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LE TRE TORRI · 2017-11-24 · L'ACCELERATORE DI PARTICELLE DEL MEDIO ORIENTE S'APRÌ SU SCIENZA E...

Date post: 07-Aug-2020
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LE TRE TORRI USA, CINA E RUSSIA: I TRE POLI DELLO SCACCHIERE GEOPOLITICO Rivista quadrimestrale di geopolitica ed economia internazionale n. Anno VI Gennaio-Aprile 2017 13
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LE TRE TORRIUSA, CINA E RUSSIA: I TRE POLIDELLO SCACCHIERE GEOPOLITICO

Rivista quadrimestrale di geopolitica ed economia internazionale

n.Anno VI

Gennaio-Aprile 2017

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IL NODO DI GORDIORivista quadrimestrale di geopolitica ed economia internazionale

Anno VI – N. 13 – Gennaio-Aprile 2017

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Rivista quadrimestrale di geopolitica ed economia internazionale

LE TRE TORRIUSA, CINA E RUSSIA: I TRE POLIDELLO SCACCHIERE GEOPOLITICO

n.13Anno VI

Gennaio-Aprile 2017

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Indice

6 EDITORIALE IN "GLOBE" WE TRUST di Daniele Lazzeri

12 IL GRAFFIO DI GORDIO di Alfio Krancic

13 LE TRE TORRI

15 LE TRE TORRI E IL DESTINO DELLE PEDINE di Andrea Marcigliano

28 MANCA LA QUARTA TORRE, QUELLA EUROPEA di Augusto Grandi

32 LA MURAGLIA INFINITA

34 CHINA’S EURASIAN PIVOT: MOTIVATIONS, IMPLICATIONS AND PROSPECTS di Marlen Belgibayev and Xiaotong Zhang

70 LA SINIZZAZIONE DELL’ASIA CENTRALE TREDICI SECOLI DOPO di Marcello Ciola

80 LA STRATEGIA MARITTIMA DELLA REPUBBLICA POPOLARE CINESE DA MAO A XI JINPING di Manuel Moreno Minuto

89 LA STRATEGIA CINESE DEL “FILO DI PERLE” di Antonciro Cozzi

INDICEIn questo numero:

93 LA CINA ARRIVA IN EUROPA SULL’AUTO ELETTRICA di Augusto Grandi

96 TRANSATLANTIC OUTLOOCK

98 LE LEZIONI DI HENRY KISSINGER di Jeffrey Goldberg

115 RICHARD PERLE “CON TRUMP, TENSIONI TRA USA E CINA. L’EUROPA? UN’UNIONE DOGANALE”. a cura della Redazione

118 STATI UNITI D’AMERICA: POTERI E LIMITI PRESIDENZIALI di Vittorfranco Pisano

125 LA NATO COMBATTERÀ? E PER COSA? I Paesi Baltici e l’Alleanza Atlantica di Stephen Bryen

132 THE FIELD OF FIGHT di Daniele Capezzone

138 L’“ATLANTICO ORIENTALE” GLI USA NON POTRANNO FARE A MENO DEL GIGANTE ECONOMICO EURO- MEDITERRANEO di Daniele Lazzeri

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Indice

142 LEGGERE FRIEDMAN NEL 2016: CAPITALISMO, LIBERTÀ E LA SFIDA DELLA CINA di Amanda Schnetzer

146 ORIZZONTI DAL CREMLINO

148 IL RUOLO STRATEGICO DI MOSCA NEL NUOVO SCACCHIERE MONDIALE di Franco Cardini

160 NEL MONASTERO ALTRUI NON SI VA CON IL PROPRIO STATUTO di Irina Osipova

168 GRAND TOUR

170 E ORA DOVE ANDIAMO? IL LIBANO, UNA POZIONE MAGICA di Gianni Bonini

182 TRA IDENTITÀ E TERRORISMO. LA SFIDA DEI PALESTINESI DEL LIBANO di Luca Steinmann

188 LA RADICALIZZAZIONE DEI COMBATTENTI JIHADISTI NEI BALCANI OCCIDENTALI di Nina Kecojević

196 UN PAESE IN CUI TUTTO È IL CONTRARIO DI TUTTO” IL GRANDE IRAN DI GIUSEPPE ACCONCIA di Michela Mercuri

200 ANTARTIDE: FARE RICERCA ALLA FINE DEL MONDO. PER SALVARLO di Marco Ferrazzoli

210 «APRITI SESAME!» E L'ACCELERATORE DI PARTICELLE DEL MEDIO ORIENTE S'APRÌ SU SCIENZA E PACE di Renato Sartini

216 TUTTI AL MARE, MA NON ITALIANO di Giampaolo Scardia

219 LA DIFESA DI CORFÙ DEL 1716 di Andrea Liorsi

231 GLI ITALIANI DEI DUE MONDI: I PROTAGONISTI DELLA PRIMA REPUBBLICA FRA ARABI E AMERICANI di Matteo Gerlini

238 IL CIHEAM DALLA FONDAZIONE AD OGGI di Maurizio Raeli

243 LA BIBLIOTECA DI GORDIO

260 BOARD / AUTORI

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ulle note di “My Way”, in quel di Washington, è calato il si-pario dei festeggiamenti per

l’“Inauguration Day”.Donald Trump è il 45° presidente degli Sta-ti Uniti d’America, giunto alla Casa Bianca dopo una lunga ed accidentata campagna elettorale non priva di colpi bassi e rove-sciamenti di fronte.Il duello a colpi di feroci tweet e veleno-si dossier con la rivale Hillary Clinton ha rappresentato solo una parte della contesa. Altre “armi non convenzionali” sono state utilizzate dai candidati per eliminare po-liticamente l’avversario. Dai sospetti dei servizi segreti americani sull’intromissio-ne di hacker russi per manipolare il voto in favore di Trump al plateale – ed a tratti riprovevole – appoggio garantito da mass media e finanza internazionale alla Clin-ton, è stato tutto un susseguirsi di accuse reciproche sull’inadeguatezza a ricoprire

EDITORIALE

La governance globale dei prossimi decenni sarà in mano a Usa, Russia e Cina e alla loro capacità di gestire le relazioni internazionali. Una miriade di piccole e medie potenze faranno da corollario alle strategie di questi tre grandi poli di attrazione geopolitica del pianeta e cercheranno di ritagliarsi uno spazio di influenza regionale.

S

di Daniele Lazzeri

IN "GLOBE" WE TRUST

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Editoriale

Senza una rinnovata spinta politica, l’Unione europea rischia davvero di

cadere a pezzi.

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l’incarico che fu di George Washington e di Thomas Jefferson.Terminata però l’abbuffata di convention, trasmissioni ed analisi sulla campagna elettorale e sul suo ormai noto esito ed abbandonati gli slogan che hanno contrad-distinto questi ultimi mesi – dall’"America First" al "Make America Great Again" – è necessario focalizzare l’attenzione sugli scenari che accompagneranno il prossimo futuro delle relazioni internazionali dopo l’avvento di “The Donald”.

IL DIFFICILE DIALOGOFRA LE TRE TORRI

Non sarà un compito facile ma è altrettan-to vero che, allo stato attuale, non vi sono altre strade percorribili.La governance globale dei prossimi decen-ni sarà in mano a Stati Uniti, Russia e Cina e alla loro capacità di gestire le relazioni internazionali. Una miriade di piccole e medie potenze faranno, invece, da corol-lario alle strategie di questi tre grandi poli di attrazione geopolitica del pianeta e cer-cheranno, di volta in volta, di ritagliarsi uno spazio di influenza regionale sfruttan-do le mutevoli condizioni nei rapporti di forza tra Washington, Mosca e Pechino.Tra queste potenze regionali, la prima ad assumere assoluta rilevanza sarà l’Iran. Trump non ha fatto mistero del suo desi-derio di rinegoziare gli accordi sul nuclea-re siglati dal suo predecessore, accusando Barack Obama di aver adottato in Medio Oriente una politica fallimentare e contra-ria agli interessi americani.

La nomina del Generale Michael Flynn – costretto alle dimissioni dopo poche settimane per le intercettazioni di sue conversazioni con diplomatici russi pri-ma dell’insediamento alla Casa Bianca – a Consigliere per la Sicurezza Nazionale, era già un chiaro messaggio della nuova strategia di Washington nei confronti di Teheran. D’altronde – come potrete leg-gere all’interno di questo numero – le idee di Flynn sulla questione iraniana compa-rivano già dallo scorso giugno nel volume scritto a quattro mani con Michael Ledeen “Field of Fight”. Per gli autori, infatti, l’I-ran è indiscutibilmente il motore del ra-dicalismo islamico e delle sue declinazio-ni terroristiche; il nemico per eccellenza per la sicurezza interna degli Stati Uniti e dell’Occidente nel suo complesso. Per il Generale Flynn, inoltre, gli stretti e stori-ci rapporti tra Teheran e Mosca rischiano di generare una pericolosa “Alleanza dei Nemici” tra gli Ayatollah e Vladimir Putin. Quest’ultimo, infatti, pur avendo subito numerosi attacchi all’interno dei confini nazionali russi da parte di cellule jihadiste, persevera nel mantenere saldo l’asse pri-vilegiato con l’Iran. Leggendo le pagine di “Field of Fight”, sorge il dubbio che le pri-me dichiarazioni di apertura nei confronti di Mosca rilasciate da Donald Trump, siano da interpretare più come un tentativo di depotenziare la relazione russo-iraniana che una meno realistica riappacificazione con lo “Zar Vladimir” dopo anni di cre-scente tensione. Ma analogo discorso si potrebbe profilare nei confronti della Cina. Sganciare Mosca

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Editoriale

da Pechino, infatti, è certamente uno degli obiettivi che l’Amministrazione Trump si è fissata. L’isolamento della Cina, stretta in una pericolosa morsa sia da Oriente che da Occidente, rappresenterebbe una garanzia di depotenziamento della strategia di pro-gressivo allargamento degli spazi messa in campo dal Presidente Xi Jinping.Una strategia che lo ha proclamato lea-der indiscusso del mondo globalizzato al recente World Economic Forum di Davos, proprio mentre il neo Presidente ameri-cano sostiene la volontà del “re-shoring” – il rientro negli Stati Uniti delle attività delocalizzate in Asia ed in Messico. È indu-bitabile che la volontà espressa da Trump in questa direzione arrecherà un danno economico e finanziario alla Cina ma è altrettanto vero che il legame a triplo filo tra Washington e Pechino determinerà dei contraccolpi anche negli Usa. Non è un caso che si siano smorzati i toni combattivi del-

la prima ora utilizzati da “The Donald” nei confronti del Celeste Impero. Il Trump 2.0 – pur riaffermando alcuni capisaldi delle politiche annunciate in campagna eletto-rale – dovrà dunque fare i conti con una re-altà molto più complessa ed articolata. Lo abbiamo visto con il riconoscimento della politica del “One Country, Two Systems” nei confronti di Taiwan e, probabilmente, assisteremo nei prossimi mesi ad ulteriori aggiustamenti nella linea diplomatica in altre realtà geopolitiche. Nel frattempo, il Presidente Xi prosegue con il colossale progetto di costruzione della nuova “Via della Seta”. Anzi, delle nuove Vie della Seta che stanno prendendo forma grazie alla “One Belt, One Road stra-tegy” che si inquadra in un più vasto pro-getto geopolitico del quale diamo ampio risalto all’interno del volume con la prima parte del prezioso saggio a quattro mani di Zhang Xiaotong e Marlen Belgibayev.

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UNIONE EUROPEA: LA TORRE IN FRANTUMI

L’elezione di Donald Trump non poteva non produrre qualche effetto anche al di qua dell’oceano. Ed in effetti, la già clau-dicante Europa rischia di venire azzoppata definitivamente nei prossimi mesi, carat-terizzati da alcuni cruciali appuntamenti con le urne. Dalla Francia all’Olanda fino alle elezioni in Germania, il pericolo di preoccuparsi eccessivamente dei delica-ti equilibri interni ai singoli Stati porterà con tutta probabilità a perdere di vista il destino dell’Unione nel suo complesso. Il timore per la crescente forza acquisita dai movimenti cosiddetti populisti, accompa-gnato dal vento di strisciante sciovinismo che sta soffiando su tutto il Vecchio Con-tinente, pongono l’Ue di fronte ad uno dei più difficili test dalla sua costituzione. A poco servirà la difesa a spada tratta della moneta unica che il Presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, continua a portare avanti nelle sue dichiarazioni e nelle mosse di politica monetaria.Senza una rinnovata spinta politica, l’U-nione europea rischia davvero di cadere a pezzi. Istituzioni scollegate dal Popo-lo, misure di politica economica – quelle di austerity su tutte – che hanno messo in ginocchio più di un membro aderente, nonché un’inesistente coordinamento nel-le decisioni di politica estera e di difesa a livello continentale, non sono grattacapi di poco conto per Bruxelles.L’idea – peraltro non nuova – lanciata dal-la Cancelliera Angela Merkel di ripensare

un’Europa a due velocità coglie solo in parte la dimensione e la complessità del problema. Già esistono, infatti, più veloci-tà sul territorio europeo. Come richiamato, infatti, dal Ministro degli Esteri Angelino Alfano: “Dei ventotto Stati membri dell’U-nione Europea, solo diciannove adotta-no l’Euro. La libera circolazione nell’area Schengen riguarda solo ventisei Paesi eu-ropei, di cui ventidue della Ue e quattro associati. Quanto alla difesa e sicurezza comune, ventotto Stati aderiscono alla Nato (di cui ventisei europei), mentre cin-quantasette Paesi partecipano all’Osce e quarantasette al Consiglio d’Europa”. Una vera e propria confusione che – come rile-va Richard Perle nelle pagine interne – ri-durrà probabilmente l’Europa ad una mera unione doganale, senza alcuna rilevanza politica nella scena internazionale.E questa è una delle questioni che balza agli occhi leggendo l’intervista ad Henry Kissinger uscita su “The Atlantic” e che pubblichiamo in esclusiva in questo nu-mero: l’Europa è citata di striscio, con ri-ferimenti legati più alla storia che al futuro delle relazioni globali. In perenne ricerca di un ombrello protettore che, sinora, è stato rappresentato dall’Alleanza Atlantica – il Vecchio Continente deciderà di dotarsi di una Difesa comune o preferirà sottosta-re alle richieste di Trump di incrementare i propri investimenti in questo settore? Se lo chiede nel suo articolo dedicato all’Eu-ropa ed ai Paesi Baltici in particolare an-che Stephen Bryen: “La Nato combatterà? E per cosa?”.

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Editoriale

Ma in questo numero affidiamo al Lettore anche numerosi focus su altri quadranti geopolitici ed aree tematiche. Dalla com-plessa situazione libanese ai multiformi volti dell’Iran, dal radicalismo jihadista nei Balcani alla storia marittima ed all’econo-mia del Mediterraneo. Fino allo splendido reportage realizzato in Antartide dal Capo Ufficio Stampa del Cnr, Marco Ferrazzoli, sul ruolo scientifico e geopolitico dell’Ita-lia nella ricerca polare che dimostra perché “In Globe We Trust”.

Daniele LazzeriDirettore responsabile “Il Nodo di Gordio”

Segui il direttore su Twitter: @DanieleLazzeri

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IL GRAFFIO DI GORDIOdi Alfio Krancic

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Le Tre Torri

LE TRE TORRI

15 LE TRE TORRI E IL DESTINO DELLE PEDINE di Andrea Marcigliano

28 MANCA LA QUARTA TORRE, QUELLA EUROPEA di Augusto Grandi

In questa sezione:

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Tre Torri, Tre Potenze Globali:il nuovo Grande Gioco geopolitico.

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Le Tre Torri

rmai è il gioco delle Tre Torri. Negli ultimi venticinque anni la scena geopolitica ha conosciu-

to metamorfosi vorticose: infatti, dopo il grande gelo della Cold War – che aveva reso per mezzo secolo, il quadro internazionale statico, paralizzato su un bipolarismo fra i due Giganti – dalla caduta del Muro di Ber-lino in poi abbiamo assistito a mutamenti dalla rapidità, e fluidità, mercuriale. Dopo una breve stagione caratterizzata dall’e-gemonia statunitense – o dall’illusione di questa – con “Washington gendarme del mondo” secondo la definizione del Segre-tario di Stato Albright, gli attentati di New York e del Pentagono ci hanno precipitato in una più lunga epoca che Paul Wolfowitz definì come quella delle “Alleanze a geo-metrie variabili”. Con lo scenario geopo-litico in continua trasformazione, i nemici di ieri che, improvvisamente divenivano alleati ( e viceversa) e, soprattutto, un con-

di Andrea Marcigliano

LE TRE TORRIE IL DESTINO DELLE PEDINE

Ormai è il gioco delle Tre Torri. Cina, Russia, America, gli unici players globali; le superpotenze in grado di agire in tutti gli scenari geopolitici mondiali.

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tinuo moltiplicarsi degli Attori geopolitici, prevalentemente nei singoli quadranti re-gionali. Oggi, però, dopo il palese fallimen-to della politica estera dell’Amministrazio-ne Obama – che, cercando di delegare agli alleati gli oneri ha finito con il rendere tutta la scena internazionale più magma-tica e confusa di quanto lo fosse negli otto anni di George W. Bush – ci troviamo agli albori di una nuova stagione. Una stagione che vede sì il perdurare del gioco delle al-leanze a geometrie variabili – come dimo-stra l’intricata questione siriana – ma che

al contempo si sta caratterizzando per una nuova forma di tripolarismo. In buona so-stanza, un gioco a tre: USA, Russia e Cina. I tre, unici, players globali. Le uniche po-tenze non solo intenzionate, ma anche in grado di giocare una partita a 360° su tutta la carta geopolitica mondiale. E pertanto capaci di divenire poli di attrazione per tutti gli altri attori, dalle potenze regionali ai paesi minori, sino alle nuove coalizioni locali che si stanno affacciando sulla sce-na. Capacità di attrazione che, però, non si traduce automaticamente, anzi ben dif-ficilmente potrà tradursi nel costituirsi di tre Blocchi internazionali compatti e coesi. Al contrario, tende a rendere ancora più di-namico ed insicuro il gioco delle alleanze.

Con gli attori di secondo piano che, di vol-ta in volta, di scena in scena, finiscono per essere attratti dall’uno o dall’altro dei Tre Colossi, inseguendo particolari e momen-tanei interessi. Quello che sta avvenendo proprio in questi mesi con la Turchia ne è l’evidente riprova.

ANKARA TRA MOSCA E WASHINGTON

Infatti Ankara appartiene tradizionalmen-te al blocco degli alleati di Washington. Uno dei pilastri fondamentali, per la sua posizione strategica e per la sua forza mi-litare, di quella che Donald Rumsfeld defi-nì la “Vecchia Nato”. Che, però, è appunto ormai vecchia. E così abbiamo assistito ad un complesso giro di valzer, innescato dal-la Guerra Civile in Siria, che ha portato la Turchia a stringere sempre più in rapporti con la Russia, ed Erdogan a farsi promoto-re con Putin di un Vertice internazionale ad Astana in Kazakhstan per risolvere il conflitto. Scenario impensabile appena un anno fa, quando Ankara si trovava schiera-ta dalla parte delle forze ribelli che in Si-ria combattevano contro Assad, sostenuto con forza, aiuti ed impegno della flotta e dell’aviazione, da Mosca. Una tensione che aveva raggiunto il livello critico nell’Au-tunno del 2015, quando un bombardiere russo, che andava a colpire le posizio-ni dei ribelli dell’Esercito Siriano Libero, era stato abbattuto da un F16 di Ankara. Provocando una crisi nei rapporti bila-terali senza precedenti, e portando i due paesi quasi sull’orlo dello scontro diretto. Musica (probabilmente) per le orecchie

Il nuovo tripolarismo è destinato a condizionare gli strumenti ed i modelli operativi della geopolitica mondiale

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Le Tre Torri

dell’Amministrazione Obama, che vedeva allontanarsi lo spettro di una Turchia che giocasse il suo ruolo internazionale svin-colata dalle tradizionali alleanze. Come aveva, in buona sostanza, teorizzato l’al-lora premier turco Davutoglu. Poi, però, sono intervenuti altri fattori determinan-ti. Due in particolare: la guerra contro lo Stato Islamico e la Questione Curda. Due problemi strettamente intrecciati fra loro, e che lasciavano intravvedere sullo sfondo quello che, comunque, rappresenta il nodo fondamentale di tutto il problema siriano: il ridisegno degli equilibri di tutto il Medio Oriente. In buona sostanza la revisione dei confini stabiliti, a suo tempo, dagli accordi Sykes-Picot. E così, nel volgere di un solo anno, la situazione si è completamente ribaltata. Anche perché Vladimir Putin ha saputo abilmente sfruttare la crisi nei rap-porti fra Ankara e Washington innescata sia dall’appoggio statunitense ai curdi si-riani dell’YPG – strettamente legati ai loro confratelli del PKK, il gruppo separatista che sta insanguinando la Turchia con de-cine di attentati terroristici – sia, soprat-tutto, dall’ambiguità dimostrata da Obama di fronte al tentato golpe che, a metà luglio scorso, tentò di rovesciare il governo di Er-dogan. Ambiguità che ha reso sospettosi i turchi, anche perché il “padre nobile” del tentato colpo di Stato, il leader politico-religioso Fetullah Gülen, risiede da anni negli USA e sono ben note le sue (ottime) relazioni con ambienti di Langley. E il nuo-vo Zar di Mosca non solo non ha esitato a condannare sin dal primo momento il ten-tativo di golpe – senza attendere il divenire

degli avvenimenti, come invece hanno per lo più fatto le principali Cancellerie euro-pee, ma sembra abbia addirittura fatto av-visare dalla sua intelligence Erdogan della minaccia incombente, di fatto salvandogli la vita. Per farla breve, Mosca ed Ankara hanno trovato un accordo sulla Siria – im-pensabile ed insperabile sino a pochi mesi fa – e insieme si sono fatte promotrici del vertice di Astana. Il primo, serio, tentativo di giungere ad una soluzione negoziata del conflitto, e, di conseguenza, ad un ridise-gno degli equilibri medio-orientali tale da soddisfare le esigenze non solo delle due potenze promotrici, ma anche di altri im-portanti attori coinvolti nella crisi regio-nale. In particolare l’Iran.

COMPETITORS, NON NEMICI

Caso esemplare, certo, di alleanze “a ge-ometrie variabili”, ma ancor di più della nuova partita incentrata su Tre Torri, ov-vero su tre poli di attrazione capaci di as-solvere al ruolo di potenze geopolitiche globali. Infatti, Ankara delusa dalle scelte di Washington – che legge come in contra-sto con i suoi particolari interessi naziona-li – è stata immediatamente attratta dalla “Torre” russa, con la quale sembra poter trovare – nonostante tutte le differenze – maggiori convergenze. Tuttavia si deve tener conto che un giro di valzer come questo è pur sempre caratterizzato da una sostanziale instabilità. o meglio dall’essere legato ad uno specifico momento e a non costituire, pertanto, una ridefinizione du-revole degli schieramenti internazionali. E

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proprio in questa sensazione di provviso-rietà è possibile vedere una delle principali differenze fra la nuova stagione geopoliti-ca – che si sta aprendo davanti ai nostri oc-chi – e quella, ormai lontana, della Guerra Fredda. Quando, appunto, i sistemi di al-leanze erano “congelati” e determinavano la compresenza di due blocchi massicci e compatti, con pochi attori secondari che potevano permettersi una qualche libertà d’azione, per altro più illusoria che reale. L’altra grande differenza è, naturalmente, costituita dal tripolarismo, ovvero dalla presenza sulla scena, accanto a Washing-ton e Mosca, di Pechino. Un tripolarismo che, insieme alla transitorietà e variabilità delle alleanze, è destinato a condizionare gli strumenti e i modelli operativi della nuova geopolitica internazionale.Ad uno sguardo superficiale le Tre Torri, le tre grandi potenze, appaiono molto diver-se fra loro per tipologia di forza e “dimen-

sioni”. Pechino, ad esempio, è sicuramente una grande potenza economica globale, con un sistema industriale ormai capace di insidiare lo storico primato statuniten-se. Tuttavia soffre ancora di un gap sotto il profilo della forza militare sia rispetto a Washington che a Mosca. A sua volta la Russia è sicuramente un gigante come potenziale bellico, ma è condizionata in negativo da una forza economica troppo vincolata alla sola industria estrattiva ed all’export di gas e petrolio. Infine gli USA – pur continuando a mantenere il primato in molti settori – hanno conosciuto negli anni un netto declino del loro sistema in-dustriale interno, e, pur continuando ad essere di gran lunga la prima potenza per investimenti in campo militare, vedono sempre più questa tradizionale linea poli-tica messa in discussione da forze politiche e componenti sociali interne alla sua opi-nione pubblica.

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Notevole, poi, il divario sotto il profilo del Soft Power, che vede, naturalmente, Washington detenere una sorta di prima-to mondiale ben difficilmente insidiabile. Gli Stati Uniti sono infatti il paese dove è nata e si è sviluppata la cosiddetta “cultura di massa”, con i suoi modelli ormai diffusi universalmente. Modelli che rappresenta-no degli standard di vita decisamente at-traenti per tutti i paesi non solo “occiden-tali” ma anche, anzi ancor di più per quelli in via di sviluppo e/o sottosviluppati che anelano ad un progressivo miglioramento delle loro condizioni. E che pertanto guar-dano agli USA come ad una sorta di “Pa-radiso in terra”, ovvero ad un modello da imitare il più possibile. Aprendosi, così, con estrema, ancorché sovente inconscia, disponibilità alla cultura di massa “made in USA”, costituita da un’inestricabile in-treccio fra Media, tecnologia, consumismo, cultura “alta” e cultura “popolare”. Il Soft Power americano, insomma. La vera po-tenza di Washington, al di là della forza militare e di quella economica.A tutto questo Mosca e Pechino stentano a trovare dei loro “antidoti”. Privata del Soft Power costituito dall’ideologia mar-xista-leninista, che caratterizzò la lunga stagione sovietica, la Russia di Putin cerca di trovare nuove strategie di penetrazio-ne e suggestione culturale guardando alla sua tradizione. E sembra averle trovate nell’antico retaggio del pan-slavismo e in quello ancora più antico e suggestivi della fratellanza fra i popoli di fede Ortodossa. Entrambe queste linee – per altro inevita-bilmente intrecciate fra loro – non posso-

no venire a definire un Soft Power capace di penetrazione a livello globale, essendo per loro natura limitati ad una specifica, anche se vasta, regione dello scacchiere geopolitico mondiale. Ed infatti Ortodos-sia e pan-slavismo si sono dimostrati uti-lissimi strumenti di penetrazione cultu-rale nella fase in cui Putin stava cercando di risollevare le sorti della Russia dopo il disastro degli anni di Eltsin, e di ridare a Mosca un posto al tavolo delle decisio-ni. Oggi, però, rischiano di costituire una sorta di limite, che potrebbe condiziona-re il futuro di Mosca costringendola in un ruolo sì di Grande Potenza, ma comunque confinata nel suo agire in una dimensio-ne prettamente regionale. Un rischio del quale il Cremlino appare ben cosciente. Tant’è vero che si possono leggere alcune recenti mosse di Putin e degli uomini del suo entourage proprio come una progres-siva apertura verso nuovi, più ampi, oriz-zonti culturali. Il fatto che il leader russo abbia più volte, ed in diverse sedi, ricorda-to che la sua Federazione Russa è, anche, una realtà dove con la tradizione cristia-no-ortodossa si intreccia storicamente un antico e forte retaggio culturale islamico, e che l’Islam rappresenta, per numero di credenti, la seconda religione del paese, è un preciso segnale. Rappresenta la volontà di Mosca di esercitare una crescente attra-zione ed influenza sui popoli di fede isla-mica, ponendosi come riferimento per un “Islam non radicale” e compatibile con la cultura della modernità, che è, certo, estre-mamente diffuso nel mondo, ma privo, sino ad oggi, di un’autentica, e soprattutto

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forte, leadership politico-culturale. Inol-tre nel dialogo sempre più stretto con la Turchia di Erdogan e, al contempo, nell’al-largamento verso paesi turcofoni dell’Asia Centrale dell’Unione Economica Eurasiati-ca è possibile intravvedere una ripresa, in chiave moderna, del sogno di Leontiev e degli Eurasisti del XIX secolo. Che vagheg-giavano una sorta di “alleanza di destino” fra mondo slavo e mondo turcofono. Con Mosca, naturalmente, alla guida.Ancora diversa la situazione di Pechino. La Cina è profondamente orgogliosa della sua antichissima tradizione culturale. Una tra-dizione che investe tutti i campi della vita

– dalla letteratura al cinema, dalla moda alla cucina… – e che non solo costituisce un forte collante dell’unità nazionale, ma ha, fino ad ora, permesso ai cinesi di assi-milare le novità che vengono dall’Occiden-te, ovvero i modelli di quella che chiamia-mo “modernità”, facendoli propri senza venirne condizionati in profondità. Anzi adattandoli, sostanzialmente, alla propria specificità. Un atteggiamento che ha per-messo a Pechino di superare molte sfide negli ultimi decenni; in particolare quella, epocale, rappresentata dal modello eco-nomico del Libero Mercato, che la Cina ha assunto, con grande successo, senza, però,

adottare, al contempo, un modello politico liberal-democratico occidentale. Contrad-dicendo così la più classica delle teorie po-litiche occidentali, che voleva inscindibile Libero Mercato da Liberal-democrazia, a meno di non rischiare gravi traumi e rivo-luzioni nel corpo della società. Cosa che in Cina, notoriamente, non si è verificata, su-scitando lo stupore di analisti e osservatori europei e statunitensi.Tuttavia la cultura tradizionale cinese non riesce, per sua natura a divenire un Soft Power esportabile al di là dei confini dell’Impero di Mezzo. In buona sostanza può suscitare ammirazione e curiosità, e conquistare il cuore e mente di appassio-nati sinologi. Ma non può divenire un Soft Power capace di conquistare e suggestio-nare popoli lontani dalla tradizionale sfera d’influenza cinese. Un limite notevole per una potenza globale. Un limite, per altro, del quale la dirigenza della Città Proibita appare ben cosciente; così come è coscien-te che proprio in questo risiede la maggior debolezza rispetto al rivale statunitense. Infatti Pechino non sembra temere il diva-rio di forza militare che sta, a poco a poco, cercando di colmare con intelligenti poli-tiche di investimento nelle forze armate e soprattutto nella marina. Ma si rende con-to di non essere davvero competitiva nel Soft Power. In buona sostanza la raffinata tradizione sinica non riesce a conquistare menti e cuori di interi popoli come invece sa ben fare, e da tempo, la più “rozza”, ma estremamente efficace, cultura di massa a stelle e strisce.Difficile per Pechino trovare una soluzio-

In futuro non esisteranno blocchi coesi, ma sistemi di alleanze in continuo mutamento. Una partita a Mah Jong, non a scacchi

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ne, senza rischiare, aprendosi troppo a questi modelli culturali di massa per com-petere con Washington, un effetto boo-merang. Ovvero di finire con l’erodere il collante fondamentale della propria unità interna. Di conseguenza la strategia sino ad oggi adottata appare estremamente prudente. E si fonda su due punti. In primo luogo quella linea guida sintetizzata nel motto “Sviluppo senza Conflitti”. Tradotto significa che la Cina investe, commercia, intrattiene relazioni economiche a 360° su tutto lo scacchiere geopolitico, senza, però, mai assumere un atteggiamento “im-perialistico”. Senza mai dare l’impressione di voler in qualche modo, “colonizzare” i paesi oggetto dei suoi interessi. Una stra-tegia lenta, una tessitura sottile, ma che si sta rivelando efficace soprattutto in re-gioni che temono che l’eccessiva esposi-zione alla cultura di massa statunitense possa trasformarsi in una forma di neo-colonialismo “morbido”. Pechino, invece, mira a presentarsi come rispettosa delle specificità delle culture e delle tradizioni di tutti i popoli. Atteggiamento dal quale deriva la scelta, più decisamente politica, di non ingerire mai nelle vicende interne degli altri paesi. Quindi non criticare, anzi non giudicare regimi e sistemi di governo dei diversi popoli. In sostanza la Cina è re-alista: non vuole riforgiare il mondo a sua immagine, ma solo stabilire con più popoli e paesi possibili relazioni utili per i propri fini ed interessi. Un esercizio estremamen-te diplomatico, e raffinato, del Soft Power. Meno d’impatto, certo, dell’approccio, più ideologico della Russia; e ancor più certa-

mente meno penetrante della cultura di massa statunitense. Tuttavia la Cina è un gigante antico e paziente. E, non senza ra-gione, pensa che questo approccio potreb-be rivelarsi estremamente efficace ed utile in tempi medio-lunghi.

MAH JONG A TRE

Tre Torri, dunque, e tre diverse architet-ture In realtà, approfondendo l’analisi, è possibile accorgersi che tali differenze, pur reali, non inficiano per nessuno dei tre Paesi in questione il ruolo di “Torre”, ovvero di potenza geopolitica globale che hanno, ormai, decisamente assunto. Sem-mai le differenze di cui parlavamo deter-minano la strategia complessiva di ognuno dei tre “competitors globali”. Ed usiamo il termine “competitors” proprio per signi-ficare che quella fra le tre grandi potenze si configura come una partita geopolitica segnatamente diversa da quelle che hanno caratterizzato la storia sino ad oggi. Innanzi tutto, come già accennato, per-ché non sembra che nel futuro potranno più esistere blocchi coesi, ma appunto, si-stemi di alleanze a geometrie variabili, in continuo, spesso vorticoso, mutamento. In seconda, ma ancor più rilevante, istanza, perché nessuna delle tre potenze conce-pisce gli antagonisti come puri e sempli-ci “nemici”. O, peggio, come “Imperi del Male”, per riprendere una famosa espres-sione, dalla vaga eco tolkieniana, usata da Ronald Reagan contro l’URSS. In buona sostanza, se tre sono le Torri, nessuna di queste, comunque, appartiene a Sauron…

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Non concepire l’avversario come un “ne-mico”, bensì come un “competitor”, mo-difica sostanzialmente tutta la scena delle relazioni internazionali, e facendo saltare la storica dicotomia schmittiana – “amico/nemico” appunto – la rende estremamente più complessa. Un intricatissimo tessuto di tensioni e distensioni, contrasti ed alle-anze. Un intreccio nel quale le stesse Tre Torri appaiono, di volta in volta, alleate o nemiche, ed intessono le loro relazioni bi-laterali – o trilaterali che dir si voglia – gio-cando continuamente una sorta di partita di Mah Jong a tre. Gioco – guarda caso di origine cinese – che prevede più conten-denti – classicamente quattro – e richie-de, quindi, strategie complesse e raffinate; molto diverso, comunque, dagli Scacchi, la grande sfida a due, che ha caratterizzato i decenni della Guerra Fredda.Appare chiaro, anzi lampante, che questa partita stia per subire una notevole acce-lerazione proprio in seguito al recentissi-mo cambio della guardia a Washington. Un mutamento di linee strategiche della Casa Bianca che si è andato progressivamente definendo già nelle settimane anteceden-ti il giuramento del Presidente Donald Trump. E che vede rovesciata la linea so-stenuta dall’Amministrazione precedente di un deciso, e duro, confronto con Mosca. Linea che, in buona sostanza, ha rappre-sentato l’unico punto fermo della politica estera di Obama, in tutto il resto – Nord Africa, Medio Oriente, rapporti con la Cina… – sempre altalenante ed ambigua. Punto fermo mantenuto, per altro, sino all’ultimo momento, visto che Barack Oba-

ma negli ultimi due mesi del suo mandato – con Trump già eletto – si è spinto ad ina-sprire le sanzioni contro la Russia, senza alcuna consultazione con il suo successo-re designato… un comportamento senza precedenti nella storia di Washington, che ha messo in luce la volontà di lasciare in eredità delle relazioni bilaterali con Mosca estremamente deteriorate, allo scopo di rendere più difficile all’imminente Ammi-nistrazione Trump la preannunciata, nuo-va politica estera.

IL “FATTORE TRUMP”

Nuova strategia che prende, appunto, le mosse da un rilassamento dei rapporti con il Cremlino, da tempo estremamente tesi a causa prima della Crisi dell’Ucraina, poi della guerra civile in Siria. crisi che ave-vano visto Mosca e Washington schierate su due fronti opposti, con accenti (e atti) di una durezza tale da rievocare agli occhi di molti i fantasmi della Guerra Fredda. Trump, però, è essenzialmente un prag-matico, come ha dimostrato sia nel suo di-scorso di insediamento, sia con i primi atti della sua Presidenza, firmati letteralmente a poche ore dal giuramento. Tutti segna-li che ci fanno intuire come non si debba dare troppo per scontata la linea di poli-tica estera della nuova Amministrazione. infatti sarebbe azzardato, e soprattutto semplicistico, affermare che Trump tesse-rà rapporti privilegiati con Mosca a tutto discapito di Pechino. Certo, il dialogo con Putin è ormai riaperto, e questo dovrebbe facilmente lasciar prevedere una soluzio-

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ne tanto della guerra civile in Siria, quanto della crisi ucraina. Due dossier scottanti, e che è interesse di entrambe le potenze ri-solvere – o per lo meno avviare verso una soluzione condivisa il prima possibile. In-fatti, l’intreccio di interessi finanziari fra Russia e Stati Uniti è tale da rendere ana-cronistica ed autolesionistica ogni vellei-tà di ritorno alla Guerra Fredda, quando, anche dal punto di vista economico, URSS ed USA erano due mondi separati ed alie-ni. E l’Amministrazione Trump, anche per gli uomini di cui il neo-presidente si è cir-condato, appare più vocata ad un pragma-tismo (appunto) economico, che a scelte determinate da astratte visioni ideologi-che. Come accadeva con il “liberal” Oba-ma seduto nello Studio Ovale. Prevedibile, quindi, che Washington e Mosca cerchino un’intesa sul riassetto della regione siro-irakena e, più in generale, dell’intero Me-dio Oriente. Un accordo che dovrebbe pre-

vedere una posizione di rilievo anche per la Turchia, che si è fatta, a fine gennaio, pro-motrice, a fianco della Russia, del Vertice di Astana. Un vertice che ha visto Putin ed Erdogan invitare gli uomini dello staff di Trump, e che potrebbe rappresentare final-mente una svolta concreta dopo gli anni perduti in inutili chiacchere a Ginevra. La nuova Amministrazione USA appare infat-ti molto interessata ad un riavvicinamento con Ankara dopo il gelo disceso nelle rela-zioni bilaterali in seguito al tentato golpe di luglio scorso. D’altro canto non è certo casuale che uno dei primi leader a congra-tularsi, con toni entusiastici, con Trump dopo la vittoria elettorale sia stato proprio Erdogan.In buona sostanza la nuova Washing-ton non vuole più ritrovarsi coinvolta in tensioni e conflitti regionale per colpa di qualche alleato troppo “impulsivo” o in-temperante, come accaduto in Libia pri-

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ma ed in Siria poi. E questo per la decisa convinzione che alleati come la Francia o i sauditi sono sì capaci di dare inizio a conflitti, ma non di portarli a soluzione positiva. Mettendo, inevitabilmente, sulle spalle degli Usa oneri non richiesti e, per molti versi dannosi per l’interesse nazio-nale dell’America. Quell’interesse che, come ha sottolineato Trump nel discorso di insediamento, sarà l’unica bussola della nuova Amministrazione. Meglio, dunque, dialogare ed accordarsi con chi, come Mo-sca e, in dimensione regionale Ankara, ha la forza per intervenire e porre fine ad un conflitto. Meglio avere come “amico” un gigante che sette nani riottosi e inetti.Logica che vale forse ancor più per la crisi ucraina. Un conflitto che ha portato al pe-ricoloso gioco delle sanzioni reciproche fra Mosca e Washington. Sanzioni che se han-no rappresentato un grave problema per il Cremlino, sono andate comunque anche a detrimento di molte aziende statunitensi e di un mondo economico-industriale che è stato molto vicino a Trump durante la lun-ga, e combattuta, campagna per l’elezione alla Presidenza. Ora Washington è stata trascinata nel pantano ucraino per due precise ragioni. In primo luogo dagli alle-ati, Polonia e Paesi Baltici – con, dietro le quinte, Berlino a fare la politica del pesce in barile – che prima hanno fomentato la ri-volta di Kiev per defenestrare Yanukovich, considerato troppo filo-russo; poi si sono spaventati per l’ovvia e prevedibile reazio-ne di Mosca, invocando l’aiuto del Grande Fratello statunitense. In secondo luogo per la politica di Obama: in parte dettata dal

pregiudizio, tipicamente £liberal”, nei con-fronti della Russia di Putin, in parte deter-minata da interessi economici e finanziari – si pensi a Soros e alla finanza speculativa pronta ad approfittare della situazione di tensione – molto vicini, e cari, all’ormai ex Presidente. Ovvio che con Trump, che rappresenta ben altri interessi e la cui linea appare sin da ora informata ad un sostan-ziale pragmatismo, le cose siano destinate a cambiare in breve tempo. Le staffilate del nuovo Presidente ai Baltici ed alla stessa Merkel – accusata di “sfruttare” l’Europa” per interessi di bottega – vanno lette anche in questa ottica.

IL TIRO ALLA FUNE

Ovvio, dunque, che Putin abbia festeggia-to l’arrivo del nuovo inquilino della Casa Bianca con caviale e champagne. Sareb-be, tuttavia, sbagliato – come sottolinea Richard Perle nell’intervista rilasciata per questo numero de “Il Nodo di Gordio” – immaginare un futuro idillio o addirittura un Patto di Ferro fra Mosca E Washington. Tanto Putin quanto Trump sono sì due pragmatici, ma anche due “vincenti”. E per tanto non disposti ad un ruolo di compri-mario. Più facile che le relazioni bilaterali russo-statunitense siano improntate ad una sorta di politica a macchie di leopar-do. Dossier su cui entrambi convergono – la lotta contro terrorismo ed estremismo islamico, lo sviluppo di interessi industriali comuni, il contenimento dell’espansioni-smo economico-politico di Pechino – e al-tri sui quali le divergenze si evidenzieran-

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no nel tempo, come, fin da ora, i rapporti con l’Iran e, in prospettiva, gli equilibri della regione caucasica. Non più, dunque, una parodia della Guerra Fredda, come quella inscenata dal duo Obama-Clinton, ma un “cordiale” tiro alla fune, nel quale sia Trump che Putin tenteranno di appro-fittare, di volta in volta, di ogni incertezza e debolezza dell’avversario. Per guadagna-re qualche centimetro, o metro di terreno, senza mai, però, portare la corda sul punto di spezzarsi.In questa partita avrà, ovviamente, un ruolo determinante anche la terza Torre, Pechino. Che, per ora, resta alla finestra a guardare, d’altro canto, la pazienza e la cautela sono la cifra fondamentale della politica estera cinese. Uno stile che deriva dalla stessa, millenaria, storia dell’Impero di Mezzo. L’élite di Pechino è, certo, mol-to preoccupata dalla determinazione con cui Trump vuole contrastare il dumping delle merci cinesi sul Mercato americano. Mercato oggi più che mai vitale, vista la contrazione, indotta dalla crisi, dei traffici con quello europeo. E si tratta di una scelta politica dalla quale la Casa Bianca ben dif-ficilmente potrà recedere. La difesa dell’in-teresse nazionale – “Produci americano, compra americano” – è al primo posto dell’agenda presidenziale, ed ha rappre-sentato una delle carte vincenti della cam-pagna elettorale di Trump. Inoltre è chiaro che anche la nuova Amministrazione non sarà disposta a lasciare completamente mano libera a Pechino nelle sue mire di espansione nel Mar Cinese Meridionale, o ad avvallare senza contropartite adeguate

le rivendicazioni cinesi sulle Isole Spral-ty e Paracel – contese fra vari paesi della regione e considerate fondamentali per il tracciato di quelle rotte che dovrebbero formare il “Filo di Perle”. La grande stra-tegia economico-politica posta in essere nella Città Proibita per collegare l’Impero di Mezzo con il Mediterraneo passando attraverso Pacifico, Oceano Indiano, Mar Rosso. Le aperture clamorose nei confronti di Taiwan – da sempre un alleato tenuto in ombra – stanno a dimostrarlo.

Tuttavia, subito dopo il giuramento, Trump si è affrettato a ritirare gli USA dalla Trans-Pacific Partnership (TPP). Segnale accolto con molto favore – e forse anche con una qualche sorpresa – a Pechino. Infatti il TPP – che senza Washington, di fatto, ha ces-sato di esistere – rappresentava non tanto una realtà economica, quanto una precisa strategia geopolitica, posta in essere pri-ma dal Segretario di Stato di George W. Bush, Condoleezza Rice, poi da quello di Obama, Hillary Clinton, con il solo scopo - non dichiarato, ma evidente – di creare una sorta di “cintura di contenimento” in-torno alla Cina. Per contenerne, appunto, le mire espansionistiche, e contrastarne le strategie geo-economiche In particola-re proprio quella del Filo di Perle. Un atto,

Trump, Putin e Xi Jinping incarnano una nuova concezione della leadership, fondata su un assoluto pragmatismo

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quello di denunciare il TPP, che potrebbe apparire in contraddizione con l’asserita volontà di non cedere sulla questione delle Spratly e delle Paracel, ma che, a ben vede-re, chiarisce le nuove linee guida dell’Am-ministrazione Trump nelle relazioni con Pechino. Infatti, la nuova Casa Bianca punta più su una strategia fondata sulle relazioni bilaterali con i singoli paesi che su quella, più tradizionale dei “blocchi”, che ritiene dispendiosi e, alla luce della stagione di Obama, anche troppo coinvol-genti e pericolosi per gli “interessi ameri-cani”. Di conseguenza Trump non punta più su complesse tessiture di alleanze per circondare, ed isolare, Pechino; preferisce “risolvere” le ragioni di contrasto attra-verso un diretto faccia a faccia con il suo competitore. Braccio di ferro, dunque, su molte questioni, con Xi Jinping, ma senza che questo comporti l’innalzamento di una nuova “Cortina di bambù”.

