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Le notizie e i video di politica, cronaca, economia, sport - i...

Date post: 21-Feb-2020
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/EL 1997 MUHAMMAD ALI mi dis-se che contava di vivere fino a novant’anni. Eravamo in pull-man, diretti a una scuola ele-mentare di Boston, dove sa-

rebbe intervenuto a un seminario sulla tol-leranza destinato ai piccoli allievi. A quel tempo il morbo di Parkinson era già eviden-te nel suo modo di parlare, ma il fisico era ancora forte e la sua mente del tutto lucida. Strada facendo, si abbandonò ai ricordi del-le persone importanti della sua vita scom-parse prima di lui. Suo padre, Elijah Mu-hammad, Sonny Liston e pochi altri. «Sì, non mi dispiacerebbe arrivare a novant’an-ni» disse. «Credo proprio di potercela fare. Ma se a ottantanove mi sentirò ancora in forma, potrei cambiare idea e chiedere a

Dio di lasciarmi un altro po’ di tempo».Purtroppo, invece, non si sarebbe senti-

to in forma ancora a lungo, non fisicamen-te almeno. Il suo declino è avvenuto sotto gli occhi del mondo. I sintomi di cui iniziò a soffrire nel 1984 — difficoltà di parola e di equilibrio, volto inespressivo (la cosiddet-ta “maschera”) e tremito delle mani — e per i quali si era fatto ricoverare quell’anno per accertamenti, componevano il quadro di una sindrome parkinsoniana.

Il dottor Stanley Fahn, direttore del Cen-ter for Parkinson’s Disease and Other Mo-vement Disorders della Columbia Universi-ty, era il medico principale dell’équipe che al New York-Presbyterian Hospital si occu-pò delle analisi di Ali.

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μIL BIOGRAFO UFFICIALE di Ali. Lo ha conosciuto, frequentato, accom-pagnato. Ha intervistato il suo mondo (più di ducento persone). Senza perdere la capacità critica.

Thomas Hauser, scrittore americano, ha ag-giunto ora un ultimo capitolo al suo libro, *N�QPTTJCJMF�Ò�OJFOUF, descrivendo gli ultimi an-ni del pugile. Quelli più tormentati e malati.

In tanti criticano l’ultimo Ali.«La domanda è: si era imborghesito? Sì,

ma soprattutto era diventato un uomo diver-so. Non più rabbioso e ribelle, ma portato al-la comprensione, alla pace, alla condivisio-ne. Voleva unire, non dividere. Altri hanno criticato le sue prese di posizioni. Non le ha scritte lui, è il rimprovero. Certo, le parole non erano sue, visto che aveva problemi con

il linguaggio, ma del suo staff e della moglie Lonnie, ma il pensiero apparteneva a lui. An-che in Italia se un vostro calciatore parlasse come Shakespeare voi direste: non è farina del suo sacco».

La moglie, Lonnie, insiste che la boxe non c’entra con il Parkinson.«Dissento. La boxe c’entra eccome. Ali ha

combattuto troppo, avrebbe dovuto smette-re dopo l’ultimo match con Frazier a Manila nel ’75. I pugni alla testa fanno male, deva-stano il cervello. Ho tenuto i conti: Ali contro Frazier ha preso 440 colpi, contro Spinks 482, contro Holmes 320. Mentre nel ’66 ave-va messo ko Cleveland Williams in tre round, mettendo a segno cento colpi, e su-bendone solo tre. La differenza è tutta lì».

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(RAZIE ALLA LIBERATORIA FIRMATA dal campione per facilitare le ricerche del mio libro, *NQPTTJCJMF�Ò�OJFOUF, Fahn mi parlò apertamente delle sue condizioni di salute. A quel tempo la diagnosi non era di morbo di Parkinson. Secondo il dottor Fahn, i suoi sintomi erano la conseguenza dei traumi fisici che avevano distrutto le cellule del tronco cerebrale. «Il mio paziente mi ha autorizzato a parlarle con totale sincerità e trasparenza» mi disse il medico. «Ecco cosa ne penso. Secon-do me si tratta di parkinsonismo post-traumatico, dovuto al-le lesioni procurate sul ring. Dubito che possa essere la conse-guenza di un unico incontro. La mia ipotesi è che la causa sia-no stati i ripetuti colpi alla testa nel corso della carriera».

-�BHPOJB�EJ�VOB�GBSGBMMBNei tre decenni successivi il mondo ha assistito a uno spettacolo senza precedenti per dura-

ta e trasparenza: il lungo e desolante declino fisico di una delle icone più amate di sempre. Po-co alla volta, Ali ha perso tutte le qualità che lo contraddistinguevano: l’agilità, la voce, la bel-lezza. Un tempo l’espressione del suo viso sprizzava felicità. Negli ultimi anni ci sono stati mo-menti in cui sembrava portare incise sul volto tutte le sofferenze e le brutture del mondo. Le sue immagini non suscitavano più gioia e trepidazione: erano il preludio della fine. Tutti teme-vamo il peggio da un momento all’altro.

Nella sua versione più forte, vitale e ribelle, Ali incarnava appieno il fulgore della gioventù. Si poteva sostenere che fosse la persona più attraente, carismatica, fisicamente dotata della Terra. E vedere ridotto in sedia a rotelle l’uomo che un tempo aveva volato come una farfalla e punto come un’ape era straziante.

La vita offre molte cose meravigliose di cui godere: le rose e le albe, la musica di Mozart e la Cappella Sistina, la felicità e l’amore. Ma tanta bellezza è sempre accompagnata dalla consa-pevolezza della nostra mortalità. E se abbiamo la fortuna di vivere abbastanza, tutti noi siamo condannati al declino fisico e mentale. Tuttavia, alcuni sono più tristi di altri. Certi tramonti sono dorati, altri meno. Gli anni migliori di Ali furono davvero eccezionali. Gli ultimi, invece, non sono certo stati clementi. E la sua agonia, svoltasi in modo così pubblico, è durata tre inte-ri decenni.

Possiamo dire a noi stessi che la cosa non ci riguarda, che è accaduta a qualcun altro, che noi non abbiamo preso tutti i colpi in testa che ha preso lui. Ma per chi ha assistito ai suoi anni di gloria, seguire la parabola discendente di un’esistenza tanto straordinaria ha rappresentato un innegabile e doloroso memento mori.

$J�TPOP�TFNQSF�J�HJPSOJ�CVPOJÈ il lato oscuro della vita umana. Venticinque anni fa Ali mi disse: «Non voglio che la gente

provi pietà per me. Ho avuto una bella vita, in passato, e continuo ad averla anche adesso. Sa-rebbe molto peggio se soffrissi di una malattia contagiosa, perché in quel caso non potrei gio-care con i bambini e abbracciare le persone, mentre il fatto che non riesca a parlare è più un problema per gli altri che per me. Non mi impedisce di fare ciò che voglio e di essere chi sono». In quell’occasione, Lonnie Ali aggiunse: «Il declino fisico è terribile per chiunque, ma per chi vi-ve sotto i riflettori e si ritrova privato del talento che definiva la sua identità è ancora più spa-ventoso. È quello che è successo a Muhammad, e per la prima volta in vita sua ha avuto paura. Ha smesso di esprimersi con la libertà di un tempo, per il timore che, appena avesse aperto boc-ca, la gente avrebbe pensato: “Guarda, non riesce neanche più a parlare”. Qualche beninten-zionato ha sostenuto che non era malato, solo annoiato o stanco, o magari un po’ depresso. Cer-cavano di proteggerlo, ma la verità è che Muhammad ha davvero un problema fisico e non c’è niente di cui vergognarsi a essere malati, qualunque sia la tua malattia. Muhammad la affron-ta ogni giorno a viso aperto, e anche gli altri dovrebbero seguire il suo esempio». In seguito le sue condizioni fisiche sono peggiorate vistosamente. I sintomi si sono aggravati. Negli ultimi anni non riusciva davvero più a parlare. Gli era sempre più difficile comunicare, e non soltanto con il pubblico, ma anche con le persone più care. Era doloroso per chi lo amava, e anche per lui. Eppure avevi la netta impressione che fosse in pace con se stesso. All’inizio del 2015 Rashe-da Ali (una delle sue figlie) mi disse: «La prima volta che gli hanno comunicato la diagnosi,

mio padre ne è uscito di-strutto. Chiunque avrebbe reagito allo stesso modo. Ora però non se ne preoccupa più di tanto. Lui pensa all’aldilà. E il suo modo di vedere la malattia ha cambiato anche il nostro. I giorni buoni, quelli in cui riesce a comuni-care, sono sempre più rari, ma a volte succede. Dipende dalla giornata e dall’orario. È la malattia a decidere».

La fede gli è stata di grandissimo aiuto. Lo consolava il pensiero che quegli ultimi anni fossero soltanto una transizione, prima di accedere al paradiso.

«Ho accettato la malattia perché è il volere di Dio» mi confidò. «So che Dio non assegna a nessuno un carico superiore alle sue forze. E ciò che sto passando adesso sarà un tempo brevissimo rispetto all’eternità».

-P�THVBSEP�EFM�NPOEPCiò che il mondo ha visto negli ultimi anni influirà sulla visione di Ali

delle prossime generazioni? Lui non voleva essere ricordato così. Quale sarà la sua immagine futura? Ali ha un significato speciale per quanti di noi hanno vissuto negli anni Sessanta. «Non hai idea di cosa rappresenti per noi» è un ritornel-lo che si è sentito ripetere spesso. È stato una parte essenziale della vita di tante perso-ne. I giovani di oggi non hanno conosciuto in prima persona Ali nel pieno del suo fulgore. Chi ha meno di trent’anni potrà rispettarlo, ma non lo ama quanto le generazioni passate, perché non ha vissuto nella sua epoca. Le immagini recenti di un Ali fisicamente debilitato si sono im-presse a fuoco nella coscienza collettiva. È così che le ultime due generazioni lo hanno visto in presa diretta. Ai loro occhi, il resto appartiene al passato e alla memoria dei vecchi.

Ci vorrà del tempo prima che queste immagini sbiadiscano per lasciare di nuovo posto a quelle di Ali giovane. Ma queste ultime sono alla portata di chiunque. E in futuro lo sguardo del mondo tornerà a concentrarsi sull’atleta inarrestabile, l’uomo vitale ed elettrizzante di un tempo, restituendogli il giusto posto nella storia. Le generazioni a venire lo vedranno con più chiarezza di quelle presenti.

