monumento in Venezia: la sala è stata recen-temente «salvata», e desideriamo ardentemente che essa diventi uno spazio vivo della città. Sarà dunque luogo di danza, teatro, musica, ma ospiterà anche conversazioni, dibattiti e momenti d’incontro. La Sala delle Colonne de-

ve divenire una consuetudine per la cittadinanza, ed es-sere sempre più considerata un punto vitale. In terzo luo-go vogliamo incentivare ancora maggiormente il setto-re «Education», che negli ultimi tempi ha avuto uno svi-luppo incredibile, al di là delle migliori aspettative: con la Biennale Architettura abbiamo accolto 18.500 studen-ti, dalla scuola primaria in su. Questo deve divenire un fenomeno di massa, e abbiamo come ambizioso e preci-so obiettivo – calcolato e valutato anche nei suoi aspetti economici – di far visitare la Biennale una volta all’anno a tutti gli studenti del Veneto (il che, tradotto in numeri, significa 50000 presenze annuali). Ci stiamo attrezzan-do in questo senso, mettendo in campo iniziative come ad esempio il Vaporetto della creatività, e predisponen-do pullman che girino per il Veneto. Abbiamo deciso di investire molto in questo ambito con la convinzione che il miglior modo per arricchire il rapporto tra la Biennale e la città sia proprio rivolgersi ai giovani, che hanno una capacità spontanea di comprendere e di entusiasmarsi di fronte alle cose. Con loro dobbiamo interloquire conti-nuamente per diventare parte del loro futuro. Che con-cretamente vuol dire fare in modo che ciascun ragazzo di questa città e di questa regione prenda a considera-re la Biennale come parte integrante del suo curriculum, momento essenziale della sua formazione e quindi del-la sua vita. Certo il legame con l’area geografica di appar-tenenza convivrà con l’affermato profilo internaziona-le dell’istituzione. Citando ancora l’esposizione di Archi-tettura, quest’anno abbiamo stretto accordi con quaranta differenti università, un numero davvero impressionan-te: vogliamo che anche per tutti i loro studenti la Biennale divenga luogo d’elezione ed esperienza curricolare. Ci so-

no poi altre cose rivol-te specifica-mente al la cittadinan-za, dei pic-col i cenni di urbanitas. Per fare un solo esem-pio cito la sala dedica-ta ai bambi-ni, che apri-remo al pian terreno del nostro pa-lazzo: qui le mamme po-tranno ve-nire con i propri figli, fin dai loro primi mesi di vita, per incontrarsi e giocare in-

sieme. Mi sembra una cosa importante per Venezia, dove queste iniziative mancano, e mi sembra ancora più appro-priato e simbolico il fatto che si realizzi proprio qui. Più

Una Biennale apertae in ascolto dei giovani A colloquio con Paolo Baratta,«veneziano dell’anno» 2010

a cura di Leonardo Mello

La Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian.

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in generale, il nostro problema è quello che ho spesso ri-cordato: la Biennale è uno strumento tipico di una gran-de capitale, e la storia ha voluto che un’istituzione adatta a Parigi, Tokyo, New York si sviluppasse nella laguna di una città di poco più di duecentomila abitanti. Dobbia-mo dunque creare la nostra New York, che è formata dal-le città e dalla popolazione che ci stanno intorno. E i ra-gazzi sono i nostri interlocutori privilegiati: con loro dob-biamo far nascere un rapporto di fratellanza, far sì che vedano in noi un luogo dove si va per godere delle novi-tà, per dilatare la mente e la fantasia, per allargare la pro-pria percezione del mondo. Se si radica questa mentalità la Biennale potrà assolvere al meglio la funzione forma-tiva cui accennavo poco prima. Tra i prossimi appunta-menti vi sarà il Carnevale dei ragazzi, che abbiamo previ-sto ancora più speciale degli altri anni. Offriremo un’oc-casione di grande qualità ai bambini – e anche ai genito-ri che vengono al loro seguito di nascosto –: in una città che si presenta come luogo preposto all’acquisto e al con-sumo, creeremo invece un Carnevale dove ognuno si co-struisce la propria maschera, e dove quindi il valore d’uso supera il valore di scambio.