TRE TORRI, TRE SIGNORI… E L’ITALIA?

Dobbiamo, probabilmente, abituarci all’i-dea che Trump, Putin e lo stesso Xi Jinping incarnano con le loro personalità una nuo-va visione della leadership, fondata su un assoluto pragmatismo e sulla convinzione – questa sì pienamente condivisa da tutti e tre – che la competizione geopolitica è, essenzialmente, incarnata dalle (tre) Gran-di Potenze. E che sono, appunto, queste a doversi sedere ad un tavolo, guardarsi in faccia, e prendere le decisioni. Gli altri, tutti gli altri, devono stare al gioco, ed ac-codarsi. Tentando, se capaci, di inserirsi

nel gioco. Sempre, però, come paesi singo-li, ovvero senza la copertura di coalizioni difensive o pseudo-economiche. In buona sostanza il punto di arrivo di quella teoria delle alleanze a geometrie variabili formu-lata da Wolfowitz alcuni lustri fa.Per l’Europa, intesa come UE, burocrazia di Bruxelles ed egemonia dell’asse franco-tedesco, una brutta sveglia. Se non proprio il suono di campane a morto. Il fatto che Trump abbia, immediatamente ricevuto il premier britannico May – dopo aver cla-morosamente applaudito alla Brexit – e continui a snobbare Merkel ed Hollande, e a rifilare metaforici ceffoni ai paluda-ti Commissari Ue, rappresenta, di per sé un segnale estremamente importante. Che qualcuno a Roma e dintorni, dovreb-be essere pronto a cogliere. In un mondo dove sempre più conterà la capacità di in-staurare relazioni multilaterali e quella, soprattutto, di essere pronti a cogliere le occasioni offerte dal gioco mercuriale del-le alleanze, l’Europa appare afflitta da una grave sclerosi. Imprigionata in modelli eco-nomici – imposti, per altro, dalla Germania – ed incapace di divenire attore geopolitico unitario. Insomma una Quarta torre” com-pletamente assente. Di qui la necessità che i singoli paesi membri della UE, soprattut-to quelli che, come l’Italia, rappresentano delle potenze regionali, prendano atto del nuovo scenario. E comincino ad esercita-re, nei limiti della loro sfera d’azione, una politica estera improntata al multilaterali-smo. Che, tradotto, significa giocare su più tavoli contemporaneamente, ponendosi come mediatrici fra i Tre Grandi su specifi-

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ci Dossier critici. Un esempio. La Tensione tra Washington e Teheran appare destina-ta, con Trump alla Casa Bianca, a tornare a livelli critici. Situazione che potrebbe cre-are difficoltà alle relazioni russo-america-ne, visto che ben difficilmente, nell’attuale contesto medio-orientale, Putin potrebbe decidere di scaricare il, prezioso, alleato iraniano. L’Italia, però, avrebbe tutto l’in-teresse a che l’Iran rientrasse nel contesto di normali relazioni internazionali, sia per ragioni puramente economiche, sia per la necessità di rendere più sicura la Nuova Via della Seta – il grande progetto strate-gico cinese – che ridarebbe centralità al Mediterraneo, facendo, quindi, del nostro paese un attore geopolitico fondamentale. A fronte di questo Roma dovrebbe/potreb-be porsi come intermediaria fra Mosca e Washington, magari cercando l’appoggio a questa iniziativa anche di Pechino. In-somma, una nuova “Pratica di Mare”, ma mirata ad un preciso obiettivo ed allarga-ta tenendo conto del nuovo Grande Gio-co tripolare. Altro esempio, la crisi libica. Attendersi una strategia comune europea è mera illusione. L’interesse italiano sta nell’appoggiare il tentativi di pacificazione di Sarraj; ma la Francia continua ad appog-giare il rivale generale Haftar, e la Germa-nia ha tutto l’interesse a che il petrolio ed il gas libico restino fuori mercato, valoriz-zando ulteriormente il suo controllo della parte terminale del gasdotto North Stream. Pertanto il nostro riferimento non può es-sere che Washington, visto che Sarraj viene considerato il leader libico che più guarda in direzione degli States. Per altro il rende-

re più sicure le rotte mediterranee – facen-do contemporaneamente da filtro ai flussi migratori – è interesse anche cinese, visto che nei progetti di Pechino il “Filo di per-le” dovrebbe avere proprio in Italia uno dei suoi principali porti d’approdo. E l’elenco delle “opportunità” potrebbe continuare… Quello che conta, però, è comprendere come lo scacchiere geopolitico mondiale vada, oggi, nella direzione di un vorticoso, per certi versi mercuriale Gioco di alleanze locali e variabili. Determinate tutte, co-munque, dalla presenza di tre Giganti, che fanno da polo di attrazione. Senza costitu-ire blocchi rigidi, ma piuttosto generando una dinamica nella quale diventerà sempre più essenziale sapersi inserire con intelli-genza.

Andrea MarciglianoSenior fellow think tank “Il Nodo di Gordio”

@AndreaMarciglia

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ina, Russia, Stati Uniti. Tre Tor-ri, anche se al neo presidente Usa, Donald Trump, una pare di

troppo, quella di Pechino. La vecchia Yalta aveva due soli protagonisti veri, Stati Uni-ti ed Unione Sovietica. Roosevelt e Stalin, dunque, mentre Churchill aveva la funzio-ne del parente povero che bofonchia un po’ ma non conta nulla nelle grandi decisioni. Ora, però, il sogno di Trump deve fare i conti con una realtà diversa: la Russia non è l’Unione Sovietica, non ne ha la forza e Putin non è Stalin. Inoltre la Cina è diven-tata una interlocutrice scomoda, troppo grande e troppo forte per essere ignorata.Ma in questo scenario manca un quarto potenziale protagonista: l’Europa. Trump lo sa bene e non ha la benché minima in-tenzione di resuscitare un cadavere politi-co alle prese con liti da ballatoio interne. Dunque il presidente americano continue-rà a privilegiare relazioni a due, ogni volta

di Augusto Grandi

MANCA LA QUARTA TORRE,QUELLA EUROPEA

L’Europa si conferma nano politico sebbene resti ancora un colosso economico

C

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con un diverso Stato dell’Unione europea, in modo da rendere evidente la totale ine-sistenza della stessa Ue. Ed il primo pas-so per la disgregazione è rappresentato dall’attacco contro la Germania. Il Paese più grande, più forte, più ricco dell’Europa Occidentale. Quindi il nemico principale. Isolare Berlino non sarà neppure troppo difficile, considerando la scarsa simpatia di cui gode la Germania a causa, soprattutto ma non solo, dei propri errori.Trump utilizzerà innanzi tutto la leva com-merciale, accusando Berlino di aver barato sulla moneta unica europea con l’imposi-zione di un cambio che favoriva artificial-mente la Germania a danno dei Paesi del Mediterraneo. Ma gli alibi per scatenare guerre, seppur commerciali, non mancano mai, persino quando non ne esistono di re-ali. Peraltro sul fronte del valore dell’euro rispetto alle monete nazionali, Trump tro-verà terreno fertile in molti Paesi europei

che si sentono discriminati ed impoveriti a causa delle follie del cambio.Dunque Berlino rischia l’isolamento. E le strategie imposte alla Grecia dalla Germa-nia, insieme alla Troika, non rappresenta-no certo una carta vincente per riaggregare il Vecchio Continente intorno alla Merkel. Come le assurde regole dell’Ue sul fronte dell’agricoltura, con scelte che penalizza-no le produzioni di qualità italiane a van-taggio delle produzioni industriali dell’Eu-ropa del Nord (Germania compresa) e delle importazioni da Paesi extraeuropei. Diffi-cile ottenere consensi dopo aver provocato il malcontento con provvedimenti ingiusti e discriminatori. Perché il malcontento, perfettamente motivato, serve anche a re-spingere ogni eventuale critica comprese quelle sacrosante. L’Europa non accetta più l’austerità quando non è accompagna-ta da comportamenti corretti da parte di chi pretende di dare lezioni agli altri.

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Certo, si può continuare con i burocra-ti di Bruxelles che sanzionano le vongole dell’Adriatico perché ignorano le differen-ze di dimensione a seconda delle località di raccolta. E far finta di nulla di fronte al vino senza uva o ai succhi di frutta senza frutta. Ma di certo non è in questo modo che si creano le condizioni per un’unione reale tra i popoli europei. Quanto poi al problema dei migranti, è sta-ta la follia di Angela Merkel che ha spalan-cato le porte a tutti a provocare la creazio-ne di nuovi muri in Europa, tra Stati della stessa Unione. La cancelliera non poteva certo ignorare che la Germania non confina con i Paesi da cui parte l’ondata migratoria e, dunque, l’esercito di migranti avrebbe dovuto attraversare tutti gli altri Paesi eu-ropei, creando problemi colossali e di ogni genere. E provocando rabbia contro Merkel e contro i tedeschi in genere. Quei tedeschi che non possono certo essere amati dai greci ridotti alla fame grazie all’austerità per salvare i crediti delle banche tedesche.Ma se le tensioni all’interno della Ue sono la conseguenza di scelte egoiste che privi-legiavano gli interessi tedeschi, non è che sul fronte esterno la situazione sia andata migliorando. Berlino era riuscita a creare un asse privilegiato, e forte, con Mosca. Un’alleanza di fatto che aveva avuto come simbolo il North Stream. Poi, però, l’idillio è svanito. Gli scontri in Ucraina hanno per-messo agli Stati Uniti di imporre le sanzio-ni contro la Russia, e gli Usa hanno anche imposto all’Europa di seguirli su questa strada. Con danni pesantissimi per l’eco-nomia italiana. Che, tra l’altro, si è vista

pure bloccare gli accordi per la realizzazio-ne del South Stream. Peccato che, mentre l’Italia doveva allinearsi ai voleri ameri-cani e di Bruxelles (ma anche di Berlino), la Germania trattava tranquillamente con Putin per il raddoppio del North Stream. Un percorso che non ha favorito un reale riavvicinamento tra Mosca e l’Europa e neppure con la Germania. Ma che, in com-penso, è servito ad umiliare ulteriormente l’Italia. D’altronde chi vuol essere il primo della classe dovrebbe anche assumerne gli one-ri, non solo gli onori. Invece Berlino è stata assente dalla vicenda libica, non ha avu-to ruoli in quella siriana. Le solite parole a vuoto, ma tanto politicamente corrette, sulla battaglia di Aleppo, con il sostegno verbale dell’Ue, ma per il resto l’irrilevanza assoluta. L’Europa a traino tedesco non ha alcun ruolo nel Mediterraneo, lasciando campo a Putin o alle confuse strategie francesi in Libia (confuse ma sicuramente più efficaci rispetto al nulla altrui). Non ha credibili-tà nel confronto sulle frontiere ad Est, con sempre più Paesi dell’ex blocco sovietico che hanno superato l’odio per gli anni di oppressione e guardano di nuovo a Mosca come partner commerciale e come sponda politica. Ma l’irrilevanza è assoluta an-che nei confronti della Turchia che, dopo il tentato golpe, si è ritrovata abbracciata alla Russia. E sta disegnando, con Putin, nuovi scenari in una vasta area che com-prende anche l’Iran. Mentre le aziende italiane, che dall’Iran si attendono ricchis-sime commesse, sono ancora in attesa del

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via libera da Washington per far affari con Teheran. E’ evidente che la strategia di Trump di di-videre l’Ue e di trattare con i singoli Stati renderebbe tutti i Paesi europei molto più deboli e ricattabili. Schiacciati nella tena-glia della nuova Yalta e con la possibilità di arraffare qualche briciola nei rapporti con le potenze regionali come Turchia, Iran. O con l’Egitto, il Marocco, i Paesi dell’Asia Centrale. Inutile sperare in qualche gioco di sponda con l’America Latina. Nei gior-ni di maggior contrasto tra Trump ed il Messico, l’Europa è rimasta muta al di là delle solite chiacchiere da bar sulla corret-tezza politica. Nessuna idea di rilancio di un asse con un mondo che parla spagnolo e portoghese e che ha milioni di cittadini di origine italiana. L’Europa è assente, al di là di qualche investimento finanziario o industriale. Manca la capacità di analisi e, di conseguenza, mancano idee, proposte, progetti.Ma la Yalta che piace a Trump esclude an-che la Cina e questo potrebbe rimettere in gioco l’Europa, qualora fosse in grado di uscire dall’irrilevanza. In fondo il nano po-litico europeo è ancora un gigante econo-mico. Produce sempre meno, ma è comun-que il mercato mondiale di riferimento. L’impoverimento che, da anni, sta caratte-rizzando il Vecchio Continente è una fol-lia che serve solo agli speculatori ma non agli imprenditori. I consumatori europei diventano un obiettivo per tutti i Paesi produttori. E chi è più vicino al mercato è avvantaggiato. La Cina sta cercando di av-vicinarsi, con la Via della Seta ferroviaria,

ma resta comunque penalizzata dai tempi di percorrenza rispetto ai Paesi della spon-da Sud del Mediterraneo che possono pro-durre e vendere in tempi molto più rapidi. Inoltre, in previsione di un continuo im-poverimento della popolazione europea a causa di politiche salariali suicide, la sfida tra la Cina ed i Paesi Nordafricani, medio-rientali o centroasiatici si farà sui prezzi. Che terranno conto dei costi di produzione ma anche di quelli per il trasporto. In uno scenario di questo tipo l’Italia po-trebbe svolgere un importante ruolo lo-gistico, ma le infrastrutture del Paese ri-schiano di cancellare questa opportunità a vantaggio della Grecia e dei Balcani dove la Cina sta già investendo proprio sulla logi-stica. Senza dimenticare i porti dell’Europa del Nord, già oggi preferiti a quelli italiani a causa della carenza di infrastrutture, per-sino da chi arriva da Sud. E, in prospettiva, i porti del Nord saranno anche avvantag-giati dalla maggior facilità di navigazione a causa dello scioglimento dei ghiacci.

Augusto GrandiSenior fellow think tank “Il Nodo di Gordio”, Giornalista de “Il Sole 24 Ore”@augusto_grandi

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LA MURAGLIAINFINITA

34 CHINA’S EURASIAN PIVOT: MOTIVATIONS, IMPLICATIONS AND PROSPECTS di Marlen Belgibayev and Xiaotong Zhang

70 LA SINIZZAZIONE DELL’ASIA CENTRALE TREDICI SECOLI DOPO di Marcello Ciola

80 LA STRATEGIA MARITTIMA DELLA REPUBBLICA POPOLARE CINESE DA MAO A XI JINPING di Manuel Moreno Minuto

89 LA STRATEGIA CINESE DEL “FILO DI PERLE” di Antonciro Cozzi

93 LA CINA ARRIVA IN EUROPA SULL’AUTO ELETTRICA di Augusto Grandi

In questa sezione:

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La Muraglia infinita

Il Dragone di Pechino dalla Grande Muraglia sta sempre più giocando una

partita globale

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hinese President Xi Jinping launched the two Silk Road ini-tiatives in 2013 –“the Silk Road

Economic Belt” and “the 21st Century Maritime Silk Road,” which are generating significant geopolitical implications both regionally and globally. These Silk Road ini-tiatives, which we would call the “Eurasian Pivot,” are unprecedented in Chinese histo-ry characterized by assertiveness in an eco-nomic sense. This paper tries to examine the motivations, implications and prospects of China’s Eurasian Pivot. China’s Eurasian Pivot is somewhat a reminder of the clas-sical geopolitical theories of Alfred Mahan, Halford Mackinder and Nicholas Spykman, which are based on the relative importance

di Marlen Belgibayev and Xiaotong Zhang1

CHINA’S EURASIAN PIVOT:MOTIVATIONS, IMPLICATIONSAND PROSPECTS

XI Jinping launched the two Silk Road initiatives in 2013 which are generating significant geopolitic implications both regionally and globally

C

1. Marlen Belgibayev is a research fellow at Wuhan Univer-sity Centre of Economic Diplomacy. Xiaotong Zhang, the corresponding author, is the executive director of Wuhan University Centre of Economic Diplomacy and associate professor of the School of Political Science and Public Ad-ministration of Wuhan University.

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La Muraglia infinita

of land or sea communications. We find that the success of China’s Eurasia Pivot would be largely determined by a complex set of geopolitical factors, in particular China’s interactions with major and regional pow-ers, such as the United States, Russia, The European Union and India.

1. INTRODUCTION

In March 2015, China’s National Devel-opment and Reform Commission (NDRC) jointly with the Chinese Ministry of For-eign Affairs and Ministry of Commerce re-leased an action plan outlining key details about its proposed “One Belt, One Road” (OBOR) initiative.”2 The “Belt” and “Road” have two compo-

nents - the “Silk Road Economic Belt” (SREB) and the “21st-Century Maritime Silk Road” (MSR). Chinese President Xi Jin-ping officially announced the idea to build the SREB during his visit to Kazakhstan in September 2013 and the MSR during his visit to Indonesia in the same year.3

The document released by the NDRC also has the geographic parameters of China’s “One Belt, One Road” initiative. The SREB (“One Belt”) involves the construction of overland road and rail routes, oil and natu-ral gas pipelines, and other infrastructure projects that “bring together China, Cen-tral Asia, Russia and Europe (the Baltic); linking China with the Persian Gulf and the Mediterranean Sea through Central Asia and West Asia; and connecting China with

2. “Vision and Actions on Jointly Building Silk Road Economic Belt and 21st-Century Maritime Silk Road,” Xinhua News Agency, March 28, 2015, available at: http://news.xinhuanet.com/english/china/2015-03/28/c_134105858.htm. 3. “Chronology of China’s Belt and Road Initiative,” Xinhua News Agency, March 28, 2015, available at: http://news.xinhuanet.com/english/2015-03/28/c_134105435.htm.

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Southeast Asia, South Asia and the Indian Ocean. The MSR (“One Road”) entails a network of coastal infrastructure projects from “China’s coast to Europe through the South China Sea and the Indian Ocean in one route, and from China’s coast through the South China Sea to the South Pacific in the other”4 (see Figure 1).On land, in addition to the “Belt,” the OBOR “will focus on developing China-Mongo-lia-Russia, China-Central Asia-West Asia and China-Indochina Peninsula economic corridors. At sea, the China-Pakistan Eco-nomic Corridor and the Bangladesh-Chi-na-India-Myanmar Economic Corridor will supplement the “Road.”5 Therefore, the Belt and Road intend to knit together the whole Eurasian Continent through a complex connectivity projects, which will be funded by the China-led Asian Infrastructure Development Bank (AIIB)6 and the Silk Road Fund (SRF) and are designed to complement and support the Belt and Road’s development.7 Apart from the “hard” infrastructure connectiv-ity projects, China is building the “soft” connectivity, including policy communica-tion, trade facilitation, monetary circula-tion and people-to-people exchanges.

Chinese leaders note that the OBOR “is expected to change the world political and economic landscape through development of countries along the routes.”8 Xi Jinping is also hopeful that this large-scale project would touch 4.4 billion people in more than 65 countries and that annual trade volume between China and “Belt and Road” coun-tries would “surpass 2.5 trillion U.S. dollars in a decade or so.”9 South China Morning Post even called the OBOR “the most sig-nificant and far-reaching project the na-tion has ever put forward.”10

Xi’s new Eurasian strategy constituted a salient deviation from China’s traditional experiences. Traditionally, China’s Eur-asian strategy was defensive, as evidenced

Figure 1: China’s Silk Road Economic Belt and Mari-time Silk Road. Source: http://www.postwesternworld.com/2015/03/10/chinas-pivot-eurasia/.

4. “Vision and Actions on Jointly Building Silk Road Economic Belt and 21st-Century Maritime Silk Road,” Xinhua News Agency, March 28, 2015, available at: http://news.xinhuanet.com/english/china/2015-03/28/c_134105858.htm. 5. Ibid. 6. “21 Asian countries sign MOU on establishing Asian Infrastructure Investment Bank,” Xinhua News Agency, October 24, 2014, available at: http://news.xinhuanet.com/english/business/2014-10/24/c_133740149.htm. 7. “China pledges 40 bln USD for Silk Road Fund,” Xinhua News Agency, November 8, 2014, available at: http://news.xinhua-net.com/english/china/2014-11/08/c_133774993.htm. 8. Shannon Tiezzi, “Where Is China’s Silk Road Actually Going,” The Diplomat, March 30, 2015, available at: http://thediplo-mat.com/2015/03/where-is-chinas-silk-road-actually-going/. 9. Ibid. 10. “‘One belt, one road’ initiative will define China’s role as a world leader,” South China Morning Post, April 2, 2015, available at: http://www.scmp.com/comment/insight-opinion/article/1753773/one-belt-one-road-initiative-will-define-chinas-role-world.

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by the construction of Great Wall to defend the invasion by Northern nomadic tribes. There were exceptions in history, repre-sented by Emperor Wu (156-87 BC) of Han Dynasty (206 BC–220 AD) and Emperor Yongle (1360–1424 AD) of Ming Dynasty (1368–1644 AD). Emperor Wu sent military expeditions to fight Huns, and more fa-mously, sent Zhang Qian, on a diplomatic mission to the nomads who were the en-emy of Huns. Although Zhang was unable to get military support from those nomads to fight the Huns, he collected extremely important information, essential for the Chinese troops to finally defeat the Huns in 123-119 BC, thereby securing the route from China to the West. That made pos-sible the emergence of a trade Silk Road sometime around the end of the 2nd Cen-tury BC.11 One thousand five hundred years later, Emperor Yongle sponsored massive and long-term maritime expeditions led by the Admiral Zheng He along the Indian Ocean. However, these expeditions were transient with the real purposes remaining a mystery. Once the military and diplomat-ic objectives were achieved, or as a result of fierce domestic resistances, China re-treated to her traditional borders, or sim-ply imposed a sea ban, as did the emperors of Ming Dynasty and Qing Dynasty.Now what Xi is doing seems another his-torical exception by launching a new as-sertive Eurasian strategy, what we would call “China’s Eurasian Pivot.” China’s Eurasian Pivot marks undergoing foreign

policy changes under President Xi Jinping. In response to the current global geopoliti-cal situation and its internal development challenges, China is broadening its geopo-litical interests and making more efforts in “looking westwards,” particularly towards China’s western-frontier neighbors, in-cluding Central Asia, Russia, the Middle East and Eastern Europe. China’s efforts to implement the OBOR initiative could have an important effect on the entire Eurasian economic archi-tecture - regional trade, infrastructure de-velopment, investment - and in turn have strategic implications for the major and regional powers, such the United States, Russia, the EU and India. This initiative also raised another question to foreign policy-makers and scholars - whether Chi-na’s Eurasia Pivot follows the logic of clas-sic geopolitics. In this paper, our core research questions are three: (1) What motivated China’s Eur-asian Pivot and how it is correlated with the classical geopolitics? (2) What are the geopolitical implications on other Eur-asian powers? (3) What are the prospects of China’s Eurasian Pivot? We start with the literature review of clas-sical geopolitics, illustrating the Realist logic underpinning the classical geopo-litical literature, including the theories of Alfred Mahan, Halford Mackinder and Nicholas Spykman. We then analyze the characteristics and motivations of China’s Eurasia Pivot and examine how it is corre-

11. Oliver Wild, The Silk Road, 1992.

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lated with the classical geopolitics. In the fourth section, we look at Eurasian strat-egies of other major and regional powers including the United States, Russia, the European Union, and India and see how they compete or coexist with China’s new OBOR. Finally, we evaluate the prospects of China’s Eurasian Pivot.

2. LITERATURE REVIEW OF CLASSICAL GEOPOLITICS

The classical geopolitics features geopo-litical competition and control over ter-ritory, as well as alludes to the balancing and counter-balancing between sea pow-ers and land-based powers.Alfred T. Mahan’s book The Influence of Sea Power upon History outlined and argued, “[T]he national greatness was inextricably as-sociated with the sea, with its commercial usage in peace and its control in war.” He also recognized gaining dominance at sea as a main geopolitical factor in international politics, which allows ensuring victory over the enemy and dominating the world. There-fore, presence of a strong navy, according to Mahan, will largely determine “the historical fate of nations and peoples.”12

Mahan also viewed continental powers of Eurasia, including Russia, China and Germany as the main danger to the maritime powers. For him, the fight against Eurasian powers, especially Russia was a long-term strategic goal of the United States and the best tactics

for the US to win is to reduce continental pow-ers’ control over the coastal areas, restraint their access to maritime spaces and prevent the formation of coalitions between Eurasian powers, especially Russia and Germany.13

Mahan’s concept had an enormous influ-ence in shaping the strategic thought of navies across the world, especially in the United States, Germany, Japan and Great Britain, ultimately contributing to a Euro-pean naval arms race in the 1890s, which included the United States.Unlike Mahan, Sir Halford Mackinder was a proponent of control over the vast land mass. In his Geographical Pivot of History, Mackinder introduces the concept of the “Heartland” – a huge land mass that occu-pies the central part of Eurasia, approxi-mately coinciding with the territory of the Russian Empire and the Soviet Union (see Figure 2). Mackinder attached great geopo-litical importance to the Heartland, which is “the great natural fortress” with the vast natural resources and inaccessible to any sea power. The Heartland does not have con-venient transportation access to the world ocean, except the Arctic Ocean that almost permanently covered by ice. The Heartland is also surrounded by coastal areas of “inner or insular crescent” stretching from West-ern Europe crossing the Middle East and In-dochina to Northeast Asia. Mackinder also highlighted the “outer crescent” composed by maritime powers, including North and South America, Australia, Oceania, sub-

12. Mahan, Alfred Thayer. The Influence of Sea Power upon History, 1660–1783 (1890), pp.25-89. Little, Brown & Co. Boston, 1890. Repr. of 5th ed., Dover Publications, New York, 1987. 13. Ibid.

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Saharan Africa, the British Isles and Japan.14

In later works, Mackinder amended the geographical boundaries of the Heartland. Particularly, in 1919, he introduced addi-tionally the Eastern European “strategic Heartland” (Figure 2). Mackinder noted that the Heartland is surrounded by formidable space on all sides except the west, where it is open to cooperation with the countries of the “inner crescent” (Western Europe). Therefore, the region of Eastern Europe is of particular importance in world politics. It is the region of potential major conflicts as well as a platform to develop coopera-tion between the Heartland and maritime powers.15 In the same work, he formulated his famous maxim: “Who rules East Eu-rope commands the Heartland; who rules the Heartland commands the World-Island (Eurasia and Africa); who rules the World-Island commands the world.”16

A Dutch-American geostrategist Nicholas J. Spykman based his geostrategic ideas on those of Halford Mackinder’s Heartland theory. However, he proposed his own ver-sion of the geopolitical scheme, somewhat different from Mackinder’s model. He ar-gued that Mackinder overrated the geo-political importance of the Heartland. Ac-cording to his view, the key to controlling

14. Halford J. Mackinder, “The Geographical Pivot of History,” The Geographical Journal, Vol. 23, No. 4 (April 1904), p. 434. 15. Halford J. Mackinder, “Democratic Ideals and Reality. A Study in the Politics of Reconstruction”, National Defense Univer-sity Press, 1996, pp. 145–150. 16. Halford J. Mackinder, “Democratic Ideals and Reality. A Study in the Politics of Reconstruction,” National Defense Uni-versity Press, 1996, p. 150.17. Spykman, Nicholas. The Geography of the Peace. Harcourt, Brace and Co., 1944.18. Ibid. 19. Ibid. 20. Timothy Boon von Ochssée, Mackinder and Spykman and the New World Energy Order, January 5, 2015, available at: http://www.exploringgeopolitics.org/Publication_Boon_von_Ochssee_Timothy_Mackinder_and_Spykman_and_the_new_world_energy_order/.

the world does not belong to the Heartland, but to the Eurasian coastal areas of the “in-ner crescent” including maritime countries in Europe, Middle East, India, Southeast Asia and China.17 This belt stretching from the western edge of the Eurasian continent to the eastern one Spykman called as the “Rimland”. The Rimland in turn possess all of the key resources and populations hence its domination is key to the control of Eur-asia.18 Thus, Spykman reworked Mack-inder’s formula to read: “Who controls the Rimland rules Eurasia; who rules Eurasia controls the destinies of the world.”19

Spykman was the successor of Mahan’s ideas as both shared the view that the dom-inance in the ocean is a critical condition for world control. Spykman is also known as the “godfather of containment.”20 Pri-

Figure 2: Mackinder’s “Pivot area” or the “Heartland.” Source: http://apksmart.com/eaf9082/amcukindir.html.

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marily based on Spykman’s theory, right after the Second World War and during the Cold War the United States established a network of military bases to encircle the Soviet Union along the Rimland (from the Mediterranean to Indochina), which even-tually led to the formation of NATO in Eu-rope, CENTO21 in West Asia, and SEATO.22 It is remarkable that Mackinder, Mahan and Spykman themselves once warned about China, which occupies areas in both the Heartland and Rimland. They predict-ed that China would become the leader in Asia and even use its advantageous geo-graphical position “given its 9,000-mile temperate coastline with many good nat-ural harbors” to dominate Eurasia and to threaten the insular powers of Japan and the United States.23

Although Mackinder did not openly men-tion about China but “he was convinced that the state, which controlled the Heart-land, would consolidate space, resources and power until the littoral spaces of Eu-rope and Asia would be subsumed into the Heartland. As the power and territory of the heartland was consolidated and ex-panded, over a period of time, land power would surely translate into sea power.”24

Spykman foresaw that China with a large territory and abundant human and mili-tary resources would eventually try to cre-ate a great continental empire. In 1942 he wrote, “China will be a continental power of huge dimensions in control of a large section of the littoral.”25

Mahan in turn identified the “immense latent force” of China as a potential geo-political rival and its ability to influence events not only in Asia but also in Europe.26 He regarded China as a future key object of the US strategy and advised the US policy makers to maintain an “open-door policy” and prevent the change of China’s mari-time orientation to the continental one.However, the question arises whether the theories of Mahan, Spykman and Mack-inder developed almost a century ago are still applicable in the context of the pres-ent geopolitical realities. Mackinder and his theory in particular are in the spotlight and have been repeatedly discussed. Walters argues that Mackinder and the “Heartland theory” are irrelevant to con-temporary geopolitics since it is based on one view of the globe, and stated, “policy is made in the minds of men; its contours may not concur with a true map of the

21. The Central Treaty Organization (CENTO) was formed in 1955 by Iran, Iraq, Pakistan, Turkey, and the United Kingdom. It was dissolved in 1979. Source: http://en.wikipedia.org/wiki/Central_Treaty_Organization. 22. The Southeast Asia Treaty Organization (SEATO) was an international organization for collective defense in Southeast Asia created by the Southeast Asia Collective Defense Treaty, or Manila Pact, signed in September 1954 in Manila, Philippines. Source: http://en.wikipedia.org/wiki/Southeast_Asia_Treaty_Organization. 23. Robert D Kaplan, “The Geography of Chinese Power,” Foreign Affairs, Vol. 89, No. 3, 2010, p. 22. 24. Monika Chansoria and Paul Benjamin Richardson. Placing China in America’s Strategic ‘Pivot’ to the Asia Pacific: The Centrality of Halford Mackinder’s Theory. CLAWS Journal, 2012. 25. Spykman, Nicholas. America’s Strategy in World Politics: The United States and the Balance of Power. New York, Harcourt, Brace and Company, 1942. 26. Mahan, Alfred Thayer. The interest of America in Sea Power, Present and Future. Boston: Little, Brown and company, 1897, Chapter VII: A twentieth-century outlook.

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world.”27 Some scholars agree that Maha-nian concept about preponderance at sea and Spykman’s Rimland theory have his-torically proved themselves right while Mackinder’s Heartland did not become the center of economic and political gravity as “the East Asian littoral” is today.Cohen claims that Mackinder failed to rec-ognize the importance that lies outside the Heartland, particularly the Rimland and the Offshore Islands (Mackinder’s “outer or insular crescent”). He elaborated further, saying that if his concepts were correct, then immediately after the Soviet Union’s collapse, Central Asia would be the scene of fierce geopolitical struggle between the great powers. However, today other re-gions of the world, including the Persian Gulf and East Asia play a much greater role in international politics.28

Ergashev in the same fashion seized upon Co-hen’s ideas and highlighted that today’s Cen-tral Asia makes a relatively small contribution to contemporary international relations. Nev-ertheless, he admits at the same time the po-tential re-emergence of Central Asia as a spot of geopolitical significance “only when China is powerful enough to challenge the predomi-nant American power, may the ‘pivot of his-tory’ once again become an object of intense interest by extra-regional powers.”29

In addition, there are scholars who have not rejected Mackinder but re-conceptualized

and relocated the original geographical position of the Heartland. Thompson, for example, framed China as the geographical pivot of history and said, “If China comes to dominate the Western Pacific, it will control the industrial heartland of the global econ-omy.” He also added, “Halford Mackinder may not have gotten the zip codes right, but a century after he propounded the notion of a global heartland, it actually exists - with China at its center.”30

The review of classical geopolitical lite-rature reveals some of the characteristics that are peculiar to it, including military confrontation, control over territory and natural resources. However, the classi-cal geopolitics of Mackinder, Mahan and Spykman, besides military power and coer-cion, also examines strategic prescriptions based on the importance of controlling sea-lanes and land communications. China’s Eurasia Pivot, in turn, in the same fashion implies predominance both at land and at sea, as some Western commenta-tors believed. Landward, China is using financial and transportation resources to construct the “Belt” and penetrate the resource-rich lands of Central Asia, Rus-sia and the Middle East. Whereas seaward, China is strengthening naval power and constructing the “Road” along the Asia-Pacific region.31 However, what China is now doing seems

27. Walters, R.E., The Nuclear Trap: An Escape Route, Harmondsworth (England: Penguin Books, 1974), p.175. 28. Cohen W. The Asian American Century. N.Y.: Basic Books, 2002. 29. Bahodirjon Ergashev. Determinism versus Friction: A Critique of Mackinder. CA&CC Press, 2005, available at http://www.ca-c.org/journal/2005/journal_eng/cac-04/10.ergeng.shtml. 30. Loren Thompson, “The Geopolitics of China’s Rise,” Early Warning Blog – Lexington Institute, January 28, 2011. 31. Francis P. Sempa, “Is China Bidding for the Heartland?” The Diplomat, January 21, 2015, available at: http://thediplomat.com/2015/01/is-china-bidding-for-the-heartland/.

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very different from the traditional geopo-litical expansion undertaken by the great powers in the first half of the 20th century. China’s Eurasia Pivot very much focuses on economic rationale and practices. At the same time, we believe that it encom-passes some features of Mackinder and Mahan’s classical geopolitics as well.

3. CHINA’S EURASIAN PIVOT: MOTIVATIONS AND CHARACTERISTICS

3.1 China’s Official Rhetoric about the OBOR Motivations In his speech delivered at Nazarbayev Uni-versity in Astana, Xi for the first time posited the idea of the “Silk Road Economic Belt” and detailed the motivations thereof. Xi said, “in order to strengthen economic ties, deep-en cooperation and broader the space for de-velopment of Eurasian countries, we can ap-ply a new model of cooperation and jointly build the Silk Road Economic Belt, which I believe will be very beneficial to people of all countries along the route.”32 In his speech, Chinese President also urged countries “to strengthen political and trade relations, as well as to strengthen the construction of a single road network from the Pacific to the Baltic Sea.”33

In October 2013, Xi Jinping suggested south-eastern countries to establish the Maritime Silk Road during a speech to the Indonesian Parliament. The content of the speech in Indonesia was similar to the viewpoints pre-sented by Xi in Astana. The main emphasis was given to the stronger political and eco-nomic interactions, closer cooperation on joint infrastructure projects, the enhance-ment of security cooperation, and the idea of a “21st Century Maritime Silk Road.”34

Chinese Foreign Minister Wang Yi, when summarizing China’s diplomacy of the Year 2014, well summarized the two-level moti-vations of silk road initiatives, “Internally, this initiative dovetails with China’s devel-opment strategy of developing our central and western regions while addressing re-gional imbalances and fits well with our “go global” strategy aimed at building all-direc-tional cooperation with the outside world. Internationally, this initiative aims to secure common development, shared prosperity in all countries along the routes, as it upholds the vision for a community of shared destiny, and highlights a win-win approach featuring consultation, joint development and shar-ing. The initiative is bound to bring new life and vigor to the ancient land of Eurasia and give this vast continent two strong wings on its journey toward prosperity.35

32. 习近平,“弘扬人民友谊共创美好未来——在纳扎尔巴耶夫大学的演讲”,2013年9月7日,阿斯塔纳,available at: http://www.fmprc.gov.cn/mfa_chn/zyxw_602251/t1074151.shtml, last accessed on December 30, 2014. 33. Ibid. 34. Wu Jiao, “President Xi gives speech to Indonesia’s parliament”, China Daily, October 2, 2013, available at: http://www.chinadaily.com.cn/china/2013xiapec/2013-10/02/content_17007915.htm. 35. Chinese Ministry of Foreign Affairs, “2014 in Review: A Successful Year for China’s Diplomacy - Foreign Minister Wang Yi Attended and Addressed the Opening Ceremony of the Symposium on the International Developments and China’s Diplo-macy in 2014,” Beijing, December 24, 2014, available at: http://www.fmprc.gov.cn/mfa_eng/zxxx_662805/t1222886.shtml, last accessed on December 30, 2014.

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3.2 China is Pivoting Seaward

After going through the Chinese govern-ment’s official rhetoric, I am now going to explore the main characteristics of China’s Silk Road strategy and to show how it cor-relates with the classical geopolitical theo-ries of Mahan and Mackinder. Mahan once called for the US to build a powerful navy and an extensive network of naval bases to establish control over the world’s oceans and to expand the sphere of influence of the US Navy. Mahan’s geostra-tegic vision about the superiority at sea seems actively embraced by China’s policy makers. Today, China is pursuing a strategy of ac-tive investment in maritime-related infra-structure in South Asia. Particularly, China is actively investing and constructing a number of ports along the entire length of the Indian Ocean. American defense con-tractor Booz Allen Hamilton has dubbed this strategy as the “String of Pearls” (Fig-ure 3), wherein “pearls” refer to China’s land and maritime-related infrastructure stretching from the South China Sea to the Arabian Sea.36 According to Booz Allen Hamilton, to implement the String of Pearls strategy, China has developed a comprehensive and long-term plan.37 The first phase involves the establishment of transport corridors and oil links from Sri Lanka (Hamban-tota) via Myanmar (Kyaukphyu Port) and

ultimately to Kunming (capital of Yunnan Province), from Pakistan (through Gwadar Port, and then by proposed railway to link the Sino-Pakistani-built Karakorum high-way and western China) and from Thailand (through the proposed Kra Isthmus project funded by China). The second phase implies a material pres-ence in the Indian Ocean - creating a net-work of ports, huge warehouses and other facilities in a number of aforementioned countries.During the third phase, China intends to pave “land bridges” by building roads, aqueducts and viaducts to strengthen the relationships between China’s south-ern provinces with the bordering ASEAN countries and provide southeastern prov-inces with access to the Indian Ocean. For this purpose, Beijing laid out railways and highways from Kunming to Hanoi and con-struct Karakorum Highway from the port of Gwadar to China’s western provinces. These large-scale infrastructure projects

Figure 3: “String of Pearls.” Source: http://stratrisks.com/

geostrat/13282.

36. Shannon Tiezzi, “The Maritime Silk Road Vs. The String of Pearls,” The Diplomat, February 13, 2014, available at: http://thediplomat.com/2014/02/the-maritime-silk-road-vs-the-string-of-pearls/.

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in the Indian Ocean are primarily aimed at boosting economic relations with the ASEAN countries and ensuring China’s energy security, which will greatly allevi-ate the “Malacca dilemma.” In strategic and economic terms, the Strait of Malac-ca, located between Malaysia and the In-donesian island of Sumatra, is one of the major sea-lanes and at the same time a source of escalating tension between seve-ral countries (China, Philippines, Vietnam, Japan) due to unresolved maritime/territo-rial disputes. Based on its military alliance system, the US is able to exercise effective control of this route and does not exclu-de the possibility of blocking the Strait of Malacca. In fact, almost 85% of imports to China transit via this route, including 80%

of the PRC’s energy imports.38 However, some Western observers often view the String of Pearls as China’s mili-tary strategy. There is a fear about the possible dual-use nature of the Chinese-operated ports and facilities, which theo-retically can be used to deploy the People’s Liberation Army Navy (PLAN) in the In-dian Ocean and beyond. China’s uncom-promising stand towards territorial dis-putes in the South China Sea, “the recent visit of a Chinese submarine in Sri Lanka, and Pakistan’s invitation for China to set up a naval base in Gwadar” raise fears that Chinese-operated seaports are not limited to just economic terms.39 In fact, China has never officially used the term “String of Pearls” and insists that its

37. Ibid. 38. Ibid. 39. Lucio Blanco Pitlo III, “China’s One Belt, One Road’ To Where?,” The Diplomat, February 17, 2015, available at: http://the-diplomat.com/2015/02/chinas-one-belt-one-road-to-where/.

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investment in maritime-related infrastruc-ture is motivated only by economic reasons. Zhou Bo from China’s Academy of Military Science rejected the notion that China is es-tablishing military bases throughout the In-dian Ocean. He notes, “China has only two purposes in the Indian Ocean: economic gains and the security of Sea lines of Com-munication (SLOC)…Access, rather than bases, is what the Chinese Navy is really interested in.” He continues to say that Chi-na’s infrastructure development will “help to mitigate security concerns.”40

In order to defuse tensions over China’s activity in the Indian Ocean, particularly in India, which sees itself as being encircled, Beijing subsequently came up with the Maritime Silk Road. This initiative is in-tended to emphasize the economic nature of China’s actions. Similarly, it also allows China jointly with specialized investment vehicles such as the AIIB and the Silk Road Fund to continue its investment in mari-time infrastructure in the Indian Ocean and South China Sea.

3.3 China Is Pivoting Landward

For a long time, the Asia-Pacific direction has been a key focus of China’s foreign policy, whereas regions located to the west of China, including Central Asia received lesser foreign policy attention. However, changes occurred with the begin-

ning of the new millennium and the turbu-lent regional environment in Asia-Pacific is forcing the Chinese leadership to turn their eyes towards the Western frontier, namely the vast expanses of Eurasia. As a result, China is pushing forward with the Silk Road Economic Belt (SREB), in con-trast to the American “Asia Pivot.” Now, China is actually embarking on a strategic shift from its traditional “looking east” policy to “looking west,” and the whole Eurasian continent would be the future key stage for China’s geopolitical perfor-mance. It seems that a prominent Chinese scholar Wang Jisi played a certain role sin-ce it is him who first articulated the idea of “Marching West,”41 as a rebalancing act of China’s geo-strategy. As the United States has pivoted towards the Asia-Pacific, Wang urged Chinese policymakers not to limit their interests to the Asia-Pacific region, but rather to develop a plan to advance re-lations with China’s western-frontier nei-ghbors, including Central Asia, South Asia, and the Middle East and, furthermore, to form a Eurasian cooperation framework from London to Shanghai. Mackinder in contrast to Mahan and Spyk-man even argued that the Heartland, which comprise the territory of Central Asia and Russia, is well connected to be a dominant power. The importance of the heartland region was first suggested to Mackinder by his conception of the value of a central

40. Shannon Tiezzi, “The Maritime Silk Road Vs. The String of Pearls,” The Diplomat, February 13, 2014, available at: http://thediplomat.com/2014/02/the-maritime-silk-road-vs-the-string-of-pearls/. 41. 王缉思( Wang Jisi), “Marching West, China’s Geo-strategic Re-balancing (西进, 中国地缘战略的再平衡)” (Beijing: School of International Relations of Peking University, 2013).