4POP�JM�QJá�CFMMPPer anni mi sono chiesto quale sarebbe stato il lascito di Ali, a parte la sua eccellenza sul

ring, e ogni volta sono tornato al ricordo del suo esempio di orgoglio nero e al suo rifiuto di com-battere in Vietnam. “È stato un faro di speranza per gli oppressi in ogni parte del mondo” dice-vo a me stesso. Ha rivoluzionato l’esperienza dell’identità nera per decine di milioni di perso-ne. Quando, davanti allo specchio, diceva: “Sono il più bello”, stava anticipando il concetto “ne-ro è bello” ben prima che diventasse di moda. E quando ha stracciato la cartolina di leva, si è op-posto agli eserciti di tutto il mondo, in difesa del principio pacifista. Negli ultimi anni, però, mi sono convinto che l’eredità di Ali comprenda anche un altro elemento ugualmente essenziale.

Ha incarnato l’amore. Ad Ali non servono elogi funebri. Il modo in cui ha vissuto la sua vita è già un tributo sufficiente. Sul ring ha rappresentato al massimo il romanticismo della boxe e al contempo la sua atrocità. Come pugile aveva una qualità quasi spirituale, che gli ha consentito di superare i limiti fisici della maggior parte degli altri atleti. Evocava le suggestive parole di Lord Byron: “Dentro di me c’è qualcosa in grado di sconfiggere ogni tortura e di travalicare il tempo, e che continuerà a vivere quando io avrò esalato l’ultimo respiro”.

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La storia ri-corderà gli altri

pugili per le loro imprese sul ring. Ali

ha lasciato un ricordo indelebile anche per quel-

le compiute fuori. Ha eleva-to il suo sport tramutandolo in

una metafora della vita america-na. Nel corso degli anni, il mondo in-

tero è diventato il suo palcoscenico. Mark Twain ha scritto: “È strano come il

coraggio fisico sia tanto comune e quello morale tanto raro”. Ali li possedeva entrambi.

Forse non ha cambiato il mondo quanto avreb-be voluto, ma la sua presenza lo ha reso comunque

migliore. Ha trasmesso gioia a tutti coloro che l’han-no conosciuto, e dato calore alle nostre esistenze. Non

ha mai perso l’occasione di aiutare qualcuno. Amava la vi-ta e io non ho mai incontrato nessuno pieno d’amore quanto

lui. Non aveva bisogno di conoscerti di persona per toccarti il cuore.Una delle cose che ci spaventano di più della morte è il pensiero di essere dimentica-

ti. Sono ben pochi gli uomini e le donne assurti a un rango paragonabile a quello di Ali, e lui sa-rà ricordato in eterno. È diventato immortale già in vita.

*O�QBDF�DPO�TF�TUFTTPConoscere bene una persona è sempre un’opportunità. Nel caso di Muhammad Ali, è stato

un privilegio speciale. Ho trascorso innumerevoli ore in sua compagnia e viaggiato con lui in tutto il mondo. Ci sono stati moltissimi momenti belli e nemmeno uno brutto, ma un episodio in particolare mi è rimasto impresso. Eravamo in aereo, di ritorno negli Stati Uniti dall’Indone-sia, dove Muhammad era stato sommerso da folle di ammiratori. Migliaia di persone venute da villaggi remoti per accoglierlo all’atterraggio. Bambini che non erano ancora nati quando combatteva, in piedi sotto la pioggia a urlare il suo nome. Secondo le stime delle autorità, alla moschea di Istiqlal, a Giacarta, si erano raccolte duecentomila persone. Sopraffatta ogni par-venza di cordone di sicurezza, avevano circondato la macchina, cantando: «Ali! Ali!». L’auto procedeva a passo di lumaca, mentre Muhammad implorava l’autista: «Rallenti, per favore, non faccia del male a nessuno». Insomma, la visita era durata dieci giorni e ormai stavamo tor-nando a casa. Il volo, attraverso dodici fusi orari, sembrava interminabile. Muhammad e Lon-nie sedevano l’uno accanto all’altra, io e Howard Bingham sul lato opposto del corridoio. Dopo un po’ mi assopii. Al risveglio, ore più tardi, l’oscurità fuori dal finestrino era assoluta. In cabi-na le luci erano spente, e i passeggeri dormivano. Tutti, tranne Muhammad. Lui vegliava con il faretto acceso; leggeva il Corano. E in quel momento, nell’alone di luce, mi è parso più forte e più in pace con se stesso di qualsiasi altra persona abbia mai conosciuto. ª����� ����� ������CZ�5IPNBT�)BVTFS�BOE�.VIBNNBE�"MJ�&OUFSQSJTFT�--$��5ISPVHI�BSSBOHFNFOU�XJUI�UIF�.FOEFM�.FEJB�(SPVQ�--$�PG�/FX�:PSL�ª��������&EJ[JPOJ�1JFNNF�4QB

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j4APEVA DI NON ESSERE PIÙ QUELLO di una volta, ma ten-deva a ignorarlo. Anche noi sottovalutiamo molti nostri sintomi e rimandiamo la visita al medico. Ho parlato con Ali proprio di questo e lui mi ha det-to: rifarei tutto».

L’esposizione del corpo di Ali malato non è stata impietosa?«Arriva per tutti il momento della fine. Ognuno vorrebbe per sé e i

proprio cari una vecchiaia dignitosa. Mio padre è sopravvissuto per nove mesi a un infarto. Ma non è più stato lui. Attorno a noi vediamo corpi straziati, persone in carrozzella, occhi persi, bocche contorte, vi-si in preda a spasmi, e spesso tendiamo a dimenticarci che sono perso-ne. Vedere Ali in quello stato, con il braccio tremante mentre regge la fiaccola ad Atlanta 96, ci ha portato ad avere più comprensione verso malati e disabili. Perché in loro rivediamo Ali, un campione».

Lei ha scritto anche “Missing” da cui è stato tratto il film. Quanto mancherà Ali all’America?«Gente come Ali e Mandela non si sostituiscono. Nello sport ci sono

e ci saranno sempre campioni eccezionali: Michael Jordan e LeBron Ja-mes sul parquet danno spettacolo. E anche Leo Messi su un campo da gioco. Ma fuori? Come usano la loro popolarità? Ali ha parlato alla gen-te, è stato contro la guerra, per l’eguaglianza dei diritti, ha pagato un prezzo altissimo per questo, i campioni di oggi non hanno questa po-polarità e soprattutto non rischiano la loro fama per un principio socia-le. Ali è stato qualcosa di più, si è fatto carico degli oppressi, non si è ar-reso e ha vinto per loro».

La sua conversione all’Islam quanto lo ha influenzato?«Ali ha avuto varie fasi. In un primo momento si converte al movi-

mento The Nation of Islam di Elijah Muhammad, corrente molto radi-cale e aggressiva, che dichiara la separazione dai bianchi, poi però Ali ammette di aver sbagliato e opta per un Islam più ortodosso, pacifico, che abbracci tutti. Direi che il suo essere contro le guerre lo rende sem-pre molto attuale».

L’Italia lo ha conosciuto come Cassius Marcellus Clay. «Siete un paese fortunato. Voi avete assistito al suo debutto ai Gio-

chi di Roma nel ’60. E lo avete visto all’inizio, nel suo splendore, quan-do era un ragazzo bellissimo, brillante, meraviglioso. Sul ring e con la parola. Ali nello Zaire e nelle Filippine ha fatto cose impossibili. Ma è in Italia che tutto è iniziato. Vi invidio perché avete goduto di quella magia».

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0RA RICONOSCEVA LA VOCE DI UN UOMO abituato comandare.

«Spogliati? E cioè?».Nicolas accompagnò la domanda con un’espressione di

incredulità. Non si aspettava questa richiesta. Aveva per cento volte immaginato come sarebbe andato questo in-contro e per tutte e cento le volte mai aveva preso in consi-derazione l’ipotesi di doversi spogliare.

«Spogliati, guaglio’, chi cazzo ti sa. Chi me lo dice che non tieni registratori, cimici e maronne…».

«Don Vitto’, adda muri’ mammà, ma come vi permette-te di pensare…».

Usò il verbo sbagliato. Don Vittorio alzò la voce per farsi sentire dalla cucina, per sovrastare la voce del comico e le risate. Un boss è boss quando non ha limiti a ciò che si può permettere.

«Qua abbiamo finito».I due con i pantaloncini del Napoli non fecero nemmeno in tempo a tornare indietro che Ni-

colas già aveva iniziato a sfilarsi le scarpe.«No, no, vabbuo’, mi spoglio. Lo faccio». Tolse scarpe, poi pantaloni, poi la maglietta e rimase in mutande. «Tutto, guaglio’, ché i microfoni pure nel culo te li puoi mettere». Nicolas sapeva che non era questione di microfoni, davanti all’Arcangelo doveva essere so-

lo un verme nudo, era il prezzo da pagare per quell’appuntamento. Fece una piroetta, quasi divertito, mostrò d’essere senza microfoni e microtelecamere, ma di possedere autoironia, spirito che i capi perdono, per necessità. Don Vittorio gli fece il gesto di sedersi e senza fiatare Nicolas indicò se stesso, come a chiedere conferma di potersi sedere così, nudo, su sedie bian-che e immacolate. Il boss annuì.

«Così vediamo se ti sai pulire il culo. Se lasci sgommate di merda significa che sei troppo pic-colo, non ti sai fare il bidet e ti deve ancora pulire mammà».

Erano uno di fronte all’altro. Don Vittorio non si era messo a capotavola di proposito, per evitare simbologie: se l’avesse fatto sedere alla sua destra, il ragazzino avrebbe pensato chi sa cosa. Meglio uno di fronte all’altro, come negli interrogatori. E nemmeno volle offrirgli nul-la: non si divide cibo sulla tavola con uno sconosciuto, né poteva fare il caffè a un ospite da va-gliare.

«Allora sei tu ’o Marajà?».«Nicolas Fiorillo…».«Appunto, ’o Marajà… è importante come ti chiamano. È più importante il soprannome del

nome, lo sai? Conosci la storia di Bardellino?».«No».«Bardellino, guappo vero. Fu lui che fece, di bande di bufalari, un’organizzazione seria a Ca-

sal di Principe».

Nicolas ascoltava come un devoto ascolta messa.

«Bardellino aveva un nome che gli fu dato quando era piccolo e se lo portava appresso pure da grande. Lo chiamavano Pucchiac-chiello».

Nicolas si mise a ridere, don Vittorio an-nuì con la testa, allargando gli occhi, come a confermare di star raccontando un fatto sto-rico, non leggenda. Qualcosa che fosse agli atti della vita che conta.

«Bardellino per non tenere la puzza di stal-la e terra addosso, per non stare con le un-ghie sempre nere, quando scendeva in pae-se, si lavava, si profumava, si vestiva sempre elegante. Ogni giorno come fosse domenica. Brillantina in testa… capelli umidi».