Nella nostra precedente conversazione accennava alla volontà di collaborare con realtà presenti nel territorio. Questo approccio dialo-gante continua anche ora?

Sì certo, continua con tutti coloro che hanno voglia di costruire momenti e progetti d’eccellenza. Siamo un po’ guardinghi di fronte a quanti invece vogliano inserirsi in un mero gioco di comunicazione. Perciò dialoghia-mo con quelle realtà venete – e ce ne sono parecchie – che hanno la stessa vocazione ad educare e che guardano all’arte con entusiasmo. Questo processo di collaborazio-ne è iniziato da poco, però si stanno delineando già del-le intese chiare e nette, a partire dalle istituzioni locali – Comuni, Province e Regione – che ci stanno sempre più considerando come parte del loro sistema di riferimento: da questo incontro nasce una grande energia costruttiva.

Passiamo a parlare più nello specifico del settore dedicato alle ar-ti dal vivo.

Se il Settore Danza Musica e Teatro avesse qualche risorsa in più saremo i primi, e non solo in Euro-pa. L’Arsenale della Danza, per fare un solo esem-pio, è un fenomeno noto nel mondo. Basterebbe una cifra assai modesta, ma attualmente invece stiamo trasferendo alle performing arts risorse di

altri settori, perché il contributo del fUs è troppo esiguo.È ipotizzabile un livello ancora più marcato di contaminazione

tra le diverse declinazioni delle arti performative?Di fronte alla parola contaminazione io faccio un passo

indietro, perché la contaminazione in quanto tale è sem-pre esistita in qualsiasi arte e in qualsiasi parte del mon-do. La danza contemporanea, ad esempio, è un’eviden-te commistione tra i passi e i ritmi sudamericani e afri-cani e la tradizione europea. La musica di oggi è un fiu-me di derivazioni e di collegamenti. L’arte non ne parlia-mo. La contaminazione insomma fa parte degli organi genitali dell’arte, è la sua genesi, non può essere assunta come elemento programmatico dalle istituzioni. L’espe-rienza artistica nasce dal desiderio di qualcuno, che vi-ve nel mondo e subisce le influenze più diverse, di crea-re qualcosa: è evidentemente contaminata all’origine. Se invece con questo termine vogliamo intendere l’interdi-sciplinarietà tra generi, be’ basta guardare la storia per ri-trovarne mille esempi, a partire dai testi shakespeariani. Realizzarla alla Biennale dipende soltanto dal fatto che i direttori e gli artisti incontrandosi facciano scattare scin-tille. Non è un metodo per organizzare le cose, anzi l’in-terdisciplinarietà come metodo conclamato è appannag-gio delle istituzioni mediocri. Prima dell’interdisciplina-rietà infatti ci sono le discipline, ci devono essere musi-cisti, danzatori, attori. La comunicazione tra le arti, co-munque, è sempre esistita. L’ultima riprova, per quan-to riguarda la Biennale, sta in una recente riunione con i diversi direttori, dove ho presentato la prossima edizio-ne di Arti visive, chiedendo a tutti se volessero mettersi in assonanza con i temi che vi saranno affrontati. È stata una conversazione incredibile: tutti hanno trovato spun-ti e connessioni. Ma questi collegamenti nascono nel mo-mento creativo, non posso essere certo io ad imporli. ◼

Paolo Baratta(foto Giorgio Zucchiatti

La Biennale di Venezia).

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Álex rigola è da maggio 2010 il nuovo direttore del set-tore Teatro della Biennale. In vista del prossimo festival, che si svolgerà nell’ottobre del 2011, ha chiamato in lagu-

na maestri della scena internazionale – Romeo Castellucci, Rodri-go García, Jan Lauwers, Ricardo Bartís, Thomas Ostermeier, Ca-lixto Bieito e Jan Fabre – a svolgere un workshop con giovani atto-ri, come momento preliminare all’appuntamento autunnale, del qua-le quegli stessi registi saranno i protagonisti assoluti. Gli chiediamo perché ha scelto proprio questi nomi.