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position with interior lines of communi-cation made powerful and unified by the development of railway network to a point where it could begin to compete with sea communication. He also envisaged the transformation of the steppe land from an area of low economic potential to one of high economic potential.42 Mackinder’s concept on the importance of the railway network seems to be currently implemented by China. Railways will play a key role in the SREB. China is rapidly expanding its own rail network and has already become a world leader in the con-struction of high-speed lines. Central Asia should become the starting point and the main objective to upgrade and build new rail lines, highways, pipelines and other in-frastructure facilities. Mackinder was also right about the geopo-litical confrontation between global and regional powers to control the Heartland. The collapse of the bipolar system has marked a new round of competition on the Eurasian landmass in which the focus from the Rimland’s coastal area has shifted to the Heartland. The post-Cold War era is also characterized by the emergence of new regional actors such as China, the EU and Turkey who together with the old tra-ditional rivals Russia and the United States have their own motives and strategies ac-cording to the new geopolitical realities. This new phase of competition in Eurasia has been supplemented with new elements that highlight the importance of control

over inland transport communications de-signed to connect land areas of Heartland with Rimland. We have already noted that maritime pow-ers have historically sought to control the sea-lanes, high value of which persisted in the geopolitical confrontation of the Cold War era. Dominance over the external sea-lanes along the Rimland was one of the key factors that predetermined the success of the Atlantic bloc (the EU and the US) dur-ing the Cold War. However, if during the Cold War land and sea powers mainly interacted in the coastal areas of Rimland, in the post-Soviet condi-tions, on the contrary, zone of interaction closely approached the Heartland. From now on, the major powers rivalry is un-folding in strategically important inland areas of Eurasia. New geopolitical condi-tions also changed the traditional Cold War rhetoric that there is no need for sea powers to move into the deeper parts of Eurasia to contain land powers. For this reason, Atlantic bloc was compelled to move into the heart of the continent (par-ticularly Central Asia and the Caucasus) in order to expand its influence and establish control over land communications linking these regions. The significance of the Heartland has in-creased dramatically due to the energy re-sources of Central Asia. Providing secure access to the energy resources and control over export routes from Central Asia is rap-idly turning into one of the central geopo-

42. Spykman, Nicholas. The Geography of the Peace. Harcourt, Brace and Co., 1944, p. 38.

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litical issues after the Cold War. The break-down of Russia’s long-term monopoly in Eurasia meant that the Atlantic bloc gained the most effective ways to exercise control over these vast inland areas. In this regard, the U.S. and the EU have focused on the cre-ation of a regional transport infrastructure, which they have sought to build while by-passing both Russia and Iran. Washington and Brussels offer Central Asian govern-ments to reorient transport and pipeline routes to the west (the Caspian Sea, Azer-baijan, Georgia, Turkey) and the south-east (Afghanistan-Pakistan-India).China in the first ten years after the Soviet Union collapsed has carefully scrutinized course of events to the west of its borders and was not in hurry to get involved in the great powers dynamics. At that time that was ex-plained by China’s lack of specific strategy in relation to the continent’s western regions. The sudden emergence of newly independent states located in close proximity to China struck the Chinese leadership with a com-pletely new and fluid geopolitical scenario in its western border. Given the outbreak of civil war in bordering Tajikistan and instability in neighboring Afghanistan, the security situa-tion in Central Asia is a constant factor weigh-ing on the minds of Chinese policy-makers. In the early 1990s, Beijing was not ready for any grand strategy to compete for the Heart-land. Basically what China did was to focus on priority issues, such as the establishment of diplomatic ties, settlement of complex issues inherited from the Sino-Soviet period and de-

veloping common approaches to the problem of Uighur separatism.At the beginning of the new millennium, China has stepped up Eurasian vector of its foreign policy, not only in Central Asia, but also in the Middle East and South Asia. This key turn has been associated with a number of external and internal reasons. The “9.11” and deployment of military bases in Afghan-istan and Central Asia - events that took place in close proximity to China, forced Bei-jing to draw attention to its western neigh-bors. Chinese leaders have concluded that if they did not intervene now in contention for the Heartland, then they would be at risk of being in a situation in which other pow-ers can easily redirect Central Asia’s energy resources and transport capabilities to their favor, thereby cutting of China’s access to energy. Subsequently, America’s return to Asia-Pacific has been another decisive mo-tive underlying the SREB. Cooperation in a westerly direction has been strategically important for China in the context of the “Western Develop-ment” program, which focused on Xinjiang Uighur Autonomous Region (XUAR). The SREB in turn is a strategic plan to stimu-late the development of China’s western regions. “In the past, the focus was on coastal cities. However now, a new leader-ship is stressing greater development of China’s frontier and inland regions. There-fore, the Belt could provide a solution for the unbalanced economic development of China’’ western areas.”43 In the field of se-

43. Justyna Szczudlik-Tatar, China’s New Silk Road Diplomacy (Warsaw: The Polish Institute of International Affairs, 2013).

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curity, priorities of China in Central Asia stem from the problem of separatism in the XUAR, which has borders with this re-gion. In recent years, “Uighur” separatists have stepped up their activities using vio-lent methods of struggle both in and out-side Xinjiang.Over several decades, the process of the sub-regional economic merger of Xinjiang and the three neighboring countries - Kazakh-stan, Kyrgyzstan and Tajikistan has clearly been enhanced. This has been happening in the official framework of the “strategic partnership.” No coincidence that across the external border of Xinjiang, there is a bilateral free trade zone with neighboring countries, coupled with the project to build a railway from Uzbekistan through Kyrgyz-stan to China. Central Asian states themselves were in need of investment and new alternative routes for delivering their energy resources since they sought to reduce their depen-dence on Russian pipelines. Therefore, China’s assistance and investments came in handy. As a result, during the last decade, Chinese economic penetration into Cen-tral Asia has increased dramatically. Dur-ing the past 10 years, China has become the largest trading partner of Kazakhstan and Turkmenistan, the second largest trading partner of Uzbekistan, Kyrgyzstan and Ta-jikistan. China also implemented some pri-ority infrastructure projects in Central Asia and at the same time supported the ruling political regimes in the region. Beijing’s investments in the oil and gas industry of Kazakhstan and Turkmenistan have been

extremely useful for them in terms of en-ergy supplies diversification and providing regular sources of income, especially given the global downward trend in oil prices and their geographical landlocked position. The geographical proximity was also a key factor that influenced the relations be-tween China and Central Asia. In the past “geographic proximity was not enough to draw these partners together because of Cold War divisions; but with the Soviet Union’s collapse came a reshaping of the continental order.” Geographical factor is especially relevant for Kazakhstan and Turkmenistan since the transportation costs is the most important aspect of mak-ing their raw materials more expensive in comparison to other oil and gas producers. In addition, the lack of pipelines and the need to supply energy via Russia reduce the attractiveness of Kazakh oil and Turk-men gas. However, the geographical prox-imity of China and Central Asia, low trans-port costs, relative safety of the routes and the lack of competitors greatly reduce those disadvantages.Nowadays, there are pipelines from Ka-zakhstan and Turkmenistan to China. In the near future, the Kazakh and Turkmen governments are going to put into op-eration additional pipelines, which pass through Tajikistan, Kyrgyzstan and finally end in China. That would allow the Tajik and Kyrgyz governments to receive sub-stantial revenues from the transit of ener-gy resources. Among other things, Beijing is endeavoring to implement a project for the construction of the “China-Kyrgyz-

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stan-Uzbekistan” railway with further ac-cess to Turkmenistan, the Middle East and Turkey. China’s deals with Central Asia countries make the SREB feasible.By gaining a strategic foothold in Central Asia, Beijing, therefore, has started pivot-ing to the Middle East and South Asia. In these regions particular emphasis on two transport corridors that are parts of the SREB. Firstly, Beijing plans to build a trans-portation network linking Central Asia, the Middle East and Eastern Europe. Second, China is investing in the creation of an en-ergy corridor originating in the Pakistani port of Gwadar and through which crude oil from the Middle East and Africa can be transported by land to the northwest-ern of China. In the Middle East, China in 2009 became the largest buyer of Saudi oil. In some Arab countries, China has become the leading trading partner and investor.44 Using the U.S. rebalancing to Asia, Beijing is gradually expanding its sphere of influ-ence by strengthening bilateral relations with each country in the region, including Saudi Arabia and Iran, the two bitter rivals. China’s dependence on Middle Eastern oil will only increase in the future. Con-sequently, to ensure its energy security, Beijing’s strategic goal is to form an inter-connected energy and transport network, which includes Central Asia, the Middle East (Iran) and South Asia (Pakistan).

4. THE GEOPOLITICAL IMPLICATIONS OF CHINA’S EURASIAN PIVOT

When analyzing the geopolitical implica-tions of China’s Eurasian Pivot, we look at the major geopolitical and geo-economic strategies of Russia, the US, the EU and India and try to understand how these strategies interact with China’s Eurasian Pivot. Some-times, those strategies conflict with Chi-nese. Sometimes, they co-exist in harmony and in cooperation with China’s strategy. In other words, we look at the competition and cooperation of strategies among these play-ers on the Eurasian Continent.

4.1. Russia

Since Vladimir Putin took power in 2000, Moscow has consistently promoted its own Eurasian strategy through various economic initiatives and agreements such as the Eurasian Economic Community and the Eurasian Union. These initiatives were designed to regain control of Central Asia as well as other former Soviet repub-lics, primarily Belarus and Ukraine, and push them into the Kremlin wing.45 As a result, Moscow’s Eurasian efforts eventu-ally led to the establishment of the Eur-asian Economic Union (EEU) on 29 May 2014 between Belarus, Kazakhstan, and Russia.46 On October 9, 2014, Armenia

44. Lu Na, “Oil tycoon settles in CBD,” This is Beijing, March 22, 2013, available at: http://beijing.china.org.cn/2013-03/22/content_28326623.htm. 45. Baktybek Beshimov, “The struggle for Central Asia: Russia vs China,” Al Jazeera, March 12, 2014, available at: http://www.aljazeera.com/indepth/opinion/2014/02/struggle-central-asia-russia-vs-201422585652677510.html. 46. “Russia, Kazakhstan, Belarus Sign Treaty Creating Huge Economic Bloc,” Time Magazine, May 29, 2014, available at: http://time.com/135520/russia-kazakhstan-belarus-treaty/.

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jointed the EEU.47Thus, the integration of the CIS countries into the regional bloc under Moscow control has always been a key focus of Russia’s Eurasian strategy. In an article in Izvestiain October 2011, Putin clearly outlined the priorities of regional integration in the CIS area, the result of which should be the formation of the Eur-asian Union. At the same time, he noted, “the prospective union will not be a new USSR or a replacement for the CIS, instead “we propose a model of a powerful supra-national union capable of becoming one of the modern world poles and which can be an effective link between Europe and the dynamic Asia-Pacific region.”48

In relations with Europe, Moscow proposed “the creation of a harmonious economic community stretching from Lisbon to Vlad-ivostok.” Putin in his article “A new integra-tion project for Eurasia: The future in the making” also suggest that Russia and Eu-rope could even consider a free trade zone or even more advanced forms of economic integration.”49 Some experts have already labeled Putin’s idea as a Russian “pan-Eur-asian continentalism,” the idea of which is to create “a big Eurasia (pan-Eurasia) as the union of continental civilizations indepen-

dent from the influence of the Atlantic pow-ers, the US and the UK in particular.”50

It has also become quite clear that Moscow in implementing its Eurasian idea, which according to Putin is “the core of our for-eign policy,” has no desire to weaken its power in relation to the former Soviet bloc states. Recently Ukraine has become a good example. However, in the context of Western sanctions and severe economic situation, Moscow’s Eurasian offensive seems to be stalled, which forces Rus-sia to move eastwards and seek partner-ships there. This pivoting away from the West and “turning to the East” (“povorot na Vostok”), though, is not only caused by a “disappointment in the West.”51 In fact, Putin long before the Ukrainian crisis mentioned about reorienting towards the Asian markets in order to develop Russia’s eastern territories and integrate them into the rapidly developing economy of Asia. Western sanctions in this case become a catalyst.52 Many Russian foreign policy ex-perts also agree that the recent sanctions and mounting economic problems at home are the main reasons for which Russia strengthens cooperation with its eastern neighbors, especially with China.53 In May

47. “Armenia Joins Eurasian Economic Union,” RIA Novosti, October 10, 2014, available at: http://sputniknews.com/world/20141010/193914853/Armenia-Joins-Eurasian-Economic-Union.html. 48. Vladimir Putin, “Novyi internatsionnyi proekt dlya Evrazii – budushchee, kotoroe rozhdaetsya sevodniya,” Izvestia, Octo-ber 3, 2011, available at http://izvestia.ru/news/502761. 49. Ibid. 50. Maxim Sigachev, “SHOS kak proobraz pan”yevraziyskogo kontinental’nogo bloka,” September 18, 2013, available at http://rusazia.net/news?uid=1231. 51. Gilbert Rozman, “The Russian Pivot to Asia”, the Asan Forum, December 1, 2014, available at http://www.theasanforum.org/the-russian-pivot-to-asia/. 52. Alexander Andreev, “Povorot na Vostok,” RIA Novosti, May 21, 2014, available at http://ria.ru/col-umns/20140521/1008730350.html. 53. Kadri Liik, “Russia’s Pivot to Eurasia,” (London: The European Council on Foreign Relations, 2014), p.10.

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2014, Beijing and Moscow signed a $400 billion 30-year gas deal to supply natural gas to China through a new pipeline.54 In addition, at the APEC summit held in Bei-jing, Vladimir Putin and Xi Jinping signed another agreement for a second major gas supply channel.55

Both Chinese and Russian leaders often state that Sino-Russian relations have reached a new stage of “all-round strate-gic partnership.” The Russian President even pointed out that Moscow and Bei-jing have never been so close to the cre-ation of a strategic alliance throughout the long history of bilateral relations.56 Russia needs Chinese investments, while China is very interested in the Russian resources. In addition, they have similar positions on many international issues. For instance, both countries vetoed a UN Security Coun-cil resolution regarding Syria. China also abstained on a UN resolution condemning Russia’s actions in Crimea. Some Chinese and Russian scholars argue that Beijing and Moscow need each other to “balance” the U.S. and to create a multipolar world order. As the U.S., according to Moscow, advancing towards Russian borders in or-der to encircle and isolate her, as well as considering the U.S. pivoting towards the Asia-Pacific to contain China, it remains

an extremely important question whether China and Russia is trying to establish a “G2”on Eurasian Continent. Will there turn up a scenario that a Rimland power, China, unites with Russia, a land-power, to dominate the Heartland and challenge the global dominance of the U.S., a scenar-io that Zbigniew Brzezinski believes will “shrink America’s primacy in Eurasia”?57

Due to a number of reasons, in the near future we should not expect “G2” alliance between China and Russia. Firstly, the U.S. does not have the military threat to both China and Russia. Second, unlike Russia, China does not require a fundamental revision of the world order. In addition, Russia itself is not so much interested in this alliance “since Russia would be a dra-matically weaker junior partner in any re-lationship with China.”58 Thirdly, Putin’s turn to the East is not limited to relations with China. Russia is seeking to strengthen cooperation with India, Vietnam, Japan, and wants to maintain good relations with all Southeast Asian countries. Therefore, Moscow is unlikely to support Beijing in its territorial disputes with Japan, Vietnam or the Philippines. Moreover, Russian energy companies sign agreements with Vietnam on development of oil and gas fields in the South China Sea59- those waters claimed

54. “Russia signs 30-year deal worth $400bn to deliver gas to China,” The Guardian, May 21, 2014, available at: http://www.theguardian.com/world/2014/may/21/russia-30-year-400bn-gas-deal-china. 55. “Russia and China sign deal on second gas route,” DW.DE News, November 9, 2014, available at: http://www.dw.de/russia-and-china-sign-deal-on-second-gas-route/a-18050249. 56. Alexander Andreev, “Povorot na Vostok,” RIA Novosti, May 21, 2014, available at: http://ria.ru/col-umns/20140521/1008730350.html. 57. Zbigniew Brzezinski, “The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives,” p.19. 58. Vassily Kashin and Pavel Salin. “Russia’s Pivot to Eurasia” (London: The European Council on Foreign Relations, 2014), p.9. 59. “Vietnam,” Country analysis briefs, May 9, 2012, available at: http://www.iberglobal.com/files/vietnam_eia.pdf.

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by China and the Russian defense industry is increasing the supply of arms to South-East Asia countries, in particular, selling modern submarines to the Vietnamese and Indian Navy.60

In Central Asia, China’s Silk Road (SREB) competes with Russia-led Eurasian Eco-nomic Union (EEU). Nevertheless, both countries often claim that the SREB would not undermine the EEU. At the official le-vel, it has been frequently stressed that despite some conflicting points between Russia and China in Central Asia, Beijing’s plans to build the SREB would not be a hindrance to the EEU, since they were ori-ginally two separate international institu-tions for different purposes. The EEU im-plies a single economic space, which would act as a catalyst for the economies of the participants while the Silk Road would be solely a transport and logistics system at the continental level.61

Nonetheless, transportation is another object of competition between Russia and China in Eurasia. Back in the early 1990s, China built a railway line connecting Asia with Europe. It starts at the Chinese port of Lianyungang, and then passes through Xi’an, Lanzhou, Urumqi, several cities in Kazakhstan and Russia, Belarus, Poland, Germany and ends in the Dutch port of Rotterdam.62 This railway line is an al-

ternative to the Russian Trans-Siberian Railway (TSR), which also serves as a land bridge linking Asia and Europe. However, if before the bulk of the cargo used to be transported via the TSR, now a large part of the cargo was reoriented to the Chine-se line. To date, China within the SREB project is planning to build a second tran-sport corridor through Central Asia and the Middle East. Through the formation of these corridors, China intends to comple-tely “loopback” cargo traffic from Southe-ast Asia to Europe along its economic belt, thereby significantly reducing the capabi-lities of Russia’s Trans-Siberian Railway (TSR).63 This, in turn, may finally force the Russian leadership to think seriously about the possibility of losing its position as the Eurasian transport and logistics hub.China’s economic might may also quickly push Russia away from Central Asia. “Chi-na is rapidly investing in the construction of new roads, railways and pipelines by which Beijing firmly binds the region to its own development.”64 The recent advance-ment of the SREB is regarded as a potential challenge to Moscow’s economic geopo-litical interests and poses a threat to the further expansion of the EEU. Therefore, “Russia’s call to include Kyrgyzstan and Tajikistan into the EEU is mainly based on the desire to limit the reorientation

60. “Russia clinches contract to sell submarines, warplanes to Vietnam,” Sputnik News, December 15, 2009, available at: http://sputniknews.com/russia/20091215/157249436.html. 61. Li Hui (李辉), “Kitayskiy Ekonomicheskiy poyas Velikogo shelkovogo puti neyavlyayetsya konkurentom EAES,” November 8, 2014, available at: http://www.warandpeace.ru/ru/news/view/94625/. 62. “New Eurasia Land Bridge provides rail connection between China and Europe,” Railway PRO, July 15, 2010, available at: http://www.railwaypro.com/wp/?p=2153. 63. “Logika kitayskoy logistiki,” China PRO, June 4, 2012, available at: http://www.chinapro.ru/rubrics/3/7936/. 64. Aleksey Podberezkin. “Yevraziyskaya strategiya Rossii.” Moscow, MGIMO, 2013, p.192, available at http://eurasian-de-

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of Central Asian economies towards Chi-na.”65 Some Russian political analysts also believe that the Eurasian Union as part of a Russian response to the eastward shift of the world’s economic centre of gravi-ty. “Since Russia would be a dramatically weaker junior partner in any relationship with China, it needs the Eurasian Union to enable it to ‘balance’ China. In this way, the Eurasian Union aims at the same goal in the East that it does in the West – to strengthen Russia in order to enable it to enter into an equal partnership with China and the EU while containing both Chinese and European influence in the post-Soviet space.”66

To its best interest, China in advancing its Eurasian pivot is not going to create

any form of integration, which would lead to confrontation with Russia over the re-distribution of influence in Central Asia. Therefore, China would more likely to de-velop the “strategic partnership” with Rus-sia focusing on energy and military coope-ration and find common ground in Central Asia - a region that Moscow sees as its tra-ditional sphere of influence. So far, both Chinese and Russian leaders are nuanced in handling their relationship mostly due to the current global and regional situa-tion, wherein relations between Russia and the West have deteriorated markedly, while China is facing the U.S. in Asia-Pa-cific and trying to satisfy its own energy demands. These circumstances make them good “partners of convenience” but not

fence.ru/sites/default/files/t4/4-1-2.pdf. 65. Ibid. 66. Vassily Kashin and Pavel Salin. “Russia’s Pivot to Eurasia”, (London: The European Council on Foreign Relations, 2014), pp.9-10.

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allies.67“China’s economic growth and de-mand for resources, on the one hand, and the rapidly growing military power and po-litical ambitions, on the other hand, always will pose a threat to Russia, who will not be able to compete for the world’s natural resources with the new giant.”68

4.2 The United States

Geopolitical concepts of Mackinder, Ma-han and Spykman are still in great demand in the United States and continue to in-fluence the nature of the US strategy in Eu-rasia. Both American and British scholars of geopolitics maintain a consistent policy recommendation that no single continen-tal power should be allowed to grow to a dominant position to constitute a fatal th-reat to a sea power. As Mackinder once commented, secu-rity for the British Empire depended on the preservation of a power equilibrium between the maritime and continental states of the world island. If either of the two gained the ascendancy, the whole continent would be dominated and the pivot area controlled by a single power. With this vast land mass as a base, a sea power could be developed which could defeat Great Britain with ease. It was, therefore, the task of British foreign poli-

cy to prevent any integration of power on the continent of Europe and, particularly, to see that nothing would lead to an effec-tive military alliance between Germany and Russia.69

Spykman was largely influenced by Mack-inder. He once suggested to American pol-icy-makers, for the United States, her main political objective, both in peace and in war, must be to prevent the unification of the Old World centers of power in a coali-tion hostile to her own interests.70 There-fore, she must find some way of exerting her power in these regions during peace time so that she will not have to allow a situation to develop which will force her into a third war.71 Within the framework of a geopolitical analysis, the United States is seen to be geographically encircled. The distribution of power resources gives to the Old World greater possibilities for the exertion of force than to the New World...The situation at this time, however, makes it clear that the safety and independence of this country can be preserved only by a for-eign policy that will make it impossible for the Eurasian land mass to harbor an over-whelmingly dominant power in Europe and the Far East.72 The United States must recognize once again, and permanently, that the power constellation in Europe and Asia is of everlasting concern to her, both

67. Charles Grant, “Russia, China and Global Governance”, CER Publication, February 29, 2012, available at: http://www.cer.org.uk/publications/archive/report/2012/russia-china-and-global-governance, last accessed on December 31, 2014. 68. Aleksey Podberezkin. “Yevraziyskaya strategiya Rossii.” Moscow, MGIMO, 2013, p.90, available at http://eurasian-de-fence.ru/sites/default/files/t4/4-1-2.pdf. 69. Spykman, Nicholas. The Geography of the Peace. Harcourt, Brace and Co., 1944, pp. 36-37. 70. Spykman, Nicholas. The Geography of the Peace. Harcourt, Brace and Co., 1944, p. 45. 71. Spykman, Nicholas. The Geography of the Peace. Harcourt, Brace and Co., 1944, p. 55. 72. Spykman, Nicholas. The Geography of the Peace. Harcourt, Brace and Co., 1944, pp. 59-60.

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in time of war and in time of peace.73 The basic issues will remain the same because the geographic factors continue to oper-ate. Balanced power on the Eurasian Con-tinent is one of the objectives for which we are fighting and the establishment of such an equilibrium and its preservation will be our objective when the fight is won.74

Brzezinski supplemented Mackinder’s and Spykman’s ideas by saying that the United States in the post-Cold War era must con-solidate geopolitical pluralism in Eurasia and exclude the possibility of China-Rus-sia or China-Russia-India strategic alli-ance.75 He noted that with the unification of Europe and subsequent expansion of NATO to the East, the United States solved the strategic task of securing positions in the western part of the Rimland. However, the U.S.in the post-cold war era must lay emphasis on the eastern part of the Rim-land characterized by the presence of two rapidly developing regional giants China and India. Brzezinski fears that Russia can engage them in a strategic partnership, which is incompatible with American in-terests and national security. Therefore, Washington should strive first to involve China in a joint geo-economic develop-ment of the middle Rimland (the Middle East and Central Asia) and include China to a “transcontinental security arrangement”

which might consist of “expanded NATO linked by cooperative security agreements with Russia, China, and Japan.”76 This goal, in fact, perfectly fits into the U.S. strategy to create so-called transatlantic (western Rimland) and transpacific (eastern Rim-land) security framework. However, this global security framework, which “perpetuate beyond a generation the U.S. decisive role as Eurasia’s arbitra-tor,”77 obviously at odds with the Chinese initiatives in Eurasia. Besides, Washington itself is concerning about the growing eco-nomic and military might of China, which can lead to increased political influence of Beijing in Asia-Pacific and Central Asia and result in loss of America’s global eco-nomic and geopolitical influence in these regions. Since China’s rapid economic and military rise is a challenge to America’s in-terests either on a regional or global scale, the United States are currently engaged in various political and diplomatic measures designed to curtail expanding influence of China and restore the geostrategic bal-ance in Eurasia. As before, they resort to old tactics of control over Rimland. In the Asia-Pacific region, besides strengthen-ing military alliances from Japan to India, Washington also tries to “undercut China’s effort to lead the region economic integra-tion by pushing U.S.-centered and China-

73. Spykman, Nicholas. The Geography of the Peace. Harcourt, Brace and Co., 1944, p. 60. 74. Spykman, Nicholas. The Geography of the Peace. Harcourt, Brace and Co., 1944, p. 60. 75. Zbigniew Brzezinski. The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives. New York: Basic Books, 1997. 76. Ibid. 77. Zbigniew Brzezinski, “A Geostrategy For Eurasia,” Foreign Affairs, October 1977, available at: http://www.information-clearinghouse.info/article6266.htm.

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free Trans-Pacific Partnership.”78 In Cen-tral Asia, the U.S. promoted the New Silk Road (NSR) initiative in recent years.The NSR stands alone in Washington’s Eurasian strategy as it directly collides with both Chinese and Russian interests in Central Asia. In 2011, the U.S. Secretary of State Hillary Clinton unveiled “the New Silk Road” initiativeas one of the main fac-tors of U.S. assistance to the region after the ISAF (NATO-led security mission in Afghanistan) withdrawal from Afghani-stan. The main objective of the New Silk Road is to create conditions for increas-ing trade relations between the countries of Central and South Asia. This requires the development of three components: in-frastructure, transport and energy routes. The NSR should be a large-scale network of trade and transit links between South and Central Asia, which would benefit the countries of the region, in particular, Af-ghanistan and Pakistan.79 TAPI pipeline (Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-In-dia) and the “CASA-1000” project, which involves the supply of electricity from Kyrgyzstan and Tajikistan to Afghanistan and Pakistan serve as projects that can be implemented in the future within the NSR framework.80

From the above it becomes clear that the NSR initiative is focused on Afghanistan

as a main hub for future economic integra-tion and transportation. “If Afghanistan is firmly embedded in the economic life of the region, it will be better able to attract new investments, benefit from its resource potential, provide increasing economic opportunities and hope for its people.”81

However, the notion of operating roads, railway tracks and power networks con-necting Central Asia with Afghanistan and supplying fuel for the economic growth of the entire subcontinent, seriously under-estimates the legacy left after the conflict. There are still prevalent security threats, drug trafficking and governance prob-lems in Afghanistan. There are other weak points in the strategy of the “New Silk Road.” Iran, a central pillar of the ancient Silk Road and one of the most important trading partners of Afghanistan, excluded from the New Silk Road vision. Iran’s tran-sit capabilities could yet provide a viable alternative to riskier routes through Af-ghanistan and Pakistan. Another missing point of the U.S. strat-egy is how Washington with its internal budgetary issues and after withdrawal of troops from Afghanistan would be in a position to subsidize these transit routes. Moreover, the U.S. has emphasized that it does not plan to spend much of money on the project. “With governments all around

78. Yun Sun, “March West: China’s Response to the U.S. Rebalancing,” Brookings, January 31, 2013, available at: http://www.brookings.edu/blogs/up-front/posts/2013/01/31-china-us-sun. 79. “The New Silk Road?,” The Diplomat, November 11, 2011, available at: http://thediplomat.com/2011/11/the-new-silk-road/1/. 80. Erica Marat, “Following the New Silk Road,” The Diplomat, October 22, 2014, available at: http://thediplomat.com/2014/10/following-the-new-silk-road/. 81. Robert Hormats, “The United States’ ‘New Silk Road’ Strategy: What is it? Where is it Headed?” September 2011, available at: http://www.state.gov/e/rls/rmk/2011/174800.htm.

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the world facing economic challenges, we have to focus on ways to make this work with limited government support. So, for the New Silk Road vision to realize its po-tential, it is critical that the Afghan gov-ernment and its neighbors take ownership of the effort,” said Robert Hormats, Under-secretary of State for economic, energy and agricultural affairs.82

On this basis, it is more logical to look for geopolitical motives underlying the NSR, which also directly associated with the im-pending transformation of the U.S. pres-ence in Central and South Asia after the end of the military mission in Afghanistan. The strategic goal of the U.S. in Central Asia at this and subsequent stages is to strengthen its military and political pres-ence in the region and gain a foothold for projecting pressure on Russia, China, Iran and the entire Eurasian continent. Hence, we can assume that American Silk Road mainly aims at binding Central Asia to South Asia - Afghanistan, Pakistan and In-dia. In this situation, the U.S. can once and forever “tear off” Central Asia from Russia, impede Chinese access to raw materials of the region and redirect its resource flows via Afghanistan and Pakistan to India. Chinese policymakers are well aware of this possible scenario, and therefore rein-force energy and economic cooperation with the Central Asian states that over the past few years, apart from providing a large investment package for Central Asia, also reflected in the construction of oil and gas

pipelines, railways and highways linking the region with China. In South Asia, China is going to create two economic corridors: China-Pakistan (CPEC) and Bangladesh-China-India-Myanmar. The CPEC occupies a special place as it involves the construc-tion of highways originating in Xinjiang, then going to the Pakistani province of Baluchistan, where the route reaches the final destination - a deep-sea port of Gwa-dar located on the coast of the Arabian Sea. Given the vulnerability of sea-lanes from

the Middle East to China, Beijing also plans to build oil and gas pipelines from Pakistan (from Gwadar port) to Xinjiang. These pi-pelines are supposed to ensure the safety of oil imports from the Middle East while allowing China to bypass the Strait of Ma-lacca (a narrow sea-lane that the US Navy is capable of controlling at short notice). It is quite possible to say that Beijing’s plans to bind Central and South Asia are not solely motivated by the U.S. rebalancing to Asia. Marching westwards and southwards is a long-term objective to advance China’s economic interests in the Heartland (Cen-tral Asia) and Rimland (South Asia). Chi-na’s Eurasia pivot is not entirely consistent with Washington’s intentions on the “joint

82. Ibid.

Beijing also plans to build oil and gas pipelines from Pakistan to Xinjiang

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geo-economic development of Eurasia,” thus making the relation between the U.S. and China “increasingly contentious and zero-sum.”83

4.3 The European Union

An overall geopolitical strategy of the Eu-ropean Union is primarily viewed in rela-tion to countries of the former Soviet camp especially since the Ukrainian crisis clearly indicates how these countries are impor-tant for the entire European geostrategy. During the first decade after the Soviet Union collapsed, the EU policy towards post-Soviet countries was characterized by a standardized approach to establish polit-ical and economic contacts. The EU at that time developed and approved a program of “Technical Assistance for the Common-wealth of Independent States” (TACIS). The TACIS program involves the allocation of financial and technical assistance in four main areas: support for institutional, legal and administrative reform, support for the private sector and assistance for economic development, support for social issues during the transition period and co-operation on security issues.The beginning of the new millennium has been marked by the transformation of the European approach to the post-So-viet space, which primarily related to the EU expansion in 2004-2007. Due to the

2004-2007 enlargement, the EU closely approached the CIS borders. Conceptu-ally this new approach was expressed by the term “new neighborhood policy” in relation to Belarus, Ukraine, Moldova and the three Transcaucasian states. In 2007, Brussels coined the term “neighbors of neighbors” in relation to the Central Asian states.84

Since 2001, the EU’s interest in Central Asia has increased dramatically. This in-terest facilitated by the “9.11” terrorist attack, the anti-terrorist operation in Af-ghanistan, EU enlargement and new con-cerns about energy security in Europe caused by the gas dispute between Russia and Ukraine in January 2006. As part of the military campaign in Afghanistan, the NATO also dispatched military bases in Kyrgyzstan and Uzbekistan. The Russian-Ukrainian gas conflict has raised fears in Europe. Some EU leaders have suggested that Russia could use its energy supplies to Europe as a tool for political pressure.85

Therefore, Brussels started to look for the ways to diversify energy import routes. Central Asia has become one of the prior-ity for energy supply.Given the fact that Europe does not border with Central Asia, Brussels has started to pay attention to the presence of transport communications between the EU and Cen-tral Asia in order to draw the region into the orbit of its influence. Thus, in the early

83. Yun Sun, “March West: China’s Response to the U.S. Rebalancing,” Brookings, January 31, 2013, available at: http://www.brookings.edu/blogs/up-front/posts/2013/01/31-china-us-sun. 84. Nargis Kassenova. “The EU in Central Asia: Strategy in the context of Eurasian Geopolitics.” Central Asia and the Cauca-sus Journal, 2007, p. 99, available at http://cyberleninka.ru/article/n/the-eu-in-central-asia-strategy-in-the-context-of-eurasian-geopolitics.

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1990s, the EU actively lobbied two major interregional projects: TRACECA (creation of trade and transport corridor “Central Asia-Caucasus-Europe”) and INOGATE (creation of pipeline communications for delivering oil and gas from Central Asia to Europe). TRACECA (which also has the name of a modern Silk Road) and INOGATE have a significant geopolitical importance since both of them bypass Russia. This ex-plains the “nervous” perception of Moscow regarding these projects. Many Russian experts and officials consider these initia-tives as geopolitical challenge and believe that Brussels, thereby, wants to withdraw South Caucasus and Central Asia republics from Russia’s influence.86

Rapidly growing economic presence of Chi-na in Central Asia is a matter of concern in Brussels. In 2007, Germany developed the Central Asia strategy for the period 2007-2013 wherein in addition to the emphasis on the need for energy corridors between Central Asia and the EU through the Cau-casus, also accentuates China’s ambitions who has a strategic weight and prevents the EU plans to link resources of the region with transport capabilities.87 The docu-ment also states that the EU is losing the competition for Central Asia resources to China despite the significant involvement of the former in the oil and gas sector in

several Central Asian countries (meaning the European oil and gas companies en-gaged in the development and production of oil and gas). It is true that Brussels has frequently ex-pressed the need for greater involvement in Central Asia, but still has not undertak-en any practical steps in contrast to China. Apparently, this situation can be explained by two reasons. Firstly, the most impor-tant factor is the funding. For example, the construction of a pipeline linking Central Asia, South Caucasus and Europe requires a huge investment and the coordination of participants. Secondly, local elites of Cen-tral Asian republics already made a strate-gic reorientation towards China. Massive “unconditional” investments along with the geography seem to give much more preference to China. In this context, the question arises whether China’s recent Silk Road is a welcoming strategy in Europe given the fact that Beijing’s assertiveness overshadowed Brussels in the struggle for Central Asia resources.Furthermore, Brussels may concern about China’s large-scale cooperation with the countries of Eastern Europe and Central Europe. Back in 2009, during the European crisis, Beijing provided support to Greece by buying part of the debt and making signifi-cant investments in the port of Piraeus and

85. Dmitry Zhdannikov, Ron Popeski, “Worried EU states to fly to Moscow over gas row,” Reuters, January 13, 2009, available at: http://www.reuters.com/article/2009/01/13/us-russia-ukraine-gas. idUSTRE5062Q520090113?pageNumber=1&virtualBrandChannel=0&sp=true. 86. Nargis Kassenova. “The EU in Central Asia: Strategy in the context of Eurasian Geopolitics.” Central Asia and the Cauca-sus Journal, 2007, p. 117, available at http://cyberleninka.ru/article/n/the-eu-in-central-asia-strategy-in-the-context-of-eurasian-geopolitics. 87. Ibid.

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Athens International Airport. Beijing also gave Greece a loan worth $ 5 billion to mod-ernize the merchant fleet and the purchase of 162 ships in China. Piraeus, which is often called as “the southern gateway to Europe,” has subsequently become the main entry point for Chinese goods in Europe, shorten-ing normal shipping times by one week.88

In 2012, China and Eastern European coun-tries agreed to establish the China-CEE annual summit. In the same year, China announced a $10-billion credit line for a region comprising some of the EU’s newest members and others in the Western Balkans that are not yet part of the bloc.89 In 2013, Li Keqiang visited Romania and attended first China-Central and Eastern Europe (CCEE) leader’s meeting. Trade turnover between China and Central-Eastern Europe already reached $52 through the first ten months of 2013. During the meeting, Li announced that China is going to double its trade with cen-tral and eastern European countries by 2018 and increase to over $120 billion in the next five years.90

In 2014, Li Keqiang visited Europe again to participate another CEE meeting held in Belgrade. During the meeting, Lisaid that China would create a new investment fund of $3 billion targeting Central and Eastern

Europe.91 Chinese investments in the region usually come in the form of loans financed by China’s state-owned banks in exchange for the bid given to Chinese companies. Li Keqiang, however, during the summit in Belgrade said China was open to “new mod-els of financing and investment.”92 At the end of the meeting, “China also secured a deal to construct a high-speed train link between the Belgrade and Budapest that will cut travel time between the Serbian and Hungarian capitals from eight hours to less than three. The 400-kilometer rail-way is part of China’s plan to speed up the delivery of its exports to central Europe through Greece’s port of Piraeus. The Bel-grade-Budapest line is to be completed by mid-2017.”93

Summits in Bucharest and Belgrade demon-strated intention of China and CEE states to implement investment projects without the EU original members. The EU stands alert to Beijing’s geo-strategic move in wooing cen-tral and eastern European countries fearing that Beijing would tend to reap geopoliti-cal benefits from this cooperation. Brussels see them as its sphere of influence, but at the same time, the EU is largely constrained by the economic resources at its disposal whereas “the debt-burdened Balkans, in ur-

88. Valbona Zeneli, “China’s Balkan Gamble,” The Diplomat, December 15, 2014, available at: http://thediplomat.com/2014/12/chinas-balkan-gamble/. 89. “China to Ramp Up Investment in Central, Eastern Europe,” VOANews.com, December 16, 2014, available at: http://www.voanews.com/content/china-to-ramp-up-investment-in-central-eastern-europe/2561530.html. 90. Shannon Tiezzi, “China ‘Marches West’ - To Europe,” The Diplomat, November 27, 2013, available at: http://thediplomat.com/2013/11/china-marches-west-to-europe/. 91. “China to Ramp Up Investment in Central, Eastern Europe,” VOANews.com, December 16, 2014, available at: http://www.voanews.com/content/china-to-ramp-up-investment-in-central-eastern-europe/2561530.html. 92. Ibid. 93. “China secures construction of European railway,” Associated Press, December 17, 2014, available at: http://www.ny-times.com/aponline/2014/12/17/world/europe/ap-eu-serbia-china-railway.html?_r=0.

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gent need of major rescue packages and in-frastructure investment.”94

Certainly, China and the EU have disagree-ments on certain issues.Countries have dif-ferent ideologies, different models of deve-lopment. Nevertheless, both sides often find common ground. Mutual dependence that emerged from business cooperation should promote understanding in many aspects, in-cluding China’s economic policy in Eastern Europe. Both Brussels and Beijing are intere-sted in accelerating the mutual trade flows. As of 2013, the EU for nine consecutive years was the largest trading partner of China, and China, in turn, was the second largest tra-ding partner for the EU. During Xi Jinping’s tour to Europe, China and four European countries signed more than 120 cooperation agreements in many areas. These constantly expanding bilateral trade relations would require new commercial routes. The SREB and Maritime Silk Road with the help of an extensive transportation network from East Asia to Europe is intended to bring economic cooperation between China and the EU to a new strategic level. The CEE countries need China’s financial advantages, while “Beijing sees central and eastern Europe as a poten-tially lucrative market and bridgehead to the wider EU.”95

4.4 India

India’s present foreign policy focus and strategy are inextricably linked to the events in the Indian Ocean. Conversely, Central Asia receives much less attention as New Delhi is lagging behind China and Russia. Since coming to power, Prime Minister of India, Narendra Modi brings more chang-es in foreign policy than his predecessor. Many experts think that foreign policy of the previous Indian government was weak and indecisive, especially in its relations with China and Pakistan.96

Particularly, they are concerned about Chi-na’s maritime strategy in the Indian Ocean (the String of Pearls) and believe that Beijing’s intentions to develop a series of ports with Pakistan, Myanmar, Bangladesh and Sri Lanka and the frequent appearance of the Chinese Navy in the Indian Ocean have a specific purpose to encircle India and redraw Asia’s geopolitical map.97 It seems that even China’s Silk Road initia-tive is not conducive to mitigate tensions since many Indian experts see the Mari-time Silk Road as an attempt to disguise or re-brand the String of Pearls.98

Apparently recognizing the diplomatic and

94. Valbona Zeneli, “China’s Balkan Gamble,” The Diplomat, December 15, 2014, available at: http://thediplomat.com/2014/12/chinas-balkan-gamble/. 95. “China to Ramp Up Investment in Central, Eastern Europe,” VOANews.com, December 16, 2014, available at: http://www.voanews.com/content/china-to-ramp-up-investment-in-central-eastern-europe/2561530.html. 96. Manik Mehta, “The perceived weakness about India’s foreign policy,” Gulf News, July 29, 2013, available at: http://gulf-news.com/opinion/thinkers/the-perceived-weakness-about-india-s-foreign-policy-1.1214672. 97. Rajeev Srinivasan, “Modi’s overseas ambitions: Vietnam and the reverse “string-of-pearls” to contain China,” Firstpost, October 31, 2014, available at: http://www.firstpost.com/world/modis-overseas-ambitions-vietnam-and-the-reverse-string-of-pearls-to-contain-china-1781389.html. 98. Brahma Chellaney, “The silk glove for China’s iron fist,” The Japan Times, March 9, 2015, available at: http://www.japan-times.co.jp/opinion/2015/03/09/commentary/world-commentary/the-silk-glove-for-chinas-iron-fist/#.VUMk3_ntmkq.

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political slack of the previous government, Narendra Modi is now trying to revitalize Delhi’s foreign policy in the Indian Ocean. It is clear that the Modi government is also serious about India’s geopolitical ambitions. In the latest ASEAN summit in Myanmar on November 11-13, 2014, Modi unveiled India’s new “Act East Policy,” and tried to convince his Southeast Asian counterparts that New Delhi is going to boost economic ties with the region. During the summit, Modi also announced India’s new “Act East Policy.”99 He particularly said, “A new era of economic development, industrialization and trade has begun in India. Externally, India’s ‘Look East Policy’ (formulated un-der Prime Minister Narasimha Rao in the 1990s) has become ‘Act East Policy.’”100

In contrast to India’s previous Look East Policy, Modi’s new Act East Policy marks a more action-oriented policy towards ASEAN and Southeast Asian countries as a whole. During the ASEAN-India sum-mit, Modi proposed specific recommenda-tions to deepen economic ties with ASEAN countries, including cooperation in the areas of transportation infrastructure, manufacturing, agriculture and science. Modi also invited ASEAN countries invest in India as it experiences an ongoing eco-nomic transformation. Besides calling to boost bilateral economic relations, Modi touched on security issues, specifically on

the situation in the South China Sea and reiterated the importance for everyone to follow international norms and law.The regional geopolitical aspirations of Modi were also reflected in his five-day visit to three island nations - Seychelles, Mauritius and Sri Lanka. According to experts, the aim of the tour was to bring countries of the region closer to the Indian sphere of influence through the provision of economic and military assistance.101

In recent years, due to the increasing eco-nomic presence of China in these countries, namely in the construction of highways, power plants and ports, New Delhi seeks to restore its former influence in the region. The visit to Sri Lanka had a special signifi-cance, as the previous visit of Indian prime minister to the country was almost 30 years ago. New Delhi has always considered Sri Lanka as its “backyard.” However, the re-lations between Colombo and New Delhi during the reign of Mahinda Rajapaksa (the former president of Sri Lanka) seriously de-teriorated. At the same time, the Sino-Sri Lanka bilateral relations began to develop, with infrastructure investment and trade. Consequently, Beijing has become the larg-est foreign investor in Sri Lanka. Moreover, Chinese warships periodically docked at Sri Lanka’s ports causing seri-ous concerns in India.102 However, now India is hoping for a new president of Sri

99. Prashanth Parameswaran, “Modi Unveils India’s ‘Act East Policy’ to ASEAN in Myanmar,” The Diplomat, November 17, 2014, available at: http://thediplomat.com/2014/11/modi-unveils-indias-act-east-policy-to-asean-in-myanmar/. 100. Ibid. 101. “PM Modi ‘Eagerly Awaiting’ Seychelles, Mauritius, Sri Lanka Visit,” NDTV, March 8, 2015, available at: http://www.ndtv.com/india-news/pm-modi-eagerly-awaiting-seychelles-mauritius-sri-lanka-visit-745096. 102. Shihar Aneez and Ranga Sirilal, “Chinese submarine docks in Sri Lanka despite Indian concerns,” Reuters, available at: http://in.reuters.com/article/2014/11/02/sri-lanka-china-submarine-idINKBN0IM0LU20141102.

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Lanka since Modi’s visit to Colombo took place against the backdrop of deteriorating Sino-Sri Lankan relations after Sri Lanka suspended the Chinese real estate project worth US $ 1.5 billion and accuse China of violating environmental regulations.103

This in turn gives India a good opportu-nity to expand economic relations and strengthen military cooperation with Sri Lanka, and restore its former influence in the neighboring island nation. Although Central Asia is one of the official priorities of India’s foreign policy, New Del-hi is lagging behind in establishing coop-eration with the countries of Central Asia. The most important economic niches in the region have been already occupied by China and Russia.104

Back in the early 1990s, India was faced with many political and economic problems in the country. At that time, India carried out economic reforms and was unable to make full use of its trade and investment opportu-nities in cooperation with the Central Asian republics. Despite the economic difficulties in the late 1990s and early 2000s, India’s presence in Central Asia was quite notice-able. Senior Indian officials made frequent visits to Central Asia and actively support-ed the American New Silk Road initiative. However, in 2004, the new government of Manmohan Singh changed the priorities of Indian foreign policy and India hardly showed itself in the region until 2011.In recent years, India is making efforts to catch-up opportunities in Central Asia,

103. Shihar Aneez, “Sri Lanka cabinet suspends Chinese project on approval issue,” Reuters, March 6, 2015, available at: http://www.reuters.com/article/2015/03/06/us-sri-lanka-china-portcity-idUSKBN0M20WP20150306. 104. Raj Kumar Kothari. India’s ‘Connect Central Asia Policy’: Emerging Economic and Security Dimensions. Horizon Research Publishing, 2014, available at: http://www.hrpub.org/download/20140902/SA5-19690106.pdf.