«E come uscì ’stu nomm’?».«All’epoca era pieno di zappatori in paese.

A vedere nu’ guagliunciello sempre accussì, in tiro, venne normale: Pucchiacchiello, co-me la pucchiacca di una bella donna. Bagna-to e profumato come la fica».

«Ho capito, ’nu fighetto».«Fatto sta che ’stu nomm’ non era nomm’

’e chi pò cumanna’. Per comandare devi ave-re un nome che comanda. Può essere brutto, può non significare niente, ma non adda es-sere fesso».

«Ma i soprannomi non li decidi tu». «Esattamente. E infatti quando divenne

capo, Bardellino voleva che lo chiamassero solo don Antonio, chi lo chiamava Pucchiac-chiello passava ’e guaje. Davanti nessuno lo

poteva chiamare così, ma per i vecchi del pae-se sarebbe rimasto sempre Pucchiacchiel-lo».

«Però è stato un grande capo, no? E allora, adda muri’ mammà, si vede che il nome non è così importante».

«Ti sbagli, ha passato una vita sana a to-glierselo di dosso…».

«Ma che fine ha fatto poi don Pucchiac-chiello?» lo disse sorridendo e non piacque a don Vittorio.

«È sparito, c’è chi dice che s’è fatto un’al-tra vita, una plastica facciale, che ha fatto fin-ta d’essere morto e se l’è goduta alla faccia di chi ’o vulev’ accis’o carcerat’. Io l’ho visto so-lo una volta, quando ero ragazzo, è stato l’u-nico uomo di Sistema che sembrava ’nu re. Nisciun’comm’ a iss’».

«E bravo a Pucchiacchiello» chiosò Nicolas come se parlasse di un pari suo.

«Tu ci sei andato bene, ti hanno azzeccato il soprannome».

«Me chiamman’accussì perché sto sem-pre al Nuovo Marajà, ’o locale ’ncopp Posilli-po. È la centrale mia e fanno i meglio cocktail di Napoli».

«La centrale tua? Eh bravo», don Vittorio fermò un sorriso «è ’nu buon’nomm’, sai che significa?».

«Ho cercato su internet, significa ‘re’ in in-diano».

«È ’nu nomm’ e re, ma statt’ accuort’ che può fa’ ’a fine ra canzon’».

«Qua’ canzone?».

Don Vittorio, con un sorriso aperto, iniziò a canticchiarla dando sfogo alla sua voce into-nata. In falsetto:

«Pasqualino Marajànon lavora e non fa niente…fra i misteri dell’Orientefa il nababbo fra gli indù.Ulla! Ulla! Ulla! La!Pasqualino Marajàha insegnato a far la pizza,tutta l’India ne va pazza». Smise di cantare, rideva a bocca aperta, in

maniera sguaiata. Una risata che finì in tos-se. Nicolas aveva fastidio. Avvertì quell’esibi-zione come una presa in giro per provare i suoi nervi.

«Non fare quella faccia, è ’na bella canzo-ne. La cantavo semp’ quann’ero guaglione. E poi ti ci vedo con il turbante a ffa’ ’e pizz’ ’n-gopp Posillipo».

Nicolas aveva le sopracciglia inarcate, l’au-toironia di qualche minuto prima aveva la-sciato il posto alla rabbia, che non si poteva nascondere.

«Don Vitto’, devo restare col pesce da fuo-ri?» disse solo.

Don Vittorio, seduto sulla medesima se-dia, nella medesima posizione, fece finta di non aver sentito.

«A parte ’ste strunzat’, le figure di merda sono la prima cosa da temere per chi vuole di-ventare un capo».

«Fino a mo’, adda muri’ mammà, ’a mer-da in faccia non ce l’ha messa ancora nessu-no».

«La prima figura di merda è fare una pa-ranza e non tenere le armi».

«Fino a mo’, con tutto quello che avevo, ho fatto più di quello che stanno facendo i gua-glioni vostri, e parlo con rispetto don Vitto’, io non sono niente vicino a voi».

«E meno male che parli con rispetto, per-ché i guaglioni miei, se volessero, mo’, in que-sto momento, farebbero di te e della paran-zella tua quello che fa ’o pisciaiuolo quann’pulezz’ ’o pesce».

«Fatemi insistere, don Vitto’, i vostri gua-glioni non sono all’altezza vostra. Stanno schiattati qua e niente possono fare. I Colella vi hanno fatto prigioniero, adda muri’ mam-mà, pure per respirare vogliono che gli chie-dete il permesso. Con voi ai domiciliari e il ca-sino che ci sta là fuori, simm’ nuje a cuman-na’, con le armi o senza armi. Fatevene una ragione: Gesù Cristo, a Maronn’e San Genna-ro l’hann’lasciat’ sule sule all’Arcangelo».

Quel ragazzino stava solo descrivendo la verità e don Vittorio glielo lasciò fare; non gli piaceva che mettese in mezzo i santi e anco-ra di più non gli piaceva quell’intercalare, lo trovava odioso, “adda muri’ mammà”… deve morire mia madre. Giuramento, garanzia, per qualsiasi cosa. Prezzo per la menzogna pronunciata? Adda muri’ mammà. Lo ripete-va a ogni frase. Don Vittorio voleva dirgli di smettere, ma poi abbassò lo sguardo perché quel corpo di ragazzino nudo lo fece sorride-re, quasi lo intenerì e pensò che quella frase la ripeteva per scongiurare ciò che più teme un uccello che non ha ancora lasciato il nido. Nicolas dal canto suo vide gli occhi del boss guardare il tavolo, “per la prima volta abbas-sa lo sguardo”, pensò e credette in un’inver-sione dei ruoli, si sentì predominante e forte della sua nudità. Era giovane e fresco e da-vanti aveva carne vecchia e curva.

«L’Arcangelo, così vi chiamano miez’ ’a via, in carcere, in tribunale e pure ’ncopp a in-ternet. È nu buono nome, è un nome che può comandare. Chi ve l’ha dato?».

«Patemo, mio padre, si chiamava Gabrie-le come l’arcangelo, pace all’anima sua. Io ero Vittorio che apparteneva a Gabriele, quindi m’hanno chiamato accussì».

«E questo Arcangelo», Nicolas continuava a picconare le pareti tra lui e il capo, «con le ali legate, sta fermo in un quartiere che pri-ma comandava e ora non gli appartiene più, con i suoi uomini che sanno solo giocare alla PlayStation. Le ali di questo Arcangelo do-vrebbero stare aperte e invece stanno chiuse come quelle di un cardillo in gabbia».

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«E così è: ci sta un tempo per volare e un tempo per stare chiusi in una gabbia. Del re-sto, meglio una gabbia comm’ a chest’, che una gabbia a Poggioreale».

Nicolas si alzò e iniziò a girargli intorno. Camminava piano. L’Arcangelo non si muo-veva, non lo faceva mai quando voleva dare impressione di avere occhi anche dietro la te-sta. Se qualcuno ti è alle spalle e gli occhi ini-ziano a seguirlo, significa che hai paura. E che tu lo segua o no, se la coltellata deve arri-vare arriva lo stesso. Se non guardi, se non ti giri, invece, non mostri paura e fai del tuo as-sassino un infame che colpisce alle spalle.

«Don Vittorio l’Arcangelo, voi non avete più uomini ma tenete le armi. Tutte le botte che tenete ferme nei magazzini a che vi ser-vono? Io tengo gli uomini ma la santabarba-ra che tenit’ vuje me la posso solo sognare. Voi, volendo, potreste armare una guerra ve-ra».

L’Arcangelo non si aspettava questa ri-chiesta, non credeva che il bambino che ave-va lasciato salire in casa sua arrivasse a tan-to. Aveva previsto qualche benedizione per poter agire nel suo territorio. Eppure, se mancanza di rispetto era, l’Arcangelo non ne fu infastidito. Gli piaceva anzi quel modo di fare. Gli aveva messo paura. E non prova-va paura da tanto, troppo tempo. Per coman-dare, per essere un capo, devi avere paura, ogni giorno della tua vita, in ogni momento. Per vincerla, per capire se ce la puoi fare. Se la paura ti lascia vivere o, invece, avvelena tutto. Se non provi paura vuol dire che non vali più un cazzo, che nessuno ha più interes-se ad ammazzarti, ad avvicinarti, a prender-si quello che ti appartiene e che tu hai preso a qualcun altro.

«Io e te non spartiamo nulla. Non mi appar-tieni, non sei nel mio Sistema, non mi hai fat-to nessun favore. Solo per la richiesta senza rispetto che hai fatto, dovrei cacciarti e la-sciare il sangue tuo sul pavimento della pro-fessoressa qua sotto».

«Io non ho paura di voi, don Vitto’. Se me le pigliavo direttamente era diverso e tene-vate ragione».

L’Arcangelo seduto e Nicolas in piedi, di fronte, le nocche delle mani chiuse in pugno e poggiate sul tavolo nella speranza che quel gesto dissimulasse il tremore che aveva alle gambe, tremore di nervosismo. Non voleva, Nicolas, regalare quell’emozione all’Arcan-gelo, un’emozione che avrebbe potuto rovi-nare tutto.

«Sono vecchio, vero?» disse l’Arcangelo. «Non so che vi devo rispondere».«Rispondi, Marajà, sono vecchio?».«Come dite voi. Sì, se devo dire di sì».«Sono vecchio o no?».«Sì, siete vecchio».«E sono brutto?».«E mo’ che c’azzecc’?».«Devo essere vecchio e brutto e ti devo fa-

re pure molta paura. Si nun foss’accussì, mo’ quelle gambe tue, nude, non le nascondere-sti sotto al tavolo, pe’ nun me ’e ffa verè. Stai tremando, guaglio’. Ma dimmi una cosa: se vi do le armi, cosa ci guadagno io?».

Nicolas era preparato a questa domanda e si emozionò quasi a ripetere la frase che ave-va provato mentre arrivava col motorino a San Giovanni. Non si aspettava di doverla pronunciare da nudo e con le gambe che an-cora gli tremavano, ma la disse lo stesso.

«Voi ci guadagnate che ancora esistete. Ci guadagnate che la paranza più forte di Napo-li è amica vostra».

«Assiettete», ordinò l’Arcangelo. E poi in-dossando la più seria delle sue maschere: «Non posso. È come mettere ’na pucchiacca n’man’’e criature. Non sapete sparare, non sapete pulire, vi fate male. Nun sapite nem-meno ricarica’ ’nu mitra».