Tutto è soggettivo nella vita. Potrei rispondere che mi piacciono moltissimo. Oppure che sono sette tra i più grandi creatori teatrali a livello mondiale. Ma in realtà questa scelta ha molto a che fare con il concetto di festi-val che stiamo cercando di realizzare. Finora si è trattato sempre di un’esibizione di spettacoli. Per la pri-ma volta invece voglia-mo costruire un auten-tico campus teatrale do-ve si condividano idee, progetti, forme e poeti-che. Ci saranno ovvia-mente momenti spetta-colari aperti al pubblico veneziano e internazio-nale, ma la parte principale sarà riservata a coloro che par-tecipano a questo campus. Perciò era fondamentale ave-re a disposizione grandi registi che avranno per una set-timana un rapporto continuo e ininterrotto con i parteci-panti: avvieranno dibattiti, terranno conferenze, mostre-ranno propri spettacoli e ne discuteranno dopo la visio-ne. Per alcuni di loro l’estetica e la forma sono l’elemen-to principale, per altri lo è il contenuto, per altri ancora il centro dell’interesse è di volta in volta l’attore, la parola, lo spazio scenico... Ma nella diversità d’approccio hanno di certo una cosa in comune: sono tutti artigiani, posseggo-no una pennellata personale, un tocco, un modo di dipin-gere che li rende speciali e inconfondibili.

Alla fine ciascun regista presenterà un lavoro di circa quindici mi-nuti. Perché un tempo così delimitato?

L’ultimo giorno del festival ci sarà una presentazione pubblica dei sette laboratori destinati ad attori professio-nisti e suddivisi in più momenti di lavoro. Abbiamo scelto come tema guida i sette peccati capitali nella loro versio-ne contemporanea (c’è chi lavora sulla pedofilia, chi sul-la burocrazia e così via). E abbiamo voluto fare un rega-lo alla città di Venezia, componendo un unico spettaco-lo diretto dai sette registi. Stiamo cercando di trovare un palazzo nel quale proporre uno dopo l’altro questi sette segmenti. Ecco dunque la necessità di con-centrare ciascuno di essi in pochi minuti. ◼

«ho proposTo Un laboraTorio che fosse ri-

volto sostanzialmen-te agli attori, i qua-li nutrono una preoc-cupazione rispetto al-la complessità del loro mestiere. Per complessità intendo la consapevolezza di essere non solo dei portatori di segno ma di esserne anche l’incarnazione, di essere cioè a loro volta immagine e non solo portatori d’immagine. Tale questione si è insinuata a problematicizzare ogni lo-ro gesto: tutto è diventato un problema nuovo, perché ab-biamo cercato di indagare l’essenza misteriosa dell’attore sulla scena, la sua presenza, la sua provenienza e la sua di-rezione, le leggi che inaugura e quelle che invece sospen-de, da quale mondo ci parla e di che tipo di realtà ci rende partecipi. Abbiamo dunque tentato di mettere a fuoco la sostanza dell’attore inteso non solo come corpo e come ri-petitore di segni, ma analizzando anche la sua funzione di passaggio e il suo essere perciò uno specchio per lo spet-tatore. Abbiamo discusso sull’inadeguatezza dell’avere un metodo sempre valido, e cercato quindi di comprendere la poliedricità della figura dell’attore, la sua completa ubiqui-tà nell’intermittenza di essere e non essere e nel mettere in comunicazione due mondi apparentemente inconcilia-bili: quello ultramondano, del palcoscenico, un mondo di fantasmi, con quello reale, nel quale è immerso lo spetta-tore. L’attore comunica su una superficie sottilissima, che è appunto l’incontro tra queste due dimensioni comple-tamente distanti, dal momento in cui il teatro non è sem-plicemente il riflesso della realtà che ci circonda, non è un commento all'esistente ma un mondo che si inaugura e che molto spesso trascina in un’altra dimensione. Gli at-tori sono tesi su un diaframma che unisce questi due mon-di: una sorta di cancello, un’apertura.