Una delle strade di montagna che uniscono Cina e India

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mainly due to its economic growth and energy demands. India views Central Asia as an important source of hydrocarbons for its fast-growing economy. For this rea-son, India’s ONGC bought 8.42% share of Conoco Phillips in Kazakhstan and shares in the Azerbaijani section of the Caspian Sea.105 Manmohan Singh’s visit to Astana in 2011 also helped India to gain access to the deposits of oil, gas and uranium in the northern Caspian Sea.106

In June 2012, in Bishkek, India put forward the “Connect Central Asia” policy (CCAP) in order to build much closer relations with Central Asia.107 This strategy involves the creation of universities, hospitals and information technology centers. Besides, the CCAP is focused on the establishment of joint business ventures, improving trade and tourism, promotion of joint research and strategic partnership in the field of de-fense and security. India has also recently started negotiations on the construction of the pipeline Turk-menistan-Afghanistan-Pakistan-India (TAPI), which is a part of the American Silk Road strategy in Central Asia. Despite the importance of the TAPI pipeline, it seems that no states are willing to start and fi-nance the project. This can be explained by the lack of finance, hostile relations be-tween India and Pakistan, instability in Af-ghanistan and opposition of major powers,

such as Russia and China, who have their own interests in Central Asia.

5. CONCLUSION: THE PROSPECTSOF CHINA’S EURASIAN PIVOT

The facts mentioned in previous sections demonstrate China’s intention to create a communication network among no less than four key regions, which are Central Asia (the gateway either to the Middle East or to Europe), the Middle East (with major roles played by Iran, Iraq, Syria, Saudi Arabia, and Turkey), Russia (the key bridge between Asia and Europe), and Eastern Europe (Greece, Romania, Serbia and Hungary). Moreover, the Maritime Silk Road covers an equally large network, including the Bangladesh-China-India-Myanmar and China-Pakistan economic corridors, which could offer Bei-jing privileged access to the Indian Ocean. Thus, the pivot to Eurasia is a critical test for China to deal with both internal and ex-ternal challenges. Internally, it would allow China to step up reforms to sustain further economic growth and ensure the security of its western borders. Externally, China strives to create a favorable international environment and to take a more proactive stance in the great power dynamics unfold-ing in the Eurasian continent. Competition for resources and transport capabilities of Eurasia is in full swing now.

105. Swetha Gopinath, “ConocoPhillips to sell Kazakh stake for $5 billion to ONGC,” Reuters, November 26, 2012, available at: http://www.reuters.com/article/2012/11/26/us-conocophillips-assetsale-idUSBRE8AP0IJ20121126. 106. Meena Singh Roy, “Prime Minister Manmohan Singh’s Visit to Kazakhstan,” IDSA, April 27, 2011, available at: http://www.idsa.in/idsacomments/PrimeMinisterManmohanSinghsVisittoKazakhstan_msroy_270411.html 107. K.M. Seethi, “India’s ‘Connect Central Asia Policy’,” The Diplomat, December 13, 2013, available at: http://thediplomat.com/2013/12/indias-connect-central-asia-policy/.

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China’s Silk Road ambition and its prac-tices are redirecting the world’s attention to the Eurasian continent, where traditional geopolitics dominates. Compared with the Asia-Pacific as the world’s economic gravity center, the Eurasian Continent is no doubt the world’s geopolitical gravity center, and now more and more an economic center. The recent evidences show that China is shifting a large chunk of its economic resources towards Central Asia, Russia, South Asia, the Middle East and Eastern Europe. China pledged $16.3 billion to build and expand railways, roads and pipe-lines in Chinese provinces, which is part of China’s overall strategy for reviving the Silk Road.108In the meanwhile, China is ad-vancing its idea of SCO Development Bank, the BRICs Development Bank, Silk Road fund (a special fund for infrastructure proj-ects in Central and South Asia) as well as the Asia Infrastructure Investment Bank (AIIB). China has already allocated $40 bil-lion into the Silk Road fund and $50 billion to the Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB).109 That means a large amount of financial resources would be distributed to the Eurasian Continent.China at the same time keeps a close eye on the Asia-Pacific region that still attracts the major geopolitical focus of Beijing. At the

latest APEC summit, President Xi Jinping pushed forward an initiative of the Free Trade Area of the Asia-Pacific (FTAAP).110

“FTAAP would mesh with China’s strategy of promoting regional integration - and would provide an alternative to the U.S.-led Trans-Pacific Partnership (TPP) talks, which currently excludes China.”111

Thus, China is stepping up global econo-mic activities through both land and sea, which in turn gives reason to call her an amphibian power rising on two fronts.In other words, China is both a land and mar-itime power. However, it remains another debatable question, whether China is over-stretched in doing on two fronts. The fai-lure of Germany and Japan in the Second World War was largely due to opening two fronts at the same time. As Spykman pre-dicted even before the War ended, “Japan was prevented from overcoming the Chine-se before she took on the Anglo-Saxon po-wers. Germany had more success in that she did defeat the Poles before she attacked the French and the French before she took on the Russians, but she failed to dispose of the Bri-tish before turning toward the Soviet Union and she was still involved with both the Bri-tish and the Russians when the United States entered the conflict. This failure represented the turning-point in the struggle.”112

108. Bloomberg, “China Said to Plan $ 16.3 Billion Fund to Revive Silk Road,” November 4, 2014, available at: http://www.bloomberg.com/news/articles/2014-11-04/china-said-to-plan-16-3-billion-fund-to-revive-silk-road. 109. “China to create bank to fund ‘New Silk Road’: official media,” Reuters, November 12, 2014, available at: http://www.reuters.com/article/2014/11/13/us-china-silkroad-idUSKCN0IX01320141113. 110. “Apec summit backs Beijing roadmap to vast Asia-Pacific free trade area,” The Guardian, November 11, 2014, available at: http://www.theguardian.com/world/2014/nov/11/apec-summit-beijing-roadmap-asia-pacific-free-trade-area. 111. Shannon Tiezzi, “China’s Push for an Asia-Pacific Free Trade Agreement,” The Diplomat, October 30, 2014, available at: http://thediplomat.com/2014/10/chinas-push-for-an-asia-pacific-free-trade-agreement/. 112. Spykman, Nicholas. The Geography of the Peace. Harcourt, Brace and Co., 1944, p. 49.

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The present geopolitical situation in the Eur-asian continent wherein the governments in the EU and the US are largely constrained by the economic resources at their disposal, while Russia is suffering from the mounting economic problems at home, gives China an excellent opportunity to operate on many geo-economic fronts. It is crunch time for Chinese policy makers to implement their Eurasian strategy since some of the key geo-political nodes of Eurasia have received little international attention in recent years. Chi-na is more than willing to pick up the EU’s, Russia’s and American diplomatic slack in Eastern Europe and Central Asia, and in turn expects to reap either economic or geopoliti-cal benefits.Another important factor, which makes China’s Eurasia pivot feasible, is that in contrast to Western Europe or East Asia, the Central Asian region is “free from a U.S.-dominated regional order or a pre-existing economic integration mechanism” which in turn provides Beijing a chance to fill this economic and political vacuum.113

Here we can agree with Wang’s view who also sees the region as lacking generally accepted rules of competition and coope-ration and for China there is only one eco-nomic front, which is to shift toward the West rather than to the East. There is also a strategic reason since moving resources to the West results in less conflict with the United States, and makes China less vulne-rable to US naval power. China’s success in Eurasia will depend on

whether Beijing is able to preserve friendly relations with neighbors and to convince them that China does not pose a threat to their fundamental security interests. Any move by China to redefine its role in the world or to seek a wider geopolitical space, would immediately alarm its neighbors. In the Southeast Asia, countries that have unresolved territorial disputes with China do not wholeheartedly embrace traditional “peaceful nature” of China’s foreign policy, which throughout a history did not seek territorial expansion or domination. This foreign policy dilemma will represent a particular challenge for Beijing to carry on its Eurasian pivot. It is true that China’s geopolitical influen-ce and its global aspirations reinforced by the growing opportunities in Eurasia would naturally increase. However, cultivating friendly relations with the continent’s we-stern countries is extremely important for China in terms of maintaining stability and security in its western frontier. This fact is especially relevant since both China and Central Asia share the same security-rela-ted issues, such as separatism, extremism, terrorism and drug trafficking. Hence, Chi-na is an important element of regional se-curity in Central Asia. Without the active participation of Beijing, or at least, without taking into account its interests, any securi-ty system in the region will not be effective.Considering the U.S. rebalance to Asia, China’s geopolitical stakes in the Middle East would inevitably rise. Nevertheless,

113. “Marching West: Regional Integration in Central Asia,” Huffington Post, January 13, 2014, available at: http://www.huff-ingtonpost.com/china-hands/marching-west-regional-integration_b_4581020.html.

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we have to admit that in the short-term perspective, Chinese leaders would rather avoid getting involved in the politics of the Middle East. Nor is it military set up to project power. China’s Silk Road strategy in the Middle East is to create an overland transport corridor passing through Cen-tral Asia and to ensure that other powers do anything to interfere with its economic potential in the region.In a similar vein, China’s Eurasia pivot is not aimed at subverting Brussels’s leading role in Central and Eastern European affai-rs, but by establishing economic outposts there, China can make itself an extremely important partner. The most likely scena-rio is China will have more of a corporate presence in Eastern Europe rather than be-coming the head of any alliance or integra-tion structure. Establishing an economic presence in Central and Eastern Europe and coming to dominate any sort of econo-mic forum there gives Beijing more clout without necessarily saddling with more re-sponsibilities. There is also a wide range of challenges, which might hinder China’s Eurasian Pi-vot. First, China may be accused of neo-co-lonialism in an attempt to turn its western neighbors into raw material appendages. Second, the Middle East characterized by the competition between regional le-aders, such as Iran, Saudi Arabia, Turkey, Egypt and Israel. In South Asia, there are still India-Pakistan tensions. No matter

what position Beijing would occupy on each particular issue, there will always be a dissatisfied party. Third, Central Asia is a very complex region where not only the interests of global and regional powers are intertwined with each other, but also the relations between the countries of Central Asia themselves are very intense. Therefo-re, China as the initiator of a new project most likely has to be a moderator of these relations and contradictions. Fourth, the political power in some countries of the Central Asia and Middle East is not suffi-ciently stable. In addition, these regions struggle with poverty, wide range of ethnic and religious conflicts. Presently the Syrian and Iraqi governments are waging fierce battles with numerous armed groups. Chinese state-owned enterprises have already witnessed how difficult is the si-tuation in the Arab world on the example of Libya and Sudan. Splash of social unrest in the Arab world in early 2011, was seen in China as a very important event that raised concerns among Chinese leaders. China’s economic loss in the Libya War amounted to 16.6 billion USD.114 China also was forced to carry out an unprecedented operation to evacuate 36,000 of its citizens and 2,000 citizens of other countries from Libya and neighboring countries, using for this purpose one of its warships in the Gulf of Aden as well as the military transport aircrafts.115 In the event of instability in the Middle East or Central Asia, Beijing’s

114. Mu Ren. “An Analysis on the Contradiction Between China’s Non-intervention Policy and Intervention Activities.” Gradu-ate School of International Relations Ritsumeikan University, October 2013, p.23, available at: http://rcube.ritsumei.ac.jp/bitstream/10367/5025/1/isa_13ren.pdf.

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corporate interests could be threatened again as it was in the case of Libya. In this situation, the question is whether China will resort to military intervention. In fact, Beijing has already become a part of this complex picture. The Silk Road initiati-ve implies that China’s vital interests will inevitably grow, which also means that she cannot simply withdraw from these areas in case of instability. China’s Eurasia Pivot is a serious test for Beijing’s foreign policy doctrine. Traditio-nal China’s “non-interference” policy can break under the harsh reality that needs to protect Chinese citizens and investment. The experience of the Chinese peaceke-eping in Sudan demonstrates that China is willing to conduct military operations when it comes to protecting its financial interests. Chinese non-interference disap-peared when Sudan began to disintegrate and when China’s oil investments were th-reatened. As a result, Beijing was forced to act as a diplomatic mediator and place its peacekeeping contingent.How far China can go on the Eurasian Con-tinent largely depends on her interaction with major and regional powers. Xi Jinping marked a quite noticeable shift in China’s foreign policy, which started to be much more assertive. China is tougher than be-fore showing its disagreement with the US on a number of major international and bi-lateral issues, avoiding, however, crossing the red line on which disagreements can escalate into open confrontation.

The US return to Asia stirred up China’s resentment. China’s rise and the US’ un-helpful hedging policy in China’s neigh-borhood increased tensions in this region. Consequentially, the US pushed China to-wards the embrace of Russia. China is in-creasingly seeing Russia as a staunch ally for a multipolar world and balancing the American hegemony. It is argued that Rus-sia has nothing to offer to China but for natural resources. Those arguments only tell half the story. Russia is instrumental if China wants to reap potential geopolitical and economic benefits out of the vast Eur-asian continent. China-Russia relationship is always a deli-cate one. China is conducting a much more assertive foreign policy in Central Asia, which implies geopolitical challenge for Russia’s position in the region. However, Beijing is also aware that without Russia’s acquiescence, it cannot go far. Russian military power is still a major condition for maintaining security in Central Asia. A potential scenario is a Russia-China G2on Eurasian Continent, in which, China pro-vides economic public goods while Rus-sia provides security public goods. China’s growing influence in Central Asia and its tying the region to its own development primarily through the financing of regional infrastructure construction, the expansion of Chinese participation in the development of natural resources, as well as promoting integration initiatives like the SREB are be-coming stable trends in China’s foreign po-

115. Mu Chunshan, “China’s Nimble Libya Pullout,” The Diplomat, March 22, 2011, available at: http://thediplomat.com/2011/03/chinas-nimble-libya-pullout/.

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licy vector in Central Asia. In the meanwhi-le, Beijing agrees to the “privileged” status of Russia in the region due to the expansion of Moscow’s military infrastructure in Taji-kistan and Kyrgyzstan. Instead of seeing it as a threat, Beijing would probably see it serve as a deterrent to the U.S. and remo-ves the accusations of Beijing’s geopolitical ambitions in the eyes of the Central Asian leaders. This Russia-China G2 scenario is proble-matic. It does not take into account the role of the US and the EU. It can even lead to a serious split between the East and the West, which is unfortunately a potential possibi-lity. On the one hand, China seeks political and strategic partnership with Russia to les-sen the global influence of the U.S. On the other hand, China seeks greater economic ties with the West, especially with the EU. Strategic partnership with Russia cannot bring the increased trade flows China wants at the same time Beijing needs Moscow’s political backing to cooperate in Central Asia and to deal with the U.S.Chinese-operated ports in the Indian Oce-an, which theoretically can serve as mi-litary bases for the Chinese Navy raises serious concerns in India. Therefore, Na-rendra Modi’s government departs from the traditional neutral position and de-clares its own geopolitical ambitions via the “Act East” and “Connect Central Asia” policies. For China, this means that its Eu-rasian Pivot will also have to reckon with India’s interests. Perhaps a political balance of power and an economic integration on Eurasia con-

tinent would best serve the interests of all the stakeholders in this region. China, Russia, the US and the EU, and India, as the major and regional powers in this region, would need to strike a balance of power. In the meanwhile, they also need to work towards an economically viable regional integration framework, which could help ensure the Eurasian continental stability and prosperity.

FINE PARTE 1Continua nel numero di Maggio-Agosto 2017

Marlen BelgibayevMarlen Belgibayev is a research fellow at Wuhan Uni-versity Centre of Economic Diplomacy.

Xiaotong ZhangExecutive director of Wuhan University Centre of Economic Diplomacy and associate professor of the School of Political Science and Public Administration of Wuhan University.

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espansione della galassia cinese verso nord e verso ovest è un fat-to lungo secoli se non, più cor-

rettamente, millenni. Questa lunga marcia ha trovato sul suo cammino due grossi ostacoli: l’orografia e la politica. Difatti, la prima difficoltà appare evidente nel mo-mento in cui si prende in mano la cartina geografica e ci si confronta con quelle che erano non solo le tecnologie di spostamen-to e controllo del territorio dell’epoca ma anche le strategia di tipo militare: la ca-tena dell’Himalaya e il massiccio del Tian Shan a ovest e il Grande Khingan, il Deser-to dei Gobi e i Monti Altai a nord hanno costretto gli imperatori cinesi a incanalarsi da un lato verso la pianura del Sungliao seguendo il letto dei fiumi Nen e Songhua in Manciuria e, dall’altro, nel bacino del fiume Tarim, nel deserto del Taklamakan, passando prima in una gola naturale po-sta tra il deserto dei Gobi e l’Altun Shan

di Marcello Ciola

LA SINIZZAZIONE DELL’ASIACENTRALE TREDICI SECOLI DOPO

Gli investimenti cinesi stanno modificando qualitativamente l’articolazione delle tradizionali economie centroasiatiche

L'

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(le Montagne d’Oro, così come conosciute dalle popolazioni turche), per poi finire o nel corridoio di Wakhan verso l’Afghani-stan (oggi ancora strategicamente molto importante) o più a nord verso la Sogdiana (o Transoxiana) o ancora più a nord verso quello che sotto la dinastia Qing era l’ul-timo confine della Cina Imperiale, il lago Balqaš (Bo-Ku o Po-Ku in cinese a seconda delle epoche). La difficile conformazione geografica del territorio, caratterizzata, come si è visto, da grandi gruppi montuo-si, ha reso di fondamentale importanza il controllo dei bacini idrici dei fiumi navi-gabili e ha ispirato l’espansione della Cina nel corso della sua millenaria storia. Non solo, ne ha condizionato anche la politica interna, secondo elemento di instabilità, sia nel suo sviluppo economico che ammi-

nistrativo che culturale. Infatti, è proprio a quest’ultimo punto che si voleva arriva-re: nella zona compresa tra l’appena cita-to lago Balqaš e la catena del Tian Shan, conosciuta come la zona dei “Sette Fiumi”, si sono incontrate e influenzate la “cultura cinese”1 e quella dei popoli nomadi turchi e mongoli dell’Asia Centrale. È difficile poter sostenere con certezza quale fu la cultura che influenzò più l’altra, fu sicuramente un mescolarsi reciproco tra la cultura turco-mongola, presenza già forte all’interno del territorio sotto controllo di quelle dinastie che appartengono2 alla storia della Cina, e cultura Han con una sicuramente più alta influenza economica di quest’ultima sulle altre popolazioni. Dalla fine del I secolo a.C. inizia un lento processo di espansione verso ovest a opera prima di alcuni pionieri

1. Già di per sé composta da una costellazione di culture eterogenee tra loro. 2. Anzi, per certi versi sono fatte appartenere alla storia della Cina in quanto, è utile dirlo, alcune dinastie tra cui i Tang, gli Yuan e gli Liao non avevano origine Han bensì turco-mongola.

fonte: The Circle of Ancient Iranian Studies

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e poi da veri e propri contingenti militari che, seguendo le rotte già tracciate, por-tarono la cultura Han sempre più verso oriente, iniziando quel processo di siniz-zazione, veicolato da un lato dalle merci (e dalla tecnologia) cinese, dall’altro dal-la cultura buddista, che andrà a investire l’Asia Centrale e che ha lasciato segni tan-gibili fino a oggi come i numerosi templi, statue e oggetti di vario tipo. Contestual-mente nascono le cosiddette vie della seta che un rapido sviluppo dall’ottavo secolo in poi e che avevano conosciuto una pri-ma fase di incubazione già nei secoli pre-cedenti.È sotto la dinastia Tang (618-907 d.C.) che si interrompe quello che viene conside-rato il processo di sinizzazione dell’Asia Centrale3. Tale dinastia aveva raggiunto il potere e conosciuto il suo apice proprio attraverso l’alleanza con quei popoli tur-chi che abitavano (e abitano) la zona dello Xinjiang odierno e appena fuori ai propri confini. La fragilità di questa alleanza era quasi scritta nella storia, in quanto, con-testualmente all’espansione dell’Impero Celeste verso ovest, si stava realizzando l’espansione dell’Impero culturale-reli-gioso dell’Islam verso est. Un fenomeno, quest’ultimo, che ha interessato le popo-lazioni arabe, turche e persiane che nel-le loro tre dimensioni (storica, politica e “mistica”) hanno dato sempre più vigore e fondamenta alla già complessa dottrina islamica.

IL GENERALE GAO XIANZHIE LA BATTAGLIA DI TALAS

In pieno 700, le scorribande musulmane razziavano in continuazione i villaggi po-sti nel bacino del fiume Tarim, sotto pro-tezione dell’Imperatore cinese. Per porre fine alle incursioni, l’Imperatore Celeste, Xuang Zong, decise di affidare al generale Gao Xianzhi la messa in sicurezza di que-sta porzione di territorio strappata circa un secolo prima all’Impero Tibetano, all’epo-ca dei fatti in pieno decadimento politico ed economico. Il generale si convinse che l’unica maniera per fermare le incursio-ni provenienti dall’Impero Omayyade era quella di occupare la Sogdiana (control-lata parzialmente da quest’ultimo). L’oc-cupazione della Sogdiana avrebbe portato due sostanziali conseguenze: il controllo diretto degli snodi principali di quelle che saranno in seguito battezzate come Silk Roads e la fine delle incursioni musulma-ne a disturbo dei traffici che passano da questi snodi. Ma questo comportava un grosso svantaggio: la difficoltà logistica e strategica di controllare un altro territo-rio a migliaia di chilometri dal centro del potere. Per sopperire a questo svantaggio, la strategia dei generali cinesi era quella di allearsi con le popolazioni locali in difesa rispetto a minacce “esterne”. Sostanzial-mente una sorta di sistema feudale tipico dei sistemi imperiali: protezione in cambio di unità militari e derrate alimentari.Gao Xianzhi aveva già una grande espe-

3. Che, in realtà, è giusto ribadire, è stato un processo di influenza biunivoco tra le due culture.

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rienza con questa strategia: era lui che qualche decennio prima, infatti, aveva ri-dotto ai minimi termini l’Impero Tibetano alleandosi con tutti i regni circostanti. Il generale, trovandosi nello Anxi, suo gover-natorato, si incamminò a sostegno delle popolazioni del Fergana con l’obiettivo di occupare la Sogdiana. Le popolazioni isla-mizzate non aspettarono l’arrivo di Gao e si organizzarono chiedendo aiuto al go-vernatore di Samarcanda, Ziyad bin Salih. Le fonti in arabo originali4 ci dicono che quest’ultimo si stabilì nei pressi della cit-tadina di Atlakh con circa 200000 uomini (verosimilmente furono circa un quarto). L’esercito al seguito di Gao Xianzhi era composto invece da 30000 effettivi di cui un terzo cinesi e il resto mercenari Kar-luks (cioè turchi nomadi stanziati per lo più a ovest dei monti Altai lungo il baci-no del fiume Irtysh), più 14000 uomini di supporto.5 Questa disparità tra cinesi e mercenari stranieri era normale per l’epo-ca se consideriamo che tradizionalmente anche i romani nel tardo impero hanno attuato lo stesso metodo lungo il confine nord orientale. Dopo cinque giorni di battaglia lungo il fiume Talas, le truppe mercenarie sotto la guida del generale dei Tang cambiarono di schieramento attaccando i cinesi alle spal-le. Il generale riuscì a salvarne solo 2000. Le altre furono trucidate. Questa sconfitta è considerata da molti6 una battaglia decisiva soprattutto perché

segnò la fine del lungo processo di siniz-zazione che stava interessando l’Asia Cen-trale ormai da diversi secoli. Non solo, le popolazioni arabe riuscirono ad acquisire (sia razziando che sfruttando i prigionieri) diversi segreti tecnologici cinesi tra cui la carta e la seta. Per quest’ultimo motivo, la battaglia, seppure ha segnato una sconfitta militare per l’Impero Celeste, rappresentò una vittoria in senso commerciale: lungo le famose Vie della Seta furono costruiti con l’aiuto dei prigionieri cinesi delle vere

e proprie botteghe di fabbricazione del-la carta e tessitura della seta che diedero impulso fondamentale alle arterie com-merciali di tutta l’EurAfrAsia. I rapporti diplomatici tra i due vecchi contendenti ripresero dopo il 751 quando delegazioni degli Abbasidi, che avevano sostituito un anno prima la dinastia Omayyade, iniziaro-no a omaggiare di doni la dinastia Tang per favorirne gli scambi commerciali. Sebbene la sinizzazione politica e culturale dell’A-sia Centrale subì un grande freno, quella

4. Citate in M. E. Lewis, “China’s Cosmopolitan Empire: The Tang Dynasty”, Harvard University Press, 2009, p. 159. 5. B. Hoberman, “The Battle of Talas”, Saudi Aramco World, Settembre-Ottobre, 1982, p. 28. 6. Come da Carrington Goodrich in “A Short History of the Chinese People”, Harper, Rev., New York, 1951, passim.

Nel 751 sembrava chiaro quale tra le culture cinese e islamica avrebbe dominato l’Asia Centrale sebbene tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo ben altri processi culturali e politici entrarono in ballo

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commerciale ebbe un’accelerazione note-vole. Nel 751 sembrava chiaro quale tra le culture cinese e islamica avrebbe dominato l’Asia Centrale7 sebbene tra il diciannovesi-mo e il ventesimo secolo ben altri processi culturali e politici entrarono in ballo.

IL DRAGONE TORNA A GUARDAREA OVEST

Nel diciannovesimo secolo la Cina è stata costretta a subire una serie di trattati, co-siddetti ineguali, che le sottraevano quel-li che oggi chiameremmo asset strategici. Porti lungo la costa, porti fluviali, intere aree ricche di risorse e materie prime, ba-cini idrici e le sorgenti di importanti fiumi, tra cui quelli a sud del Tibet, finiti all’Impe-ro Britannico e quelli della zona dei Sette Fiumi, occupati dall’Impero russo sempre più in espansione. La sinizzazione dell’Asia Centrale sembrava oramai un pallido ricor-do consegnato ai più remoti cassetti della Storia. Senonché, nel secondo dopoguerra la spinta rivoluzionaria del Partito Comu-nista Cinese ha dato nuova vita al cadavere dell’Impero Celeste e, con la crisi dei rap-porti con l’Unione Sovietica della seconda metà del ventesimo secolo, ha aperto la vecchia sfida del “ritorno in Asia Centrale”. In questa maniera, le dispute territoriali tra Cina e Urss erano accese a tal punto che tra le due sponde dell’Amur ci si sparava tra “compagni” spesso e volentieri, ma il vero e più succulento pomo della discordia si trovava invece a est, su un quadrante ge-

ografico che partiva dall’intersezione occi-dentale tra Cina, Urss e Mongolia e finiva dalla parte opposta, a sud, ai confini con l’India (dagli anni ’70 molto vicina all’U-nione Sovietica). La Cina rivendicava per sé il maltorto dei trattati ineguali, vale a dire porzioni di territorio che comprende-vano importanti risorse idriche e posizioni strategicamente importanti per la difesa del territorio della Repubblica Popolare. Il mondo, però, per lo meno nei suoi confini politici, era congelato, stretto nel fragile equilibrio della Guerra Fredda e tra Cina e Urss il clima politico non poteva “scaldar-si” troppo, pena la rottura definitiva del sistema che verso la fine di questo perio-do era diventato tripolare e che si sarebbe risolto in favore del “terzo polo”, quello a stelle e strisce. Curiosa similitudine stori-ca questa del mondo tripolare con il tema delle “Tre Torri” proposto dal presente nu-mero: è tra la fine degli anni ’70 e la prima metà degli anni ’80 (potendosi forse sti-racchiare fino all’87) che queste “tre torri” crescono fino a sovrastare il globo intero; nell’ultimo decennio del diciannovesimo secolo una di esse è crollata per poi rico-struirsi parzialmente nel nuovo millennio; contestualmente (e simbolicamente, se si pensa ai fatti dell’undici settembre 2001) una di esse inizia a vacillare in favore della terza, quella cinese, la cui crescita rallenta a causa di limiti sociali, strutturali e con-giunturali (si pensi all’inesistente classe media che stenta a crescere in numero o alla crisi finanziaria globale).

7. W. Barthold, “Four Studies In History Of Central Asia”, E. J. Brill, Leiden, 1962, pp. 88-89

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Facendo però un passo indietro nella Sto-ria, la Cina inizia a dimostrare un certo interesse nell’Asia Centrale verso la metà degli anni ’808. Pechino, così come tutti i suoi prodotti (commerciali e culturali), era vittima di una sorta di kulturkampf in salsa sovietica che ne impediva dal basso oltre che a livello di élite politiche la dif-fusione su quel territorio. Nonostante la Cina abbia vissuto con una certa soddi-sfazione il crollo dell’Unione Sovietica e l’acquisizione di una propria percezione geopolitica e geoeconomica rinnovata, c’è da considerare che davanti agli occhi del dragone non si prospettavano solo oppor-tunità ma anche importantissime sfide: si erano aperti spazi politici e culturali inim-maginabili e ad approfittarne subito furo-

no tutti quei movimenti di radicalismo di matrice religiosa che facevano leva sul de-siderio di indipendenza rispetto ai vecchi poteri laici considerati “infedeli”. Tiziano Terzani nei suoi libri autobiografici ha rac-contato molto bene la crescita esponen-ziale delle scuole salafite in Asia Centrale, sovvenzionate lautamente dai soliti noti, che hanno caratterizzato tutto il quadran-te di instabilità compreso tra il Mar Caspio e il deserto dei Gobi. La Cina temeva che lo stesso fenomeno che aveva interessato l’A-sia Centrale potesse in una certa maniera causare un effetto domino sullo Xinjiang e sul Tibet. E per molti versi così è stato con la nascita di molti movimenti radicali di ispirazione islamica che hanno trovato terreno fertile e utile rifugio nell’impervia

8. Primi scambi commerciali di rilievo risalgono all’82 a dire il vero e furono riconosciuti solo verso l’86 quando vi fu un processo di riforma della politica di commercio estero. Niklas Swanström, Nicklas Norling, Zhang Li, “China,” in F.S. Starr (a cura di), New Silk Roads: Transport and trade in Greater Central Asia, Central Asia and Caucasus Institute, Washington DC, 2007, p. 386

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zona compresa tra Urumqi (capoluogo del-lo Xinjiang e considerata capitale del Tur-kestan) e Kashgar. Quale soluzione aveva la Repubblica Popo-lare Cinese per anestetizzare e poi debella-re un fermento che stava infiammando le ex-RSS (esclusione fatta per Kazakistan e Turkmenistan) e che la stava minaccian-do direttamente? La soluzione era in uno strumento di diplomazia che Pechino ra-ramente ha conosciuto nella sua millena-ria storia: il soft power. Se fino al 1992 la Cina reclamava praticamente circa il 20% del territorio dell’Asia Centrale, decise di ridurre la contesa a “soli” 34000 km2 con il chiaro desiderio di assicurarsi degli “alle-ati” al suo confine occidentale. Approfit-tando anche della crisi politico-economica della Federazione Russa, la Cina risolse i propri confini con il Kazakistan nel 1994 (un ultimo pezzo nel 1999), con il Kyrgyz-stan nel 1996 e con il Tagikistan nel 2002. In questo periodo nasce uno dei più grandi strumenti di diplomazia mondiale che la Cina ha tutt’ora: la Cooperazione di Shang-hai (SCO, 2001), ispirata proprio dal forum negoziale dello Shanghai Five (1995).

LA COOPERAZIONE DI SHANGHAI: UN PARZIALE RITORNO ALLA (RI)SINIZZAZIONE DELL’ASIA CENTRALE

La creazione della SCO ha contribuito notevolmente a due processi che hanno plasmato l’Asia Centrale così come la pos-siamo vedere e vivere oggi: la distensione

dei rapporti tra l’orso e il dragone e, conse-guentemente, la cooperazione per il con-tenimento dei “tre mali”9 dell’Asia Centra-le (il separatismo, il fondamentalismo, il terrorismo). Per la Cina, la SCO ha invece rappresentato un timido ma importante inizio della (ri)sinizzazione parziale del quadrante centroasiatico. Timido in quan-to in ogni caso la Cina non vuole “pestare le zampe dell’orso” proprio nel suo “giar-dino di casa”. Importante perché, sebbene sia il “giardino di qualcun altro” le ex-RSS rappresentano un’opportunità enorme per l’espansione economica (e quindi politica) cinese – oltre che per l’approvvigionamen-to energetico. Sinizzazione perché è in atto un processo di forte influenza (si vedrà di che tipo) cinese sulle ex-RSS. Parziale per-ché la PRC sicuramente non sta costruen-do templi buddisti o non sta martellando le popolazioni centroasiatiche con un qualche tipo di propaganda ma sta agendo sotto alcuni punti di vista che stanno abi-tuando questi mercati alla presenza cinese. Un qualcosa che solo pensarlo venti anni fa sembrava essere roba da libri di ucronia.Concentrandosi sulle ultime due parole chiave, sinizzazione e parziale, è meritevo-le un’analisi più approfondita che si spera crei, ma non ponga, più domande di quelle a cui riesce a rispondere. Questo percor-so di influenza che la Cina sta svolgendo prende piede da due idee fondamentali: investimenti e commercio. Da queste due idee ne scaturiscono altre di natura etico-politica, di tipo, dunque, qualitativo.

9. Così come indicati dall’art. 6 del trattato costitutivo della SCO.

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Più che cambiare la situazione politica o geopolitica, l’azione della Cina ha profon-damente cambiato lo status quo economi-co di questi Paesi: tra il 2002 e il 2003 il commercio è cresciuto del 300% andando da un miliardo di dollari per anno a 3 mi-liardi. Tra il 2004 e il 2006 è cresciuto del 150%10. Nel 2010 la Cina ha superato la Russia come volume d’affari con le ex-RSS raggiungendo 29 miliardi di dollari11. Nel 2013, quando è stata lanciata da Xi Jinping l’iniziativa Belt&Road (B&R) gli scambi commerciali erano decollati raggiungendo 45 miliardi di dollari nel 201412. Da questi Paesi la Cina prende, come detto, risorse e materie prime13. In cambio la Cina non solo investe in infrastrutture non solo strategi-camente ma anche socialmente utili, ma vende su questi mercati i propri prodotti a basso costo che riescono a soddisfare la domanda del basso stile di vita di queste popolazioni a cui i prodotti non solo euro-pei ma anche turchi, iraniani e russi risul-tano troppo costosi.14 Le ricadute di questa situazione non sono solo prettamente cal-colabili in dollari (quindi, quantitative). Ci sono delle ricadute qualitative: la Cina, es-sendo un attore strutturale fondamentale su questo quadrante sta modificando l’arti-colazione delle tradizionali economie cen-troasiatiche. Per fare un esempio concreto, il Kyrgyzstan ha profondamente modifica-

to la sua economia diventando l’hub attra-verso cui i prodotti cinesi vengono espor-tati in Russia, Asia Centrale e anche Medio Oriente. Questa economia basata sul set-tore dei servizi (import-export) era, prima degli ultimi anni, sconosciuta ai kyrgysi. Tutto ciò ha favorito conseguentemente lo sviluppo di altri settori che influenzano la vita di individui e di interi settori della società: lo studio e l’insegnamento delle lingue straniere e la propensione all’im-prenditoria privata e una certa educazione, certo finora in fase pressoché embrionale, ai principi del liberismo economico.Questa tipologia di sinizzazione ha sicu-ramente portato a livello governativo una certa condivisione dei valori e all’attitudi-ne di politica estera della Cina (per altro non troppo lontana da quelli della Federa-zione Russa) che si riflettono, in sostanza, nei valori della Cooperazione di Shanghai (il cosiddetto Shanghai Spirit). E sia at-traverso i circoli culturali della SCO che con il prezioso lavoro degli Istituti Con-fucio, Pechino sta cercando di diffondere, partendo dalle élites, questi valori verso il popolo nella sua interezza. Questo ha crea-to, tanto nelle élites che nelle popolazioni, una certa spaccatura tra chi vede di buon occhio questo processo e chi invece ne è avverso.Del primo gruppo ne fanno parte sicura-

10. G. Raballand e A. Andrésy, “Why should trade between Central Asia and China continue to expand?,” Asia Europe Journal vol. 5, no. 2, 2007, pp. 235–252. 11. Fonte: Direction of Trade Statistics (DOTS). 12. Ivi. 13. M. Myant e J. Drahokoupil, “International Integration and the Structure of Exports in Central Asian Republics,” Eurasian Geography and Economics, vol. 49, no. 5, 2009, pp. 604–622. 14. Per un elenco di questi prodotti consultare: H.-L.Wu, and C.-H. Chen, “The Prospects for Regional Economic Integration between China and the Five Central Asian Countries,” Europe-Asia Studies, vol. 56, no. 7, 2004, pp. 1069–1070.

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mente diversi oligarchi come Alexander Mashkevich dell’Eurasian National Re-sources Corporation, colosso della metal-lurgia che controlla circa un terzo dell’in-tero valore economico del Kazakistan; si trova anche Vladimir Kim delle Kazakhmys, industrie di rame; la famiglia Salymbekov che controlla i traffici tra il mercato cinese e quello kyrgyso (proprietari del mercato Dordoi di Bishkek); numerosi sono anche i circoli economici uzbechi e turkmeni che vedono di buon occhio questo ritorno cine-se in Asia Centrale. Di contro, esistono dei gruppi “sinofobi” e sono per lo più colle-gati agli ambienti dei circoli religiosi isla-mici (ma solo di alcune sette), ai sindacati, alla piccola imprenditoria, al mondo delle ong e alla “galassia uigura”, vale a dire quei gruppi/associazioni di etnia turca che si battono per l’indipendenza del Turkestan (Xinjiang) e per una islamizzazione della politica dei Paesi centroasiatici. Probabil-mente, risulta in questa sede inutile sot-tolineare il fatto che la lobby sinofila è di gran lunga più potente della seconda.Andando invece sui numeri dei sondaggi, molti credono che la Cina sia in realtà una sfida per l’Asia Centrale, tra cui anche alcu-ni think tank asiatici sono scettici sull’ot-timismo di politica ed economia circa la presenza cinese sul loro territorio15. Sotto-lineano come, ad esempio, non vi sia nella politica una voce che ponga la questione dell’influenza cinese sulla politica interna o su come vi sia una sorta di tabu sull’argo-mento nell’opinione pubblica, sui giornali,

in televisione e di come non si dibatta cir-ca il collasso di interi settori economici a causa dell’arrivo degli investimenti cinesi e si parli solo dei nuovi settori economici emergenti grazie agli investimenti cine-si o, ancora, su come questa sinizzazione, sebbene parziale, possa rappresentare un pericolo per le identità e per le peculiarità secolari delle popolazioni centroasiatiche.

CONCLUSIONI

Quello del ritorno cinese è un fenomeno largamente dibattuto in Asia Centrale e al di fuori di essa. Nella regione la sinofilia e la sinofobia proseguono cammini lon-tani tra loro ma paralleli e, in particolare quest’ultimo, può avere nel lungo perio-do conseguenze sociali importanti perché è un argomento su cui il popolo risulta, a differenza delle élites, ancora molto diviso. Per il momento la Cina non rappresenta un modello politico da seguire in quanto la Russia o la Bielorussia sono attualmen-te i principali punti di riferimento. Anche come “modello di vita” quello cinese è lon-tana dall’essere un punto di riferimento in quanto il modello di vita occidentale rima-ne ancora oggi un mito da inseguire. Anche a livello economico/commerciale inizia ad arrivare il cliché della scarsa qualità dei prodotti cinesi e del “pericolo giallo”. La crescita di quest’onda che finora è più si-noscettica che sinofobica sta stimolando soluzioni discutibili come quelle proposte dai circoli nazionalisti kyrgysi di legaliz-

15. M. Laruelle e S. Peyrouse, “The ‘Chinese Question’ in Central Asia. Domestic Order, Social Changes and the Chinese Factor”, Hurst, Columbia University Press, Londra e New York, 2012, p. 22.

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zare la poligamia in modo da contrastare la perdita di identità etnica e culturale da-vanti alla sempre più massiccia presenza cinese (anche a livello demografico) che va mescolandosi con la popolazione locale at-traverso i matrimoni misti16.Tutto sommato, però, c’è la percezione che la Cina faccia parte della medesima fami-glia euroasiatica (ancora a guida russa, nell’immaginario comune) ma quanto la Cina rappresenti un solido partner stra-tegico o un concorrente militare, una op-portunità economica o una maledizione politica in virtù del suo potere economico, queste sono questioni su cui molti centri studi stanno indagando e stanno cercando di dare risposte fondate e convincenti. La politica centroasiatica, dal canto suo, pare che non sia ancora posta seriamente la do-manda sulla sfida della globalizzazione dei mercati e su come eventualmente rimanere a galla per sopravvivere alla enorme marea cinese. Il dato di fatto è che dopo 1300 anni il dragone ha volto il suo sguardo a ovest e muove e muoverà lì pedine importanti, fermo restando che al di là di un Oceano un’altra “torre” pare aver anch’essa volto lo sguardo a ovest, uno sguardo che la Cina deve controllare con la dovuta attenzione.

Marcello Ciola Associate analyst think tank “Il Nodo di Gordio”

16. S. Peyrouse, “Discussing China: Sinophilia and Sinopho-bia in Central Asia”, in Journal of Eurasian Studies, no. 7, 2016, p. 23.

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uso del mare quale strumento di benessere, prestigio e potere rientra da qualche tempo tra i

pilastri della “Grand Strategy” cinese i cui ambiziosi obiettivi, insieme a quelli di or-dine politico, diplomatico, economico e so-ciale tendono ad essere perseguiti con una “percezione” del tempo diversa da quella occidentale, obiettivi di cui occorre tenere conto per comprendere, con approccio oli-stico, la visione di Pechino.

LA STRATEGIA MARITTIMA “DIFENSIVA” DAL DOPOGUERRA ALLA RIVOLUZIONE CULTURALE

La Repubblica Popolare Cinese nasce il 1 Ottobre 1949 alla fine di una lunga guer-ra civile che determinò gli attuali confini terrestri e marittimi. La componente na-vale dell’Esercito di Liberazione popolare (PLAN) fu costituita nel successivo Maggio

di Manuel Moreno Minuto

LA STRATEGIA MARITTIMA DELLA REPUBBLICA POPOLARE CINESE DA MAO A XI JINPING

Without an aircraft carrier, i will die with my eyelids open. Ammiraglio Liu Huaqing Capo di Stato Maggiore della PLAN 1982-1987

TRAD.Senza una portaerei, morirò con le palpebre aperte. Ammiraglio Liu Huaqing Capo di Stato Maggiore della PLAN 1982-1987

L'

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1950 contando su limitatissime risorse e mezzi ereditati dal governo del Kuomitang. Il primo comandante il Generale Xiao Jing-guang, proveniente dall’Esercito Popolare, operò essenzialmente per la realizzazione degli obiettivi politici della Rivoluzione con un programma volutamente generico e privo di importanti traguardi operativi. Nel 1950 l’URSS inviò in assistenza alla neonata Marina cinese circa 500 consiglie-ri militari (divenuti 2500 nel 19541) che, ol-tre a fornire assistenza tecnica, trasmisero la dottrina strategica della “Young School” sovietica2. Questa scuola di pensiero, nata intorno agli anni venti, confutava la va-lidità strategica di un controllo del mare (Sea Control) realizzato con grandi navi di superficie in favore di una più efficace ne-gazione dell’uso del mare (Sea Denial) ot-

tenuta con mezzi leggeri (es. pattugliatori) o mezzi particolarmente insidiosi come i sottomarini. Una filosofia che aveva una sua ragion d’essere anche nella situazione dell’economia, dell’industria e della can-tieristica navale della Cina e dell’URSS in quei primi anni cinquanta.Nel 1953, anche per gli esiti negativi di un giro ispettivo effettuato da Mao alle strut-ture della PLAN, si ebbe una prima svolta nell’assegnazione delle risorse, che veni-vano rinforzate allo scopo di reagire alle possibili “aggressioni imperialiste” e con-trastare la Marina di Taiwan. I primi pas-si concreti riguardarono l’acquisizione di alcune unità sovietiche compresi quattro sottomarini, due incrociatori ed un cospi-cuo numero di pattugliatori costieri che si affiancarono ad altre forze leggere di pro-

1. Cfr. AA.VV, A modern Navy with Chinese Charateristics, Office of Naval Intelligence, 2009. 2. Questa scuola di pensiero si basava sulla June Ecòle dell’Ammiraglio francese Aube. Cfr. Arne Roksund, The Jeune École: The Strategy of the Weak, Drill, 2007.

Ammiraglio Liu Huaqquing. Fonte: China Defence Blog

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venienza americana3. Da osservare che in questa embrionale forza marittima il perso-nale più qualificato proveniva dai disertori della Seconda Divisione di Difesa Costiera della Marina del Kuomitang. La guerra di Corea non determinò nessun cambiamento strategico nella della dirigenza cinese anco-rata alla visione di Mao, una piccola marina costiera al servizio di un grande esercito di popolo, e come accennato agli oggettivi li-miti economici ed industriali.La fine degli anni cinquanta videro l’avvento del binomio sottomarino atomico-missili a testata nucleare4 quale strumento ideale di rappresaglia strategica per le grandi poten-ze del pianeta. Un ristretto numero di mezzi subacquei e missili prometteva di riequili-brare la sfavorevole situazione strategica della Cina che impegnò ingenti risorse nello sviluppo di questo binomio tecnologico, ve-nendo tuttavia frustata nel 19585 dal rifiuto sovietico di fornire assistenza tecnica.6

Una strategia marittima “difensiva” similare venne adottata anche dall’URSS di Krushov almeno fino all’avvento quale capo della Ma-rina dell’Ammiraglio Sergey Gorshkov fau-tore di un maggiore equilibrio tra forze su-bacquee, forze di superficie e la componente missilistica di lungo raggio7.