Nicolas aveva il cuore che gli suggeriva, battendo con ansia, di reagire, ma rimase cal-mo: «Datecele e vi facciamo vedere cosa sap-piamo fare. Noi vi togliamo gli schiaffi dalla faccia, gli schiaffi che vi ha dato che vi consi-dera azzoppato. L’amico migliore che potete avere è il nemico del vostro nemico. E noi i Co-

lella li vogliamo cacciare dal centro di Napoli. Casa nostra è casa nostra».

L’ordine attuale non gli stava più bene, all’Arcangelo: un ordine nuovo si doveva creare e, se non poteva più comandare, alme-no avrebbe creato ammuina. Le armi gliele avrebbe date, erano ferme da anni. Erano for-za, ma una forza che non si esercita fa collas-sare i muscoli. L’Arcangelo aveva deciso di scommettere su questa paranza di piscitiel-li. Se non poteva riprendere il comando, al-meno voleva costringere chi regnava sulla sua zona a venire e trattare per la pace. Non ce la faceva più a ringraziare per gli avanzi, e quell’esercito di bambini era l’unico modo per tornare a guardare la luce, prima del buio eterno.

«Vi do quello che vi serve, ma voi non siete ambasciatori miei. Tutte le cacate che farete con le armi mie non devono portare la firma mia. I debiti vostri ve li pagate da soli, il san-gue vostro ve lo leccate voi. Ma quello che vi chiedo, quando ve lo chiedo, lo dovete fare senza discutere».

«Siete vecchio, brutto e pure saggio, don Vitto’».

«Marajà mo’, come sei venuto, così te ne vai. Uno dei miei ti farà sapere dove andarle a prendere».

Don Vittorio gli porge la mano, Nicolas la stringe e prova a baciarla, ma mentre lo fa l’Arcangelo la sfila schifato: «Ma che cazz’ fai?».

«Ve la stavo baciando per rispetto».«Guaglio’, hai perso la testa, tu e tutti i

film che ti vedi». E invece a Nicolas ’o Marajà, una volta di-

ventato capo, la mano tutti gliela dovevano baciare, la mano destra, quella con al migno-lo l’anello che lo faceva cardinale della camor-ra.

L’Arcangelo si alzò appoggiandosi al tavo-lo: le ossa gli pesavano e gli arresti domicilia-ri l’avevano fatto ingrassare.

«Mo’ ti puoi rivestire e fai presto che tra po-co c’è un controllo dei carabinieri».

Nicolas indossò mutande, jeans e scarpe più in fretta possibile.

«Ah, don Vitto’, una cosa…».Don Vittorio si girò stanco. «Nel posto dove devo andare a prendere le

imbasciate… no?».Non c’erano cimici eppure Nicolas su cer-

te parole manteneva un istintuale riserbo. Le armi non si pronunciano mai.

«Allora?» disse l’Arcangelo.«Mi dovete fare la cortesia di mettere dei

guardiani che io posso leva’ ’a miez’. Devo fa-re almeno due pezzi per far vedere che le ar-mi me le sono fottute. Così io non ho avuto le armi da voi e tutto quello che fa la paranza mia non sono imbasciate vostre»

«Mettiamo due zingari con le botte in ma-no, ma sparate in aria ché gli zingari mi ser-vono».

«E quelli poi ci sparano addosso».«Gli zingari, se sparate in aria, scappano

sempre… cazzo, v’aggia ’mpara’ proprio tut-te cose».

«E se scappano che li mettete a fare?».«Quelli ci avvertono del problema e noi ar-

riviamo».«Adda muri’ mammà, don Vitto’, non do-

vete tenere pensiero, farò come avete det-to».

I ragazzi accompagnarono Nicolas alla bo-tola, mentre aveva già messo i piedi sul pri-mo piolo, sentì don Vittorio:

«Oh!», lo fermò. «Porta ’na statuetta alla professoressa per il disturbo. Va pazza per le porcellane di Capodimonte».

«Don Vitto’, ma veramente fate?».«Tie’, piglia ’o zampognaro, è un classico e

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-�IMPIEGATO FRANZ KAFKA aveva un posto fisso. E ci teneva. All’ufficio praghese delle Assicurazioni Generali lo assun-sero grazie alla raccomandazione del-lo zio di Madrid. È agli atti. Lui stesso lo menziona nella sua domanda di as-sunzione ora trovata negli archivi trie-stini, in risposta al quesito 18, se cono-sca qualche direttore, membro del consiglio di amministrazione, ecc. “Al-tamente raccomandato dal console de-gli Stati uniti a Praga, padre del nostro

rappresentante a Madrid, la famiglia del dottor Kafka gode di ottima repu-tazione”, dice la nota con cui il curriculum fu inoltrato agli uffici centrali a Trieste. Una delle primissime domande è sulle sue condizioni di salute. Evi-dentemente non vogliono sorprese. “Sempre sano, dalle malattie infantili in poi”, la risposta. Un allegato di sei cartelle, firmato da un dottor Pollak, smentisce in parte: “Di costituzione delicata… opacità all’apice del polmone destro, di probabile derivazione rachitica”. Su quali entrate può contare a parte l’eventuale stipendio?, la domanda 17. “Finora mi hanno mantenuto i miei genitori”. Implicito: potranno offrigli uno stipendio da fame. Lingue: te-desco e ceco, ma gli piacerebbe imparare l’italiano. Al formulario è allegato un protocollo a stampa con le rigidissime condizioni: disponibilità incondi-zionata, straordinari senza compenso, due settimane di vacanza ogni due anni, tre mesi di preavviso prima di poter dare le dimissioni.

Santi in paradiso, raccomandazioni per essere assunti. Stipendi lesinati che non consentirebbero di vivere se non ci fosse l’aiuto della famiglia. Rego-lamenti di ferro, codicilli che paiono concepiti per non lasciare respiro o spe-ranza. Suona familiare? Modernità impressionanti quelle dell’Austria-Un-gheria di inizio del secolo scorso, sulla scia della Germania di Bismarck, quel-lo che aveva inventato le pensioni. Incredibile: c’è stata un’epoca in cui la “Manchester dell’Europa”, la parte più vitale, prospera e civile, sognava il posto fisso, come il protagonista del film di Checco Zalone. E invece ora che l’Europa va a rotoli il posto fisso va esaurendosi, a vita rimane solo il preca-riato, e non è facile passare da un lavoro precario all’altro, neanche per i rac-comandati.

Alle Assicurazioni Generali l’avvocato Kafka sarebbe rimasto dall’otto-bre 1907 al luglio 1908. All’inizio era felice dell’assunzione. Sognava una carriera all’estero: uffici con finestre affacciate su “piantagioni di canna” o “cimiteri musulmani”, o di cavalcare “come un indiano” nelle praterie ame-ricane. Più tardi avrebbe persino redatto un regolamento utopistico, per kib-butz in Palestina. E invece restò per lo più confinato, un po’ come Gregor Samsa nella sua stanza. Dalle lettere di quel periodo emerge un quadro di mobbing, umiliazioni in ufficio, persino pensieri di suicidio, sia pure risolti in forma, come dire, “kafkiana”: “Se fossi capace di farlo, allora non avrei più bisogno di uccidermi”. Già alla seconda settimana aveva cominciato a cerca-re un altro posto di lavoro. In gran segreto, per non avere “un’altra macchia

sul curriculum”. Anche quello sarebbe stato un posto fisso. Vi sarebbe rima-sto fino alle dimissioni per ragioni di salute nel 1922, alternando periodi di lavoro e di cure dal 1917 in poi, quando gli fu diagnosticata la tubercolosi. Lo trovò, grazie a un’altra raccomandazione eccellente, all’Istituto per le assi-curazioni sul lavoro del regno di Boemia. Aveva doppio handicap: era ebreo tra i tedeschi e tedesco tra i cechi. Eppure avrebbe fatto carriera, ricoperto incarichi di responsabilità, durante la Grande guerra ne sarebbe divenuto 0CFSTFLSFUÊS, praticamente amministratore delegato, non un semplice im-piegato, come il triestino Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, o Pessoa.

Kafka aveva parecchio da ridire sul lavoro d’ufficio. Nelle lettere alla fi-danzata Felice Bauer lo definì un “orrore”. Lo riteneva incompatibile col la-voro creativo dello scrittore. Nel formulario per le Generali alla domanda sul servizio militare aveva risposto: “Esente per decreto”, cioè riformato. Ma poi arrivò a scriverle che voleva partire volontario in guerra, che preferiva farsi esplodere in prima linea, in trincea, piuttosto di farsi esplodere il cer-vello nella retrovie. Accolsero la sua domanda, ma la chiamata alle armi fu differita causa sua “indispensabilità sul fronte interno”.

C’è chi ha fatto notare che quel che scrisse deve al suo lavoro quanto e for-se più di quanto il lavoro ha sottratto alla sua scrittura. Il primo pensiero del protagonista della�.FUBNPSGPTJ è come giustificherà la sua assenza dal la-voro e se la sua condizione di insetto gli dia diritto di usufruire dell’assicurazione malattia. L’angoscia del protagonista del $BTUFMMP è che l’hanno assunto sì, ma nessun responsabile gli dice cosa deve fare. Comunque sia, Kafka metteva lo stesso impegno, meticolosità, pignoleria nel lavoro per il suo ufficio quanto nella scrittura. Forse è uno dei motivi per cui pubblicò così poco in vita (l’altra è che gli editori pensavano che non vendesse) e non finì mai i suoi grandi romanzi. C’è chi ha osservato che l’unico grande romanzo che sia riuscito a completa-re sono le sue “Lettere a Felice”. Pietro Citati sostiene che si tratta «del più bel poema sulla posta che sia mai stato scritto». E la cosa più straordi-naria è che la posta allora funzionava: bastava che lui da Praga scrivesse a Felice la sera del martedì, e lei riceveva la lettera a Berlino alle dieci dell’in-domani. Sulla posta faceva sogni e incubi, che poi raccontava. A noi sono ri-masti gli incubi. Sulle mie esperienze con Poste italiane, se solo sapessi scri-vere come Kafka, potrei fare racconti più angosciosi dei suoi.

Quando la malattia lo costrinse ad abbandonarlo, il lavoro gli mancò più di quanto lo avesse infastidito. Non lo licenziarono, non lo bollarono come esubero, non lo costrinsero in situazioni kafkiane, tipo quella di intere gene-razioni contemporanee per cui a cinquanta anni uno viene considerato trop-po giovane per andare in pensione e troppo vecchio perché lo si prenda in considerazione per un nuovo lavoro. In attesa della guarigione gli versarono regolarmente la pensione. Gliela mandavano da Praga a Berlino. Non veni-va decurtata alla fonte, ma da come le banche approfittavano a danno dei clienti dell’iperinflazione in Germania. Una rimessa trattenuta anche pochi giorni finiva per quasi azzerarsi. “I miei soldi preferisco perderli io, piutto-sto che nella rimessa da una banca all’altra”, scrisse a casa furibondo.