Per quel che riguarda il Festival del prossimo ottobre, ho scelto di occuparmi del «guardare» come nuovo peccato capitale dell’epoca che stiamo vivendo. Si tratta anche di

un puro paradosso perché il teatro è proprio il luogo dello sguardo, come vuole l’eti-mologia greca. Però guardare è contem-poraneamente una condanna: nel no-stro tempo non è più un gesto innocen-te, e guardare un’immagine piuttosto che non farlo può essere un atto colpe-

vole. Dunque mi orienterò su questo ver-bo, su questo gesto così semplice e quoti-

diano ma divenuto oramai problematico». ◼

La Biennale-campusdi Álex Rigola A Venezia sette maestridel teatro contemporaneo

L’attore, specchio per lo spettatoreRomeo Castellucciracconta il suo laboratorio

a cura di Leonardo Mello a cura di Ilaria Pellanda

Sopra: Paolo Baratta e Álex Rigola(foto La Biennale di Venezia). Romeo Castellucci.

Con Romeo Castel-lucci inizia la serie di inter-

viste ai registi che saranno prota-gonisti della Biennale Teatro 2011, e

che hanno già cominciato a lavorare con giovani attori professionisti. Nelle pros-sime pagine sarà poi il turno di Rodrigo García e Ricardo Bartís, mentre Jan Lauwers, Thomas Ostermeier, Ca-

lixto Bieito e Jan Fabre saran-no presenti nel prossimo

numero.

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«qUesTo primo workshop è servito a conoscer-ci. Con una specie di gioco ho cercato di con-vincere ogni attore che io vedo, e vedo molto be-ne. Per me la cosa più importante è il vincolo

che si stabilisce tra lo sguardo del regista e quello dell’at-tore: che quest’ultimo accetti che uno sguardo lo guardi, lo giudichi, formuli un’opinione su ciò che sta succeden-do. E gli chieda di coinvolgersi in prima persona, di aprire la sua personalità poetica al fatto stesso del recitare, sen-za preoccuparsi affatto del personaggio e dell’opera, ma solo di quel vincolo intellettuale ed emozionale che strin-ge con colui che lo guarda, e che alla fin fine si rivela esse-re lo spettatore.

Ho scelto come peccato la burocrazia, in particolare quella che si vive all’interno del teatro, e che però ha lo stesso ordine stupido ed esprime la medesima necessità di controllo dell'altra. Abbiamo scelto Amleto come pretesto, e abbiamo cercato di lavorare intorno a questo testo em-blematico del teatro occidentale. Credo che Amleto sia una riflessione teorica sulla recitazione. Anche il dilemma «es-sere o non essere» ha un’implicazione fortemente teatra-le. Quell’interrogativo rispecchia una preoccupazione eu-ropea, ontologica e di indole esistenziale. L’esperienza del mio Paese (e della mia città, Buenos Aires), mi porta ad af-fermare che il problema non sia tanto l’essere o il non esse-re, quanto lo sTare, l’apprendere a sTare in scena: è domi-nando questo sTare che si produce la verità scenica, non anelando a un’idea di interiorità che dia legittimità all’azio-ne o all’espressione teatrale. C’è qualcosa che distingue gli attori in tutto il mondo: anche se sono molto bravi e pos-seggono una tecnica assai sviluppata sanno però che non è il loro bagaglio tecnico ciò che li fa recitare, ma qualco-sa di più poetico e inafferrabile. Le tecniche migliorano la respirazione, il controllo del corpo, la resistenza, la capaci-tà di coordinare stimoli di natura differente. Ma c’è un al-tro aspetto che entra in gioco nel momento in cui un at-tore recita, e sono le associazioni che lui produce. E so-prattutto dove se ne va l’attore quando sTa in scena. L’idea del personaggio è una nozione tranquillizzante, perché si avvicina alla realtà, e della realtà mantiene i codici logici, mentre la recitazione come pratica dello sTare in scena porta l’attore in un luogo dove può essere e non essere al-lo stesso tempo. Come il padre morto di Amleto». (l.m.) ◼