Tra il 1960 ed il 1976 i rapporti tra Cina ed URSS si deteriorarono, tanto da causare an-che scontri armati e la possibilità di un con-flitto nucleare8, determinando, tra l’altro, un riavvicinamento politico tra Pechino e Washington. Tale situazione rafforzò il ruolo dell’Esercito, custode del lunghissimo confi-ne sino-russo, a scapito delle già deboli forze della PLAN, nella quale, tuttavia, finalmente entrarono in servizio le prime unità subac-quee a propulsione nucleare dotate di mis-sili balistici a lungo raggio9. La componente subacquea convenzionale raggiunse le 100 unità, aumentò anche il numero di unità di superficie dotate di missili antinave (circa 200). Le componenti della Marina dedicate alla caccia antisommergibili ed alla prote-zione antiaerea10 soffrivano ancora, nono-stante la crescita del budget di un cronico ritardo tecnologico per la perdurante idea che la “guerra del popolo” sarebbe stata vin-ta dalla massa e dalle qualità non-materiali dei “soldati rossi” di Mao piuttosto che dal progresso scientifico. Le lezioni apprese nel corso del breve ma vittorioso scontro navale del Gennaio 1974 con il Vietnam del Sud per il possesso delle isole Paracel non mutarono, inoltre, la postura strategica della dirigenza del tempo.

3. Tali mezzi appartenevano alle dotazioni acquistate dal precedente governo del Kuomitang. 4. Tali unità subacquee sono definite SSBN, ad esse nel tempo di affiancarono anche gli SSGN dotati di missili nucleari di minore portata a traiettoria non balistica. 5. Nello stesso anno la Marina Usa metteva in servizio il suo primo SSBN. 6. Una vicenda simile colpì negli anni sessanta lo sviluppo del primo sottomarino nucleare italiano, fortemente voluto dal Ministro della Difesa Andreotti e rimasto sulla carta per la mancata assistenza tecnica USA. 7. Cfr. Sergey Gorshkov, The Sea Power of the State, Pergamon Press, 1979. 8. La disputa territoriale fu risolta solo nel 1991. Cfr. Michael S. Gerson , The Sino-Soviet Border Conflict Deterrence, Esca-lation, and the Threat of Nuclear War in 1969, CNA, 2010. 9. Il 1 Agosto 1974 il primo sottomarino d’attacco a propulsione nucleare interamente progettato in Cina - Classe Han - entrò in servizio con la PLAN con un ritardo quasi trentennale rispetto ad USA e URSS. 10. Il primo cacciatorpediere dotato di missili (DDG) entrò in servizio solo nel dicembre 1971.

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IL POTERE MARITTIMO NELLA VISIONE STRATEGICA DI LIU HUAQING

La morte di Mao nel settembre 1976 pose fine al decennio della Rivoluzione Cultura-le determinando anche un deciso cambio di rotta nelle politiche militari di Pechino. Le riforme economiche di Deng (Grande Timoniere dal 1980 al 1989) e la sua te-oria del “socialismo con caratteristiche cinesi” consentirono a Pechino in pochi anni di sedere tra le grandi economie del pianeta entrando a far parte della World Trade Organization nel Dicembre 2001. La rivoluzione di Deng ebbe un forte impatto anche sulle vicende marittime della Cina e, sebbene nel 1979 egli enfatizzasse il ruolo di difesa costiera11, di lì a tre anni le cose cambiarono profondamente. Nell’Agosto del 1982 Deng designò quale comandante della PLAN l’Ammiraglio Liu Huaqing, che pur provenendo dai ranghi dell’Esercito (con cui aveva partecipato alla Lunga Mar-cia degli anni trenta) aveva maturato dal 1952 una lunga esperienza nel campo delle costruzioni navali e si era formato presso l’Accademia Navale Voroshilov dell’URSS. Con l’Ammiraglio Liu, oggi considerato il “Padre della Marina”, la PLAN passava dal concetto di “Difesa Costiera” a quello di “Offshore Defence”, termine volutamen-te generico che abbraccia tutte le zone di mare in cui sono presenti interessi cinesi da tutelare. Il quadro strategico originario concepito da Liu era tuttavia delimitato

da due catene di isole poste al largo della Cina. La “ Prima Catena di Isole”, che ab-braccia le Isole Kurili, il Giappone, le isole Ryukyu, le Filippine e l’Indonesia contie-ne, tra l’altro, tutte le zone di mare incluse nella “9 Dash Line” indicata, sin dal 1947, dal Governo del Kuomitang quale demar-cazione dei diritti storici di sovranità del-la Cina12. La “Seconda Catena di Isole” è posta più ad oriente passando dalle Isole Kurili, dal Giappone, dalle Isole Bonin, dal-le Isole Marianne, Palau ed Indonesia (ve-dasi figura). Entrambe abbracciano alcuni stretti strategici per il traffico marittimo ed essendo sottoposte a controllo stranie-ro limiterebbero la libertà di movimento delle forze navali di Pechino. Altra com-ponente del pensiero dell’Ammiraglio fu la stesura di un piano di lungo termine con tre obiettivi temporalmente definiti. Per il 2000 doveva essere raggiunto il pieno controllo delle acque all’interno della Pri-ma Catena di Isole; nel 2020 il medesimo obiettivo si allargava alla Seconda Catena di Isole; mentre, nel 2050, la PLAN avrebbe dovuto operare a livello globale mediante i gruppi da battaglia basati su unità por-taerei. Ad oggi il primo obiettivo appare parzialmente raggiunto ma una visione tanto chiara e lungimirante dice molto sul valore che i cinesi danno alla parola “strategia”. Il successo di Liu, rimasto in carica fino al 1986, non fu solo politico ma anche strutturale: in quel periodo infatti vennero impostate numerose riforme che

11. Cfr. Bernard D.Cole, Reflection on China’s Maritime Strategy: Island Chains and the Classics, National War College, 2012. 12. Tale visione è stata contestata il 12 Luglio 2016 da una sentenza della Corte Permamente di Arbitrato dell’Aja che ha negato l’esistenza di tali diritti storici.

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hanno portato all’attuale assetto organiz-zativo della PLAN. Ultimato il suo incarico fu designato come membro ed infine vice-presidente del CMC13 dove poté esercita-re fino al 1997 una significativa influenza nel bilanciamento dei fondi a favore del-la Marina. Infatti in questo periodo che si avviano alcuni fondamentali programmi per le forze di altura: da quello relativo all’acquisizione della prima portaerei ci-nese e relativo gruppo di volo14, ai quattro incrociatori da 8.000 tonnellate tipo So-vremenny, dai caccia Classe Luhu e Classe Luhai alle fregate Classe Jangwei. In campo subacqueo sotto la dirigenza Liu vennero acquisiti dall’URSS i primi esemplari della Classe Kilo, a propulsione convenziona-le, mentre in patria si impostava la Classe Song, inoltre venivano completati gli SSN Classe Han ed dei nuovi battelli d’attacco Tipo 093-Shang (vedasi riquadro).Il secondo tassello della strategia marit-tima cinese, di matrice più squisitamente civile, venne posto nel corso dei negozia-ti per la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), iniziati nel 1973 e conclusisi nel 1982. Tale trattato fu lo strumento intorno al quale15 si intensifi-carono le dispute16 con Giappone, Vietnam, Filippine e gli altri stati limitrofi. Una posi-zione politica e giuridica rappresentata nel

documento “Law of the People Repubblic of China on its Territorial Sea and Adjacent Zo-nes” del 199217, i cui effetti dirompenti si cominceranno a manifestare circa un ven-tennio dopo.

IL PREMIER XI JINPING E LA NUOVA STRATEGIA MARITTIMA

La lunga permanenza ai vertici dell’Ammi-raglio Liu garantì alla PLAN un decennio di rilevanti investimenti in piena sintonia con le linee politiche del Partito Comuni-sta esplicitate al riguardo nella “National Ocean Policy” del 199818. Il documento, pur non rappresentando ancora una strategia marittima ufficiale, delinea la necessità di uno rafforzamento della protezione degli interessi marittimi nelle zone di sovranità, insieme allo sviluppo economico delle aree costiere e la protezione dell’ecosistema oceanico sviluppando azioni di monitorag-gio, sorveglianza e polizia marittima.L’ascesa al vertice del Partito Comunista nel 1989 di Jang Zemin coincise con il de-clino politico di Liu, una figura ormai sco-moda ed ingombrante per il nuovo Leader che lo esautorò dal CMC sfruttando dei presunti episodi di corruzione riguardanti la sua famiglia19. La Marina si ritrovò in una situazione po-

13. Central Military Commission, massimo organo di direzione politica ed operativa delle forze armate cinesi. 14. La portaerei cinese Liaoning (ex-URSS Varijag) risulta avere effettuato il suo primo pattugliamento nel Mar Cinese Meridionale alla fine di dicembre 2016 dopo un lunghissimo e travagliato approntamento tecnico ed operativo iniziato nel lontano 1998. Cfr. https://www.nytimes.com/2016/12/27/world/asia/south-china-sea-trump.html?_r=0. 15. Zheng Wang, China and UNCLOS: An Inconvenient History: As South China Sea tensions rise, Beijing rethinks its rela-tionship with the UN Convention on the Law of the, http://thediplomat.com/2016/07/china-and-unclos-an-inconvenient-history/. 16. Cfr.https://treaties.un.org/pages/ViewDetailsIII.aspx?src=TREATY&mtdsg_no=XXI-6&chapter=21&Temp=mtdsg3&clang=_en#EndDec.

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litica meno favorevole, ma il vertiginoso aumento del PIL e delle spese belliche per-misero comunque un rafforzamento dello strumento operativo marittimo definito da Jang Zemin come parte della “Grande Mu-raglia Cinese” costituita dalle forze armate di Pechino. Nel 2003 la dirigenza del Parti-to passa a Hu Jintao, il cui approccio politi-co rappresentò una svolta sotto molti punti di vista, non ultimo quello di una maggiore trasparenza nei confronti degli osservatori stranieri. Nel 2004 iniziò la pubblicazione in lingua inglese dei “White Paper” sulla Difesa. Tra I documenti di maggior interes-se strategico vi sono di certo il China’s Na-tional Defense in 2010, The Diversified Em-ployment of China’s Armed Forces (2013), ed il China’s Military Strategy (2015). Ognuno di essi permette di capire le logiche che stanno guidando il rafforzamento delle forze armate cinesi, ma anche la visione del mondo che Pechino intende proporre ad alleati e competitor. In particolare, nel 2010 il compito della PLAN era in linea con gli obiettivi della Offshore Defence Strategy, mentre nel 2013 veniva enfatizzato il ruolo di tutela della sicurezza marittima e degli interessi di sovranità grazie allo sviluppo di capacità d’altura (blue-water) per con-

durre tutti i tipi di operazioni, dalla deter-renza strategica con sottomarini al contra-sto alle minacce asimmetriche20. Un’importante, sebbene non inaspettata, evoluzione nella policy marittima, tutta-via, si realizza con l’arrivo del nuovo leader Xi Jinping che, nel Luglio 2013, utilizza nel corso di un congresso del partito comuni-sta il termine di “jinglue haiyang” ovvero uso strategico del mare21. Un concetto che in mandarino indica l’abilità di determina-re gli avvenimenti marittimi in tempo di pace: un chiaro richiamo alla futura asser-tività di Pechino in tutte le pendenti que-stioni di sovranità nei mari della Cina.Nel settembre dello stesso anno il leader lancia l’idea della “Nuova Via della Seta”, un corridoio infrastrutturale marittimo e terrestre volto a rafforzare il legame eco-nomico tra Pechino, l’Europa, l’Africa ed i paesi del Golfo Persico. Nel 2015 la visione diventa, per queste ragioni, più raffinata riprendendo i classici canoni del potere marittimo che legano insieme forza mi-litare e potere economico. La Cina, con-sapevole che sta acquisendo il mare nella persecuzione dei suoi interessi nazionali sente di essere più vulnerabile alle crisi ed all’instabilità internazionali in particolare

17. Cfr. http://www.un.org/depts/los/LEGISLATIONANDTREATIES/PDFFILES/CHN_1992_Law.pdf 18. Cr. Bernard D. Cole, Op.Cit. 19. Cfr. http://www.washingtonpost.com/wp-srv/politics/special/campfin/stories/cf052098b.htm 20. The PLA Navy (PLAN) is China’s mainstay for operations at sea, and is responsible for safeguarding its maritime security and maintaining its sovereignty over its territorial seas along with its maritime rights and interests. The PLAN is composed of the submarine, surface vessel, naval aviation, marine corps and coastal defense arms. In line with the requirements of its offshore defense strategy, the PLAN endeavors to accelerate the modernization of its forces for comprehensive offshore operations, develop advanced submarines, destroyers and frigates, and improve integrated electronic and information systems. Furthermore, it develops blue-water capabilities of conducting mobile operations, carrying out international cooperation, and countering non-traditional security threats, and enhances its capabilities of strategic deterrence and counterattack. 21. Termine già proposto dall’Ammiraglio Liu in alcuni suoi scritti. Cfr.http://www.realcleardefense.com/articles/2015/06/02/a_salt_water_perspective_on_chinas_new_military_strategy_107997.html.

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quelle che riguardano le aree di accesso alle fonti energetiche e le rotte del com-mercio marittimo. Alla PLAN viene chiesto di evolversi dalla Offshore Water Defence ad una più ampia capacità di Open Seas Protection22, incardinata su quattro obiet-tivi strategici: protezione della “sovranità territoriale”, salvaguardia dei “diritti ma-rittimi”, riunificazione della Madrepatria, tutela della sicurezza dello sviluppo eco-nomico. Obiettivi, peraltro, in linea con la visione di Liu Huaqing la cui figura è stata onorata dallo stesso Xi Jinping nel corso di un convegno nello scorso settembre23.Di rilievo l’approvazione, nel maggio del-lo scorso anno, del 13° Piano di Sviluppo Quinquennale dove si richiama la neces-sità dell’approvazione di una Strategia Marittima omnicomprensiva che abbracci cioè gli aspetti civili sopratutto per lo svi-luppo economico, quelli più prettamente legati alle attività di tutela della sovranità (polizia marittima) e quelli strettamente militari come la riunificazione di Taiwan. Questo documento si dovrebbe quindi af-fiancare ai White Paper militari, delinean-do una politica marittima di ampio respi-ro in cui tutte le componenti dello Stato Cinese dovranno contribuire all’esercizio del potere marittimo24. Il coinvolgimento

delle organizzazioni civili in temi che nel passato rientravano nella sola sfera mili-tare era tuttavia già iniziata con la grande riforma del 2013 di Hu Jintao, che unificò tutte le forze di polizia costiere sotto la re-sponsabilità di un’unica amministrazione la “State Oceanic Administration” che ha la responsabilità operativa (economica, am-bientale, legale) su tutte le acque di perti-nenza di Pechino.

CONCLUSIONI

La strategia marittima cinese, nei suoi aspetti essenziali non rappresenta una vera novità, essendo caratterizzata da elementi costitutivi già presenti in quelle delle grandi potenze marittime del passato (Regno Unito) e del presente (USA). In par-ticolare, l’uso del mare quale elemento di potere politico ed economico è facilmente riconducibile ai classici pensatori del Pote-re Marittimo, da Mahan a Corbett. Tutta-via ciò che colpisce è la voluta ambiguità cinese (elemento sicuramente originale): ad un rafforzamento delle organizzazione militare si è accompagnato per oltre un ventennio, da Deng Xiaoping fino a Jang Zemin, una costante tentativo di evitare scontri politico/militari di livello elevato.

22. With the growth of China’s national interests, its national security is more vulnerable to international and regional turmoil, terrorism, piracy, serious natural disasters and epidemics, and the security of overseas interests concerning energy and resources, strategic sea lines of communication (SLOCs), as well as institutions, personnel and assets abroad, has become an imminent issue.n line with the strategic requirement of offshore waters defense and open seas protection, the PLA Navy (PLAN) will gradually shift its focus from “offshore waters defense” to the combination of “offshore waters defense” with “open seas protection,” and build a combined, multi-functional and efficient marine combat force structure. The PLAN will enhance its capabilities for strategic deterrence and counterattack, maritime maneuvers, joint operations at sea, comprehensive defense and comprehensive support. 23. http://news.xinhuanet.com/english/2016-09/28/c_135720748.htm 24. Una policy simile è stata adottata dal Consiglio dell’Unione Europea con il documento European Union Maritime Security Strategy. Cfr https://register.consilium.europa.eu/doc/srv?l=EN&f=ST%2011205%202014%20INIT.

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Tipo

Caccia

Caccia

Caccia

Fregata

Sottomarino d’attacco a propulsione convenzionale

Sottomarino d’attacco a propulsione convenzionale

Sottomarino d’attacco a propulsione nucleare

Sottomarino d’attacco a propulsione nucleare

Classe

Sovremenny

Luhu 052

Luhai 051B

Jangwei 053 H

Kilo Project 636

036 song

091 Han

093 Shang

Dati caratteristici

Dislocamento 8500 Tonnellate, Lunghezza 155 metri, Velocità 32 nodi, Equipaggio 290 uomini.

Dislocamento 4900 Tonnellate, Lunghezza 145 metri, Velocità 32 nodi, Equipaggio 230 uomini.

Dislocamento 6800 Tonnellate, Lunghezza 153 metri, Velocità 29 nodi, Equipaggio 250 uomini.

Dislocamento 2500 Tonnellate, Lunghezza 112 metri, Velocità 27 nodi, Equipaggio 170 uomini.

Dislocamento 3000 Tonnellate, Lunghezza 74 metri, Velocità 25 nodi, Equipaggio 52 uomini.

Dislocamento 2300 Tonnellate, Lunghezza 75 metri, Velocità 22 nodi, Equipaggio 60 uomini.

Dislocamento 5600 Tonnellate, Lunghezza 98 metri, Velocità 25 nodi, Equipaggio 75 uomini.

Dislocamento 6000 Tonnellate, Lunghezza 100 metri, Velocità 30 nodi, 100 uomini.

Note e Armamento

Unità Russe di elevate capacità antiaree con i missili SA-7, antinave con i missili SS-N22 ed antisom.

Progetto cinese con assistenza europea ed americana. Spiccate caratteristiche multiruolo con missili Yj1 e HQ-7 ed armamento antisommergibile.

Progetto cinese con assistenza francese, russa e tedesca. Dot-azione di missili C-802 e HQ-7 Crotale. Imbarcano anche armi antisommergibile.

Unità con armamento di artiglieria e missili a vocazione antiaerea ed antinave di proget-tazione cinese.

Unità Russe particolarmente performanti in termini di occul-tamento subacqueo. Imbarcano siluri e mine.

Progetto cinese con assistenza francese. Possono lanciare missili a guida inerziale YJ-8 e siluri Yu4.

Progetto cinese con assistenza tecnica straniera. Possono lanciare missili a guida inerziale C-801. Imbarcano siluri e mine.

Derivati dagli SSN Russi Classe Victor III. Sono armati con Siluri e Missili da crociera.

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Questa ambiguità è stata in parte messa alle spalle a partire dal 2013 con la riforma della State Oceanic Administration e la defi-nizione ufficiale di una strategia marittima sempre più chiara ed assertiva volta a tu-telare gli interessi ed i (dichiarati) diritti di sovranità di Pechino in ampie zone del Mar Cinese. Una chiarezza accompagnata, nel corso del 2016, da alcune “sottolineature”, come il sequestro in acque internazionali di un veicolo subacqueo da ricerca della US Navy. Difficile pensare nell’immediato futuro ad un conflitto deliberatamente vo-luto da Pechino, ma una pericolosa (ed ac-cidentale) escalation può sfuggire di mano agli stessi decisori. L’interesse strategico cinese per il prossimo decennio si incen-trerà sul mantenimento della stabilità

economica e sul rafforzamento del proprio strumento militare (ancora troppo lontano dai livelli di forza congiunti di USA, Giap-pone, Corea) in attesa di un riequilibrio strategico generale che molti osservatori ritengono ormai inevitabile.

Manuel Moreno MinutoComando Flottiglia SommergibiliServizio Addestramento Capo Reparto Operazioni

La "Nuova Via della Seta" del Premier Xi Jinping

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a strategia perseguita dalla Cina nell’ultimo decennio, nota con il nome di “strategia del filo di

perle”, si prospetta come un’inquietante e silenziosa manovra di espansione del “gi-gante asiatico” nel delicato quadro geopo-litico dell’Asia sud-orientale. Ricalcando le teorie di Mahan sulla strategia marittima, essa prevede il rafforzamento delle rela-zioni politiche e commerciali con i Paesi della fascia costiera che va dal Mar Rosso sino all’Indocina, attraverso opere infra-strutturali realizzate in compartecipazio-ne tra aziende cinesi a capitale privato o pubblico e partner dello Stato interessato. Un dato interessante è che la realizzazione di queste infrastrutture è attuata in locali-tà di rilevante importanza geo-strategica, convalidando le ipotesi degli osservatori di una politica perseguita da Pechino a soste-gno della propria economia oltre che della sicurezza energetica e militare.

di Antonciro Cozzi

LA STRATEGIA CINESEDEL “FILO DI PERLE”

Chi domina sul mare, domina sul commercio. Chi domina sul commercio mondiale domina sulle risorse mondiali e, di conseguenza, domina sul mondo intero.

Sir Walter Raleigh navigatore, corsaro e poeta britannico del XVI secolo.

L

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Come scrive Paolo Sellari nel suo saggio “dal 1990 in poi, in seguito allo spostamento del fulcro produttivo mondiale da Ovest verso Est, da Occidente ad Oriente, i traffici marit-timi, attraverso cui si sviluppano oltre i due terzi del commercio mondiale, si concentra-no per la gran parte proprio negli immensi porti container distribuiti tra la penisola di Malacca e le coste del Mar Cinese”1 . Da qui l’attivismo cinese in campo marittimo e la strategia del “filo di perle”, l’ambiziosa ma-novra per consolidare la propria egemonia sui Paesi della fascia costiera asiatica. E’ in atto un “Grande Gioco Eurasiatico” e la Cina vuole esserne il principale attore. Pe-chino, spinta dal suo crescente fabbisogno di materie prime, sta cercando di stringere rapporti privilegiati con i Paesi in grado di soddisfarlo. Analizzando i diversi punti, si evince che

i vantaggi economici sono equamente di-stribuiti tra i Paesi cointeressati. Ogni Sta-to coinvolto beneficia di moderne infra-strutture e un’organica rete di servizi, oltre ad un cospicuo flusso finanziario, mentre la Cina ottiene appalti sicuri per le proprie aziende e condizioni agevolate per l’acces-so alle strutture stesse.La politica del “filo di perle” costituisce uno dei cardini della progressiva crescita dell’influenza cinese in Asia, del rapporto tra Pechino e i cosiddetti “stati canaglia” e la modernizzazione delle forze arma-te cinesi. La Cina vuole rivestire un ruolo preminente nel quadro dell’odierno ordine internazionale. I rapporti intessuti con il Myanmar e lo stesso Pakistan, con la pre-rogativa di non avere alcun interesse cir-ca le questioni interne degli stati con cui collabora, sono una valida alternativa alla

1. P. Sellari, “Geopolitica dei Trasporti”, Laterza ed., 2013

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politica degli Stati Uniti e dell’Unione Eu-ropea, che vincolando i propri investimenti al rispetto dei diritti umani e della traspa-renza della governance nazionale, vedono indebolita la loro posizione. Infine, il mas-siccio ammodernamento dell’esercito e so-prattutto della marina, potrebbe sfruttare il “filo di perle” come un “cavallo di Tro-ia” per la creazione di una serie di “teste di ponte” nell’Oceano Indiano, utili per sostituirsi progressivamente nel controllo che, in questo mare, è oggi appannaggio dell’India e degli Stati Uniti. La silenziosa espansione di Pechino in questo mare si sta concretizzando negli ultimi anni insediando propri capisaldi strategici sia dal punto di vista economico-commerciale che militare, nei porti della Thailandia, in quelli birmani di Bassein e Akyab, nelle Isole Coco (le isole Andamane birmane), nel porto di Chittagong in Ban-gladesh oltre che in quello di Gwadar nel Beluchistan pakistano.Questa strategia permette alla Cina di usu-fruire di una rete portuale lungo la dina-mica rotta commerciale che si snoda tra il Canale di Suez e lo Stretto di Malacca, attraverso la quale transita circa il 40% del commercio globale. In particolare gli approvvigionamenti energetici che copro-no oltre 2/3 del fabbisogno di Cina e Giap-pone. In questa ottica il porto pakistano di Gwadar, per la cui realizzazione la Cina ha investito più di 400 milioni di dollari Usa, ha una triplice funzione: da un lato, con il completamento delle recenti e imponenti opere viarie, facilita l’esportazione di beni prodotti in Asia centrale, Afghanistan e

Cina occidentale, e di contro, costituisce il punto di partenza di un corridoio energe-tico, che bypassando lo Stretto di Malac-ca, mette in contatto diretto il Mar Rosso con la regione cinese dello Xinjiang , con un risparmio in termini di tempo e costi, evitando inoltre il rischio di attacchi ter-roristici o blocchi della navigazione che, in caso di conflitti internazionali, la con-formazione geografica dello Stretto po-trebbe favorire. Il Pakistan di suo conto, ha spostato i flussi di merci, che in passato confluivano per il 90% al porto di Karachi, troppo vicino all’India e passibile di bloc-chi navali in tempi di crisi. Inoltre le per-le di questo filo, rappresentate dai porti di Akyab e Sitwe in Myanmar e di Gwadar in Pakistan e di Hambantota in Sri Lanka, consentono alla Cina di accerchiare l’India, uno degli attuali custodi di quest’area ma-rina, garantendole nel contempo i diritti di navigazione nell’Oceano Indiano e la pro-tezione delle petroliere che provengono dai Paesi Arabi. Un altro tassello della po-litica espansionistica cinese è il progetto e il finanziamento della costruzione di un canale lungo l’istmo di Kra , che collega la Malaysia al Ranong Thailandese. Il canale metterebbe in comunicazione il golfo del-la Thailandia con il Mar delle Andamane, bypassando lo stretto di Malacca e ridu-cendo di circa 1500 miglia la rotta marit-tima. Al progetto del canale è collegato il Southern Strategic Energy Land Bridge, un condotto petrolifero. Quest’opera faraoni-ca, del costo di circa 30 miliardi di dollari, garantirebbe di neutralizzare le possibili minacce indiane del blocco dello Stretto e

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comporterebbe ingenti benefici politico-economici per i Paesi del Pacifico.Un’altra “perla” di rinomato valore è lo Sri Lanka, la cui posizione strategica è in linea con l’asse che collega lo stretto di Malacca con il Mar Arabico. Nell’area meridionale dell’isola si trova il porto di Hambantota, distrutto dallo tsunami del 2004, ma at-tualmente in ricostruzione con un proget-to di 800 milioni di dollari, finanziato per l’85% del costo complessivo da Pechino. La cooperazione con Ceylon non si è limitata alla sola ristrutturazione delle opere por-tuali, ma anche alla realizzazione di nuove tratte ferroviarie e la fornitura di equipag-giamenti bellici che hanno permesso al go-verno di Colombo di fronteggiare i ribelli Tamil sostenuti dall’India. Oggi il “filo di perle”, partito dal Mar Ci-nese meridionale, è arrivato, attraverso il Mar Rosso, sino al Mediterraneo orientale. La penetrazione cinese nel Mediterraneo è iniziata il 3 ottobre 2010, quando Pechino ha stretto una partnership strategica con la Grecia che prevedeva la concessione di parte del porto del Pireo a una società ci-nese, rendendo in tal modo lo scalo greco uno dei principali centri per il commercio tra Asia ed Europa. Il Pireo, situato nel Me-diterraneo orientale, è una nuova testa di ponte per la lenta ma progressiva politi-ca di espansione strategica ed economica della Cina anche nei mari occidentali. Il recente soggiorno del Presidente della Re-pubblica Cinese, Xi Jinping, in Sardegna, potrebbe significare l’apertura di nuovi scenari. Il porto di Cagliari è infatti collo-cato sulla linea immaginaria di quel filo di

perle che da Oriente si muove verso Occi-dente, affacciandosi sul Canale di Sarde-gna, porta di accesso, controllo e transito nel Mediterraneo occidentale e ponte na-turale verso Gibilterra e l’Atlantico.Come afferma il generale Fabio Mini “…in meno di venti anni e senza sparare un col-po di fucile la Cina ha acquisito il controllo di risorse che gli altri paesi, quelli cosiddetti civili e anche democratici, avevano acquisito con la colonizzazione, la schiavitù, le guerre di preda e le devastazioni sociali e umane”.2

Antonciro CozziAssociate Analyst “Il Nodo di Gordio”

2. PeaceReporter, “Intervista a Fabio Mini”, 2010

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La Muraglia infinita

diventato il primo mercato mon-diale dell’auto nel 2016, supe-rando non solo gli Stati Uniti,

ma anche l’intera area Nafta (Usa, Canada e Messico) e staccando nettamente l’Euro-pa, ma la Cina non si accontenta. E Fabrizio Giugiaro, figlio del grande stilista di auto Giorgetto Giugiaro, assicura che Pechino sta preparando una grande rivoluzione nel mondo delle quattro ruote. Ci sarà una svolta epocale – spiega – perché il gover-no ha deciso di puntare sull’auto elettrica, favorendo esclusivamente le tecnologie locali ed i tantissimi brevetti militari che saranno adattati ad un uso civile. “Presto – aggiunge Giugiaro che, con il padre, è im-pegnato a disegnare nuove vetture di pre-stigio per i costruttori cinesi – le nuove im-matricolazioni saranno riservate alle auto elettriche”. Dunque non si potranno più vendere in Cina vetture diesel o a benzina.Ma Giugiaro prospetta anche un successivo

di Augusto Grandi

LA CINA ARRIVA IN EUROPA SULL’AUTO ELETTRICA

Moda, arte, motori: da Pechino sfida a tutto campo

È

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scenario, da qui a 10 anni, con una massic-cia esportazione di auto elettriche cinesi verso l’Europa. Che è in ritardo su questo fronte. Ci sono già Paesi europei che stan-no pensando al divieto di immatricola-re vetture diesel nei prossimi anni, ma la conversione generalizzata verso le auto elettriche è lontana. Soprattutto in Italia, dove le strategie del costruttore – non più nazionale e diventato olandese, inglese ed americano – hanno imposto alla rete di ri-fornimento di puntare sullo sviluppo del metano e del Gpl. Una scelta che rischia di costare molto cara agli automobilisti ita-liani che potrebbero ritrovarsi con difficol-tà di rifornimento all’estero.La Cina, invece, può marciare sicura verso l’elettrico grazie alla forza dei numeri. Con immatricolazioni che ogni anno superano abbondantemente i 20milioni di auto nuo-ve, è in grado di condizionare le strategie di ogni costruttore che voglia essere pre-sente sul mercato del grande Paese asia-tico. E se i grandi costruttori mondiali, da Toyota a Volkswagen a GM, dovranno pro-

durre milioni di vetture elettriche per i ci-nesi, anche solo per ragioni di convenienza economica proporranno le medesime mo-torizzazioni anche sui mercati degli altri Paesi. Quanto allo stile, la Cina si è rivolta a Giorgetto Giugiaro – insignito nel 1999, a Las Vegas, del premio come miglior stilista auto del secolo da una giuria di 120 esper-ti internazionali e con alle spalle successi come la Giulia Sprint, la Panda, la Punto, la Uno, la Mini, la Golf, la Scirocco ma anche auto per gruppi asiatici – proprio per poter offrire modelli di auto gradevoli e affasci-nanti per un pubblico mondiale. E Giugiaro non è l’unico stilista torinese che lavora per i costruttori cinesi. Senza dimentica-re che stilisti cinesi hanno aperto sedi di design dell’auto proprio a Torino, per uno scambio continuo di idee e di progetti.Da un lato, dunque, la forza della meccani-ca, degli ingranaggi, dei motori. Dall’altra la leggerezza dello stile, della moda, della bellezza. Non solo nell’auto. Cristiano De Lorenzo, direttore di Christie’s Italia, in un incontro organizzato da Tosetti Value

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ha ricordato che nella Top 20 delle Case d’asta mondiali figurano 7 case cinesi. Ed i collezionisti del Paese asiatico acquistano sempre più opere d’arte contemporanea e sono diventati i principali compratori di arte impressionista e moderna. Non a caso è stato un magnate cinese ad acquistare da Christie’s, per 170 milioni di dollari, un nudo di Modigliani, stabilendo un record mondiale nel settore. E l’opera è stata de-stinata al proprio museo privato, immenso, di Shangai.“L’arte nella storia – sostiene Dario Toset-ti, presidente ed amministratore delegato della Tosetti Value – ha sempre avuto un ruolo molto importante (perché l’arte se-gue il denaro) e l’attenzione che le sta prestando la Cina è un segnale per tutti”. E l’arte va intesa in vari modi. Non solo le tele dei pittori europei che hanno conqui-stato gli appassionati cinesi, ma anche lo stile di Pechino nella moda che sta impo-nendosi anche in Francia ed in Italia, stori-che patrie della moda mondiale. Le casac-che “alla Mao” sono ormai un lontanissimo ricordo. Ora gli stilisti in arrivo da Oriente impongono tessuti, tagli, colori. Che non sono quelli delle varie China Town presen-ti all’estero, ma sono quelli delle sfilate più famose, degli atelier sparsi nei quartieri più eleganti delle città. Senza trascurare l’abbigliamento casual o quello sportivo. Basti ricordare che all’ini-zio degli Anni Duemila un operatore cinese ha acquistato, solo per il mercato locale, il marchio Kappa della Basic Net che invece, in altri 120 Paesi, conserva la proprietà del marchio e lavora attraverso licenziatari.

Ancora una volta, dunque, stile italiano e potenza dei numeri cinesi. Marco Boglio-ne, fondatore e presidente di Basic Net, sottolinea come, in soli due anni, in Cina siano stati aperti 4.500 centri commercia-li, ciascuno con un piano intero dedicato all’abbigliamento casual e sportivo, con 60 botteghe a marchio da riempire. Un merca-to affamato di prodotti, tanto è vero – assi-cura Boglione – che nel loro sistema com-merciale non esiste la parola “rimanenze”, perché tutto viene venduto. Ciò che, invece, viene venduto poco è il vino italiano in Cina. Non per una caren-za di attenzione da parte dei consumato-ri locali, ma per le carenze dei produttori italiani sul fronte del marketing. Gaia Gaja, export manager dell’azienda di famiglia guidata da Angelo Gaja, racconta che molti cinesi chiamano il vino di qualità sempli-cemente “lafite”. E questo perché il Lafite è il vino francese che appare nelle soap opere cinesi. Ed la regina del mercato del vino in Cina è sempre la Francia, la prima ad affacciarsi nel Paese asiatico con i suoi Bordeaux. L’Italia ha enormi potenzialità, anche grazie all’utilizzo di Alibaba per le vendite online. Ma i produttori del Bel Pae-se non sfruttano adeguatamente la presen-za delle comunità cinesi in Italia e neppure la crescente passioni di chef cinesi per la cucina italiana.

Augusto GrandiSenior fellow think tank “Il Nodo di Gordio”, Giornalista de “Il Sole 24 Ore”

@augusto_grandi

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138 L’“ATLANTICO ORIENTALE” GLI USA NON POTRANNO FARE A MENO DEL GIGANTE ECONOMICO EURO- MEDITERRANEO di Daniele Lazzeri

142 LEGGERE FRIEDMAN NEL 2016: CAPITALISMO, LIBERTÀ E LA SFIDA DELLA CINA di Amanda Schnetzer

TRANSATLANTICOUTLOOK

98 LE LEZIONI DI HENRY KISSINGER di Jeffrey Goldberg

115 RICHARD PERLE: “CON TRUMP, TENSIONI TRA USA E CINA. L’EUROPA? UN’UNIONE DOGANALE”.

a cura della Redazione

118 STATI UNITI D’AMERICA: POTERI E LIMITI PRESIDENZIALI di Vittorfranco Pisano

125 LA NATO COMBATTERÀ? E PER COSA? I Paesi Baltici e l’Alleanza Atlantica di Stephen Bryen

132 THE FIELD OF FIGHT di Daniele Capezzone

In questa sezione:

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Dalla sua Trump Tower, la nuova Amministrazione USA guarda agli

scenari globali con occhi diversi

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ota dell’autore (10 novembre, 2016): Negli ultimi mesi, ho intervistato diverse volte l’ex

Segretario di Stato sul ruolo dell’America nel mondo. Le nostre conversazioni hanno avuto luogo prima dell’elezione di questa settimana, ma sono state imperniate sulle differenze di veduta dei candidati in tema di politica estera. Il numero di dicembre 2016 dell’Atlantic riporta il mio articolo su queste conversazioni, insieme alle nume-rose interviste su argomenti che spaziano dal futuro della Russia, all’ascesa della Cina, e al caos in Medio Oriente.

Il mercoledì, mentre il paese e il mondo in-tero si apprestavano ad assorbire il colpo della vittoria di Donald Trump, ho sentito al telefono Kissinger per raccogliere le sue impressioni all’indomani delle elezioni. Egli già prevedeva che altre nazioni, in par-ticolare le grandi potenze, avrebbero fatto

N

di Jeffrey Goldberg - The Atlantic

LE LEZIONI DI HENRY KISSINGERIl leggendario e controverso statista critica la Dottrina Obama, parla delle principali sfide che dovrà affrontare il prossimo Presi-dente, e spiega come evitare una guerra con la Cina.

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uno studio approfondito per capire come reagire alla presidenza Trump. A suo pare-re, lo Stato Islamico, o altre organizzazioni jihadiste simili, avrebbero potuto, a breve, mettere alla prova Trump lanciando attac-chi intesi a provocare una reazione (o, ag-giungeva, una reazione esagerata).“Gruppi non statali potrebbero ritenere che la reazione di Trump a un attacco ter-roristico potrebbe rispondere ai loro sco-pi”, disse Kissinger.Qui di seguito, si riporta la trascrizione della nostra breve conversazione seguita dall’articolo completo.

Jeffrey Goldberg: Sorpreso?Henry Kissinger: Pensavo avrebbe vinto Hillary.JG: Che cosa significa questo per il ruolo dell’America nel mondo?HK: Potrebbe essere un modo per garan-tire coerenza tra la nostra politica estera e

la situazione interna. Ovviamente, esiste un divario tra la percezione dell’opinione pubblica e quella dell’élite sul ruolo della politica estera statunitense. Penso che il nuovo Presidente abbia l’opportunità di riconciliare le due percezioni. Un’opportu-nità che tocca a lui cogliere.JG: Confida maggiormente nelle compe-tenze o nella serietà di Trump? HK: E’ una questione che non dovremmo più discutere. E’ il Presidente eletto. Dob-biamo dargli la possibilità di maturare la sua filosofia.JG: Pensa di aiutarlo?HK: Non sarò io a prendere contatti, ma mi sono comportato così con tutti i Presidenti da quando ho lasciato il mio incarico. Se mi chiede di incontrarlo, lo farò. JG: In seguito a questa elezione, cosa la preoccupa maggiormente in termini di sta-bilità globale?HK: Che i paesi stranieri possano rimanere

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scioccati. Detto ciò, lascerei aperta la pos-sibilità di nuovi dialoghi. Se Trump dice al popolo americano “Questa è la mia filosofia di politica estera” e alcune delle sue politi-che non sono identiche a quelle precedenti ma condividono gli stessi obiettivi di base, allora è possibile che ci sia continuità.JG: Come reagirà la Cina?HK: Sono abbastanza fiducioso che la Cina reagirà valutando le proprie opzioni. E im-magino che anche la Russia reagirà allo stesso modo.JG: Pensa che Trump sia un apologeta di Putin?HK: No. Credo che ci sia stata una certa re-torica perché Putin, tatticamente, ha detto delle buone parole sul suo conto e, di con-seguenza, Trump si è sentito in dovere di rispondere.JG: Non pensa che la loro relazione sia sta-ta in alcun modo preconfezionata? HK: No.JG: Quindi, non è prevedibile che a breve la Russia tragga vantaggio da questa situa-zione?HK: E’ più probabile che Putin aspetti per vedere come evolve la situazione. La Rus-sia e gli Stati Uniti interagiscono in aree in cui nessuno di noi controlla tutti i fattori in gioco, come ad esempio l’Ucraina e la Siria. E’ possibile che alcuni attori di que-sti conflitti si sentano più liberi di agire. Putin, quindi, aspetterà per valutare quali sono le sue opzioni. JG: E’, dunque, probabile che ci sia una maggiore instabilità.HK: Farei un’affermazione d’ordine gene-rale: Credo che negli ultimi sei-nove mesi

gran parte della politica estera sia rimasta in sospeso, in attesa del risultato delle ele-zioni. Si sono solo limitati a guardare il no-stro paese alle prese con una rivoluzione domestica nazionale e la vorranno studiare per un po’ di tempo. A un certo punto però, gli eventi imporranno nuovamente una de-cisione. La sola eccezione a questa regola potrebbe essere rappresentata dai gruppi non statali, i quali potrebbero essere inco-raggiati a provocare una reazione ameri-cana che pregiudichi la nostra posizione a livello mondiale.JG: La minaccia dell’ISIS si farebbe più se-ria ora?HK: I gruppi non statali potrebbero ritene-re che Trump reagirà a un attacco terrori-stico secondo modalità che servono ai loro scopi.JG: Come risponderà l’Iran?HK: L’Iran probabilmente riterrà, giusta-mente, che l’accordo nucleare ne esca più fragile rispetto al passato; nel frattempo studierà Trump e dimostrerà grande riso-lutezza, nonostante le pressioni. Nessuno sa molto della sua politica estera, quindi ci sarà un periodo di studio, o sarebbe meglio dire, “di studio frenetico”.JG: Secondo lei, perché è accaduto tutto ciò?HK: Il fenomeno Trump è in larga parte una reazione della classe media americana più conservatrice agli attacchi ai propri va-lori da parte della comunità accademica e intellettuale. Ci sono altre motivazioni, ma questa è significativa.JG: Che consiglio darebbe a Trump su come presentarsi al mondo?HK: Innanzitutto, dovrebbe dimostrare di

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essere in grado di far fronte alle sfide in atto. Secondo, che sta riflettendo sulla loro evoluzione. Il Presidente ha la responsa-bilità ineluttabile di fornire orientamenti: Cosa vogliamo raggiungere? Cosa voglia-mo impedire? Perché? Questo richiede analisi e riflessione.