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TRIESTE

-E VOCI DEL MONDO FUORI si sentono ancora var-cando il portone scuro di un palazzo ottocen-tesco del centro di Trieste. Poi, lungo le scale, il silenzio. Al primo piano un ingresso a vetri. «Prego, di qua», mormora l’archivista. Su un

tavolo di legno ha già sistemato un plico di carte ingialli-te, spesse come pergamene. «Allora, comincia-mo? Dunque, vediamo, Kafka Franz… ecco qua», sorride iniziando una lenta passeggiata nel tempo che durerà due intere mattine. Ma ci vorrebbero settimane per immerger-si nei quindici chilometri di documenti ca-talogati nell’Archivio Storico delle Gene-rali. Un patrimonio dichiarato bene cultu-rale dalla Sovrintendenza del Friuli Ve-nezia Giulia e che adesso apre al pubbli-co su prenotazione. È qui che hanno tra-sferito buona parte di quanto custodi-va l’antico caveau della compagnia, ri-cavato al primo piano della Direzione centrale in palazzo Geiringer, a Trie-ste, la prima sede ufficiale del Leone. «Il materiale è stato spostato qui per ra-gioni di conservazione», racconta l’éq-uipe di specialisti. Stanze oscurate, tem-perature rigidamente controllate. Uno scrigno di curiosità che racchiude le vi-cende plurisecolari della prestigiosa so-cietà dal 1831, anno di fondazione delle “Assicurazioni Generali Austro-Italiche”. Faldoni, registri, targhe, réclame, conces-sioni governative, foto e manoscritti sigil-lati in ceralacca. L’archivista indossa guanti bianchi che ricordano quelli della polizia scientifica nei film. Con delicatez-za, come farebbe con un bimbo, solleva una cartella azzurrina. «Dicevamo di Kaf-ka…». È il fascicolo personale dello scritto-

re, assunto nell’ottobre del 1907 a Praga nel ramo vita con uno stipendio di ottanta corone. Nell’incartamento si scorge la richiesta di occupazione, autografa, e il curri-culum steso di suo pugno. Scuole popolari, ginnasio, lau-rea in giurisprudenza. È scapolo, dice di parlare il boemo, mentre con l’inglese e il francese “sono fuori allenamen-to”, ammette. Chiudiamo il carteggio, tra i più pregiati dell’intera collezione, per passare a quelli sotto. Ecco l’a-

zione “numero 1” della compagnia, datata 1832. Scartabellando qua e là, capita di imbattersi in un

polizza sulla vita del dicembre 1897 intestata al cardinale Giuseppe Sarto, patriarca di Venezia e futuro Papa Pio X. Un premio annuale di 769,44 lire che ne avrebbe fruttato, diciotto anni dopo, diecimila. Non è l’unico pontefice ad aver bussato alla porta della società: stipu-la due polizze analoghe, una nel ’34 e una nel ’39, Angelo Roncalli, all’epoca delegato apo-stolico a Sofia. Salirà al soglio pontificio con il nome di Giovanni XXIII. Le Generali si incro-ciano spesso con eventi passati alla storia del Novecento: c’è la polizza del 1928 che as-sicura l’equipaggio del dirigibile Italia per la spedizione al Polo Nord di Umberto Nobi-le, finita tragicamente. O, ancora, i perso-naggi: alcuni, come Kafka, alle dipendenze della compagnia. È il caso di Leo Perutz, l’au-tore de *M�DBWBMJFSF�TWFEFTF, impiegato nel ra-mo vita a Trieste; anche di lui si custodisce il fascicolo personale. Lavorano per le Generali il poeta Biagio Marin, la scrittrice Marisa Ma-

dieri, moglie di Claudio Magris. O il collezioni-sta d’arte Leo Castelli, gallerista a Broadway di Kandinsky, Pollock e Warhol. Tra le carte com-pare anche il nome di tale Manzoni Alessandro. Nel 1851 e nel 1856 si era preoccupato di preser-vare la villa di campagna, a Brusuglio, da grandi-ne e incendi.

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PHOJ�TFSB

j4E VAI A NEW YORK A STUDIARE MUSICA finirai come tuo zio Henry a vivere negli alberghi e spostarti di città in cit-tà». Così mia madre, Ida Glass, non appena la misi a par-te dei miei progetti. Eravamo seduti al tavolo di cucina nella casa di famiglia a Baltimora, e io ero da poco torna-to dall’Università di Chicago, dove mi ero laureato. Lo zio Henry, un peso gallo che fumava il sigaro e parlava con un forte accento di Brooklyn, era sposato con zia Marcela, la sorella di mia madre, anche lei scappata da Baltimora, ma un’intera generazione prima di me. Lo zio Henry era, in effetti, un batterista. Aveva abbando-nato gli studi di odontoiatria subito dopo la fine della Pri-

ma guerra mondiale ed era diventato un musicista itinerante, passando i cinquant’anni successivi a suonare nei teatri di vaudeville, nelle stazioni di villeggiatura e in giro per tutto il paese con le EBODF�CBOET. Negli ultimi anni suonava molto negli hotel dei Catskills, in quella zona di villeggiatura estiva conosciuta ancora oggi come #PSTDIU�#FMU. È probabile che quel giorno di primavera del 1957, mentre stavo pianificando il mio futuro, stesse suonando proprio in uno di quegli hotel — direi al Grossin-ger’s, se dovessi scommetterci.

'BSBJ�MB�GJOF�EFMMP�[JP�)FOSZ�A ogni modo, lo zio Henry mi piaceva e pensavo fosse un tipo in gamba. E a dire la verità la prospetti-

va di «vivere negli alberghi e spostarmi di città in città» non aveva nulla di raccapricciante, anzi, mi entusiasmava. A diversi decenni di distanza, la descrizione fatta da mia madre si è rivelata azzeccatis-sima. Seduto al tavolo di cucina, giovane, curioso e sconsiderato, con la testa sempre piena di proget-ti, facevo già ciò che avrei poi continuato a fare. Avevo cominciato a suonare il violino a sei anni, il flau-to e il pianoforte a otto, a quindici avevo iniziato a comporre e ora, finita l’università, ero impaziente di cominciare la mia «vera vita», che da sempre sapevo sarebbe stata una vita di musica. La musica mi aveva attratto fin da piccolo, mi sentivo connesso a lei e sapevo che era la mia strada. Nella famiglia Glass c’erano già stati dei musicisti prima di me, ma l’opinione dei miei genitori era che i musicisti vi-

vessero in qualche modo ai limiti della rispettabilità e che, comun-que, una persona istruita non avesse ragione di dedicarsi alla musi-ca. A quel tempo chi suonava non guadagnava molto e passare la vita a cantare nei bar non era certo considerata un’occupazione se-ria. Per i miei genitori non c’era nulla in ciò che mi proponevo di fa-re che indicasse che OPO�sarei finito a cantare in qualche bar. Non mi vedevano diventare un Van Cliburn, ma semmai uno zio Hen-ry. Non credo che avessero la più pallida idea di cosa si facesse in una scuola di musica. «È da anni che ci penso» dissi «ed è quello che voglio fare». Mia madre mi conosceva. Ero un ragazzo piuttosto de-ciso. Quando dicevo che avrei fatto qualcosa la facevo e basta. Lei sapeva che non avrei preso seriamente le sue obiezioni, ma senti-va il dovere di dire qualcosa, entrambi consapevoli che non avreb-be fatto la minima differenza. Il giorno seguente presi un pullman per New York per cercare di entrare alla Juilliard School.

-B�UFPSJB�EFMM�BTDPMUPJohn Cage più di chiunque altro fu capace di presentare molto

chiaramente l’idea che l’ascoltatore completa il lavoro. L’idea non

era solo sua: lui la attribuiva a Marcel Duchamp, con cui era in con-tatto. Se si guarda da questo punto di vista, in effetti il dadaismo europeo prese piede in America grazie a Cage. Prendiamo per esempio il famoso brano di John, ����w. John, o chiunque altro, sta seduto al pianoforte per quattro minuti e trentatré secondi e qual-siasi cosa tu senta in quel lasso di tempo costituisce il brano. Può es-sere il rumore di persone che camminano lungo il corridoio, o il ru-more del traffico, o il ronzio dell’elettricità nell’edificio: non impor-ta. L’idea era semplicemente che John aveva preso questo spazio e questo periodo di tempo predefinito e lo aveva incorniciato, an-nunciando: «Questo è ciò a cui rivolgerete la vostra attenzione. Ciò che vedete e ciò che sentite è arte». E quando si alzava dal pianofor-te, era tutto finito. Abbandonai immediatamente qualsiasi idea che la musica avesse una specie di esistenza eterna, un’esistenza indipendente dalla transazione che avviene fra l’esecutore e l’a-scoltatore. Fino ad allora avevo essenzialmente considerato l’inter-prete come una figura creativa secondaria. Non avevo mai pensa-to che fosse allo stesso livello di un Beethoven o di un Bach. Ascolta-re è l’attività dell’ascoltatore ma anche del compositore. Se si appli-

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0GGI PHILIP GLASS viene acclamato

ovunque come autore di opere,

sinfonie, concerti, partiture

destinate alla danza e colonne

sonore commissionate da registi

come Martin Scorsese e Woody Allen. Eppure il suo

cammino è stato lungo, discontinuo, a volte sofferto

e sempre molto intenso, scandito da itinerari

alternativi, sondaggi psichedelici, viaggi hippie,

aspre critiche al suo lavoro da parte

dell’establishment della musica “colta” e mestieri

disparati e poco musicali come il traslocatore e

l’idraulico (però la sera, in qualche localino

underground newyorchese, già si eseguiva la sua

musica). Ma la sua personalità ostinatamente

autonoma e la sua fiducia nei propri obiettivi sono

riuscite a vincere ogni ostacolo. Tra alti e bassi,

ricadute e ascese, Glass non si è mai distratto dalla

sua idea originale e vasta di musica e dall’indagine

di un proprio linguaggio il più personale possibile,

estraneo ai condizionamenti delle scuole

dominanti. In tal modo è approdato sul trono della

modernità, diventando il compositore più eseguito

e richiesto del pianeta.

Nato a Baltimora e formatosi tra la New York

delle avanguardie e gli spiritualismi orientali, Glass

non ha mai assunto l’aspetto di un anziano.