«a me non piace particolarmente guidare wor-kshop, perché non ho una spiccata vocazione pedagogica. Perciò accetto solo quando l’op-

portunità mi sembra interessante, come in questo caso. Il mio punto di partenza è fare in modo che gli attori si as-sumano una responsabilità maggiore rispetto a quella che sentono di avere quando lavorano in una struttura teatra-le normale. Spesso sembra che un attore non sia in grado di pensare. L’importante è che impari bene a memoria il testo di un autore, che sta sopra di lui, e che ascolti le indi-cazioni del regista, anche lui come l’autore posizionato a un livello superiore. Insomma, nel mondo teatrale esiste una sorta di struttura piramidale nella quale l’attore è con-siderato un elemento secondario. E invece alla fine è l’in-granaggio più importante, il vero centro di tutto, perché è lui che poi va in scena. Credo sia necessario dare mag-giore dignità agli attori, considerarli come veri e propri creatori. Su queste basi, prima di iniziare, ho scritto una lettera agli attori con i quali avrei lavorato alla Biennale: in essa rifiutavo l’ipotesi di utilizzare idee mie per il semi-nario, dicendo che al contrario lo avrei condotto a parti-re da proposte loro. E per questo, in quell’epistola preli-minare, ho chiesto a ciascuno i materiali più strani e anti-teatrali che ci si possa immaginare: 1. un testo di tre pagi-ne che avesse come tema un particolare quadro di Brue-gel, Il trionfo della morte, che è un’opera assai complessa e dai forti connotati onirici; 2. una “composizione sonora” di cinque minuti (non importa se fosse musica, rumori o quant’altro); 3. un’idea di spazio. Quando ci siamo riuniti per la prima volta abbiamo cominciato a lavorare su que-sti materiali, che si sono rivelati assai ricchi e prometten-ti. Il tema del workshop è dunque il teatro stesso, l’attore-autore, l’attore-creatore. La connessione con la mia ope-ra è data dalla parola libertà. Io cerco di non contamina-re le persone con le mie idee, ma di accompagnare invece ciascun attore che lavori con me nel suo processo creati-vo, lasciandogli un’assoluta libertà. Devo stare molto at-tento a esprimere opinioni, con-sigli e punti di vista, perché se li impongo finisco per limita-re quella libertà, che è il bene più prezioso. La base del laboratorio è indagare il frastagliato universo di ogni persona che vi partecipa, come in-tende il teatro, co-sa è capace di fa-re e fino a dove si può spingere.» ◼

Lo sguardo sull’attoredi Ricardo BartísLa burocrazia indagataa partire da «Amleto»

L’attore-creatoredi Rodrigo GarcíaUn workshop all’insegna della libertà espressiva

a cura di Leonardo Mello

Sopra: Ricardo Bartís durante il workshop(foto Giorgio Zucchiatti – La Biennale di Venezia).Rodrigo García.

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vicenza, 6 novembre, TeaTro olimpico. Mentre in sala una voce magnetica chiede bon

ton (spegnete i cellulari) in angloveneto, fuori le pompe ruttano fango e rumore – sono passati due gior-ni e proprio questa zona, quella del Palazzo del Territorio che presidia la porta per Padova (e, dopo Palladio, il fu-turo del teatro), è la più umiliata dall’acqua e dalla natura.

Da una delle prospettive scamozziane entra un perso-naggio che di prospettive non ne vede più, Edipo: stiva-loni di gomma, forse prestati da un vigile del fuoco – e poi par-lano male della 626 – la mano appoggia-ta sulla spalla di una virginale Antigone, si aggira invocan-do la luce. Niente di nuovo, lo fa da due-mila anni nella lon-tana Grecia del mi-to, e da centotredici anche nelle migliori famiglie.