LE LEZIONI DI HENRY KISSINGER

Nella primavera scorsa, poco dopo la pub-blicazione nell’Atlantic del mio articolo “The Obama Doctrine” sulla politica estera del Presidente, venni a sapere che Henry Kissinger, l’ex Segretario di Stato, e il pro-tagonista della politica estera americana più importante e controverso degli ulti-mi decenni (o forse di sempre), non aveva mancato di esprimere, a conoscenze co-muni, il suo pensiero critico sull’articolo e sulla gestione di Obama degli affari esteri. Chiamai Kissinger, ansioso di conoscere il suo pensiero. In quel momento appari-va spesso come cammeo nella campagna presidenziale — il Senatore Bernie Sanders aveva recentemente criticato aspramente Hillary Clinton durante un dibattito dei Democratici al fine di guadagnarsi l’ap-provazione di Kissinger — e volevo anche sentire cosa pensasse della singolare cam-pagna elettorale.In effetti, Kissinger aveva molto da dire e gli suggerii di incontrarci per una conver-sazione registrata. Nonostante i suoi 93 anni, resta immutato il suo desiderio di convincere la gente che lui ha essenzial-mente ragione. Ha accettato di concedere l’intervista quasi immediatamente espri-

mendo, però, richieste e ponendo delle condizioni eccessive per la presentazione in pubblico della nostra conversazione. Mi ha anche chiesto se l’articolo della nostra intervista sarebbe stato pubblicato rispet-tando la stessa lunghezza – più di 19.000 parole — del mio articolo originale sul Presidente Obama. “Dottor Kissinger” gli ho detto, “si trattava di un articolo che ri-portava diverse interviste al Presidente in carica degli Stati Uniti”.Dopo una breve pausa disse: “La prego di scrivere quanto sto per dirle e di riportarlo nella sua storia come osservazione in pri-ma persona”. “Sebbene Kissinger sia fuori dai servizi di Stato da diversi decenni, tro-vo che la sua egomania sia rimasta invaria-ta nel tempo”.In un altro punto, percependo la mia fru-strazione di fronte alle sue richieste, mi ha detto: “Devo fornirle degli elementi per po-ter scrivere della mia paranoia”. Alla fine siamo giunti a un accordo. Avrei registra-to e trascritto la nostra conversazione, poi gliel’avrei fatta leggere, come promesso, e lui avrebbe apportato dei cambiamenti per chiarire alcuni punti o approfondirne l’argo-mentazione. (Ha mantenuto la promessa). Mi ha suggerito di incontrarlo un weekend di maggio nella sua casa di campagna nel Connecticut. Ho accettato, anche perché sarei rimasto comunque nello Stato per prendere la mia figlia maggiore dal colle-ge. “Dovrebbe portarla a pranzo” mi disse. Così feci. Lungo il tragitto, mia figlia enu-merava i risultati da lui raggiunti, “Ha per-messo l’apertura verso la Cina, la disten-sione con l’Unione Sovietica, e il cessate il

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fuoco in Medio Oriente, giusto? Che cosa mi sto dimenticando?”. Le ho detto, “E poi, ci sono stati i bombardamenti segreti in Cam-bogia.” “E’ stato lui?”, ha risposto mia figlia.Non ho mai incontrato una persona dell’e-tà di Kissinger che fosse così disponibile a impressionare positivamente chiunque, anche diciannovenni. Durante il pranzo, incalzava nel suo tentativo di convincere mia figlia della sua visione del mondo e del suo ruolo. Questa sua qualità lo rende esa-sperante e accattivante, e lo porta di tanto in tanto a tentativi di auto-discolpa. Non c’è nessuna questione - bombardamenti in Cambogia, attività in Cile o Argentina, o il suo ruolo nella guerra civile pakistana che ha portato alla nascita del Bangladesh e a un genocidio – sulla quale egli non abbia voglia di riconfermare la sua posizione. Abbiamo, tuttavia, avuto modo di parlare a lungo della Dottrina Obama e della critica mossa da Kissinger alla gestione america-na delle relazioni con la Cina — che egli asseriva essere di gran lunga la relazione bilaterale più importante sulla scena inter-nazionale. La Cina è da cinquant’anni una preoccupazione di Kissinger. “Solo dopo il riconoscimento di potenza mondiale, all’indomani della Seconda Guerra Mon-diale, gli Stati Uniti si sono dovuti confron-tare con un pari geopolitico“. “Non è mai avvenuto, nel corso della storia millenaria della Cina, che “Il Regno di Mezzo” consi-derasse un paese straniero come qualcosa che non fosse uno Stato Tributario” (Vedi l’articolo di James Fallows, “China’s Great Leap Backward ” sull’argomento).Mia figlia e la nipote di Kissinger furono

spettatori della sua disquisizione su quello che egli considera un problema cruciale del mondo accademico americano di oggi — il modo in cui si insegna la storia americana. Egli lamenta che la storia non è insegnata nella sua consequenzialità, e che gli avve-nimenti storici sono spesso radicalmente decontestualizzati. La sua tesi appare con-vincente ma anche autoreferenziale: egli sostiene, facendo riferimento alle maggio-ri controversie verificatesi nel corso della sua carriera, che il sostegno americano post-bellico agli alleati anti-comunisti sia impossibile da capire o razionalizzare in assenza di un’adeguata contestualizzazio-ne storica e di una simpatia di fondo per la narrativa filo-occidentale. Alle Universi-tà, ha affermato, “piace insegnare la storia come una serie di problemi discreti. E, so-prattutto, non vogliono insegnare la storia occidentale. Essi credono che l’Occidente abbia commesso talmente tanti crimini che essi non hanno il diritto di fare una scelta. Un pensiero del genere non verrebbe mai ai Cinesi. Ripristinare nelle università un autentico pluralismo, per esaminare persi-no quelle idee che la saggezza convenzio-nale rifiuta, è diventata una delle principali sfide nazionali”.Ho chiesto a Kissinger se un atteggiamento poco sicuro di sé faccia parte della tradi-zione cinese. “Se pure lo fosse, certamente non al punto da impedir loro di agire ove necessario.” Quel giorno, e nelle nostre successive con-versazioni nel suo ufficio di New York e al telefono, abbiamo anche parlato delle paure circa un disimpegno Americano dal

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mondo. Affermò che gli Stati Uniti si tro-vano in un momento di svolta della propria storia, in cui devono decidere se continua-re o no ad avere il ruolo svolto dal 1945. “In questo momento, non esiste un reale dibattito sulla politica estera. Si lanciano slogan”. “Penso sia assolutamente essen-ziale per l’America recuperare una visione strategica globale”.La critica di Kissinger a Obama era quasi sempre misurata, ma percepivo che si sen-tiva offeso perché il Presidente non aves-se ritenuto opportuno consultarlo per un consiglio, come avevano fatto i precedenti Presidenti. Mi è sembrato anche di cogliere che egli abbia inteso alcune delle osserva-zioni di Obama sulle decisioni di politica estera dei precedenti Presidenti come una critica personale. Non si sbagliava al ri-guardo. In vari momenti, nel corso delle interviste al Presidente, sentivo che nel-la stanza aleggiava lo spirito di Kissinger, specie quando Obama parlava, prendendo le distanze, del valore della “credibilità” nel perseguire gli obiettivi della sicurez-za nazionale, e quando ha parlato del suo modo, senza precedenti, di fare riferimen-to apertamente, e con sofferenza, a volte anche in terra straniera, agli errori ame-ricani durante la Guerra Fredda. Quel che ha più infastidito Kissinger è stato il modo in cui Obama ha parlato di alcuni leader mondiali. “Un aspetto incomprensibile di Obama è come possa una persona così in-telligente trattare i suoi pari col disdegno espresso nel suo articolo”, “In genere, una persona di quella statura sviluppa un senso di umiltà.”

Gli ho anche chiesto di Donald Trump e Hillary Clinton. E’ vicino a Clinton, ma non a Trump, e non era difficile intuire quan-to fosse sconvolto dal comportamento di Trump e, in linea di massima, ampiamente simpatizzante della Clinton. Se Kissinger avrebbe o no appoggiato la Clinton era tra le numerose ipotesi durante la campagna. Tra i sostenitori della Clinton, alcuni spe-ravano sull’appoggio di Kissinger, ma altri, a quanto avevo saputo, erano preoccupati che il suo appoggio avrebbe solo rinforzato la tesi di Sanders secondo la quale la Clin-ton era troppo vicina a diversi personaggi discutibili. Kissinger stesso era pienamen-te consapevole di questo. Quando ho detto che Clinton era tendenzialmente e ideo-logicamente più vicina a lui che a Obama, egli ha replicato, “Questo non è gentile nei suoi confronti.”La mia risposta è stata che non toccava a me essere gentile o scortese. “Scatene-rà l’ala radicale - l’ala di Sanders – contro di lei”, disse Kissinger. Forse è stato pre-veggente su come Hillary Clinton avreb-be condotto la politica estera americana: “L’incertezza con la Clinton è se l’ala di Sanders del Partito Democratico le avrebbe permesso di portare avanti quello che lei intendeva”.

Quella che segue è la trascrizione adattata e concentrata delle nostre conversazioni.

Jeffrey Goldberg: Come definirebbe la dottrina della politica estera del Presiden-te Obama?Henry Kissinger: La Dottrina Obama de-

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scritta nel suo articolo di Atlantic postula che l’America abbia agito contro i suoi va-lori fondamentali in diversi posti del mon-do, dovendosi districare in una posizione alquanto difficile. Quindi, continua la tesi, l’America rivendica i suoi valori ritirandosi dalle regioni dove non può che peggiorare la situazione. Dobbiamo stare attenti, al-trimenti si rischia di trasformare la Dot-trina Obama in una politica estera fonda-mentalmente reattiva e passiva. JG: Secondo lei, l’idea centrale è che la Dottrina Obama intende proteggere il mondo dall’America?HK: Secondo me, Obama ritiene di non far parte di un processo politico, ma di essere sui generis, rivendicando una sua unici-tà. E la sua responsabilità, così come lui la definisce, è far sì che elementi irrilevanti dell’America non sconvolgano il mondo. Egli si preoccupa piuttosto di evitare che conseguenze a breve termine si trasformi-no in ostacoli permanenti. Un’altra visione dell’arte di governare potrebbe consistere maggiormente nel forgiare la storia piutto-sto che evitare di ostacolare il suo corso. JG: Come Presidente, si è accusati molto meno per peccati di omissione che per pec-cati di commissione.HK: E’ vero. E’ più difficile provarli. Ma si è accusati di disastri, indipendentemente da chi li ha provocati.JG: Come diplomatico, quanto è utile an-dare in altri paesi e fare il mea culpa per il comportamento passato dell’America? Lei è una persona pragmatica. Certamente tor-na utile in qualche modo. HK: Gli altri paesi non ci giudicano sulla

base della propensione del nostro Presi-dente a parlar male del proprio paese sul loro suolo. Piuttosto, essi valutano tali visite in termini di soddisfacimento delle loro aspettative e non tanto per una riela-borazione del passato. Secondo me, un’e-ventuale rilettura della storia da parte del Presidente dovrebbe essere rivolta al pub-blico americano. JG: Ma cosa dice in merito alla questione concreta?HK: Va soppesata rispetto all’impatto che avrebbe sulle procedure di governo e sul personale. Forse il singolo dipendente pubblico americano dovrebbe preoccuparsi di come appariranno le sue vedute ai go-verni stranieri a distanza di 40 anni? Un governo straniero ha il diritto di accedere a un file verificato dal governo degli Stati Uniti a decina di anni di distanza?JG: Qual è la prima cosa che consiglierebbe di fare al quarantacinquesimo Presidente?HK: Il Presidente dovrebbe chiedersi, “Cosa vogliamo raggiungere, anche se dobbiamo andare avanti da soli?” e “Cosa vogliamo prevenire, anche se dobbiamo combattere da soli?” Nelle risposte a queste domande risiedono i fondamenti della politica estera americana, che dovrebbero essere alla base delle nostre decisioni strategiche.Il mondo è nel caos. Sconvolgimenti note-voli e simultanei sono in atto in molte parti del mondo, e molti rispondono ai principi più diversi. Ci troviamo quindi di fronte a due problemi: primo, come ridurre il caos a livello regionale; secondo, come creare un ordine mondiale coerente che si basi su principi concordati che sono necessari per

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il funzionamento dell’intero sistema.JG: Le crisi accadono sempre prima che i Presidenti abbiano il tempo di creare un ordine mondiale coerente, no?HK: Praticamente, tutti gli attori in Medio Oriente, in Cina, in Russia, e in un certo qual modo in Europa, devono prendere de-cisioni strategiche importanti.JG: Che cosa stanno aspettando?HK: Di definire alcuni orientamenti fonda-mentali delle loro politiche. La Cina, il suo posto nel mondo. La Russia, gli obiettivi dei suoi bracci di ferro. L’Europa, il suo scopo, attraverso una serie di elezioni. L’A-merica, chiarire il significato dei tumulti in atto dopo le elezioni. JG: Quali sono gli interessi immutabili e di sempre dell’America?HK: Comincerei col dire che dobbiamo ave-re fede in noi stessi. E’ assolutamente ne-cessario. Non possiamo ridurre la politica a una serie di decisioni puramente tattiche o ad auto-recriminazioni. La questione stra-tegica fondamentale è: Cosa non dobbiamo permettere, indipendentemente da cosa ac-cade, e da quanto possa sembrare legittimo?JG: Si riferisce, ad esempio, all’ipotesi che Vladimir Putin possa invadere la Lettonia nel 2017?HK: Sì. E una seconda domanda: A cosa aspiriamo? Non vogliamo che l’Asia o l’Eu-ropa cada sotto il dominio di un unico pa-ese ostile. O il Medio Oriente. Se il nostro scopo è evitare che questo accada, dobbia-mo definire l’ostilità. Per quello che penso io dell’Europa, del Medio Oriente, e dell’A-sia, non abbiamo interesse che alcuno di essi sia dominato.

JG: Questo ragionamento ricorda molto il modo di vedere del periodo post-Seconda Guerra Mondiale, in cui l’ordine inter-nazionale era guidato dagli Americani. Potrebbe non coincidere del tutto con la visione di Obama. Ed era abbastanza evi-dente che dei quattro principali candidati dei maggiori partiti rimasti nelle primarie all’inizio di quest’anno - Ted Cruz, Donald Trump, Bernie Sanders, e Hillary Clinton - solo uno era un tradizionalista della poli-tica estera.HK: Clinton è l’unica che risponde al mo-dello tradizionale, più aperto, internazio-nalista.JG: Che significa?HK: Che per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, la futura rela-zione degli Usa con il mondo non è com-pletamente risolta.JG: Infatti, Hillary Clinton è molto più tra-dizionale di Barack Obama su questioni ri-guardanti le responsabilità internazionali, l’indispensabilità, e così via. Negli Ameri-cani, però, si è verificato un cambiamento così grande nell’intendere la supremazia statunitense da far sì che perfino un Presi-dente come Hillary Clinton avrebbe molto meno margine di manovra?HK: Per molti leader del mondo, Obama ri-mane un enigma dopo otto anni di mandato. Non sanno come interpretare lui o gli attua-li cambiamenti di direzione dell’America. Se vince Hillary, il mondo potrà contare su una figura conosciuta, tradizionale. Nell’intervi-sta tra lei, signor Kissinger, e Obama, questi era orgoglioso soprattutto delle cose che egli ha impedito che accadessero.

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JG: Lei ha seguito la politica nazionale Americana sin dal 1948 o anche prima.HK: In un modo o nell’altro vi ho parteci-pato dal 1955.JG: Più o meno, c’è sempre stato un con-senso bipartisan, in questo periodo, sull’importanza del profondo impegno americano nel mondo.HK: Questa è la prima volta che tale con-senso è messo in discussione fino a questo punto. Credo che possa essere ristabilito in qualche misura. Dopo il secondo conflitto mondiale, il mondo occidentale aveva la visione di un ordine pacifico. Certamente avremmo dovuto fare dei sacrifici. Abbiamo inviato un grosso esercito in Europa. Abbia-mo speso molto denaro. Abbiamo bisogno di riscoprire quello spirito e adattarlo alle realtà che sono emerse nel frattempo.JG: Come mai questa dinamica sta cam-biando?HK: Siamo stati troppo indulgenti nello sfidare quelle che erano le nostre convin-zioni nazionali. Possiamo invertire questa tendenza, ma sarà necessario uno sforzo enorme, ed essenzialmente bipartisan.JG: Secondo alcuni, il Presidente Obama sta mettendo in dubbio delle ipotesi fon-damentali sul ruolo dell’America nel mon-do. In una delle mie conversazioni con lui, sembra che non fosse d’accordo con lei. Quando mi ha spiegato le ragioni per le quali non far rispettare la linea rossa che egli aveva pubblicamente tracciato circa l’uso delle armi chimiche del Presidente Bashar al-Assad in Siria, a differenza di Kissinger, il suo pensiero era che non an-dava a sganciare bombe su qualcuno solo

per dimostrare che si era pronti a farlo. Con tali affermazioni credo si riferisse alla Cambogia. HK: La Cambogia ha assunto un ruolo simbolico perché è l’unico posto in Indo-cina dove i liberali non hanno scatenato la guerra. Il nostro impegno militare in Vietnam è cominciato con Kennedy ed è culminato con Johnson. La Cambogia, tut-tavia, fu una decisione di Nixon, secondo la terminologia radicale. Questo, secondo la mitologia dei liberali, era un piccolo pa-ese pacifico che Nixon aveva attaccato. Il fatto che ci fossero quattro divisioni nord-vietnamite entro 30 miglia da Saigon che attraversavano il confine e uccidevano Americani – 500 a settimana, due setti-mane dopo l’insediamento di Nixon – fu ignorato nel dibattito sulla Cambogia dai protestanti che enfatizzavano la neutrali-tà tecnica della Cambogia, ignorando che il suo sovrano aveva sollecitato la nostra reazione. L’Amministrazione Obama ha si-stematicamente condotto bombardamenti simili per ragioni comparabili, ma con i droni, in Pakistan, Somalia, e Yemen. Ho sostenuto quei bombardamenti. Se mai dovessimo avere una politica estera crea-tiva, avremmo bisogno di affrancarci degli slogan di una generazione fa e cercare di risolvere le sfide attuali.JG: Intendo dire che quando Obama parla della Cambogia, pensa all’ascesa al potere di Nixon e di Kissinger e alla loro necessità di stabilire credibilità con Hanoi, e così co-minciano la guerra. E’ questa la sua analisi di come gli Stati Uniti si mettono nei guai.HK: Questo non è vero. A un mese dal suo

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insediamento, abbiamo avuto più di 2.000 vittime, in maggior parte dai “santuari” in Cambogia. Bisognava intervenire. Ci inte-ressava controllare e porre fine alla guerra. JG: Ma questa è una rappresentazione dif-fusa degli eventi.HK: Lo so. Saliamo al potere, i nord-vie-tnamiti lanciano un’offensiva nelle due settimane successive, noi registriamo 500 vittime la settimana – i bombardamenti in Cambogia erano un modo per non ripren-dere i bombardamenti al Nord. E’ quello che pensavamo. Non si trattava di comin-ciare una nuova guerra; la Guerra c’era già in Cambogia. Quali erano le nostre vere scelte strategiche? Potreste dire “Ritirar-ci.” Non troverete, però, un solo documen-to dalla fine dell’Amministrazione Johnson che esortasse al ritiro immediato.JG: La decisione della linea rossa di Obama in Siria, mi disse, sopraggiunse quando decise di liberarsi del cosiddetto “Washington playbo-ok”. Non pensava di guadagnarsi la credibili-tà degli Stati Uniti con l’uso della forza. Cosa pensa della controversia sulla linea rossa?HK: Credo che la linea rossa fosse soprat-tutto una questione simbolica. Si è trattato di una decisione poco saggia in un caleido-scopio di ambivalenze. Era il sintomo di un problema più profondo. La forza militare dovrebbe essere usata, se mai, quanto ba-sta per raggiungere maggiori probabilità di successo. Non deve trattarsi di un compro-messo tra opposte forze nazionali.JG: Come vede la relazione tra diploma-zia e potere? Lei sa che, nell’ultimo anno, John Kerry ha insistito molto con Obama per un intervento militare contro Assad

per attirare la sua attenzione sulla neces-sità di una soluzione diplomatica. Tutto ciò è avvincente, perché Kerry è uno che ha cominciato la sua carriera protestando contro la Guerra in Vietnam, e che invece ora sostiene gli attacchi militari per gua-dagnare credibilità.HK: Rispetto John Kerry per il suo coraggio e la sua perseveranza. In Siria, sta lavoran-do per un governo di coalizione composto da gruppi che sono stati impegnati nella guerra genocida l’uno contro l’altro. Anche se si riuscisse a costruire tale governo, salvo che non si individui un attore dominante, si dovrebbe rispondere alla seguente doman-da: Chi risolverà le inevitabili controversie? L’esistenza di un governo non ne garantisce la percezione di legittimità o l’obbedienza ai suoi pronunciamenti. Kerry ha compre-so che sono necessarie altre pressioni per raggiungere l’obiettivo dichiarato — un cambiamento rispetto alla sua posizione nella Guerra in Vietnam. L’uso della forza è la sanzione più grave della diplomazia. La diplomazia e il potere non sono attività di-screte. Esse sono legate, ma non nel senso che ogni volta che le negoziazioni subisco-no un arresto si ricorre alla forza. Significa semplicemente che, in una negoziazione, la controparte deve sapere che c’è un punto critico in corrispondenza del quale si cer-cherà di imporre la propria volontà. Altri-menti, vi sarà un’impasse o una sconfitta diplomatica. Quel punto è determinato da tre componenti: il possesso di adeguato po-tere, la disponibilità tattica a esercitarlo, e una dottrina strategica che disciplini il po-tere di una società con i suoi valori.

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JG: Sta venendo meno il concetto dell’ec-cezionalità americana?HK: No, il concetto della eccezionalità americana esiste ancora, ma si sta indebo-lendo nel senso di “città sulla collina”.JG: Ma questo è Obama — egli vede l’ecce-zionalità americana come la “città splen-dente sulla collina”.HK: Non nel senso che dovremmo smet-tere di realizzare i nostri valori. Costitu-zionalismo e impegno per i diritti umani sono tra i vanti americani. D’accordo, sia-mo andati troppo oltre nel credere che po-tessimo portare la democrazia in Vietnam o in Iraq sconfiggendo i nostri oppositori militarmente e con lo strenuo esercizio della buona volontà. Siamo andati troppo oltre perché non abbiamo messo in rela-zione l’azione militare con quanto il no-stro pubblico avrebbe potuto sostenere o con una strategia regionale. L’impegno maggiore era esprimere l’eccezionalità americana. L’eccezionalità americana della Guerra Fredda è sparita. Un adeguato adat-tamento è uno dei principali compiti della nuova amministrazione. Istintivamente, credo che il pubblico americano potrebbe esserne persuaso, ma avrebbe bisogno di una spiegazione diversa da quella che era valida negli anni ’50.JG: Ai fini della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, sono più importanti le relazioni Cina-USA o il terrorismo islamico?HK: Il terrorismo islamico è importante per le prospettive dell’ordine internazio-nale a breve termine. Le nostre relazioni con la Cina forgeranno l’ordine interna-zionale a lungo termine. Gli Stati Uniti e

la Cina saranno i paesi più importanti del mondo. Dal punto di vista economico, lo sono già. Tuttavia, entrambe le nazioni si trovano di fronte a trasformazioni interne senza precedenti. Come prima cosa, do-vremmo cercare di capire in che modo la Cina e gli Stati Uniti, insieme, potrebbero dare stabilità al mondo. Come minimo, dovremmo accordarci per limitare le no-stre controversie; per essere più precisi, dovremmo individuare progetti da poter realizzare insieme.JG: Quale potrebbe essere la politica con la Cina del quarantacinquesimo Presidente?HK: Dopo i primi anni della sua storia, l’America è stata abbastanza fortunata da non subire minacce di invasioni, non fosse altro perché siamo circondati da due gran-di oceani. Pertanto, l’America ha inteso la politica estera come una serie di sfide di-screte da affrontare man mano che si pre-sentavano piuttosto vederle inquadrate in un disegno globale. E’ solo nel periodo post-Seconda Guerra Mondiale che abbiamo cominciato a inten-dere la politica estera come un processo continuo, anche in situazioni apparen-temente tranquille. Per almeno 20 anni, abbiamo formato alleanze per mettere dei paletti e formulare una strategia. D’ora in poi, è necessario individuare una strategia più fluida, adattabile a situazioni in dive-nire. Occorre quindi studiare le storie e le culture degli attori chiave internazionali, ed essere perennemente presenti negli af-fari internazionali.JG: Impegno costante con la Cina?HK: La Cina è un esempio. Per un lungo

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periodo della sua storia, la Cina ha anche goduto di isolamento. La sola eccezione sono i 100 anni in cui è stata dominata dalle società occidentali. Non era tenuta a confrontarsi continuamente con il resto del mondo, specialmente fuori dall’Asia. Era circondata da nazioni relativamen-te più piccole, incapaci di turbare la pace. Fino alla Rivoluzione Xinhai del 1911, le relazioni della Cina con altri paesi erano gestite dal Ministero dei Riti, che definiva ogni paese straniero come relativo Stato Tributario di Pechino. La Cina non aveva relazioni diplomatiche nel senso Westpha-liano; non considerava i paesi stranieri come pari. JG: Credo che lungo i suoi confini ci siano paesi che non si sentono trattati come pari.HK: In Cina è in corso un processo interno incredibile. Il Presidente Xi Jinping ha sta-bilito due obiettivi che ha definito “i Due obiettivi dei 100 anni”— i cento anni della fondazione del Partito Comunista e i cen-to anni dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Il primo sarà nel 2021; il secondo nel 2049. Secondo una loro stima, al raggiungimento del secondo centenario, i Cinesi saranno pari a qualsiasi altro pae-se del mondo contemporaneo e potranno insistere per l’assoluta uguaglianza ma-teriale e strategica, anche con l’America. Alcuni strateghi cinesi, infatti, dicono, “Se fossimo al posto degli Americani, non prenderemmo almeno in considerazione l’opportunità di impedire a un altro paese di raggiungere la parità?” E questa è una fonte latente di tensione.I dibattiti interni della Cina aprono almeno

a due risposte. I sostenitori della linea dura diranno “Gli Americani sono visibilmente in declino. Vinceremo noi. Possiamo per-metterci di essere duri e guardare il mondo con un atteggiamento tipo Guerra Fredda”. L’altra posizione, che sembra essere quel-la del Presidente Xi, sostiene che lo scon-tro è troppo pericoloso: la Guerra Fredda con gli Stati Uniti impedirebbe alla Cina di raggiungere i suoi obiettivi economici. Un conflitto con le armi moderne potrebbe an-dare ben oltre la devastazione che abbiamo avuto con la Prima Guerra Mondiale e non portare a nessun vincitore. Quindi, nell’e-poca moderna, i paesi antagonisti devono diventare partner e cooperare in modo che ognuno trovi il proprio vantaggio.JG: Quindi Xi è un moderato?HK: Il Presidente Xi ha posto due obiettivi per la Cina. Il primo è “l’Asia per gli Asiati-ci.” Il secondo è il tentativo di trasformare gli avversari in partner. Secondo me, do-vremmo prendere quest’ultimo come tema dominante nelle relazioni tra Stati Uniti e Cina. La visione del mondo dei Cinesi è molto diversa dalla nostra. Per affrontare la realtà attuale, dobbiamo contare su en-trambe le nostre capacità, diplomatiche e militari. Ma è possibile questo, nell’attuale contesto mondiale, considerate le armi di distruzione di massa e le cyber-capacità di cui si dispone?Un ostacolo è il divario culturale: l’America pensa sostanzialmente che nella sua condi-zione normale il mondo sia pacifico, pertan-to, se c’è un problema, c’è qualcuno che lo sta causando. Se si sconfigge la persona o il pae-se che ne è la causa, si ristabilisce l’armonia.

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I Cinesi invece non pensano a soluzioni permanenti. Per Pechino, una soluzione è semplicemente un biglietto di ingresso per un altro problema. I Cinesi sono, quindi, più interessati alle tendenze. Le domande che essi si pongono sono: “Dove si sta an-dando? Come pensiamo che sarà il mondo tra 15 anni?”A seguito di questo divario culturale, quan-do i Presidenti dell’America e della Cina si incontrano, l’esito dell’incontro è troppo spesso ambiguo. Si fanno progressi su pro-blemi immediati a breve termine, cambia-mento climatico, alcuni problemi econo-mici, ma si dà meno priorità all’impegno di sviluppare un’idea comune per il futuro, in parte anche a causa delle pressioni tempo-rali e dell’influenza dei media che aspetta-no all’esterno della sala conferenze.JG: Che valutazione darebbe al Presidente Obama sulla gestione del portafoglio Cina?HK: Direi B+.JG: E’ un voto piuttosto buono.HK: Beh, B+ per quanto riguarda il pre-sente, ma qualcosa in meno se ci riferiamo all’evoluzione delle relazioni Cina-USA a lungo termine. Ha agito leggermente me-glio per il breve termine, ma non ha dato un grosso impulso alle relazioni sul lungo periodo.JG: Parliamo della “Trappola di Tucidide,” del concetto secondo il quale una potenza emergente, il più delle volte, entra in con-flitto con una potenza dominante. Graham Allison ha fatto un lavoro importante su questo. Ne condivide l’idea, vero?HK: Molto. Graham Allison mostra come nella stragrande maggioranza dei casi

storici, le potenze in ascesa e le poten-ze dominanti hanno ingaggiato una sorta di conflitto militare. E’ quasi inevitabile quando entrambi i paesi esercitano un’in-fluenza a livello globale. Anche se animati da buone intenzioni, sono portati a intera-gire e, di tanto in tanto, anche a pestarsi i piedi in alcuni posti del mondo. E’ insito nella definizione di potenza emergente e potenza dominante.Tuttavia, esiste un’altra spiegazione para-dossale per spiegare il conflitto. I conflitti possono scoppiare perché da una parte c’è un innalzamento della tensione e dall’al-tra c’è la convinzione che in un modo o nell’altro gli Stati moderni trovano sempre una soluzione. La Prima Guerra Mondiale è nata soprattutto perché, per un periodo abbastanza lungo, gli Stati, in un modo o nell’altro, sono riusciti a gestire la reci-proca influenza. A un certo punto, arriva improvvisamente una crisi che, nella so-stanza, non è più grave di altre verificatesi in precedenza – potreste argomentare, in realtà, meno grave della guerra dei Balca-ni che l’aveva preceduta. Ma nell’assassi-nio dell’arciduca d’Austria e sua moglie, taluni eventi fortuiti hanno aggravato la crisi. Non essendo la moglie dell’arciduca di sangue reale, i Capi di Stato non erano obbligati a partecipare al funerale. Se si fossero riuniti tutti, avrebbero potuto ne-goziare una soluzione diplomatica infor-male al problema serbo. Inoltre, nell’Euro-pa precedente al Prima Guerra Mondiale, si confrontavano due potenze in ascesa. La Germania che minacciava il comando dei mari della Gran Bretagna, e la Russia che

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minacciava il ruolo della Germania nell’ Europa Centrale. Dopo Bismarck, la Ger-mania è riuscita a diventare una fortezza confinante con una Francia ostile a ovest, e una Russia altrettanto ostile a est. Per-tanto, il suo obiettivo strategico divenne, in qualsiasi guerra e qualunque ne fosse la causa, sconfiggere innanzitutto uno di questi nemici. La Francia era più facilmen-te raggiungibile, mentre la Russia avrebbe impiegato più tempo per mobilitare le pro-prie truppe. Quindi, gli strateghi tedeschi ritennero che, nel secondo caso, una par-te meno cospicua del proprio esercito sa-rebbe stata a rischio. Indipendentemente dalla causa della guerra, anche se si trat-tava di violazioni della Serbia nei confronti dell’Austria nei Balcani — come avvenuto nel 1914 — la Germania avrebbe comincia-to con l’attaccare la Francia. Si erano co-struiti un sistema in cui, inconsciamente, l’espressione di queste potenze emergenti era locale, ma la strategia per sconfiggerle era globale, o per lo meno regionale. JG: E’ sufficientemente chiaro come si con-figurerebbe un reale conflitto tra Stati Uni-ti e Cina?HK: Un conflitto militare tra i due paesi, date le tecnologie di cui sono in posses-so, sarebbe disastroso. E obbligherebbe il mondo a dividersi. Porterebbe alla di-struzione, ma non necessariamente a una vittoria, che sarebbe probabilmente anche molto difficile definire. Anche se potessi-mo parlare di vittoria, di fronte a una di-struzione totale, cosa potrebbe richiede-re il vincitore al vinto? Non sto parlando semplicemente della forza delle armi, ma

dell’inconoscibilità delle conseguenze di alcune di esse, come le cyber-armi. Le ne-goziazioni tradizionali per il controllo del-le armi richiedevano che ogni controparte dicesse all’altra quali fossero le proprie ca-pacità come punto di partenza per limitare le suddette capacità. Invece, con le cyber-armi, ogni paese sarà estremamente rilut-tante a far conoscere agli altri le proprie capacità. Non esiste, quindi, un modo evi-dente per contenere una cyberwarfare, una guerra cibernetica. E l’intelligenza artifi-ciale peggiora la situazione. Macchine che possono apprendere dalla loro esperienza e comunicare tra loro autonomamente pongono l’imperativo pratico e morale di trovare un modo per impedire l’autodistru-zione del genere umano. Gli Stati Uniti e la Cina devono cercare di raggiungere un’in-tesa sulla natura della loro co-evoluzione.JG: Giusto per chiarirci. La stabilità del pianeta dipende da quanto i due paesi più potenti saranno in grado di capire che cosa vuole l’altro. HK: E questo richiede trasparenza reci-proca nelle motivazioni, cosa che sembra alquanto strana per i diplomatici tradizio-nali. JG: E a lei sembra molto strano?HK: Un po’, ma se legge le trascrizioni del-le mie precedenti conversazioni con Zhou Enlai (il premier cinese con il quale Kis-singer si incontrò segretamente nel 1971 per il raggiungimento dell’auspicata di-stensione), noterà due cose. La prima è che siamo stati fortunati, perché non avevamo una relazione quotidiana concreta di cui parlare, eccetto Taiwan, che mettemmo da

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parte, quindi, per costruire la fiducia, dove-vamo parlare della nostra filosofia dell’or-dine mondiale. E secondo, di conseguenza, sembravamo due professori che discuteva-no della natura del mondo e del suo futuro.Questo tipo di comunicazione non è evi-dente nell’attuale dialogo tra Stati Uniti e Cina. I leader si incontrano e discutono proficuamente nel senso che ci sono tan-ti temi di ordine pratico sui quali devono lavorare. Eppure, i Cinesi escono da questi incontri con un senso di frustrazione. Il primo argomento di cui vogliono discute-re, di natura filosofica, non è mai solleva-to, e sarebbe “Se noi fossimo al vostro po-sto, potremmo cercare di frenare la nostra ascesa. Voi, cercate di frenarci? In caso di risposta negativa, se diventiamo entrambi forti, come c’è da aspettarsi, come sarà il mondo?”JG: Come dovrebbe porsi il Presidente per risolvere, sistematicamente, i problemi con la Cina?HK: E’ importante comprendere la diffe-renza nella percezione dei problemi tra noi e i Cinesi. Gli Americani pensano che la condizione normale del mondo corri-sponda a stabilità e progresso: Se c’è un problema, può essere rimosso investendo in impegno e risorse, e una volta risolto, l’America può tornare al suo isolamento. I Cinesi pensano che nessun problema possa mai essere definitivamente risolto. Perciò, quando parlate con gli strateghi cinesi, questi parlano del processo piuttosto che di problemi specifici. Quando parlate con gli strateghi statunitensi, questi, in genere, cercano le soluzioni.

JG: Come vede l’attuale strategia della Cina?HK: Ci sono due possibili interpretazioni. Una è che i Cinesi pensano che il mondo si muova nella loro direzione, che alla fine lo erediteranno in qualche maniera, e che il loro compito strategico è di tenerci tran-quilli nel frattempo. JG: Che l’arco della storia si stia piegando dalla loro parte.HK: Alcuni strateghi cinesi potrebbero pensarla in questo modo. Oppure, le loro azioni potrebbero essere interpretate nel senso di “Comunque interpretiate l’arco della storia, un conflitto tra paesi che pos-siedono le tecnologie che abbiamo noi, e l’incerta applicazione delle stesse, è così pericoloso che qualunque ne sia l’origine, abbiamo il dovere di cercare di cooperare per evitarlo.”Credo che questa sia la visione del Presi-dente Xi. Ma non riusciremo a dimostrare quale interpretazione sia corretta prima che non passino circa 20 anni. Nel frat-tempo, le nostre politiche devono essere abbastanza di ampio respiro in modo da accoglierle entrambe. JG: Quindi, Obama ha seguito troppo la li-nea dura con la Cina?HK: Non una linea troppo dura ma di breve termine. Per poter veramente andare avanti nella nostra relazione con la Cina, dobbia-mo ragionare in termini di tendenze.JG: Teme tutti questi discorsi, alimentati da Trump, circa una guerra commerciale con la Cina?HK: Più di qualsiasi altra cosa, un ordine mondiale equilibrato e pacifico dipende

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da una relazione stabile tra USA e Cina. Xi Jinping, riferendosi alla nostra interdipen-denza economica, l’ha definita “la zavorra e il propulsore” di una più ampia relazione bilaterale; una guerra commerciale sareb-be devastante per entrambi. JG: Lei ha sempre dialogato con gli alti di-rigenti cinesi. Quale è stata la loro reazio-ne alla minaccia di una guerra commercia-le espressa da Trump?HK: La loro prima reazione a Trump è stata di shock, non tanto per la sua per-sonalità, ma perché l’America potrebbe avviare un dibattito politico sulla propria natura. “Questo significa che siamo inevi-tabilmente costretti a scontrarci?” Questa è stata la loro prima reazione.

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©2016 Il Nodo di Gordio

Tradotto da:Maria Amoruoso - CIHEAM Bari

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ttualmente membro di alcuni dei think tank influenti sulla politi-ca di Washington – dall’Hudson

Institute al Washington Institute for the Near East Policy – Richard Perle ha rivesti-to incarichi di fondamentale importanza durante l’Amministrazione Reagan – come Assistente del Segretario alla Difesa – e poi ancora con George W. Bush in qualità di Chairman of Board.Considerato non solo uno dei massimi esponenti del neo conservatorismo statu-nitense, ma anche, e forse soprattutto, uno degli uomini che hanno maggiormente contribuito a disegnare la politica estera americana sotto le Amministrazioni degli ultimi tre Presidenti Repubblicani, è so-prannominato dalla stampa statunitense “The Prince of Darkness” anche per il suo carattere restio ad ogni esibizione media-tica.Dopo aver anticipato in un’intervista al

a cura della Redazione

RICHARD PERLE:“CON TRUMP, TENSIONI TRA USA E CINA. L’EUROPA? UN’UNIONE DOGANALE”.

A

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“Nodo di Gordio” nel maggio dello scorso anno la probabile ascesa alla Casa Bianca di Donald Trump, ci ha concesso in esclusi-va alcune nuove dichiarazioni sulle future mosse in politica estera della Presidenza americana.

Contro ogni pronostico, Lei aveva anti-cipato l’elezione di Donald Trump nel lontano maggio del 2016. Quale sarà il futuro rapporto tra Stati Uniti, Russia e Cina con la nuova Amministrazione?

È difficile prevedere così presto la politica strategica globale del presidente Trump. Nonostante si faccia notare il fatto che lui abbia un amichevole, anche cordiale, rap-porto con Vladimir Putin, penso sia proba-bile che la sua politica nei confronti della Russia rifletterà le molte differenze tra la Russia e l’Occidente, tanto quanto l’inte-resse comune nel contenere il terrorismo delle organizzazioni islamiste radicali. Ri-flettendo sulle due personalità, quelle di Putin e Trump, entrambi i quali hanno bi-sogno di essere visti come “vincitori”, ho il sospetto che emergeranno conflitti e ten-sioni nel loro rapporto. La linea di Trump nei confronti della Cina sarà assertiva sia nel commercio sia in politica. Mi aspetto una notevole tensione centrata sulle ri-vendicazioni regionali della Cina che sono viste come aggressive e inaccettabili dai nostri alleati asiatici.

Il nuovo Presidente ha già dichiarato di voler bloccare alcune partnership com-merciali come il TPP che Obama ave-

va pensato in chiave anticinese. Quali saranno le direttrici economiche degli Stati Uniti nell’èra Trump?

Trump è arrivato alla Casa Bianca con del-le idee su ciò che comporta per l’economia americana il commercio con un certo nu-mero di paesi, in particolare il Messico e la Cina. Qualsiasi seria analisi mostrerà che, nel complesso, queste relazioni commer-ciali avvantaggiano l’economia america-na anche se danneggiano alcuni settori, e Trump sarà costretto a riconoscerlo. Cer-cherà sicuramente di negoziare migliori condizioni commerciali con i nostri part-ner, e potrebbe anche avere successo. Ma lui non sconvolgerà l’economia globale con un protezionismo estremo.

Trump sembra essere pronto a stabili-re relazioni amichevoli con Vladimir Putin. Ma Mosca è un alleato storico di Teheran. Quale sarà il futuro della NATO e qual è la Sua opinione sull’Iran?

L’“alleanza” di Mosca con Teheran è poco profonda e tattica, più una seccatura che una minaccia.Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la NATO si è mossa lentamente ed in ma-niera incostante per reinventare se stessa. Trump farà pressione sulla NATO per inve-stire di più nella difesa collettiva dell’Occi-dente – come hanno fatto altri presidenti americani. Può fare meglio dei suoi prede-cessori perché i nostri alleati sono spaven-tati e allarmati dalla sua retorica e, in que-sto momento, prendono più seriamente ri-

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spetto al passato la possibilità che gli Stati Uniti riducano loro il sostegno. Trump ha ragione nel credere che gli Stati Uniti si si-ano sobbarcati una quota sproporzionata degli oneri per la sicurezza occidentale.La dittatura iraniana è un nemico implaca-bile dell’Occidente ed è guidata dall’ambi-zione del dominio degli Sciiti. Se il popolo iraniano fosso libero di scegliere, i Mullah verrebbero cacciati e per l’Iran si aprireb-bero nuove opportunità di aderire al mon-do progredito. Questo non può avvenire senza l’assistenza all’opposizione, cosa che né Bush né Obama sono stati disposti a dare. Forse ciò cambierà con Trump, che sembra più disposto di ogni altro presiden-te dai tempi di Reagan ad andare contro la convinzione comune e l’establishment diplomatico. È giunto il momento che gli oppositori del regime di Teheran abbiano un amico negli Stati Uniti.

E per quanto riguarda l’Europa? È chia-ro come Trump stia costruendo un rap-porto preferenziale con la Gran Breta-gna e non con la Germania. È forse la fine dell’Unione europea?

Non prevedo la fine dell’Unione europea, ma credo che finirà più come una unione doganale che come unione economica, giu-ridica e politica completamente integrata come i suoi sostenitori più ambiziosi (prin-cipalmente Germania e Francia) avrebbero voluto. L’Ue sarà costretta a ridimensiona-re la sua aggressiva appropriazione delle sovranità nazionali nel momento in cui si diffonderà il sentimento che ha animato

la campagna (inglese, ndr) di abbandono dell’Unione e si intensificherà l’opposizio-ne alla burocrazia non eletta di Bruxelles Il concetto di un mercato unico ha una grande attrattiva, ma la moneta unica non ce l’ha e l’idea dei parlamenti nazionali su-bordinati alle istituzioni collettive dell’Ue è sempre più impopolare.

In questa situazione, l’Italia può svol-gere un importante ruolo diplomatico? E dove? In Medio Oriente, con la Russia, nel Mar Mediterraneo?

L’Italia ha la storia, l’economia e la cultura per svolgere un ruolo politico e diplomati-co significativo, ma dipenderà dalla capa-cità dei suoi leader se sarà in grado di farlo. La capacità di comando del Regno Unito, ad esempio, è stata una cosa con Margaret Thatcher ed un’altra con Gordon Brown; gli Stati Uniti con Ronald Reagan poteva-no comandare in un modo in cui non po-tevano con Jimmy Carter. Penso che Renzi fosse molto promettente ma che non ab-bia avuto abbastanza tempo per emergere come figura internazionale.

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elezione del facoltoso imprendi-tore repubblicano Donald Trump quale 45° Presidente degli Sta-

ti Uniti avvenuta nel pieno rispetto della Costituzione federale e delle disposizioni dei singoli Stati che compongono l’Unione ha, ciononostante, generato preoccupa-zioni accompagnate, con carente spirito democratico, da manifestazioni di protesta all’interno del Paese e all’estero. In considerazione dello status di superpo-tenza mondiale che da un secolo caratte-rizza gli Stati Uniti e considerate le ansie esternate in vari ambienti – europei inclu-si – nei confronti dell’impostazione che la presidenza di Trump potrebbe dare alla po-litica estera statunitense, è opportuno esa-minare l’ambito e i limiti delle prerogative del neoeletto. Come ogni altro ordinamento costituzio-nale moderno ad alto sviluppo politico, quello statunitense ha adottato la separa-

di Vittorfranco Pisano

STATI UNITI D’AMERICA: POTERI E LIMITI PRESIDENZIALI

Come ogni altro ordinamento costituzionale moderno ad alto sviluppo politico, quello statunitense ha adottato la separazione, o divisione, dei poteri dello Stato in legislativo, esecutivo e giudiziario. Questo principio cardine è affiancato e attenuato da un sistema di pesi e contrappesi tanto in politica interna quanto in politica estera.

L'

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zione, o divisione, dei poteri dello Stato in legislativo, esecutivo e giudiziario. Questo principio cardine è affiancato e attenuato da un sistema di pesi e contrappesi tanto in politica interna quanto in politica estera. Il Presidente degli Stati Uniti, in quanto eletto sulla base del suffragio universale1 ed essendo la sua elezione del tutto indi-pendente da quella dell’assemblea legisla-tiva, non è soggetto all’istituto del voto di fiducia parlamentare.2 Tuttavia, l’esercizio dei poteri a lui specificamente delegati dalla Carta costituzionale o comunque im-pliciti è bilanciato e condizionato sia dalle precipue prerogative del Congresso, orga-no legislativo bicamerale federale, sia dal

vincolante parere di conformità costituzio-nale di competenza della Corte Suprema e corti federali inferiori3 esprimibile solo a conclusione di una controversia giudizia-ria e, pertanto, non a priori sotto forma di parere consultivo.4 Contemporaneamente Capo dello Stato e del governo, il Presidente siede al vertice del potere esecutivo federale, la cui strut-tura abbraccia dicasteri (departments) ed enti pubblici non ministeriali, entrambi sottoposti alla direzione politica presiden-ziale e parimenti soggetti alle leggi emana-te dal Congresso. Compete al Presidente, una volta ottenuto l’assenso a maggioran-za assoluta del Senato, la nomina delle più

1. Per un mandato della durata di quattro anni una sola volta rinnovabile, sempre a suffragio universale. 2. Contrariamente a quanto previsto dagli ordinamenti giuridici vigenti in altri Paesi, inclusa l’Italia. 3. Principio della judicial review. 4. Gli altri principi fondamentali che ispirano la Costituzione statunitense sono la sovranità popolare e il federalismo. Con riguardo alla separazione dei poteri, va altresì notato che l’ordinamento costituzionale statunitense sancisce la differen-ziazione tra prerogative spettanti alla Camera dei Rappresenti e spettanti al Senato, i due organi del Congresso, e così estende il sistema dei pesi e contrappesi anche all’interno del potere legislativo.

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alte cariche dell’esecutivo5. Le altre prero-gative e mansioni presidenziali includono l’apposizione del veto sulle leggi emana-te dal Congresso, veto invalidabile con il voto parlamentare di due terzi di ciascu-na Camera; la presentazione di disegni di legge; la proposta del bilancio finanziario riguardante il ramo esecutivo dello Stato; l’invio al Congresso di relazioni sulle con-dizioni in cui versa l’Unione; la nomina dei giudici della Corte Suprema e delle altre corti federali, sottoposta all’assenso della maggioranza assoluta del Senato; e la con-cessione di diminuzione di pena o di grazia per reati federali. Rientra, altresì, nella competenza presi-denziale l’emissione di regolamenti (exe-cutive orders) aventi valore di legge con riguardo alla pubblica amministrazione e alla conduzione della politica estera e di sicurezza nazionale, sempre nel rispetto degli atti legislativi del Congresso.Va aggiunto e sottolineato che solo il Con-gresso detiene il cosiddetto “potere della borsa”, ovvero la facoltà di approvare il bi-lancio dello Stato nel suo complesso. Spet-tano, inoltre, al Congresso attribuzioni fi-nanziarie quali l’imposizione dei tributi, il pagamento dei debiti pubblici e il diritto di battere moneta.Tenuto presente quanto precede, quali sono specificamente i poteri, gli strumen-ti e i limiti del Presidente nella sfera della politica estera e della sicurezza nazionale?