Prossimo agli ottant’anni, è ancora un ragazzaccio

torvo e spettinato. In armonia con quest’immagine,

nulla di autocelebrativo, retorico o saccente

interferisce col tono dell’appassionante

autobiografia con cui ha deciso di raccontarsi. Il

libro narra la parabola straordinaria di un bambino

che ascoltò per la prima volta Schubert, Beethoven

e Schönberg nella bottega di dischi del padre, e che

spinto da un amore genuino non solo per la musica,

ma per le multiformi espressioni dell’umano, ha

attraversato una serie entusiasmante di scoperte:

lo studio del flauto, del violino e del piano, ma anche

della matematica e della filosofia; i corsi di

composizione con Nadia Boulanger a Parigi, che lo

porta ad analizzare Bach e molto altro; l’incontro

decisivo con Ravi Shankar, che gli insegna i cicli

ritmici della musica indiana; la ricerca di un proprio

differente approccio al tempo, al ritmo e alla

struttura formale; la conquista di un inedito teatro

musicale anti-narrativo, grazie alla complicità con

Robert Wilson. Così, tra una caleidoscopica

invenzione timbrica e uno svelamento di

accumulazioni metriche inaudite, Glass ha

modificato la nostra percezione della musica. Per

esempio guidando l’ascoltatore, con le sue spirali

sonore ritornanti all’infinito su se stesse, in

dimensioni contemplative e ipnotiche che hanno

catturato folle di adepti sancendo, dagli anni

Sessanta in poi, il trionfo della “musica

minimalista” (ma già nel decennio successivo Glass

rinuncia al minimalismo per affrontare orizzonti

più ampi). Per esempio accogliendo sul versante

“colto” il confronto con musiche “leggere” come il

pop e il rock. O aprendosi a contaminazioni

trasversali, flirtando con la Pop Art e la Beat

Generation, inseguendo le avventure on the road di

Jack Kerouac e la visionarietà poetica di Allen

Ginsberg, esplorando i sistemi musicali

extra-europei e intrecciando collaborazioni con

artisti come Paul Simon, David Bowie, Lou Reed,

Patti Smith e David Byrne. Le sue versatili imprese,

detestate dalle élite più sussiegose della musica

contemporanea, hanno reso ardua, in passato, la

definizione del suo campo d’azione. Ma, vista la

solidità del suo successo e l’indiscutibile portata

della sua influenza, ormai da tempo il problema di

etichettarlo non esiste più.

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ca anche all’esecutore, allora cosa fa in realtà l’esecutore? Qual è l’atteggiamento adeguato per un esecutore mentre suona? L’at-teggiamento adeguato è questo: l’esecutore deve ascoltare ciò che suona. È tutt’altro che automatico: si può suonare e non mettere al-cuna attenzione nell’ascolto. Ed è soltanto quando si è attivi nell’a-scolto mentre si suona che la musica si rivela come atto creativo.

*M�TVPOP�EJ�1BSJHJ�F�EJ�%PXOUPXOIniziai a frequentare il Fillmore East, il tempio del rock ’n’roll di

quegli anni tra la Seconda Avenue e la Sesta Strada. Era pieno di ra-gazzi di ventuno, ventidue, ventitré anni. Io ne avevo trenta e mi sentivo un vecchio. Il teatro era sempre pieno e la musica forte e succulenta; era tutto fantastico. Al Fillmore sentii gente come i Jef-ferson Airplane e Frank Zappa, ed ero totalmente ammaliato dalla vista e dal suono di un muro di amplificatori che vibravano e spara-vano musica fortemente ritmica ad alto volume. Con quella musi-ca ci ero cresciuto, la conoscevo. Mi era piaciuta quando ero ragaz-zino e quando l’ho sentita uscire dalle mie casse mi sono detto: «Ot-tima». Eppure sapevo anche che la gente nell’ambiente della musi-

ca classica odiava il rock ’n’roll. Non avrebbe accettato musica che fosse amplificata e presentasse linee di basso come quelle che sta-vo scrivendo io. Sapevo che avrei fatto infuriare un sacco di perso-ne, ma non me ne importava nulla. Bisogna vederla dal mio punto di vista: vivevo lì, nel downtown newyorchese. Ero appena tornato da Parigi dove avevo lavorato con Ravi Shankar. Ora che ero torna-to, ero circondato dalle nuove idee che venivano da una nuova ge-nerazione di giovani artisti e performer e vivevo in un ambiente pieno di stimoli, come per esempio sentire Allen Ginsberg leggere ,BEEJTI, oppure frequentare artisti «bizzarri» come Ray Johnson. C’era un fermento di idee che spingeva la comunità artistica di do-wntown in una moltitudine di direzioni. E, senza che lo pianificassi o che ci provassi, il mio lavoro entrò spontaneamente a far parte di quel movimento.

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1ER DIECI ANNI CI HA MESSI davanti a uno specchio e ci ha costretti a vedere chi siamo. «E c’era molto, che avremmo preferito ignorare», dice a 3FQVCCMJDB Slavoj Zizek, il filosofo. Parliamo di Wi-kiLeaks, l’organizzazione che dal 2006 scova intrighi diplomatici, scandali di Stato, negoziati segreti, grandi fratelli e molto altro, per poi trasformarli in bi-blioteca digitale universale. Zizek: «Og-gi WikiLeaks dopo aver cambiato le re-gole fa parte del gioco. Ha definito un

nuovo spazio pubblico». Eccoti riflessa nello specchio, WikiLeaks, mentre i tuoi MFBL sul Partito democratico fanno discutere l’America, con Hillary Clinton che punta il dito sull’intelligence russa e tutte quel-le mail pubblicate online, dati sensibili di cittadini inclusi, fanno dire persino a Edward Snowden che forse bisogna raddrizzare la rotta: «WikiLeaks», ha twittato il whistleblower, «ha dato un grande contri-buto alla democrazia dell’informazione» (e lo ha anche aiutato a rifu-giarsi in Russia) «ma l’ostilità a moderare i contenuti è un errore». Il

dibattito è aperto. WikiLeaks mo-stra qualche ruga? E il futuro?

Per il futuro ci vuole il passato. Ci guida ancora Zizek, che spesso si è seduto allo stesso tavolo di Ju-lian Assange per dibattere tra “eretici”. «Ci sono tre ondate di ri-velazioni», spiega: prima le guer-re, con i documenti su Iraq e Af-ghanistan; poi i trattati di libero scambio e le multinazionali; infi-ne la campagna elettorale. «La seconda ondata è mozzafiato: ha mostrato chi sono i nuovi attori — le corporation — e gli scenari in cui eravamo immersi a nostra insaputa. Le nostre interazioni, gli spazi di vita che credevamo neutri, non lo erano».

E WikiLeaks, oggi, è uno spa-zio neutro? L’ultima fase, con la pubblicazione delle mail in piena campagna elettorale Usa e le ac-cuse di Clinton all’intelligence russa, stimola il dibattito anche tra i più fedeli sostenitori. Il fatto è che l’organizzazione che agisce in nome della trasparenza, pro-tegge però la segretezza delle sue fonti e dei suoi donatori. «Te-mo che possa diventare suo mal-grado strumento di altri interes-si», dice FelynX Zingarelli, porta-voce del Partito Pirata, attivo per le libertà digitali. Andrea Franzo-so, whistleblower d’Italia, sa be-

ne che è anche grazie a Wiki-Leaks se nello spazio pubblico verrà riconosciuto e protetto il ruolo delle “sentinelle” come lui. Ma «la partita della trasparenza funziona finché viene giocata nell’interesse generale. L’infor-mazione è una forma di potere: dobbiamo fare attenzione a chi e come la usa». Ecco perché il criti-co dei media Geert Lovink per il futuro si augura «un WikiLeaks sempre meno concentrato sulla figura di Assange e sempre più sulla collettività. Del resto quel si-to ha il merito di aver liberato i documenti e anche la possibilità di interpretarli insieme, in cro-wdsourcing. Vorrei un futuro con tante WikiLeaks».

Un futuro con tante Wiki-Leaks? A guardare bene, lo intra-vedi già. Le piattaforme per tra-sferire in forma anonima verità scomode sono più d’una: c’è il software opensource Globa-Leaks, c’è l’italiano IrpiLeaks. Le associazioni come Transparency offrono portali alle potenziali “sentinelle”, in attesa che la leg-ge le tuteli appieno. E poi, c’è il giornalismo dell’era WikiLeaks. L’organizzazione di Assange, per alcune rivelazioni, collabora con i media partner; in Italia, è M�&TQSFTTP, con la giornalista Ste-

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DOPO WIKILEAKS

Le piattaforme

Le istituzioniIter istituzionali per segnalare abusi ed episodi di corruzione

IcijL’International Consortium of Investigative Journalists

è una rete globale di giornalisti investigativi

di 65 paesi (per l’Italia il settimanale l’Espresso). Nata nel 1997 ha rivelato

casi di altissimo rilievo internazionale:

GlobaLeaksSoftware open source del Centro per la trasparenza Hermes per il whistleblowing

IrpiLeaks Nasce nel 2013

ed è la prima piattaforma

italiana per le segnalazioni

anonime

Transparency International L'associazione offre il servizio anticorruzione "Alac" e raccoglie segnalazioni

2013 - OffShore Leaks Inchiesta sui paradisi fiscali: 260 gigabyte di dati scandagliati

2014 - LuxLeaks Rivelati gli accordi fiscali tra 340 corporation e il Lussemburgo dell'allora premier Juncker

2015 - SwissLeaksRivelato il sistema di evasione fiscale della banca svizzera Hsbc

2016 - Panama PapersRivelati i conti off shore di politici di circa 40 paesi

UsaNegli Usa esistono percorsi ad hoc con premi in denaro per il segnalante

ItaliaIn Italia è in corso di approvazione una legge sul whistleblowing

UeNell'Ue è in discussione una proposta di direttiva per la protezione dei whistleblower

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6N MATTINO, NEL GRANAIO DI LOS VOLCANES, leggendo la rassegna stam-pa su di lui, Andreas s’imbatté in un’intervista rilasciata da una giornalista del %FOWFS�*OEFQFOEFOU, Leila Helou, alla $PMVNCJB�+PVSOBMJTN�3FWJFX.

“Questa gente vomita informazioni. Non parlo dei leader princi-pali, come Snowden o Manning, che in realtà sono solo fonti nobilitate. Parlo di canali come WikiLeaks e il Sunlight Project. Questi hanno un’ingenuità selvag-gia, come il bambino che considera ipocrita l’adulto perché filtra quello che gli esce di bocca. Filtrare non è falsità, è civiltà. Julian Assange è così cieco e sordo al-le basilari funzioni sociali che mangia con le mani. Andreas Wolf è un uomo così pieno dei suoi sporchi segreti che per lui tutto il mondo è fatto di sporchi segreti. Lancia tutto contro il muro, come un bambino di quattro anni che lancia la cacca, per vedere cosa ci resta attaccato”.