Ma questa sera – solo questa, mi di-spiace non si repli-ca – riavrà la vista. S’ode a destra uno squillo di tromba e Nane Oca, il cappel-lo colle tese poco te-se, un po’ Passator Cortese un po’ Humprey in Casablanca, s’affaccia dalla versura di sinistra, caracolla un’andatura equina cartape-stando senza soggezione il sacro legno palladiano. Con la leggiadria della super-stizione – quella attitudine che appunto alle cose, letteralmente, ci sta sopra – estrae uno svolazzante santino e lo fa passare davanti agli occhi feri-ti di Edipo con la tragica in-determinazione della piuma di Forrest Gump. Ed è subito miracolo (ordinaria ammi-nistrazione, per il teatro vero) ed ecco che Edipo scopre per la prima volta il Monumento palladiano.

Che sollievo per tutti, che li-bertà dalla schiavitù della retori-ca e dalla pompa dei Beni Cultu-rali: quel catafalco, quel feticcio, quella concrescenza di punti di vista è come se fino a un attimo prima non ci fosse stato e adesso c’è – un miracolo del miracolo, questa volta della cultura, quel-la ancora sempre capace di inse-guire i sogni. E così Edipo, spa-lancate le orbite, le sue e le no-stre, alla cosmologia dell’archi-tettura e del teatro, torna a ve-

dere: e la prima cosa che gli si para davanti è naturalmen-te di nuovo (finalmente) una rappresentazione, che altro mai, le prove maldestre e sincere di una compagnia filo-drammatica alle prese con La commedia degli orchi da san-gue, arcadica vicenda di rivalità fra uomini e vampiri, di amore, di sangue e di quelle cose lì. Attori del Laborato-rio Olimpico, coltelli per canini, libri per companatico. Il resto è teatro, animato dibattito, amarcord di Fernando Bandini, appunto, senza soluzioni di continuità, come un fiume in piena. Fuori ha straripato il Bacchiglione, dentro esondano gli affetti.

Grazie, Scabia.Nel quadro di questo Laboratorio Olimpico 2010, pic-

cola coraggiosa iniziativa progettata dall’Accademia Olimpica di Vicenza e sostenuta dall’Assessorato alla Cultura – con la collaborazione degli operatori vicenti-

ni, dalla Piccionaia agli attori di tutte le compagnie, che da alcuni anni porta nel primo teatro coperto del mondo maestri come Ronconi, Barba, Stein, Delbono (quest’an-no appunto le Albe e Giuliano Scabia, Bettin, Vivian, Zanco); l’abbattitore dei muri, lo zingaro dell’animazio-ne, l’autore einaudiano della trilogia di Nane Oca ha «visi-tato» l’Olimpico nei panni senza tempo del suo alter ego; e per questo ha scritto e giocato un testo dedicato al teatro vicentino e al suo custode, Edipo, probabilmente il primo dai tempi della sua inaugurazione nel 1585.

Che in fondo per ri-scoprire le cose, non giovi un po’ di carta-pesta e di innocenza, di ascolto e di «instabilità»?

*Direttore artistico Laboratorio Olimpico di Vicenza

Nane Oca rendela vista a Edipo

di Roberto Cuppone*

Nane Oca rivelato visita il Teatro Olimpico,per lo stupore va in oca, narra visioni

e tramite il magico santinoprova a ridare la vista a Edipo reche lo aspetta insieme ad Antigone

evento unicoa partire da Giuliano Scabia,

Trilogia di Nane Oca (Einaudi editore);con Giuliano Scabia e Andrea Dellai,

Giorgia Peruzzi, David Riganelli,Alessandro Sanmartin, Lucia Schierano,

Marta Zanetti, Federico Zaltron.

Una scena da Nane Oca rivelato visita il Teatro Olimpico

( foto di Maurizio Conca).

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