Sebbene condizionato o condiviso, il ruolo del Presidente in materia di affari interna-zionali e di sicurezza nazionale, intesa in senso più ampio della mera difesa militare, è notevole.Secondo il testuale dettame costituziona-le, i poteri del Presidente si esplicano nei modi seguenti: Egli avrà il potere, su parere e consenso del Senato con l’approvazione di due terzi dei Senatori presenti, di concludere trattati; designerà e nominerà, su parere e consenso del Senato, ambasciatori, altri di-plomatici e consoli […]. Egli riceverà amba-sciatori e altri diplomatici […].6 Può, altresì negoziare executive agreements, ovvero ac-cordi che rivestono una dignità minore dei trattati e non necessitano quindi la ratifica del Senato.Il Presidente è contemporaneamente co-mandante in capo delle forze armate, ma compete al Congresso dichiarare guerra.Gli altri poteri costituzionali del Congresso nella sfera della politica estera e sicurezza nazionale includono regolare il commercio con le altre nazioni; […]; provvedere alla di-fesa comune; […] reclutare e mantenere eser-citi; creare e mantenere una marina militare; emettere regolamenti per l’amministrazione e l’ordinamento delle forze di terra e di mare; procedere alla chiamata in servizio della mi-lizia per fare eseguire le leggi dell’Unione, sopprimere insurrezioni e respingere inva-sioni […].7

La formulazione e l’attuazione della poli-

5. La durata del mandato di ognuna di dette cariche non può superare quella del mandato del Presidente, se non confer-mate dal suo successore. 6. Art. II. Sez.2 e 3. 7. Art I, Sez.8.

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tica estera e di sicurezza nazionale è pale-semente un procedimento complesso che richiede la collaborazione di entrambi i po-teri esecutivo e legislativo, il secondo dei quali dispone di specifiche commissioni in entrambi le Camere.Con l’assistenza o per il tramite degli organi che compongono l’esecutivo, il Presiden-te esercita l’iniziativa reagendo a sviluppi esteri e internazionali, proponendo speciali disegni di legge, negoziando accordi e trat-tati, emettendo dichiarazioni politiche e dando esecuzione a decisioni politiche.A sua volta, il Congresso dà vita ad inizia-tive di politica estera e sicurezza nazionale avvalendosi di risoluzioni e dichiarazioni politiche, di atti, restrizioni e stimoli le-gislativi, di consultazioni informali con esponenti del potere esecutivo ed eserci-tando il controllo parlamentare.Anche se, in quanto organo monocratico, il Presidente dispone di maggiore flessibi-lità rispetto al Congresso nel far fronte alle esigenze di questo duplice settore, tanto la politica estera quanto la sicurezza nazio-nale non sono concepibili o attuabili senza stanziamenti finanziari, la cui prerogativa è congressuale. In politica estera e sicurezza nazionale il Presidente è coadiuvato dal Gabinetto pre-sidenziale, organo consultivo non colle-giale composto principalmente dai titolari dei dicasteri, e dal Consiglio Nazionale di Sicurezza (National Security Council – NSC), organo, foro e strumento per l’inte-grazione delle funzioni politiche, militari

e d’intelligence riguardanti questi settori e presieduto dal Presidente stesso, che ne stabilisce l’effettiva portata ed intensità del ruolo.8 Per il tramite del NSC, il Presi-dente emette direttive per la sicurezza na-zionale e assegna le risorse necessarie.Oltre al Presidente compongono il NSC il Vice Presidente e due membri del Gabinet-to: il Segretario di Stato e il Segretario del-la Difesa. Il Capo di Stato Maggiore della Difesa è di diritto consigliere militare del NSC, mentre lo è per l’intelligence il Diret-

tore dell’Intelligence Nazionale nella sua veste di capo del complesso dei servizi che costituiscono la “comunità di intelligence”. Per prassi partecipano alle riunioni del NSC anche il Consigliere per la Sicurezza Nazionale (un coadiutore del Presidente che gestisce di fatto le operazioni gior-naliere del NSC), il Segretario del Tesoro, l’ambasciatore presso le Nazioni Unite, l’Assistente Presidenziale per la Politica Economica e il capo dello staff presidenzia-le. La partecipazione del Guardasigilli e del

8. Il Gabinetto è sorto per prassi mentre il NSC è stato istituito dalla Legge sulla Sicurezza Nazionale del 1947.

La formulazione e l’attuazione della politica estera e di sicurezza nazionale è palesemente un procedimento complesso che richiede la collaborazione di entrambi i poteri esecutivo e legislativo

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Direttore dell’Ufficio per la Politica di Con-trollo sulla Droga è prevista per le riunioni che riguardano i settori di loro competen-za. Ulteriori alte cariche e funzionari sono invitati all’occorrenza. Il NSC dispone di un proprio staff, che cura il supporto logi-stico e amministrativo e funge da punto di contatto iniziale per i dipartimenti e gli al-tri enti che intendono sollevare questioni di pertinenza del NSC.Il Segretario di Stato è istituzionalmente il consigliere principale del Presidente in ma-teria di politica estera e di diplomazia, non-ché il responsabile del Dipartimento di Stato e quindi incaricato dello sviluppo e attuazio-ne delle relazioni internazionali degli Stati Uniti. Il Presidente, tuttavia, spesso si sosti-tuisce al Segretario di Stato nella conduzione della politica estera o si avvale prevalente-mente di altri consiglieri. Mentre, la direzione delle forze armate com-pete al Presidente nella sua veste di coman-dante in capo, il Segretario della Difesa è il principale assistente del Presidente in tutto ciò che riguarda i compiti del suo dicastero. Lo Stato Maggiore della Difesa è subordina-to al Presidente ed al Segretario della Difesa ed è composto dal Capo di Stato Maggiore della Difesa – consigliere militare primario del Presidente e del Segretario della Dife-sa – e dai rispettivi Capi di Stato Maggiore dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronau-tica. Nell’organizzazione del Dipartimento della Difesa risaltano, sotto l’aspetto opera-tivo, i “comandi combattenti interforze” la cui linea di comando risale al Presidente per il tramite del Segretario della Difesa. Que-sti comandi sono organizzati su base geo-

grafica (ad esempio, Comando Europeo e Comando Pacifico) e in questo caso rispec-chiano la proiezione geopolitica e gli inte-ressi ed impegni internazionali degli Stati Uniti oppure corrispondono a criteri fun-zionali (ad esempio, Comando Interforze per il supporto ad altri comandi e Comando Operazioni Speciali per tali compiti). Sia l’invio sia l’impiego delle forze armate debbono essere decisi dal vertice dell’ese-cutivo, ma sono ulteriormente disciplina-ti da un atto legislativo del Congresso del 1973 noto come Risoluzione sui Poteri di Guerra. Esso stabilisce che il Presidente informi il Congresso qualora egli invii con-tingenti militari a fronteggiare ostilità in corso o imminenti. L’uso della forza deve essere terminato nell’arco di 60-90 giorni se non autorizzato o prorogato dal Con-gresso. Ogni qualvolta possibile il Presi-dente deve consultare il Congresso prima dell’invio delle forze armate. Ai fini della politica estera e della sicurezza nazionale operano altresì i servizi d’infor-mazioni e di sicurezza, noti negli Stati Uni-ti come agenzie di intelligence. Le funzioni di questi servizi, privi di pro-pri poteri decisionali di natura politica, riguardano la raccolta e l’analisi delle in-formazioni necessarie per la formulazione e la conduzione della politica estera e di si-curezza nazionale da parte delle massime autorità federali. A loro volta, le operazioni coperte o speciali, a latere della diploma-zia classica, rappresentano solo una mini-ma parte dei compiti d’istituto di alcuni di questi servizi. Tutti i servizi d’intelligence sono soggetti

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a direttive, autorizzazioni e verifiche non solo del Presidente, ma anche delle apposi-te commissioni di controllo (oversight) del-le Camere del Congresso e in determinati casi di un organo giudiziario. Sono altresì previsti intelligence briefings per otto par-lamentari investiti di eminenti funzioni all’interno delle due Camere.Le operazioni coperte o speciali – che ab-bracciano forme di propaganda e di finan-ziamento estero, nonché attività parami-litari – sono sottoposte ad un particolare regime di controllo. Debbono essere spe-cificamente autorizzate dal Presidente per iscritto e preventivamente. I servizi d’informazioni e di sicurezza fan-no parte della “comunità di intelligence”, la quale attualmente abbraccia sedici enti coordinati dal predetto Direttore di Intel-ligence Nazionale. Per il tramite del NSC, l’intera comunità predetta è alle dipen-denze gerarchiche del Presidente.

Il più noto dei sedici servizi è l’Agenzia Centrale d’Intelligence (Central Intelli-gence Agency – CIA), ente autonomo – nel senso di non ministeriale – nell’ambito del potere esecutivo. Compito della CIA, da svolgersi unica-mente all’estero, è quello di raccogliere informazioni avvalendosi di fonti umane e di analizzare e fornire ai poteri decisio-nali informazioni derivanti altresì da fonti tecnologiche di pertinenza di altri servizi. E’ altresì suo compito, su diretto ordine del Presidente o per il tramite del NSC, compiere sempre all’estero funzioni d’in-telligence che influiscono sulla sicurezza nazionale e che in alcuni casi richiedono che il ruolo degli Stati Uniti non sia reso pubblico. E’, per contro, vietato alla CIA l’esercizio di poteri di polizia e di funzioni di sicurezza all’interno degli Stati Uniti.Otto servizi appartenenti alla “comunità di intelligence” fanno parte del Diparti-

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mento della Difesa. La Defense Intelligence Agency (DIA) svolge compiti analitici atti-nenti alla difesa, dirige gli addetti milita-ri presso le rappresentanze diplomatiche all’estero e coordina i servizi di intelligence dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica e del Corpo dei Marines. La DIA dispone al-tresì di un Servizio Clandestino della Difesa che opera nel contesto militare. Fanno pa-rimenti capo al Dipartimento della Difesa la National Security Agency, competente in materia di comunicazioni elettroniche; la National Geospacial Intelligence Agency, competente in materia di immagini foto-grafiche e rappresentazioni cartografiche; e il National Reconnaissance Office, compe-tente per gli aspetti spaziali. Due ulteriori membri della “comunità di intelligence” appartengono al Diparti-mento della Giustizia: il Federal Bureau of Investigation, significativamente nello svolgimento dei compiti di controspionag-gio e di contrasto al terrorismo, e la Drug Enforcement Administration, ente addetto al contrasto del traffico di stupefacenti. Ri-entra, a sua volta, nella predetta comuni-tà l’elemento d’intelligence della Guardia Costiera, la quale è inquadrata nel Diparti-mento di Sicurezza Interna. Uffici specializzati in materia di intelligen-ce e perciò membri della stessa comunità sono anche presenti nell’organico dei Di-partimenti di Sicurezza Interna, del Tesoro e dell’Energia. Completa la lista il Bureau of Intelligen-ce and Research, che è organico al Dipar-timento di Stato e svolge esclusivamente funzioni di analisi.

La su illustrata potestà del Presidente in politica interna ed estera è ulteriormente soggetta all’influenza dell’opinione pub-blica ed al potere del Congresso di mettere in stato di accusa e rimuove il capo dell’e-secutivo nei casi di tradimento, concussio-ne o altri gravi reati. Va, infine, tenuto presente che la politi-ca estera di una superpotenza occidentale come gli Stati Uniti può mutare nella for-ma ma non in modo cospicuo nella sostan-za, a prescindere dalla persona del Presi-dente in carica. Affinità culturali, etniche e religiose, nonché interessi economici e di sicurezza collettiva, continueranno ad aggregare Washington con altre nazioni, particolarmente quelle europee. Per di più, l’avvicinamento con la Federazione Russa, non più Unione Sovietica, prospettato dal neoeletto Presidente può ulteriormente saldare i legami transatlantici. Come nel caso delle precedenti ammini-strazioni statunitensi, molto dipenderà dalla competenza e tatto dei collabora-tori e consiglieri del neo-Presidente e dal rapporto che egli stesso saprà instaurare e mantenere con le istituzioni del proprio Paese e quelle estere.

Vittorfranco PisanoCapo del Dipartimento di Scienze Informative per la Sicurezza dell’Università Popolare UNINTESS, ha prestato servizio con il grado di colonnello nello U.S. Army ed è stato consulente ed estensore di relazioni per commissioni del Congresso degli Stati Uniti

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unica cosa di cui sono certo è che i Russi possono fare la differen-za. Conoscono abbastanza bene

l’entità e la capacità delle forze NATO di-spiegate negli Stati Baltici e in Polonia, e sanno che la NATO, nonostante la recente frenetica attività e l’invio di carri armati e armamenti, è molto lontana dall’essere pronta. I Russi hanno scelto di fare pres-sione sull’area Baltica e persino su Finlan-dia e Svezia (entrambe fuori dall’Alleanza NATO) soprattutto per rivelare la vulnera-bilità della NATO e metterne in dubbio la pretesa di proteggere i propri membri più recenti.Molti di questi paesi, soprattutto Lettonia, Lituania e Estonia sono seriamente impre-parati a difendersi. Ci si potrebbe ragione-volmente chiedere perché la NATO abbia voluto così tanto acquisire la loro adesione da non pretendere nessun requisito riguar-do le loro capacità nella difesa.

di Stephen Bryen

LA NATO COMBATTERÀ?E PER COSA?I Paesi Baltici e l’Alleanza Atlantica

I Russi conoscono bene l’entità e la capacità delle forze NATO dispiegate nei Paesi Baltici e in Polonia e sanno che la NATO è ben lontana dall’essere pronta

L'

Scansiona con il tuo smartphone il QR code qui a fianco e guarda il video dell'intervista a Stephen Bryen sul sito:www.nododigordio.org

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La Lettonia per esempio ha meno di 5.000 militari di cui meno di 1.000 nell’esercito. Non ha carri armati né aerei da combatti-mento. Eppure ha una popolazione di 2,3 milioni di abitanti. Ovviamente la difesa nazionale è secondaria rispetto ai pro-grammi sociali e al welfare.La Lituania è messa un po’ meglio, poiché ha introdotto la leva obbligatoria nel 2015. In tutto ci sono 20.000 militari in servizio di cui 4.800 guardie di frontiera, ma sono presenti solo poche unità combattenti. Il Paese sta acquisendo alcuni veicoli da combattimento per la fanteria (IFV) ma nessun carro armato (MBT), possiede po-chissima artiglieria e alcuni aerei da ad-destramento L-39C Albatross (comprati di seconda mano dal Kazakistan) che posso-no fornire una minima difesa aerea. La po-polazione è appena sotto i 3 milioni e sta spendendo circa l’1,9% del PIL per la difesa (soprattutto per il personale).

Anche l’Estonia segue una politica mini-malista della difesa con solo 17.500 milita-ri, per la metà donne. Il numero di militari in servizio è di circa 6.000. Non ha forza ae-rea, a parte un paio di elicotteri e, sebbene aspiri ad acquisire alcuni fighters, per ora non ne ha acquistato nessuno. L’Estonia ha dichiarato di volere più truppe NATO sul suo territorio, purché non siano neri. Per l’Europa, con l’eccezione della Francia, questo non rappresenterebbe un problema, ma lo è per gli Stati Uniti. Nello US Army sono neri il 31% delle donne e il 16% degli uomini in servizio. L’Estonia è un piccolo paese (1,3 milioni) ed investe molto poco nella difesa (477 milioni di euro, cioè circa il 2,3% del PIL, più di Lettonia e Lituania).Lo scenario migliora considerevolmente guardando alla Polonia, che spende 9,4 mi-liardi nella difesa, cioè il 2% del suo PIL. E possiede un esercito e un’aeronautica no-tevoli.

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Svezia e Finlandia, nonostante il loro sta-tus di non-allineati, hanno capacità mili-tari abbastanza importanti. Nel marzo del 2013 la Svezia ha subito una practice run russa che è stata interpretata come una prova d’invasione. L’Esercito svedese ha 120 carri armati (MBT) e più di 500 veicoli da combattimento per la fanteria (IFV). Ha anche una forza di reazione rapida. La Sve-zia ha una Marina piccola ma forte e po-chissimi sottomarini estremamente capa-ci. Soprattutto ha un’Aeronautica di prima qualità, una delle più grandi in Europa, con 217 aerei da combattimento che aumente-ranno di circa 100-120 unità. Il budget per la difesa però è stato ultimamente ridotto e costituisce solo l’1,5% del PIL. L’obbietti-vo sarebbe di incrementarlo fino al 3% del PIL. Resta da capire se i politici svedesi, per la maggior parte di sinistra, permetteran-no un simile aumento. Comunque, di tutti i paesi Baltici (eccetto la Polonia) la Svezia è in buona posizione per difendersi, anche contro i Russi, che troverebbero molto di-spendioso attaccarla.La Finlandia ha la leva maschile universa-le, un forte esercito e una forza di riserva capace. Avendo combattuto l’Unione So-vietica, sanno quanti sacrifici occorrano e quanto conti la preparazione. Mentre la Russia continua a minacciare la guerra, la Finlandia aspira a una relazione più forte con la NATO. Possiede 160 MBT e altri 40 sono in arrivo nei prossimi anni. Ha una Aeronautica di 62 fighters e altri 65 aerei da combattimento relegati al ruolo di adde-stratori. L’Esercito ha un altissimo livello di meccanizzazione e una forte artiglieria.

Sfortunatamente però, rispetto alle neces-sità e alla popolazione, le spese per la di-fesa finlandesi sono troppo basse, circa 2,2 miliardi cioè l’1,3% del PIL. E’ un magro budget per far fronte a possibili minacce locali.Dunque nell’area Baltica è presente un nu-mero di paesi vulnerabili qualora la Rus-sia creasse dei problemi. Mentre gli USA e i suoi alleati della NATO ora hanno 4 battaglioni multinazionali (non brigate) e stanno fornendo moderni aerei multiruo-lo (fighter and strike aircraft) per l’Europe-an Reassurance Initiative, queste forniture rappresentano più un sostegno psicologico che un’effettiva capacità di respingere un eventuale attacco Russo.Uno studio della Rand Corporation è per-venuto a conclusioni molto negative al ri-guardo. Gli investigatori della Rand hanno svolto delle simulazioni, attraverso molte-plici war games, con una vasta gamma di partecipanti esperti, in uniforme e senza, su entrambi i fronti, si evince che il tempo massimo necessario alle forze Russe per raggiungere le periferie delle capitali di Estonia e Lettonia, rispettivamente Tallinn e Riga, è 60 ore.Una così rapida invasione lascerebbe la NATO con un numero limitato di opzioni, tutte negative:Rand ha suggerito le seguenti:

• Una forza di circa sette brigate, incluse tre brigate pesanti - adeguatamente sup-portate da air power, artiglieria e altri mezzi di terra e pronti al combattimento all’inizio delle ostilità - potrebbe essere

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sufficiente a prevenire una rapida inva-sione degli stati Baltici.

• Benché non sufficiente a una difesa pro-lungata della regione o a ripristinare l’integrità territoriale di questi membri NATO, tale posizione cambierebbe fon-damentalmente lo scenario strategico dal punto di vista di Mosca.

I rinforzi USA e alleati agli stati Baltici ap-paiono assai lontani da quello che Rand considera una posizione di minima difesa.

ARTICOLO 5

Il cuore del sistema NATO è la Collective Security, detta anche Collective Defense. L’articolo chiave del Trattato di Washing-ton (o del Nord Atlantico) firmato il 4 apri-le del 1949 è l’Articolo 5.Esso esprime l’idea che un attacco a un Al-leato è un attacco a tutti gli Alleati. Seb-bene la NATO abbia attuato azioni che potrebbero chiamarsi di difesa collettiva riguardo alla Siria e alla crisi in Ucraina, di fatto dal 1949 l’Articolo 5 è stato invocato solo una volta, ossia dopo l’attacco terrori-stico dell’11 Settembre.In quell’occasione si appellarono all’Ar-ticolo 5 gli Stati Uniti. Ma l’invocazione dell’Articolo non si realizzò nel senso au-spicato dagli americani. Soltanto un mese dopo, esattamente il 5 ottobre, la NATO convenne che una forza esterna era im-plicata nell’attacco e quindi si approvò il ricorso all’Articolo 5. Persino allora, in re-altà, si rimase molto lontano da un’azione

di difesa collettiva. In sostanza la NATO conveniva che avrebbe fatto qualcosa per supportare gli USA, ma al contempo consi-derava gli Stati Uniti “liberi” di fare quanto ritenessero necessario secondo gli obblighi derivanti dalla Carta dell’ONU. In sostan-za, la NATO garantiva agli Stati Uniti i di-ritti che avevano sempre avuto e poco di significativo faceva per sostenere l’alleato.Una tale performance dell’Articolo 5 costi-tuisce forse un indizio di quanto la Nato possa essere utile in una vera crisi con un potente avversario. Due aspetti han-no principalmente attirato l’attenzione. Il primo è che l’Articolo 5 lascia agli stati membri la facoltà di decidere quali azioni ciascun stato può intraprendere singolar-mente se l’Articolo 5 è attivato, solo con voto unanime. Il secondo è che l’Articolo 5 è legato fortemente al Consiglio di Sicu-rezza dell’ONU, in cui la Russia ha potere di veto su ogni risoluzione.Ecco il testo completo dell’Articolo 5:“Le Parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o nell’A-merica settentrionale, costituirà un attacco verso tutte, e di conseguenza convengono che se tale attacco dovesse verificarsi, ognu-na di esse, nell’esercizio del diritto di legit-tima difesa individuale o collettiva ricono-sciuto dall’Articolo 51 dello Statuto delle Na-zioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate, intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’impiego della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella re-gione dell’Atlantico settentrionale.”

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“Qualsiasi attacco armato siffatto, e tutte le misure prese in conseguenza di esso, verrà immediatamente segnalato al Con-siglio di Sicurezza. Tali misure dovranno essere sospese non appena il Consiglio di Sicurezza avrà adottato le disposizioni ne-cessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali”La NATO sarebbe capace di raggiungere un accordo nel caso in cui l’azione milita-re contro uno dei paesi Baltici provenisse dalla Russia? E anche dopo una presunta provocazione? Un simile incidente è suc-cesso nel 2007 quando il Soldato di Bron-zo di Tallinn, eretto dai soldati sovietici nel 1949, fu spostato dalle autorità Estoni. Questo comportava o il trasferimento delle tombe dei soldati russi altrove assieme alla statua del Soldato di Bronzo, oppure la re-stituzione dei loro resti ai parenti -se rin-tracciabili- resti affinché li riseppellissero in Russia.

L’incidente del Soldato di Bronzo ha scate-nato uno scontro politico cui i Russi hanno risposto in molteplici modi, principalmen-te con una significativa cyber war contro le organizzazioni governative Estoni, contro i loro militari e contro il sistema bancario e finanziario del paese. Nel 2007 l’Estonia era membro NATO da 3 anni ma non ha chiesto l’attivazione dell’Articolo 5. Oggi però farebbe altrettanto, dopo che la NATO ha dislocato forze sul suo territorio e ha dato assicurazione che la supporterebbe in un conflitto? In un certo senso la NATO si è resa ostaggio di un futuro incidente.Ma la domanda più grande, che Donald Trump ha effettivamente posto, è se gli USA debbano continuare a supportare la NATO quando proprio sugli Usa pesa la maggior parte dell’onere, soprattutto il combattimento e le perdite umane. E an-che se continuassero a volerlo, spinti da un Congresso e da una stampa combattiva,

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che dire degli altri membri NATO?La Grecia e la Turchia supporterebbero la NATO in una lontana battaglia al nord dove non hanno alcun interesse, gravitando co-munque loro nell’orbita russa? La Francia e la Germania rischierebbero il disastro delle loro economie per una guerra che in realtà potrebbe essere evitata?Gran parte della questione baltica è in re-altà legata al pasticcio ucraino. Fin tanto che la questione ucraina può essere miti-gata e disinnescata, il potenziale conflit-to nella NATO è ridotto. La verità è che sicuramente gli stati della NATO hanno giocato un ruolo deleterio nello stimolare il conflitto in Ucraina; questo ha fatto suo-nare un campanello d’allarme a Mosca che sta ancora riecheggiando nei corridoi del Cremlino. Prima o poi deve essere trovata una soluzione che sia coerente che la sicu-rezza occidentale e provveda a garantire uno sbocco alla questione ucraina.Se ci arriveremo dipende non solo dall’abi-lità del Presidente Trump di negoziare, ma anche da quanto il Presidente Putin abbia bisogno di proteggersi da suoi bellicosi ge-nerali.

Stephen BryenGià sottosegretario alla Difesa degli Stati Uniti d’America ed ex Presidente di Finmeccanica Nord America.

Tradotto da: Ugo CardiniStudente di Economia e Commercio, appassionato di Difesa e Sicurezza.

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l generale Michael T. Flynn ha ol-tre trent’anni di carriera ai mas-simi livelli dell’intelligence mili-

tare americana, essendo stato protagonista di missioni nei più diversi teatri (Grenada, Haiti, America Centrale, Iraq e Afghanistan), e avendo lavorato fianco a fianco con figure come i generali Petraeus e Mc Chrystal. Il suo nome è diventato noto anche ai non ad-detti ai lavori in almeno due occasioni: una prima volta, quando è stato sollevato dalla posizione di Direttore della Defense Intelli-gence Agency americana per aver dichiarato davanti a una Commissione parlamentare che gli Stati Uniti sono oggi più in perico-lo di quanto non lo fossero alcuni anni fa; e una seconda volta, proprio in questi gior-ni, perché il suo nome, secondo la stampa statunitense, è entrato nella short-list delle personalità tra cui Donald Trump potrebbe scegliere il suo candidato vicepresidente. Se la scelta cadesse su Flynn, si tratterebbe di

di Daniele Capezzone

THE FIELD OF FIGHTHow We Can Win the Global WarAgainst Radical Islam and Its Alliesdi Michael T. Flynn e Michael Ledeen (ed. St.Martin’s Press)

I

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una mossa in grado di cambiare la partita: non solo per le qualità personali di Flynn, ma perché – di tutta evidenza – sarebbe la prima mossa davvero “presidenziale” di Trump.Michael Ledeen è – a mio personale avviso – uno dei massimi intellettuali viventi. Uomo di eccezionale cultura e visione, da decenni con libri, articoli e una incessante attivi-tà di studio, ricerca e divulgazione (dap-prima all’American Enterprise Institute, ora alla Foundation for Defense of Democracies), ammonisce sulla necessità di promuovere a livello globale libertà e democrazia, di ab-battere dittature e rovesciare tiranni, di non accettare la logica dell’appeasement e del ce-dimento rispetto ai nemici dell’Occidente.Si tratta di due maverick, di due outsider ri-spetto ai loro stessi mondi: di due uomini li-beri, che hanno pubblicato questa settima-na un pamphlet, scritto a quattro mani, dal valore doppio: da un lato, perché si ricono-

sce pagina dopo pagina l’architettura e la vi-sione della politica internazionale secondo Ledeen; dall’altra, perché la testimonianza personale e diretta e le conoscenze sul cam-po del generale Flynn rappresentano una fonte di primissima qualità. Chiunque sia il nuovo Presidente americano, farà bene a tenere questo libro sulla propria scrivania, come bussola e guida per compiere scelte diverse da quelle – deludenti, rinunciatarie, pericolose – dell’amministrazione Obama.La tesi centrale del libro può essere rias-sunta così. Nel mondo, c’è un network di gruppi estremisti islamisti (Isis, Al Qaeda, Hamas, Talebani, Boko Haram, ecc) che sono da anni in crescita esponenziale: per i lutti che provocano, per la loro crescita e la loro capacità di proselitismo, per la loro penetrazione verso obiettivi occidentali. Noi, finora, non siamo stati in grado (perché non lo abbiamo voluto con determinazione sufficiente e con necessaria chiarezza di vi-

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sione) né di contrastarli né di colpire chi li sostiene. E qui sta la seconda parte del pro-blema. C’è un insieme di Paesi (diversissimi fra loro, a volte anche ostili gli uni agli altri) che, per varie ragioni, ritengono di soste-nere o fare sponda alle reti terroristiche, o che comunque, per altra via, concorrono a ritenere l’Occidente il proprio nemico: Co-rea del Nord, Russia, Cina, Iran, Siria, Cuba, Venezuela, eccetera.Flynn e Ledeen presentano una fotografia choccante: anche se i nostri leader dicono che stiamo vincendo, la verità è che stia-mo perdendo. Ora, occorre fare due cose. Primo: riconoscere che siamo dentro una guerra, una nuova guerra mondiale, e non continuare a negarla, chiudendo gli occhi dinanzi alla natura del nemico. E’ sinto-matico che Obama non riesca praticamen-te mai a pronunciare insieme le tre parole “radical islamist terror”. Secondo: non basta immaginare un piano per “ridurre il danno”, per “gestire” la situazione, per “contenere” il nemico. Occorre (e Flynn e Ledeen lo met-tono nero su bianco) un piano per vincere.Nel mare di spunti di questo volume, che mirabilmente intreccia teoria geopolitica/geostrategica e azione sul campo, seleziono cinque aspetti a mio avviso particolarmente significativi.

1. Nelle situazioni (si pensi all’Iraq) in cui una grande missione militare si trasforma in una specie di guerriglia, può sempre ac-cadere il peggio. Ergo, è essenziale ottene-re il supporto delle popolazioni locali, che – in genere – non vogliono essere diretta-mente implicate, almeno fino al momento

in cui non abbiano deciso chi sia destinato a vincere il conflitto. Più che una scelta, quella delle popolazioni locali è una sorta di profezia che si autoavvera, nel senso che il contributo della loro “intelligence territo-riale ambientale” e delle loro risorse uma-ne si rivela essenziale. In fondo, spiegano Flynn e Ledeen, nell’estate del 2006 le cose stavano andando molto male in Iraq: Bush ebbe il merito di comprenderlo e di cam-biare strategia, inviando Petraeus. Anche allora (come oggi su scala globale) c’era un errore nel mettere a fuoco la big picture, il quadro complessivo, anche perché lo stato reale delle cose sul campo confliggeva con la “narrazione” politica più rassicurante. Ma il capo politico ebbe il coraggio di modifica-re i suoi piani e di sostituire i capi militari sul terreno. Un punto essenziale divenne proprio il rapporto con le popolazioni locali, alle quali fu trasmesso (e oggi sarebbe ne-cessario fare lo stesso più complessivamen-te, rispetto al mondo arabo) un messaggio chiaro e inequivocabile: che l’America non aveva (non ha) obiettivi imperialisti ma di sincera cooperazione, e soprattutto che vo-leva (vuole) vincere davvero, non lasciare le popolazioni locali in mezzo al guado, sem-pre in balia di un nemico non sconfitto.

2. I nostri nemici (in testa Isis e Al Qaeda) hanno un’elaborazione e una preparazione sofisticatissima, al massimo livello. Flynn e Ledeen ricordano (riferendosi a covi di Al Qaeda scoperti in Iraq nel 2005, e poi a un covo di Al Zarqawi, e sono cose di 10 anni fa!!!) che le forze occidentali ritrovarono piani strategici di straordinaria raffinatez-

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za, e una estrema e dettagliata conoscenza dell’Occidente. In tempi più vicini a noi, i recenti attentati (Parigi, Bruxelles, ecc) hanno mostrato anche l’estrema disciplina dei terroristi islamisti nell’uso delle comu-nicazioni, tale da vanificare o comunque da rendere assai meno efficace una tradizio-nale attività di intercettazione. È dunque essenziale infiltrare queste organizzazioni. E fare uso (gli autori ne parlano diffusamen-te) di tecniche volte a ottenere il massimo di informazioni dai nemici catturati. Sono dunque indispensabili: interrogatori pene-tranti e con dotazioni anche tecnologiche elevatissime; un costante “ponte elettroni-co” tra le strutture che interrogano sul cam-po e le strutture centrali dell’intelligence a Washington; sburocratizzare le procedure autorizzative e ogni collo di bottiglia; mas-simizzare il valore e l’utilità di ogni singo-la informazione ottenuta dai prigionieri in funzione e a beneficio di ciò che sta con-

temporaneamente accadendo sul campo di battaglia; rafforzare nei nemici l’idea della “onnipotenza” occidentale; e per questa via, naturalmente, sarà anche più facile capire se alcuni prigionieri vogliono ingannarci con false informazioni. Tutto ciò – a mio avviso – oltre a essere sacrosanto dovrebbe aiutare l’Occidente a superare l’illusione di poter sconfiggere il nemico islamista “in punta di diritto”, cioè con mezzi legali ordi-nari. Lo spiegava Churchill rispetto ai nazi-sti, e la cosa è più che mai vera settant’anni dopo rispetto al nazi-islamismo: se qualcu-no pensa di ottenere qualcosa da normali interrogatori con verbali e avvocati, temo viva su un altro pianeta…

3. È necessario smettere di farsi illusioni sull’Iran, tramutato dalla presidenza Oba-ma in un interlocutore privilegiato. Al con-trario, Flynn e Ledeen hanno buon gioco a mettere in fila dozzine di episodi che, in

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modo chiaro e incontrovertibile, mostra-no quanto il regime di Teheran supporti e alimenti le reti terroristiche, oltre a mas-sacrare la speranza di libertà del proprio popolo. Esempi? Il caso dei terroristi di Al Qaeda addestrati in Libano con materia-le fornito dall’Iran; il fatto che Al Zarqawi abbia costruito il suo primo network del terrore proprio mentre si trovava in Iran (difficile pensare che il regime non sapesse e non volesse…); o, più indietro nel tempo, il vero e proprio “manuale terroristico” di provenienza iraniana ritrovato dalle forze britanniche della Nato in Bosnia nel lonta-no 1996. Ciononostante – accusano giusta-mente Flynn e Ledeen – nessun presidente americano ha mai invocato il regime chan-ge a Teheran, e Obama è arrivato al punto di umiliarsi nel negoziato sul nucleare.

4. Flynn e Ledeen sono molto duri, a mio avviso lucidamente, anche sulla Russia di Putin. Qui la cosa è molto interessante, an-che perché la vulgata giornalistica europea tende invece a descrivere Flynn come un “putinofilo”…Invece i due autori non ri-sparmiano a Mosca una chiara accusa: Putin ha rapporti opachi con l’Iran (ovviamente non mancano frizioni e sfiducia reciproca, però il legame di fondo c’è); non ama la democrazia; e soprattutto anche lui indivi-dua nell’Occidente, nella Nato e negli Stati Uniti il bersaglio da colpire o comunque da indebolire. Ma il punto è soprattutto “ideo-logico”: la Russia fa parte di quella catena di stati che preferiscono la dittatura ai sistemi democratici e a società aperta. E’ la solita storia, ben conosciuta nel Novecento: con i

totalitarismi e gli autoritarismi che tendono ad attrarsi, prima che i loro interessi con-fliggano (anche Hitler e Stalin, oltre al noto patto, cooperarono per smembrare la Polo-nia, prima di combattersi come sappiamo).

5. L’ultima e decisiva parte del libro di Flynn e Ledeen è dedicata a come vincere. Vince-re – lo dicevo all’inizio citando i due autori – vuol dire esattamente vincere, non solo “pareggiare” o trovare un qualche equili-brio di compromesso. Vuol dire distruggere militarmente il nemico; uccidere e cattura-re i leader terroristi; screditare la loro ide-ologia; sfidare i regimi che li supportano; costruire nuove alleanze strategiche per il Ventunesimo Secolo. Purtroppo Obama ha fatto il contrario, costruendo il suo Nobel sulla “non leadership” e sulla “non vittoria” occidentale, e costruendo il vuoto (fisico-militare e politico-ideologico) in cui il ter-rorismo ha potuto trovare spazi per crescere e rafforzarsi. Il terrorismo islamista (come il nazismo e il comunismo nel secolo scor-so) parte da una presunzione di superiorità rispetto all’Occidente, alla libertà e alla de-mocrazia. A suo tempo, l’America seppe an-dare all’attacco – insieme – ideale e fisico di quei nemici. Ora occorre fare lo stesso. Pri-mo: usando l’arma più potente di tutte, cioè i media e l’informazione, mettendo in cam-po tutto l’arsenale dei media tradizionali e di quelli social (occorre però la cooperazio-ne dei giganti Google, Facebook, Twitter): occorre dunque osservare-monitorare-in-tercettare, ma soprattutto occorre contrat-taccare culturalmente, denunciando quelle ideologie. La confutazione (e magari la ri-

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dicolizzazione) è più efficace di qualunque censura o atto di repressione. Naturalmen-te, però, questo significa abbandonare tutto il devastante retaggio politically correct del nostro Occidente: quello per cui l’Islam è “religione di pace”; quello per cui ci sarebbe qui da noi una sorta di “Islamofobia”; quel-lo per cui tutte le culture e tradizioni sono equivalenti… Secondo: occorrono le armi tradizionali, quelle militari, per una vittoria sul campo che non lasci nemmeno un pez-zetto di territorio al nemico. Le due guerre (la “guerra delle idee” e la “guerra sul campo di battaglia”) vanno combattute insieme: sono l’una complementare e funzionale ri-spetto all’altra. E la sconfitta dei nostri ne-mici su entrambi i piani farà anche crollare la loro capacità di proselitismo: perché mai milioni di giovani arabi dovrebbero aderire a una causa perdente, a un’ideologia ridico-lizzata e medievale, e non cogliere quanto di meglio (libertà, democrazia, progresso) possiamo offrire loro?Questo libro è uno strumento di eccezionale importanza, di assoluto valore culturale, po-litico, militare. Si chiude con una nota tanto lucida quanto realistica. Un piano del genere richiede leader occidentali convinti, consa-pevoli della sfida e determinati a battersi per vincere. Ci sono leadership del genere? Forse no. È possibile lavorare per costruirle, raffor-zarle, incoraggiarle? Certamente sì.

Per gentile concessionedell’On. Daniele Capezzone.

Tratto dalla sua newsletter “Giuditta’s files”numero 65, 15 luglio 2016

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n secolo fa, il Presidente ame-ricano Theodore Roosevelt so-stenne di fronte ai giornalisti

che il futuro del pianeta si sarebbe giocato tra le due sponde dell’Oceano. E quando la stampa gli fece notare che è sempre stato così, Roosevelt ribatté divertito: “Sì, ma io stavo parlando del Pacifico”.È noto, infatti, che negli ultimi decenni ab-biamo assistito al progressivo spostamen-to delle preoccupazioni geopolitiche ame-ricane dall’Oceano Atlantico al Pacifico. Il confronto-scontro con l’emergente poten-za cinese ha rideterminato l’impegno poli-tico, economico e militare di Washington che, dallo storico intreccio di rapporti con l’Europa, appare ora più interessato ad in-crementare la sua presenza in altre aree del globo terrestre.Ed in particolare l’Amministrazione guida-ta da Barack Obama ha finito per confer-mare questa tendenza, perseguendo una

di Daniele Lazzeri

L’“ATLANTICO ORIENTALE”GLI USA NON POTRANNO FARE A MENO DEL GIGANTE ECONOMICO EURO-MEDITERRANEO

Un volume di studi collettaneo, curato da Eugenia Ferragina per l’Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo “ISSM-CNR”, che raccoglie l’approfondita analisi di docenti universitari, esperti e ricercatori impegnati nel complesso compito di illustrare le dinamiche geopolitiche, economiche e sociali che si intessono tra le due sponde del “Mare Nostrum”.

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politica di progressivo abbandono della presenza statunitense in Medio Oriente, con il lancio della sua strategia denomina-ta “Pivot to Asia”.La sua “unwillingness”, la riluttanza ad intervenire nei magmatici scenari medio-rientali ha finito per consegnare ad altri at-tori geopolitici – sia globali come la Russia, sia regionali come Turchia, Arabia Saudita ed Iran – le chiavi per ridisegnare le mappe di aree in passato ritenute da Washington di primaria valenza strategica. Quale sarà, dunque, il futuro per il Medi-terraneo? Quel meraviglioso “Continente liquido” – per dirla con Fernand Braudel – appare, infatti, sempre più marginale ri-spetto agli antichi fasti che lo hanno visto protagonista nel corso dei secoli. Come ab-biamo rilevato, la sua centralità geopoliti-ca sembra appannarsi per finire relegata a mera “periferia del mondo”. Uno specchio d’acqua su cui si affacciano Paesi deboli e rissosi, attraversato dalla disperazione dei flussi migratori che spingono milioni di persone verso l’Europa e caratterizzato da economie dal futuro incerto e poco coor-dinato.Una disamina articolata della situazione attuale e delle prospettive euro-mediter-ranee, si può trovare nell’edizione 2016 del “Rapporto sulle economie del Mediterra-neo” (Ed. Il Mulino, pp. 266, Euro 22,00). Un volume di studi collettaneo, curato da Eugenia Ferragina per l’Istituto di Stu-di sulle Società del Mediterraneo “ISSM-CNR”, che raccoglie l’approfondita analisi di docenti universitari, esperti e ricercatori impegnati nel complesso compito di illu-

strare le dinamiche geopolitiche, econo-miche e sociali che si intessono tra le due sponde del “Mare Nostrum”.Nelle pagine del Rapporto vengono evi-denziati gli effetti del progressivo disim-pegno degli Usa nel Mediterraneo di cui si è parlato in precedenza. Un cambiamento strategico dell’Amministrazione Obama, influenzato anche dalla nuova indipen-denza energetica acquisita dagli Usa, che si è tradotto nel ritiro americano dal Me-dio Oriente e dal Nord Africa “mettendo a nudo – scrive nell’introduzione Eugenia Ferragina – il fatto che dal 1956 gli europei hanno delegato la politica mediorientale agli Usa e che oggi di conseguenza gli eu-

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ropei non hanno una politica mediorienta-le, né riescono concepirla”.Da qui, l’incontrollabile recrudescenza del mai sopito scontro tra Sunniti e Sciiti e la lotta per la leadership regionale tra Arabia Saudita ed Iran che hanno determinato la destabilizzazione di Yemen, Libano e Siria. Il fallimento delle cosiddette “Primavere arabe” e di quel riformismo islamista in Nord Africa, inoltre, hanno dato avvio ad una nuova ondata del radicalismo jihadi-sta, sfociata nei numerosi attentati terro-

ristici degli ultimi anni. Un quadro a tinte fosche, inasprito dal dramma del fenome-no migratorio che sta riversando sulle co-ste europee, nel fianco meridionale della Turchia e lungo la rotta balcanica, un flus-so inarrestabile di persone alla disperata ricerca di condizioni di vita migliori.Ciò avviene mentre continua a calare il peso demografico dell’Unione europea rispetto al resto del mondo, passato dal 14,5% del 1952 al 7% nel 2010. Contempo-raneamente i benefici dei flussi migratori verso l’Europa in termini di riduzione dei livelli di disoccupazione nei Paesi di pro-venienza e di apporto di competenze e

capacità contributiva nei Paesi di destina-zione è messo in discussione dall’eccesso di offerta che preme dalla riva Sud. Le con-seguenze e l’impreparazione ad affrontare queste ondate migratorie sono sotto gli oc-chi di tutti e, secondo il Rapporto, necessi-tano di un rinnovato piano di sostegno e di investimenti internazionali destinati alla crescita, alla creazione di infrastrutture e di formazione del “capitale umano” nei Pa-esi di partenza.Ciò è tanto più vero per gli Stati “Mena” (Middle East and North Africa) che appa-iono ben integrati nelle reti di produzione globale ma ancora bloccati in stadi a basso valore aggiunto.Tuttavia, nonostante le numerose difficol-tà da un punto di vista politico, economico e sociale, vi sono esempi di successo tra i Paesi prospicienti il Mediterraneo. Tra tut-ti “il Marocco che – grazie alla prolunga-ta stabilità politica – punta a diventare il principale hub produttivo del continente africano ed in particolare al ruolo del porto di Tanger Med, uno dei principali del Me-diterraneo per movimentazione container e transito di mezzi navali grazie alla sua posizione strategica sullo Stretto di Gibil-terra, alle caratteristiche del porto e alla presenza di grandi società del settore ship-ping come la Maersk e di aziende leader nel comparto automotive, come la Renault”. La chiave del successo di Rabat è certa-mente da individuare nell’assenza di dazi doganali, in una politica di sgravi ed age-volazioni fiscali e di semplificazione delle procedure amministrative in grado di at-tirare gli investimenti stranieri. Ma anche

Nonostante le numerose difficoltà da un punto di vista politico, economico e sociale, vi sono esempi di successo tra i Paesi prospicienti il Mediterraneo. Tra tutti, il Marocco.