4QPSDIJ�TFHSFUJ Andreas rilesse quel paragrafo ingiurioso. Chi cazzo era Leila Helou? Una rapida ricerca produsse alcune foto di lei con Tom Aberant in occasio-ni professionali, insieme a commenti maligni, pubblicati su blog scandalistici, se-condo i quali andare a letto con l’editore del %FOWFS�*OEFQFOEFOU aveva fatto mi-racoli per il suo talento. Leila Helou era la ragazza di Tom.

4QPSDIJ�TFHSFUJ �-BODJB�MB�DBDDB E questo lo chiamava filtrare?Andreas pensò alla sua telefonata a Denver del 2005. Gli Halliburton Papers

erano la fuga di notizie internazionale più importante del Sunlight Project fino a quel momento. Andreas avrebbe potuto portarli direttamente al /FX�:PSL�5J�NFT, ma sapeva che Tom aveva fondato una rivista d’informazione online e pro-babilmente avrebbe colto al volo quell’occasione di notorietà immediata. Aveva immaginato che il %FOWFS�*OEFQFOEFOU potesse diventare il portavoce america-no del Progetto; che lui e Tom potessero finalmente lavorare insieme. E Tom, al telefono, gli era parso interessato. Sì, quasi sentimentale: era da quindici anni che non si parlavano. Ma quando lo aveva richiamato, dopo un’ora e un quarto, il suo tono era cambiato. «Andreas», aveva detto, «apprezzo molto la tua offerta. Ma credo di dovermi attenere al mio intento principale, quello di coltivare il gior-nalismo d’indagine. Il giornalismo sul campo. Non sto dicendo che non c’è posto per quello che fai. Ma temo che questo non sia il posto adatto».

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fania Maurizi. Che racconta: «As-sieme all’organizzazione di As-sange facciamo un lavoro giorna-listico scrupoloso, con un’analisi dell’autenticità dei documenti e una protezione delle fonti mai vi-sta prima». E non finisce qui. Tre anni fa, mentre Assange e i suoi pubblicavano 1,64 gigabyte di cablo, lo Icij (“International Con-sortium of Investigative Journali-sm”) scandagliava 260 gigabyte di dati sui conti offshore: erano gli OffshoreLeaks. Il sistema non è nuovo, c’è una lunga tradizione di “Investigative Funds”, inchie-ste no profit. Ma sono nuovi la tec-nologia, la dimensione e la poten-za. Anno per anno, questa task force di giornalisti di sessantacin-que paesi (in Italia Leo Sisti dell’&TQSFTTP) ha rivelato casi di corruzione ed evasione fiscale: LuxLeaks, SwissLeaks, Panama Papers. «Sa cosa ci permette la tecnologia oggi?», spiega la “geek” Mar Cabra, Data Editor di Icij, «uno staff di dodici persone riesce, con una piattaforma web collaborativa, a far lavorare i gior-nalisti di tutto il mondo. E loro, con un sistema di parole chiave, scandagliano materiale che altri-menti richiederebbe dieci anni di lettura».

Poi però ai lettori arriva la noti-

zia. WikiLeaks invece pubblica i database e succede — come nel caso delle mail dell’Akp turco e dei democratici Usa — che onli-ne finiscano i dati sensibili. Sco-priamo così che la signora Hilda G., pensionata, ha donato dieci dei suoi dollari ai dem; troviamo anche la sua mail, indirizzo e nu-mero di telefono. Viva la demo-crazia dell’informazione, ma la privacy? Serve moderazione dei contenuti, DVSBUJPO, ha detto Snowden a WikiLeaks. Stessa os-servazione fatta dalla sociologa turca Zeynep Tufekci. Un costo da pagare per il futuro della de-mocrazia dell’informazione? «Sì, perché è la strada per una verità che è necessaria», dice Zizek. «Sì, senza dubbio», concorda l’intel-lettuale Evgeny Morozov. «Wiki-Leaks agisce in modo radicale e quindi attira le critiche. Ma tra Snowden e Assange, do ragione al secondo. Nessuna critica varrà mai quanto i benefici: l’organiz-zazione di Assange ha aperto una strada insostituibile per le nostre democrazie. Tutti gli atto-ri, politici, aziende, devono ren-derci conto di ciò che fanno. Da quando c’è WikiLeaks non basta che dicano di agire nel nostro in-teresse: devono anche farlo».

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i*L PEGGIOR VINO DEL CONTADINO È MIGLIORE del miglior vino d’indu-stria”. Presa alla lettera, l’affermazione di Gino Veronelli fa sorride-re: nel secolo scorso, in campagna regnavano povertà e ignoranza mentre la città garantiva benessere e cultura. In realtà, conoscendo la finezza dell’uomo e il suo talento visionario, la provocazione anda-va letta come un atto d’amore nei confronti della civiltà contadina, a lungo schiacciata, dimenticata, irrisa. Sarebbe felice, Veronelli, di sa-pere che il vino contadino sta tornando alla ribalta spinto da una mi-scellanea di sentimenti e nuove conoscenze, consapevolezza e ango-scia del futuro. Per molto tempo, il vino fatto “come una volta” è stato quello ordinato in damigiane dal parente dell’amico (o viceversa), ac-quistato senza troppo sapere se sull’uva era stato dato solo il verdera-

me o quelle nuove polverine rosa che tenevano lontani gli insetti, imbottigliato guardando la luna per averlo fermo o mosso. Quando arrivava la primavera, scendendo in cantina si trovavano cocci di ve-

tro e schizzi di vino, colpa di qualche bottiglia esplosa per una rifermentazione tardiva, attivata dai primi tepori.

Il nuovo vino contadino è ripartito da lì, da quell’inconsapevole esercizio di ribellione eno-logica, domato solo con l’inganno. Da una parte, il metodo DIBNQFOPJTF (il nostro “classi-co”), che prevede l’aggiunta di lieviti esogeni e la sboccatura finale per eliminarli. Dall’altra, la presa di spuma in autoclave (metodo Charmat) più spiccia ed econo-mica. La terza via si fa beffe di entrambe le pratiche. Lo chiamano metodo ance-strale e non prevede trucchi, se non l’abbassamento tecnologico della temperatu-ra per bloccare la fermentazione senza aspettare i rigori dell’inverno, ormai impos-sibili da prevedere per colpa del riscaldamento globale. Il resto lo fanno il tempo, la qualità dell’uva e la maestria del vignaiolo. La parola “naturale” domina tutto il processo. Più che i comandamenti del biologico e della biodinamica contano la fac-cia e le mani del contadino. Più che le certificazioni, il rapporto fiduciario. Se la grande distribuzione ha cancellato la conoscenza del prodotto e il rapporto con i pro-duttori, rendendoci prigionieri di alimenti il cui unico appeal è il prezzo (basso), la pic-

cola agricoltura 2.0 scommette sul recupero di empatia e schiena dritta.Andrea Gherra, titolare di due locali-culto torinesi — Banco e Consorzio — dove vengo-

no serviti in esclusiva alcuni dei migliori vini ancestrali in circolazione, racconta che non rie-sce a star dietro alle richieste: «Piacciono perché sono buoni e hanno un’anima, dentro c’è

passione e non solo profitto. Certo, vanno raccontati. E per raccontarli devi conoscere i viticolto-ri, passare del tempo nelle loro cantine, accettare che le bottiglie siano poche migliaia e che fi-nite quelle bisognerà aspettare. Per fortuna, il numero di produttori sta crescendo e la varietà d’offerta supplisce ai numeri ridotti. Il fascino è anche questo».

Se i vini contadini del terzo millennio vi intrigano, andate a trovare i loro mentori nelle mi-croaziende dove Pignoletto e Malvasia, Greco e Lambrusco dismettono lo status di uve per trasfor-

marsi in sorsi da brivido frizzante. Nella notte di San Lorenzo, che il Movimento Turismo Vino dedica alle degustazioni in tutta Italia, un brivido frizzante e rigorosamente naturale benedirà la vostra va-canza.

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$OME I GATTI di Emir

Kusturica, anche vino

Nero e vino Bianco sono

in battaglia. Lambrusco e

Prosecco ormai da anni si

fanno la guerra (per fortuna a colpi di

bollicine) per la conquista dei mercati e

dei bevitori. Per ora, ma soltanto fra i

“vini venduti nella grande distribuzione

italiana, in tutte le tipologie di formati”,

il Lambrusco non ha rivali: vende 13,3

milioni di litri, contro gli 11,7 del

Chianti, gli otto della Bonarda, i 7,7 del

Barbera, i 6,3 del Sangiovese… Il

Prosecco nei super e iper mercati vende

cinque milioni di litri, ma in enoteche,

ristoranti, bar e tavole di casa sta

viaggiando come un Frecciarossa.

Ormai esporta quasi duecento milioni

di bottiglie, cinquantacinque milioni

solo in Inghilterra.

Sono parenti stretti, Lambrusco e

Prosecco. Il bianco originario dei colli

del trevigiano sta ripetendo gli stessi

errori fatti in passato dal cugino

emiliano: cresce troppo. I vigneti partiti

da Conegliano sono arrivati in mezzo

Friuli e ormai questo vino è una

monocoltura, con proteste di chi si

trova le vigne (e i pesticidi) accanto a

casa e di chi vede sbancare le colline per

piazzare nuovi impianti. Anche il

Lambrusco ha vissuto un boom e lo ha

pagato caro. Negli anni Settanta veniva

chiamato la Red Cola. Ogni settimana

una nave carica di container partiva da

Livorno per gli Stati Uniti. L’importante

era produrre tanta uva — trecento

quintali per ettaro — e fare tanto vino.

Se un anno la stagione non era stata

quella giusta, per alzare di un grado o

due bastava fare arrivare qualche

cisterna dalla Puglia. Poi si è capito che

un vino chiamato Red Cola non poteva

avere futuro. Il Consorzio di Modena e

Reggio Emilia decise di ridurre la

produzione di uve da trecento a

centottanta quintali. La cantina Ermete

Medici è stata la prima a tagliare

ancora, fino a cento quintali, ed è stata

la prima a vincere i “Tre bicchieri” del

Gambero Rosso.

Adesso non c’è più il Lambrusco ma

ci sono i Lambruschi. Come nelle case

contadine, prima del boom. Un vino

leggero, che si faceva assaggiare anche

ai bambini. Un dito di vino, due dita di

schiuma. “Bevi che diventi furbo”,

dicevano i grandi ai piccoli. La vite come

il maiale, perché non si buttava via

niente. Nel tino con i grappoli già

schiacciati si metteva alla sera un

secchio d’acqua e la mattina dopo si

spillava acqua macchiata da portare ai

mietitori del riso. I resti torchiati di

bucce e vinaccioli venivano seccati e

pressati in una “forma”, da bruciare

nella stufa in inverno. Pezzi di “forma”

venivano messi poi nel “prete”,

l’aggeggio che serviva a scaldare i letti

nelle camere gelate. Toglievi il “prete”,

ti infilavi fra le lenzuola bollenti e

sentivi, ancora, un leggerissimo

profumo di Lambrusco.

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ROMA

/ON BISOGNA FARE CIÒ CHE PIACE AL PUBBLICO, ma quello che il pubblico non sa ancora che gli piacerà. Forse il segreto del successo di Paolo Genovese e dei suoi film sta proprio in questa formula. «L’importan-te», aggiunge il regista, quarantanove anni, romano dell’ormai cele-bre quartiere Trieste, «è offrire sempre qualcosa di sorprendente,

capace di spiazzare lo spettatore». In pochi anni ha inanellato una serie di incassi stratosferici, senza rinunciare alla qualità: quindici milioni di euro con *NNBUVSJ; dodici milioni con *NNBUVSJ��, saga diventata anche una serie tv attualmente in lavorazione; più di dieci con 5VUUB�DPMQB�EJ�'SFVE, fino ai trionfi di 1FSGFUUJ�TDPOP�TDJVUJ, diciassette milioni di euro al botteghino e una lunga serie di riconoscimenti importanti e prestigiosi. «Al di là dei numeri», commenta Genovese, «con 1FSGFUUJ�TDPOPTDJVUJ�credo di aver toccato qualcosa di profondo, che non era stato ancora condiviso, forse perché si tratta di qualcosa di scomodo. Il mio film ha fatto diven-tare il tema un argomento mediatico e, soprattutto sul web, si è scatenato un di-battito liberatorio, perché il cellulare ha cambiato il nostro modo di vivere, non solo moltiplicando tradimenti e adulteri, ma modificando in manie-ra determinante il modo di relazionarci con gli altri». Insomma l’idea era semplicissima e sotto gli occhi di tutti. «Il fatto è», riprende Genove-se, «che nel cinema sono sempre le idee più semplici ad avere successo, ma a una condizione: essere raccontate da un punto di vista forte, altri-menti producono solo film banali. 1FSGFUUJ�TDPOPTDJVUJ non è un film sui cellulari, ma su un gruppo di amici che accettano di condividere il pro-prio inconscio attorno a una tavola. Tutti abbiamo una vita pubblica,

una vita privata e una vita segreta e quest’ultima è nascosta nel cellulare, diventato la scatola nera a cui affidiamo la nostra intimità. Mettendo in comune quella scatola nera, i miei prota-gonisti scoprono di non conoscere affatto le persone che hanno accanto da una vita».

Per la produzione nazionale, dopo anni di commedie buoni-ste, evanescenti, assolutorie, 1FSGFUUJ�TDPOPTDJVUJ ha segnato an-che un ritorno a un cinema più cinico, come nella migliore tradi-zione della commedia italiana. Ma per Genovese non è stata quella la principale chiave del successo: «L’importante è rimanere coeren-ti allo stato d’animo del film. Si possono fare anche bellissime com-medie leggere: con *NNBUVSJ, volevo comunicare la felice nostalgia del tempo passato. Un mio film precedente, -B�GBNJHMJB�QFSGFUUB, al

contrario, era distruttivo, perché raccontava le contraddizioni e le falsità domesti-che. 1FSGFUUJ�TDPOPTDJVUJ è una commedia, molto divertente, che lascia però in boc-ca un sapore amaro: se avessi optato per un happy end sarebbe crollato tutto. Lo sforzo è stato mettere lo spettatore a tavola con i personaggi, per questo sullo schermo appare spesso l’inquadratura di un posto vuoto. Per funzionare il film do-veva essere assolutamente credibile, perciò ho preteso di girarlo in sequenza, le ri-prese si sono svolte in un appartamento e non in studio e abbiamo girato di notte, condizione necessaria per creare sul set quella particolare atmosfera. Ho ingozza-to i miei attori di gnocchi, costringendoli ogni sera a mangiarli davvero e facendo-glieli odiare per i prossimi tre anni. Col senno di poi devo ammettere che tutto que-sto è servito». Al cinema Paolo Genovese ci è arrivato quasi per caso: non è stato uno di quei cinefili che hanno trascorso la propria adolescenza nei cineclub e che, fin da bambini, sognavano di diventare registi. Dopo un normalissimo curriculum scolastico, concluso al Giulio Cesare, uno dei licei classici più famosi di Roma, e una laurea in Economia, ha iniziato a lavorare in pubblicità, alla McCann Erick-son. Lì ha avuto l’occasione di incrociare Luca Miniero, futuro regista di #FOWFOVUJ�BM�4VE, con cui, quasi per gioco, ha iniziato a realizzare dei corti. «La prima espe-rienza nel cinema è stata una tragedia. Avevamo realizzato un corto, *ODBOUFTJNP�OBQPMFUBOP, che fu invitato al Festival di Locarno. Emozionatissimi partiamo per la Svizzera ma, per un errore tecnico, il nostro film viene proiettato completamen-te fuori fuoco. Ci viene da piangere e, la mattina dopo, ripartiamo affranti. Arriva-ti a Roma, ci raggiunge la notizia che�*ODBOUFTJNP�OBQPMFUBOP è stato premiato: la giuria aveva particolarmente apprezzato la messa in scena fuori fuoco, voluta-mente velata, nebbiosa, antirealistica. Quell’esperienza mi ha fatto capire il sen-so della relatività di questo lavoro, condannato alla soggettività più assoluta. Noi registi dipendiamo dal gusto degli altri: del pubblico, dei critici, persino degli atto-ri, che possono decidere di partecipare o non partecipare a un film. Per questo, vor-rei che i miei figli non lavorassero nel cinema, anche se, ovviamente, non farò nul-la per impedirlo. Del resto è quello che hanno fatto i miei genitori, che mi avrebbe-ro voluto avvocato o medico, ma non mi hanno mai ostacolato. Anzi sono stati e continuano a essere i miei più fanatici fan. Quando girai il primo film per le sale, la versione lunga di *ODBOUFTJNP�OBQPMFUBOP, riempirono di locandine tutti i negozi del quartiere, consapevoli che qualche decina di presenze in più o in meno avreb-be potuto fare la differenza. Ma anche oggi che, grazie a Dio, i miei film viaggiano su altri numeri, non hanno rinunciato a questa attività di promozione artigianale: quando esce un mio film continuano a distribuire locandine nei negozi e nei bar della zona dove abitano».

Di recente i genitori di Genovese hanno avuto spesso da fare perché, negli ulti-mi sette anni, il figlio ha girato altrettanti film e scritto una decine di sceneggiatu-re, alcune delle quali affidate a colleghi. In questi giorni sta lavorando anche al nuovo film di Gabriele Muccino. «Ci siano incontrati a New York e mi ha proposto di scrivere insieme. Non sempre è facile lavorare per un altro regista, ma penso che con Muccino il feeling ci sia». Insomma un’attività intensa, da cinema d’altri tempi. «Determinata principalmente», confessa, «dalla difficoltà di stare lontano dal set». Forse anche per questo nella serie tv *NNBUVSJ, affidata alla regia di Ro-lando Ravello, per la prima volta Genovese apparirà in veste di attore. «È un picco-lissimo cameo, sono un carabiniere che arresta Ilaria Spada (una delle protagoni-

ste, OES). Ma per carità, non ho alcuna intenzione di intraprendere una carriera da interprete: è stato solo un divertente, piacevole diversivo. Questo lavoro biso-gna farlo con allegria e io non mi sono mai sentito un artista bohémien che, per trovare l’ispirazione, deve ritirarsi solitario in riva al mare o in mezzo alla cam-pagna. Vacanze di questo tipo servono per fuggire dal lavoro, non per cercarlo. Considero la scrittura cinematografica un lavoro da operaio, che deve essere

sottoposto a regole precise. Sono molto rapido a scrivere, ma ho bisogno di rispettare orari prestabiliti: trovata l’idea, mi impongo otto ore di la-voro al giorno, con pausa pranzo, dalle 10 alle 19, altrimenti non esce niente. Lavoro nel mio studio a Campo de’ Fiori, perché a casa con tre figli adolescenti la concentrazione sarebbe più complicata. Ma quando l’idea si è fissata in testa, mi accompagna per tutta la gior-nata e mi capita di continuo, anche fuori dall’orario di lavoro, di ag-giungere un particolare, una battuta, che nasce senza pensarci e che ho bisogno di fissare nella scrittura, altrimenti sono sicuro che la perderei. Così non è infrequente che, improvvisamente, mentre guido lo scooter, mi fermo, tiro fuori il tablet e mi metto a scrivere per strada un pezzo di dialogo. Tuttavia, il cinema è lavo-ro di gruppo e i miei film li ho sempre scritti insieme ad altri. Da qualche tempo ho cominciato a fare squadra anche con altri colle-

ghi, pur non lavorando insieme a loro. Con Fausto Brizzi, con Edoar-do Leo, Massimiliano Bruno e Rolando Ravello ci vediamo e ci scam-biamo idee e copioni. Mi capita sempre più spesso di essere invitato

da altri registi a visionare il primo premontato del loro film per qual-che osservazione e consiglio. Insomma si comincia ad avvertire una sin-

cera voglia di condivisione, anche se fra noi non c’è ancora quella comu-nità di intenti dei registi degli anni Sessanta che ha fatto grande il cine-ma italiano e che nasceva da un’affinità politica e sociale. Nel nostro ca-so, quella, è ancora assente».

Da bambino non passava affatto i pomeriggi nei cineclub di Roma

nord sognando di diventare regista, e una volta grande sarebbe do-

vuto diventare medico o avvocato. Invece prese la strada della pub-

blicità, e da lì per puro caso quella del cinema: “Un mio corto arrivò

non so come al festival di Locarno, per sbaglio fu proiettato fuori fuo-

co e grazie a quell’errore premiato dalla giuria. Da allora mi è chiara

l’assoluta relatività di questo mestiere”. Da “Immaturi” a “Perfetti

sconosciuti” ha incassato una sfil-

za di successi e oggi, a quaranta-

nove anni, ha capito il trucco:

“Per fare commedia di qualità de-

vi tenere a mente una cosa: che

la banalità è dietro l’angolo”

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