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grazie all’efficienza della rete di trasporti stradali, ferroviari ed aeroportuali in grado di realizzare quel “moltiplicatore delle op-portunità” che ha consentito di coniugare una posizione geografica favorevole con un’efficienza logistica e portuale.Ma nel Rapporto, ampio spazio è dedica-to anche all’importanza del settore della “green economy” per lo sviluppo econo-mico e la mitigazione degli effetti del cam-biamento climatico nei Paesi mediterranei nonché ai quei cruciali fattori di competi-tività rappresentati dalla reti di trasporto, logistica e dalle zone franche per tutti gli Stati della sponda Sud del Mediterraneo. Tutti segnali di un’economia ancora vita-le e potenzialmente in grado di reggere il confronto con le altre economie globali. Un’area certamente complessa e con ampi margini di miglioramento ma per nulla marginale, come dimostrato diffusamente dal contributo analitico degli Autori. L’annuale “Rapporto sulle economie del Mediterraneo” è dunque un prezioso stru-mento per approfondire le tematiche che vedono coinvolti tutti i Paesi bagnati da quel mare che continua a raccontarci le storie del passato e che inizia già a sussur-rare le trame future delle Civiltà che vi si affacciano.

Daniele LazzeriDirettore responsabile “Il Nodo di Gordio”

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essanta anni fa, il Premio Nobel per l’economia Milton Friedman tenne una serie di lezioni al Wa-

bash College in Indiana, fonte ispiratrice di uno dei lavori più famosi della sua ope-ra: Capitalism and Freedom (Capitalismo e Libertà). In questo volume, breve ma au-torevole, Friedman enunciava principi di governo limitato e potere decentrato, pre-senti nella Costituzione americana, essen-ziali per preservare la libertà. Inoltre, egli sottolineava che se “la libertà economica costituisce…uno strumento indispensa-bile per raggiungere la libertà politica”, la libertà politica non è essenziale per il rag-giungimento della libertà economica.L’ascesa della Cina a potenza economica nel 21° secolo mi ha fatto riflettere a lun-go sulla conclusione di Friedman, secondo cui un paese potrebbe essere allo stesso tempo capitalista e indemocratico. Hanno dunque ragione gli studiosi nell’avvertire

di Amanda Schnetzer

LEGGERE FRIEDMAN NEL 2016: CAPITALISMO, LIBERTÀ E LA SFIDA DELLA CINA

Gli studiosi avvertono che il modello cinese di capitalismo autoritario potrebbe prevalere sul capitalismo democratico. Ma il modello economico cinese è sostenibile? Potrebbe davvero portare ad un declino della democrazia in un futuro non troppo remoto?

S

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che il modello di “capitalismo autoritario” del Partito Comunista possa trionfare sul capitalismo democratico? O, piuttosto, si può individuare qualcosa di insostenibile nel modello cinese e, pertanto, ancora spe-rare che miliardi di persone nei paesi in via di sviluppo possano sperimentare ciò che Friedman definiva “assenza di coercizione” nella vita politica ed economica?Nel volume Capitalismo e Libertà, Friedman scrive:“L’Italia fascista e la Spagna fascista, la Germania in diversi momenti…..il Giap-pone prima della I Guerra Mondiale – sono tutte società che non possono verosimil-mente essere descritte come politicamen-te libere. Pur tuttavia, in ciascuna di esse, l’impresa privata era la forma dominante di organizzazione economica. E’ dunque possibile avere un’organizzazione econo-mica capitalista e un sistema politica non libero”.

COSA DICONO GLI STUDIOSI Un numero sempre più nutrito di studio-si sta cercando di far luce sull’impatto di tale organizzazione sulla Cina odierna. Ad esempio, in un articolo pubblicato nel 2013 su The Atlantic, (http://www.theatlantic.com/china/archive/2013/03/why-the-china-model-isnt-going-away/274237/), il gior-nalista Joshua Kurlantzik offre una delle migliori descrizioni che abbia mai letto del modello cinese di “capitalismo autoritario” e del perché gli Stati Uniti dovrebbero pre-occuparsi.La forma ibrida del capitalismo cinese ha prodotto una forte crescita economica e liberato dalla povertà milioni di persone pur mantenendo un forte controllo gover-nativo. Ha anche conquistato sostenitori dal Vietnam alla Russia facendo del mo-dello Cina, scrive Kurlantzik, una “valida alternativa alle democrazie di punta”. E ciò

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costituisce, secondo lo stesso autore, “la minaccia più seria nei confronti del capita-lismo sin dall’ascesa del comunismo e del fascismo”.Un collaboratore della rivista Forbes va ben oltre:” Temo che la Cina possa un giorno, diciamo nell’arco dei prossimi 50 anni, soppiantare gli Stati Uniti e soffocare la de-mocrazia su scala mondiale”. (http://www.forbes.com/sites/anderscorr/2016/03/16/the-tipping-point-of-chinas-authoritarian-capitalism/#357e9a874c60). “E’ più proba-bile tra 20 anni” è stata la replica di un ex-capo di stato.Gli studiosi potrebbero sempre più pensare che i giorni del capitalismo democratico si-ano contati. Credo, invece, che ci siano an-cora spazio ed opportunità per il contrario, anche in Cina.In primo luogo, la Cina potrebbe avere un sistema autoritario a regola d’arte ma è ben lungi dall’essere capitalista. Infatti, l’uso del termine “capitalista”, autoritario o altro, maschera la limitata liberalizzazio-ne dell’economia cinese. Nei vent’anni in cui il Wall Street Journal e la Heritage Foundation hanno pubblicato il loro indice annuo di libertà economica, la Cina è stata costantemente annoverata tra i paesi “generalmente meno liberi”.Il suo punteggio complessivo di libertà eco-nomica (http://www.heritage.org/index/country/china) nel 2016 è pari a 52 su 100- lo stesso del 1995, anno di esordio dello studio. Su 178 nazioni, la Cina è solo al 144° posto. Delle 10 libertà economiche tracciate dallo studio, solo gli indici relati-vi alle libertà di commercio, libertà mone-

taria e assenza di corruzione sono miglio-rati nello stesso periodo.Tutto il resto è peggiorato a diversi livelli tra cui gli indici relativi ai diritti di proprie-tà privata, alla libera circolazione di capi-tale finanziario, e alla libertà dal controllo governativo nel settore finanziario.

PUÒ DURARE IL MODELLO CINA?

Non c’è nulla di incongruente nella com-prensione da parte nostra del modello Cina: maggiore apertura al commercio in-sieme a un pesante controllo governativo e interventi nei settori chiave. Il vero proble-ma è se tutto ciò può perdurare. (http://www.economist.com/blogs/freeexchange/2016/07/taking-china-s-temperature).Nel breve termine, la Cina ha dato priorità a progetti statali per spronare un’econo-mia stagnante e raggiungere gli obiettivi di crescita del Presidente XiJinping. A lun-go termine, anche alcuni dei leader cinesi riconoscono la necessità di una maggiore liberalizzazione per sostenere la crescita economica. Se fosse così, anche la libe-ralizzazione politica potrebbe avere una chance.In secondo luogo, il successo economico cinese non ha completamente schiacciato il desiderio, del popolo cinese, di maggio-re libertà. Si prenda in considerazione la crescente classe media, pari all’11% della popolazione. Secondo Minxin Pei del Cla-remont McKenna College, la Cina “non è di fronte ad un’imminente rivolta della classe media…(ma) i segnali sono evidenti”.Nel frattempo, sottolinea Pei, la classe

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media cinese resta in gran parte “politica-mente passiva”. Ma nei prossimi dieci anni o giù di lì, egli sostiene, “cresceranno ulte-riormente i livelli di reddito e di istruzio-ne e di conseguenza dovrebbero crescere le dimensioni della classe media. In altre parole, nel prossimo decennio, la trasfor-mazione sociale della Cina renderà la sua società più intollerante nei confronti di un regime monopartitico”. Del resto, si registrano già proteste su aspetti legati al diritto al lavoro e alla ter-ra soprattutto e in maniera crescente nelle aree urbane del paese dove si concentra maggiormente la classe media. E’ sempre più netta la consapevolezza che la Cina non può diventare uno stato moderno con un governo monopartitico.In terzo luogo, gli Stati Uniti possono o ac-cettare il dominio del modello Cina come inevitabile o invece fare qualcosa. La lea-dership americana ha un ruolo da svolgere nel riaffermare i principi di libertà econo-mica e politica e nel rafforzare le istitu-zioni e le alleanze che li riflettono su scala mondiale. La leadership statunitense ha anche il compito di sorvegliare i migliora-menti che alcuni paesi devono compiere in tema di stato di diritto, diritti umani, par-tecipazione politica in cambio di relazioni economiche più solide.Le recenti aperture all’Iran e a Cuba ri-velano alcune lacune. Né tanto meno la retorica anti-scambi commerciali e prote-zionistica di entrambi i candidati alle pre-sidenziali americane lascia presagire nulla di positivo per il modello capitalista demo-cratico. Pur tuttavia, gli Stati Uniti devono

far pressione per garantire libertà econo-mica e politica.In una video-intervista del 2003 (http://www.youtube.com/watch) il compianto Milton Friedman esprimeva la sua previsione: “La Cina abbraccerà sempre più la libertà poli-tica se continuerà a perseguire con succes-so la strada della libertà economica”. Per il momento, tutto sembra remare contro ma è ancora troppo presto per arrendersi.

Amanda SchnetzerDirector of Global Initiatives at the George W. Bush Institute in Dallas, Texas. In this role, she is responsi-ble for developing innovative research, programmatic, and policy efforts to advance societies rooted in poli-tical and economic freedom and to empower women to lead in their communities and countries.

Titolo originale “Reading Friedman in 2016: Capita-lism, Freedom, and the China Challenge”

© The Catalyst – Il Nodo di Gordio, Gennaio-Apri-le 2017

Si ringrazia per la gentile concessione William McKenzie, Direttore della rivista “The Catalyst” del G.W. Bush Institut

Tradotto da: Elvira LapedotaCIHEAM Bari

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ORIZZONTIDAL CREMLINO

148 IL RUOLO STRATEGICO DI MOSCA NEL NUOVO SCACCHIERE MONDIALE di Franco Cardini

160 NEL MONASTERO ALTRUI NON SI VA CON IL PROPRIO STATUTO di Irina Osipova

In questa sezione:

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Orizzonti dal Cremlino

Mosca, nonostante la fragilità della sua economia, è tornata di prepotenza al tavolo dei Grandi. Ed esercita sempre

più un’influenza globale

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er i suoi irriducibili avversari, che lo temono e lo detestano, è “Zar Putin”: una denominazio-

ne originariamente denigratoria e demo-nizzante che molto probabilmente non gli dispiace affatto; per i suoi più decisi esti-matori, quelli secondo i quali egli rimane tutto sommato quello che tra tutti i leaders al mondo più da vicino somiglia a quel che classicamente si sarebbe fino a poco tempo fa definito uno “statista” e l’unico a poter in un modo o nell’altro catalizzare e ma-gari almeno in parte indirizzare le forze di quanti si oppongono sia all’egemonia definitiva delle lobbies multinazionali sul pianeta sia all’indolenza senza prospetti-ve di chi si arrende all’ “Occidente-Mondo” dell’inarrestabile(?) ruota produzione/pro-fitto (del quale gode un numero sempre più ristretto di soggetti)/consumo (il McWorld), egli è ormai “San Vladimiro da Mosca”, co-lui che non solo ha contribuito in maniera

di Franco Cardini

IL RUOLO STRATEGICO DI MOSCA NEL NUOVOSCACCHIERE MONDIALE

Putin appare, ormai, ai suoi estimatori come l’unico leader capace di opporsi allo strapotere delle grandi lobby finanziarie mondialiste

P

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decisiva al fallimento del progetto mo-noegemonico messo a punto dai neocons americani tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, ma che costituisce an-che il principale, valido ostacolo a una ri-definizione del Vicino e Medio Oriente che ne accresca il potenziale destabilizzatore sostituendo all’equilibrio sostanzialmente stabilito nel 1920 a Sanremo dal “memo-randum segreto d’intesa” francobritannico sullo sfruttamento delle risorse petrolifere del Vicino Oriente postottomano un nuovo sistema ancor più pericoloso, fondato sulla scomposizione-ricomposizione territoria-le etnoreligiosa.Di Putin si ricorda ancora – ed è bene non dimenticarlo – la responsabilità nel massa-cro dei ceceni di Grozny; ma si è scordata invece l’immagine abbastanza caricatu-rale dei bei tempi del governo Berlusconi, quando le foto di entrambi – forniti di cap-pottone di pelliccia e di alto colbacco nella

dacia di campagna di Vladimir – ispiravano a un bello spirito della RAI il confronto con l’irresistibile sequenza di Totò, Peppino e la Malafemmina nella quale due benestanti cafoni della Campania profonda sbarcano, con analogo abbigliamento, nella stazione di quella Milano che nel loro immaginario è la gelida Ultima Thule; e abbiamo mes-so da parte anche l’immagine vagamente boccacciana del “lettone di Putin” caro alle vere o supposte prodezze sessuali del Ca-valiere di Arcore. Ormai, Putin è in realtà l’immagine – di-scussa e magari “demonizzata” finché si vuole – di una nuova Russia che, se la si-gnora Clinton avesse vinto le elezioni statunitensi del dicembre scorso, sarebbe stata la potenza egemonica da battere nel clima di una “nuova guerra fredda” para-gonabile a quella degli Anni Cinquanta-Ottanta del secolo scorso; mentre, con Trump, si presenta – quanto meno nelle

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conclamate e non ancor chiare intenzioni del nuovo inquilino della Casa Bianca -, se non propriamente come un alleato, quan-to meno come il possibile partner privile-giato di una ridefinizione dell’equilibrio del pianeta che dia nuovo spazio alla po-litica al di là dell’in apparenza “naturale”, “obiettiva” e “inarrestabile” dinamica del turbocapitalismo economico-finanziario1 ora che – dopo la “conferenza di Davos” – quella sessantina di gruppi e di lobbies che sembrano essere i veri padroni del mondo si sono visti costretti ad uscire almeno in parte allo scoperto.Nel corso delle ultime battute della cam-pagna elettorale statunitense, mentre al signora Clinton si era trincerata, quanto alla futura politica estera del suo paese, dietro il consueto, per i democratici ame-ricani indiscutibile e incrollabile, dogma dell’incondizionato appoggio a Israele e della linea duramente antirussa e antira-niana al tempo stesso, Obama si era al-lontanato dalla candidata del suo partito – che notoriamente detesta, ma rispetto alla quale ostentava un appoggio comun-que incondizionato – consentendo agli USA addirittura un voto neutrale riguardo all’ultima dichiarazione della maggioranza ONU a proposito d’Israele e Palestina e fa-vorendo un almeno parziale atteggiamen-to di distensione nei confronti dell’Iran nel momento nel quale però induriva le sue posizioni (in evidente esplicito contrasto rispetto alle dichiarate intenzioni “filorus-se” di Trump) proprio contro la Russia. In

procinto di abbandonare la Casa Bianca, il “presidente uscente” ha assestato for-malmente indirizzandolo a Putin, in pra-tica con al trasparente volontà di colpire colui che stava in procinto di sostiiuirlo nello Studio Ovale, un potente “colpo di coda”: l’annunzio di nuove sanzioni alla Russia per i supposti attacchi degli hacker di quel paese durante le elezioni e l’ordine di espulsione di 35 diplomatici russidefini-ti “persone non grate”. Inoltre Obama ha dato istruzioni al Dipartimento di Stato di chiudere due compounds, ripettivamente in Maryland e a New York “che sono usati da personale russo per attività collegate a operazioni d’ intelligence”.Non si è fatta attendere la risposta da parte del Cremlino. Promettendo di ribattere an-che in futuro, colpo per colpo, a qualunque “atto ostile”, Mosca ha già adottato una prima contromisura concreta ordinando per ritorsione la chiusura della la scuola anglo-americana di Mosca frequentata dai figli del personale delle ambasciate Usa, britannica e canadese, ma anche da ragazzi di altre nazionalità; intanto è stato chiuso anche l’accesso alla residenza di vacanza dell’ambasciata USA a Serebryany Bor, vi-cino a Mosca.Sembrerebbe una guerra di dispetti. Forse c’è qualcosa di più. Vale la pena di legge-re per intero il testo di un’intervista con-cessa appunto alla fine dell’anno scorso a IntelligoNews da un giornalista, scrittore e commentatore politico, Giulietto Chiesa, del quale si può anche dire tutto il male

1. Per gli obiettivi del quale, e la loro pericolosità, rimandiamo a O. Roy, Dismisura, Napoli, Controcorrente, 2016, e a N-Polony – Le Comité Orwell, Bienvebue dans le pire des mondes, Paris, Polon, 2016.

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che si vuole ma che è un grande conoscito-re e un’indiscussa autorità a proposito del mondo russo.

“ -Come definisce l’espulsione di Oba-ma, una vendetta?-Non è una vendetta soltanto, ma un’ope-razione politica che tende a usare, a mio avviso molto scorrettamente, gli ultimi giorni di una presidenza per predetermi-nare la situazione in cui dovrà agire il pre-sidente eletto. Per correttezza colui che se ne sta andando non dovrebbe prendere de-cisioni di grande portata, perché altrimenti condiziona il successore. Questa è una de-cisione che sta cercando di condizionare l’unica scelta che Trump ha mostrato fino ad ora con chiarezza, cioè la volontà di mi-gliorare i rapporti con la Russia di Putin.

-Putin ha risposto chiudendo una scuo-la anglo-americana. Finirà qui o ci sa-ranno altre ritorsioni?-La situazione è molto grave, non è affatto uno scambio di sgarbi. Grave perché asim-metrica: nessun ambasciatore americano è stato ucciso in un luogo pubblico, nessun aereo americano è stato abbattuto mentre si alza in volo da un aeroporto americano, mentre dall’altro lato si chiude una scuola.2 Mi pare che sia non simmetrica la situazio-ne. Si tratta di vere e proprie dichiarazioni preventive di una guerra ibrida che è già in corso e che proviene evidentemente da parte americana”.

-Perché?-Perché la Russia non fa altro che ribadire la propria sovranità rispetto ad azioni che sono palesemente ostili da parte degli Stati Uniti.

-Quindi cosa farà Putin?-Non credo che faccia niente, aspetterà. Probabilmente una parte dei funzionari americani a Mosca saranno espulsi, come misura di normale ritorsione diplomatica. Ma più in là non si andrà”.

-Quali sono gli effetti per Trump? Oba-ma lo sta mettendo in difficoltà, oppure Trump dal 20 gennaio volterà semplice-mente pagina? -La situazione è difficile da capire perché tutto questo che si manifesta come uno scontro tra Obama e Putin in realtà è uno scontro tra Obama e Trump. O meglio, tra i democratici e Trump. Quindi uno scontro interno agli Stati Uniti. Per questa ragione io ritengo che Putin non farà nulla, il primo a sapere che la battaglia è interna agli Stati Uniti è Putin. Salvo che ovviamente non si debba difendere.

-Assad intanto chiede all’Europa di “togliere l’embargo” perché così “aiu-ta i terroristi”. Dietro queste scelte di Obama c’è il timore verso l’asse Putin-Erdogan-Assad che potrebbe iniziare a piacere all’Europa? C’è il rischio che l’Europa si sposti più verso la Russia?

2. Si allude evidentemente all’uccisione dell’ambasciatore russo a Istanbul e al disastro dell’aeroporto di Soci che ha cau-sato la morte die componenti del coro dell’Armata Rossa, amato e popolarissimo in tutta la Russia.

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-Obama sta cercando di forzare la situazio-ne per forzare gli europei. Questo scontro interno agli Stati Uniti si riproduce eviden-temente anche in Europa. Le elite europee, che si sono schierate sempre senza alza-re un sopracciglio sulla linea americana, adesso si trovano spiazzate da molti fatto-ri. Dalla debolezza americana alla sconfitta statunitense in Siria, nonché dalla nuova alleanza Mosca-Ankara-Teheran. L’Ameri-ca della Clinton e di Obama vuol far sapere all’Europa che non ci saranno modificazio-ni di comportamento. Bisognerà vedere se le attuali leaderships europee staranno sul-la linea precedente o cercheranno di ade-guarsi, lo scopo dell’operazione Obama è esattamente questo”.Ora, il discorso è evidentemente cambiato. Gli osservatori si stanno chiedendo come Trump svolgerà il difficilissimo, quasi pa-radossale còmpito che si è autoassegnato: mantenere infrangibile alleanza con Isra-

ele, ma al tempo stesso procedere insieme con Putin verso une generale ridefinizione delle alleanza planetarie che cominci con una comune intesa sulla Siria e sulla li-quidazione di Daesh, metter da canto o in qualche modo modificare comunque ruolo e assetto della NATO, rispettare le promes-se di rigorosa ostilità nei confronti dell’I-ran che sono il patrimonio dell’old great party repubblicano fino dal ‘79 e dai tempi di Reagan.Ma sul gioco di Trump si parla in altra sede. E quello di Putin?Noialtri “occidentali” siamo vissuti circa sette decenni nella beata illusione che fos-se un ricordo del passato, qualcosa di di-ventato ormai impossibile: almeno da noi. Roba che ormai succedeva anche altrove e agli altri. Forse avremmo dovuto ricre-derci da tempo: e forse, del resto, magari avevamo già mangiato la foglia almeno dal tempo del Vietnam eppure non volevamo

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ammetterlo. Certo, pian piano, il suono dei tamburi lontani si è andato sempre più av-vicinando all’Aiuola Felice dell’Occidente: il Vicino Oriente, l’Africa, l’Iran, l’America latina, i Balcani.Ora ci siamo. Non alla guerra, o comunque non è detto. Ma alla sensazione che qual-cosa è cambiato, che l’incanto è rotto, che siamo quasi in prima linea o che comunque ne abbiamo il sospetto, la paura, la rasse-gnata certezza, magari perfino l’incoscien-te curiosità. Le guerre del presente sarenno anche a “bassa intensità”, come si è detto con un’espressione che ha avuto molta for-tuna. Ma alle genti del Vicino e del Medio Oriente questa intensità che dura ormai da troppi anni sembra altissima: e non hanno senza dubbio torto. In questa sede, è op-portuno dimenticare che la lunga fase dei bombardamenti, delle “operazioni di poli-zia umanitaria”, delle campagne di “espor-tazione della democrazia” è cominciata ormai quasi quarant’anni or sono, con l’ar-rivo in Afghanistan dei guerrieri-missiona-ri sauditi e yemeniti sunniti per concorrere alla cacciata dell’Armata Rossa e alla fine del regime socialista ivi insediato: quindi con l’inoculamento nell’area mediorien-tale del virus fondamentalista sunnita dal quale sono scaturiti al-Qaeda prima, il Da-esh poi. Il jihadismo si è rivelato, fino dalle sue prime battute, obiettivamente alleato anziché avversario dell’occidente egemo-nizzato dagli Stati Uniti. Se a uno storico del futuro, un anno qua-lunque del futuro, un “Anno X” (ammesso che in quell’anno ci saranno ancora degli storici), qualcuno facesse un quadro come

quello del 2017 - lo sconvolgimento dell’a-rea siro-irakena, la corsa al nucleare di pa-esi come la Corea del Nord e il Pakistan, il persistere delle crisi ucraina e caucasica, le conseguenze del tentato golpe turco, la cri-si del neonato accordo tra paesi occidentali e Teheran voluto da Obama ed evidente-mente avversato da Trump, il caos africano fonte inesauribile della nuova Völkerwan-derung che giustamente preoccupa l’Euro-pa ma alla quale non si sa porre rimedio in quanto non se ne conosce (o non se ne vuol riconoscere) la vera causa, infine la pauro-sa sperequazione socioeconomica che vige nel pianeta - e gli chiedesse quanto manca allo scoppio della nuova guerra mondiale , quello risponderebbe forse qualche giorno, forse qualche settimana o mese. Ma forse ha ragione il papa : la guerra (“terza” o “quarta” che sia) è già comin-ciata, solo che nulla è accaduto come il 3 settembre del ‘39, quando i governi di Sua Maestà Britannica e della Repubblica fran-cese consegnarono il loro ultimatum al go-verno del Reich. In parallelo alla polveriera del Vicino Oriente, di cui in questi giorni soprattutto si parla, non dimentichiamo che il periodo a cavallo tra 2014 e 2015 è stato caratteriz-zato dal conflitto in Ucraina; in apparen-za remoto, in realtà irrisolto e legato a ciò che sta avvenendo oggi. Nei colloqui svol-ti all’inizio del 2016 tra i premiers russo, ucraino, tedesco e francese per risolvere la crisi ucraina, c’erano una Grande Assente e un Convitato di Pietra: un’assenza e una presenza entrambe inquietanti. La Grande Assente era l’Europa, che avreb-

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be dovuto essere la principale se non unica mediatrice tra Ucraina e di Russia. Il pre-sidente francese e la Frau Kanzler Merkel, rappresentanti di un’Europa “carolingia” e atlantista (e così arriviamo al Convitato di Pietra) non erano obiettivamente rappre-sentare da soli l’Unione Europea, la quale purtroppo non dispone ancora (se mai ne disporrà) di alcuna voce diplomatica, sem-plicemente perché l’Europa politicamente unita e indipendente purtroppo non esi-ste.3 La crisi ucraina riguarda viceversa in primissima istanza proprio l’Europa non-ché quella che dovrebb’essere la sua vicina, confinante e anche alleata o quantomeno buona interlocutrice e partner tanto po-litica quanto economica e commerciale, la Russia. Ma perché l’Europa si è lascia-ta trascinare su una via pregiudizialmente ostile nei confronti della Russia, perché si è lasciata imporre addirittura un embargo deleterio soprattutto e anzitutto per l’eco-nomia italiana? E qui entra in scena il Convitato di Pietra: l’ambigua presidenza di allora degli Stati Uniti d’America, che di tanto in tanto si dimenticava di essersi tirata in disparte ri-spetto al ruolo di superpotenza egemonica mondiale e di tanto in tanto si dimentica-va di essersene dimenticata: e prometteva armi all’Ucraina (il che oltretutto aveva l’aria di un buon business: e Obama ave-va promesso al suo popolo, in vista delle elezioni, di tirarlo fuori dalla crisi…) ri-schiando di trasformare la crisi ucraino-russa, che si avrebbe avuto bene il motivo

di ritenere almeno in parte intraeuropea, in una crisi russo-”occidentale” (cioè sta-tunitense) trascinando ovviamente in essa un’Europa investita non già del ruolo sto-rico e geopolitico indipendente e sovrano che sarebbe stato bene le spettasse, bensì in quello di gregaria degli USA.E qui il Convitato di Pietra si sdoppiava: il suo alter ego e la sua longa manus erano ovviamente la NATO, organizzazione in cui entrano ancora automaticamente tutti i nuovi partners dell’Unione Europea e che dipende essenzialmente dal Pentagono. Era (e resta?) la NATO, quindi il Pentago-no, quindi gli USA, ad aver interesse a piaz-zare i suoi centri tattico-strategici il più vicino possibile alla frontiera russa: era il copione della Georgia nel 2008 che a nord del Mar Nero si stava ripetendo, mutatis mutandis, quasi alla lettera. L’Europa veni-va da tutto ciò ancora una volta emargina-ta, ancora una volta ridotta a non-potenza gregaria, a coacervo di stati non sovrani. Ma oggi, nella distanza della “media du-rata”, va riconosciuto che a un quarto di secolo dal disfacimento dell’Unione So-vietica, la Russia ha ripreso a esercitare un suo saldo peso sulla scena internazio-nale. Pressoché assente durante la guerra in Iraq, ben diverso è apparso il suo ruolo nella crisi siriana, partita pressoché in con-comitanza con quella ucraina: un ruolo che si espresso addirittura nell’impianto di una forza marinara militare non indifferente, e che ha tutta l’aria di non essere effimera, lungo la costa sirolibanese .

3. Ha molte ragioni G. Dussouy, Fondare lo Stato europeo. Contro l’Europa di Bruxelles, tr.it., Napoli, Controcorrente, 2016.

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Orizzonti dal Cremlino

Indubbiamente, Vladimir Putin è non solo il simbolo, ma anche il leader concre-to ed effettivo di questa ripresa, che non ha mancato di attirargli strali mediati-ci e politici. Per esempio, quando mesi fa un charter russo con 224 persone, tra cui 27 bambini, cadde in Egitto e il Daesh ne rivendicò l’abbattimento, “Charlie Heb-do” raggiunse il punto più basso del suo già squallido profilo morale pubblicando l’immagine di un missile-supposta che pe-netrava l’aereo dal retro, scherzando sul nuovo tipo di bombardamento russo (i de-triti) che pioveva sulla testa dei miliziani jihadisti (e la Russia era la sola, insieme con le forza lealiste siriane, i curdi e alcuni pasdaran iranaini, a opporsi sul serio alle forze di al-Baghdadi laddove la “grande coalizione” che si pretendeva guidata da-gli USA latitava arando con le sue bombe il deserto e ammazzando innocenti). In tutt’altro scenario, la legge votata dal-la Duma e firmata da Putin nel 2013, che proibiva la propaganda tesa a contraddire i valori della famiglia tradizionale (di fatto, impediva solo la propaganda delle unioni gay e le manifestazioni come il gay pride; i rapporti omosessuali non sono invece per-seguiti), veniva tresentata in modo stravol-to e pesantemente contestata in Occiden-te. L’allora primo ministro italiano Gianni Letta si disse seriamente preoccupato per la questione e affermò che l’avrebbe fatto presente alle Olimpiadi invernali di So-chi, in Russia; peccato che, quando proferì tale affermazione, stesse rientrando da un viaggio ufficiale in Qatar, dove l’omoses-sualità è proibita con pene che arrivano

alla condanna capitale. Esgli si comportò comunque sempre meglio di Obama, Mer-kel, Cameron, Hollande: che addirittura disertarono l’apertura dei giochi per l’i-dentica ragioni, ma che non avevano mai manifestato problemi nel recarsi in Arabia Saudita, in Qatar, nel Kuwait e negli Emi-rati pur ben sapendo che in quegli stati l’omosessualità è condannata con estrema durezza. Ma si trattava, è ovvio, di “amici” e “alleati”.Beninteso: siamo qui di fronte a segnali

poco più che simbolici; eppure essi sono significativi dell’atmosfera di disagio, di sospetto e di dispetto che circonda questo ritorno della Russia sulla scena politica. Ancora più gravi il caso siriano e l’assetto della questione missilistica nel suo insie-me . Nella Siria assadista, l’Unione Sovie-tica aveva un sicuro partner: la rinnovata partnership, sostenuta da evidenti motivi di carattere geopolitico, si è fatta sentire an-che con Putin, come si vide dall’intervista concessa - provocando ovviamente grande rumore - dal leader russo a Paolo Valentino e pubblicata su “Il Corriere della Sera” del 6 giugno 2015. Al di là delle domande e delle risposte, serrate entrambe, colpirono nel quotidiano milanese la contraddittorietà

Nella Siria assadista l’URSS aveva un sicuro partner; la rinnovata alleanza, sostenuta da ragioni geopolitiche, si è fatta sentire anche con Putin

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e la sottintesa slealtà del rapporto tra un titolo che poteva sembrare conciliante ma suonava come excusatio non petita (Putin: “Non sono aggressore: patto con l’Europa e parità con gli USA”) e un sottotitolo, a ti-tolo di smentita, pretendeva viceversa di smascherare nella linea putiniana una pe-ricolosa e unilaterale volontà aggressiva (Il presidente russo al Corriere: “Svilupperemo il nostro potenziale aggressivo e penseremo a sistemi in grado di superare la difesa an-timissilistica degli USA”). Dal momento che troppi lettori non vanno oltre i titoli e i sottotitoli, l’ inganno era chiaro: rispetto alle parole di Putin la sostanza del pro-blema veniva ribaltata e la denunzia dello scudo spaziale statunitense – pensato per impedire che un eventuale obiettivo dei missili USA potesse rispondere al fuoco, e quindi squisitamente offensivo – era stra-volta in una dichiarazione intenzionalmen-te aggressiva. L’inversione degli aggettivi – il potenziale difensivo russo ribattezzzato “aggressivo”, il sistema aggressivo statu-nitense ridefinito “difesa antimissilistica” - lasciava, nel suo cinismo lessicale spec-chio di ben altro cinismo, senza parole. La denunzia del premier russo, che sapeva bene di trovarsi sotto tiro – e dalla Georgia all’U-craina gli USA e la NATO non facevano che puntare sulla Russia nuove armi offensive – veniva rovesciata in un ordine di discorso contrario, che faceva dei possibili aggressori dei probabili aggrediti e viceversa. Ma il punto non è ancora questo. Il pro-blema vero è che almeno finora – Trump cambierà qualcosa, nel quadro dell’annun-ziato suo “nuovo corso” dei rapporti russo-

statunitensi? - ormai da parecchi anni la presidenza degli Stati Uniti e il Pentagono sembrano aver di nuovo orientato il loro dispositivo tattico-strategico sulla Russia e su tutti i suoi effettivi o probabili partners, com’era accaduto fra gli Anni Cinquanta e gli Anni Ottanta. Eravamo abituati a quello che pur era apparso un abuso: lo stravolgi-mento degli originari còmpiti della NATO da alleanza in prospettiva antisovietica a strumento aggressivo e deterrente nei con-fronti di almeno una parte del mondo ara-bo-islamico, senza che gli “alleati” europei venissero messi a parte del mutamento tattico-strategico e obbligandoli anzi ad accettare un fatto compiuto. Ma le cose sono poi cambiate di nuovo. Tra 2008 e 2014 l’Occidente – e in ciò come in altre cose l’Unione Europea ha regolarmen-te spalleggiato gli statunitensi, andando spesso anche contro i suoi interessi econo-mici e commerciali – ha successivamente provocato in Georgia prima, in Ucraina poi, colpi di mano antirussi più o meno abil-mente truccati da sollevazioni “popolari” che avevano come scopo il “rovesciamento delle alleanze”, il passaggio di quei paesi dall’amicizia con la Russia al legame con la NATO e l’avvicinamento di basi fornite an-che di testate nucleari al confine russo. Era ovvio che Putin rispondesse come poteva: le secessioni dell’Ossezia meridionale dal-la Georgia e della Crimea dall’Ucraina sono state la conseguenza di quelle aggressioni. In seguito, mentre la politica statunitense si faceva meno chiara a causa dei dissensi fra il presidente Obama e il congresso ege-monizzato dalla destra repubblicana, era la

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volta della leadership francese e inglese a indirizzare nella sostanza la NATO ancora una volta indirettamente contro la Russia, fomentando in Siria la rivolta contro Assad.Da molte parti si stava ormai parlando di una nuova “guerra fredda”: e sembrava che se ne vogliano ricostituire gli schiera-menti, con il vantaggio da parte dell’Occi-dente di aver attirato dalla sua una parte dei paesi europei ex-membri del Patto di Varsavia, spesso sfruttando cinicamente il rancore diffuso nei confronti della vecchia egemonia sovietica. I governi europei, con una scelta arbitraria che non teneva in al-cun conto la volontà dei popoli interessati (basti pensare all’intollerabile imposizione di una base NATO a Vicenza, quella della Dal Molin, contro l’esplicito parere della stragrande maggioranza della popolazio-ne), ottemperarono allora al diktat statu-nitense in forza del quale i nuovi membri dell’Unione Europea divenivano automati-camente anche membri della NATO: e ciò senza alcuna verifica a proposito dei nuovi còmpiti che quell’alleanza politico-milita-re si sarebbe posta, ora che quelli che pote-vano giustificarla erano stati già da tempo stravoltiMa quanto meditate, quanto ragionevo-li erano le nuove scelte? Quanto lo sono adesso? Il mondo dalla fine della “guerra fredda” e anche dai tempi in cui gli USA si atteggiavano, con il presidente Bush jr., a unica superpotenza, sono definitivamente tramontati. Ora, in un clima di peraltro in-certo e confuso multilateralismo, si è evi-dentemente dinanzi a nuove frontiere e a nuovi impegni: dall’ascesa della Cina che

sta progressivamente mangiandosi l’Africa alla minaccia di un nuovo e più aggressivo fondamentalismo musulmano ch’è stato causa non ultima del sia pur cauto “disge-lo” nei rapporti tra la Washington di Oba-ma e Teheran, in seguito a una politica distensive nella quale la Russia di Putin aveva fatto lealmente la sua parte.E allora, chi volvae ricreare una nuova, ar-bitraria “cortina di ferro”? L’atteggiamento russo nei confronti dell’Europa ha seguito fino dai tempi di Gorbaciov una politica improntata a obiettiva chiarezza: ne sono stati conseguenza rapporti economici e commerciali floridi e vantaggiosi per en-trambe le parti. Non fingiamo di non sa-pere che governi ed imprese occidentali (a cominciare dall’Italia) hanno digerito poco e male il diktat americano che imponeva l’embargo alla Russia all’indomani della crisi ucraina. Quella scelta non era nel no-stro interesse nazionale, come non lo era in quello di altri paesi europei.E giustamente Putin allora si chiedeva: perché l’opinione pubblica e i media euro-pei mostravano di ritenere del tutto “ovvia” e “naturale” la politica di acquiescenza dei loro governi nei confronti di un’America che sembrava aver intenzione di rianimare il vecchio spauracchio del “nemico meta-fisico”, della Russia-Impero-del-Male (ci siamo già scordati della ridicola proposta di Obama, secondo la quale avemmo do-vuto far a meno del gas russo a buon mer-cato e importare a carissimo prezzo quello americano?), mentre invece ci si scanda-lizzava poi del fatto che la Confederazione degli Stati indipendenti, della quale Mosca

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è a capo, si preoccupasse di tutelare i suoi rapporti con i confinanti Siria e Iran e di porgere una mano alla Grecia ortodossa o all’Armenia, che al Cremlino hanno sempre guardato come al loro grande protettore?Sono domande che restano valide ancor oggi: e che c’impongono di chiederci quali potrebbero essere per l’Europa le conse-guenze di un riavvicinamento russo-ame-ricano, accompagnato da un mutamento di prospettiva statunitense nei confronti della NATO, e quali quelle invece del caso in cui tale riavvicinamento irsultasse effi-mero o illusorio.Perché al fondo tutto ciò esiste per noi un’altra, ineludibile domanda: ci sono davvero motivi storici, culturali e “na-turali” che colleghino noialtri europei al continente americano più strettamente di quanto non siamo invece collegati a quell’Eurasia della quale l’Europa rappre-senta l’apice nordoccidentale? “Il Volga nasce in Europa”, è stato detto. E non ba-sta. Anche la grande cultura russa nasce da una radice bizantina e si è “europeizzata” fra Sei e Ottocento (da Pietro il Grande in poi) sulla base delle istanze che le proveni-vano dalla Francia e dalla Mitteleuropa. E c’è di più: il legame sempre più stretto tra un’Europa e una Russia che hanno, come area di comune fruizione, un “Mediterra-neo allargato”. Oggi una nave che parta da Gibilterra può in pochi giorni, attraverso i Dardanelli, il Bosforo, il Don e il Volga-Donskoj Kanal, arrivare nel Caspio, ai porti di Baku e di Astrakan. Perché mai quin-di, per gli europei, in questo nuovo Great Game la “carta atlantica” dovrebb’essere

dogmaticamente più plausibile della “carta eurasiatica”?In un mondo i rapporti all’interno del qua-le sono in continua ridefinizione, il presi-dente Putin lancia la sua sfida. L’America, come superpotenza, ha intonato quattor-dici anni or sono con la campagna irakena il suo “canto del cigno”: un canto alquanto sgraziato. Ma come s’inserirà in tutto que-sto il nuovo progetto isolazionistico-ame-ricocentrico di Trump? Quale sarà la nota sulla quale egli intonerà il suo Amerika First? E’ questo senza dubbio che, al Crem-lino, vorrebbero capire e sapere. E vorrem-mo tanto capirlo, saperlo anche noi. Intanto, un segnale che ci ha commossi. Finalmente il 20 dicembre scorso, ad Alep-po, è stato di nuovo drizzato un albero di Natale simbolo di riconciliazione e di pace. Sotto di esso, si sono ritrovati musulmani e cristiani. Aleppo era stata liberata: e senza il concorso delle ambigue forze siriane che si dicono anti-Daesh, e magari a modo loro lo sono (in quanto esponenti di uno jihadi-smo di timbro diverso), senza il concorso di quelle della fantomatica “Siria democrati-ca” nella quale credono solo Bernard-Hen-ri Lévi e i suoi compagni di merende della gauche-caviar e della neodestra ultraliberi-sta parigine. Aleppo è stata liberata dall’e-sercito della Repubblica Araba di Siria, che esiste ancora, e grazie al concorso sovieti-co. I terroristi hanno impedito al leggen-dario coro dell’Armata Rossa di cantare a Damasco, ma non hanno saputo impedire all’albero di Natale di Aleppo di coprire con la sua ombra pacifica chi ha ritrovato, auguriamoci per sempre, libertà e sereni-

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tà. E ciò grazie anche a san Vladimiro da Mosca, che procede intanto anche a un inedito, storicamente audacissimo – quasi azzardato, è vero – new deal con la Turchia. Dai tempi di Pietro il Grande, Russia e Tur-chia sono sempre state nemiche, così come Russia e Persia costantemente amiche ed alleate. San Pietroburgo e Isfahan (o Mo-sca e Teheran) hanno sempre collaborato, ed entrambe hanno sempre avuto rapporti difficili con Istanbul (o con Ankara). Nel Novecento la politica e la diplomazia sta-tunitensi sono giunte alla “genialità” di ottenere l’impossibile: prima il riavvicina-mento di URSS e Cina, poi quello di Cina e India. Ora, un’America che ha rinsaldato i rapporti con la Gran Bretagna e che sem-bra marcire nel senso di un nuovo rapporto

con la Russia, riuscirà a smontare l’effetto di un suo nuovo “miracolo”, quello di aver fatto riavvicinare Russia e Iran alla Tur-chia? Ci chiediamo anche ciò: con un po’ allarmato, un po’ incuriosito, perfino un po’ divertito interesse.

Franco CardiniDirettore editoriale “Il Nodo di Gordio”

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L PROBLEMA DELLE FONTI

Per catturare un’immagine ad alta definizione della politica estera russa è fondamentale far combaciare una serie di elementi di un puzzle complesso. Spesso gli opinionisti tratteggiano delle caricature deformi dalla realtà, realizzando delle analisi in assenza di fatti comprovati. Gli esperti in collegamento con i TG molto spesso limitano le proprie analisi alle opinioni soggettive fondate su dei costrutti ideologici prestabiliti che ignorano la sequenza fattuale degli avvenimenti geopolitici. Se sventolando delle provette false fu possibile per gli Stati Uniti invadere l’Iraq, figuriamoci quanto possa essere facile per un politico o un opinionista parlare di Russia solo perché ha il suo spazio mediatico. Le accuse standard rivolte a Putin in politica estera sono solitamente quelle di aver invaso

di Irina Osipova

NEL MONASTERO ALTRUI NON SI VA CON IL PROPRIO STATUTO

L’immagine della politica estera russa appare come quella di una serie di componenti di un puzzle complesso

I

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l’Ucraina, intimorito con armi i cittadini della Crimea, usato i propri hacker contro la Clinton, bombardato gli ospedali in Siria e preparato un blitzkrieg contro gli stati Baltici. A sostegno di queste dichiarazioni accusatorie né i satelliti della NASA, né gli agenti della CIA hanno saputo ancora fornire prove da dare in mano ai propri propagandisti. Nella situazione in cui nei regimi democratici non vi è un’equa distribuzione del potere mediatico tra le forze politiche in campo, non sarebbe possibile parlare dell’esemplarità di libertà d’opinione in Occidente, perché questa viene inevitabilmente vincolata dai media più influenti. Ma anche quando la retorica viene accompagnata dalle presunte prove empiriche ci sarebbe da prenderle con le pinze. Ha provato a dimostrare di avere ragione Poroshenko a Monaco – sventolando le copertine dei passaporti dei presunti militari russi fermati durante

le operazioni in Ucraina. La domanda che un libero cittadino si dovrebbe porre è: il presidente ucraino non ha tenuto presente che in tali missioni si usano altri tipi di documenti d’identità, oppure i suoi spin doctors gli hanno suggerito che simili spettacoli funzionano, perché il cittadino medio tende a fidarsi della diplomazia in stile Collin Powell?Gli squilibri mediatici e le barriere linguistiche ostacolano il cittadino dal reperire le fonti primarie e poter svolgere di conseguenza un’analisi autonoma, ricostruendo la sequenza logica tra gli accadimenti.

IL RISPETTO DELLE DIFFERENZE CULTURALI E POLITICHE

La diplomazia moderna russa si contraddistingue da quella occidentale non solo per una divergenza di approccio,

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ma pure nei modi di interagire con i media e con i rappresentanti degli altri stati. Nel mondo Occidentale, dove il concetto di sovranità e di interesse nazionale perde progressivamente valore, diventa sempre più difficile parlare di confini non solo di carattere fisico, ma di carattere politico.Il ministero dell’Ambiente della Repubblica Italiana ha finanziato la campagna elettorale di Hillary regalando almeno $ 100,000 di contributi pubblici alla Clinton Foundation

(fonte: https://www.clintonfoundation.org/contributors?category=$100,001%20to%20$250,000&page=3). I rappresentanti dell’Unione Europea: Ashton, Steinmeier, Kaczynski, Stetina, Verhofstadt, Westerwelle, gli ambasciatori degli USA, Francia, Spagna, Germania e Danimarca insieme ai funzionari americani Nuland, Biden, i senatori Murphy e McCain erano presenti in prima persona su piazza Maidan a sostenere la sovversione dell’ordine costituzionale in Ucraina. Con l’esordio alla presidenza di Donald Trump, i leader dell’Unione Europea hanno promosso aspre critiche nei confronti della politica interna americana. Dall’altra parte, una volta

venuta meno la struttura politica sovietica, torna veramente complicato trovare una nota diplomatica del Ministero degli Esteri russo intenzionata a dare delle linee guida agli altri Stati. Nessuno dubita che per la Russia sarebbe stato più facile dialogare con Trump piuttosto che con la Clinton, tuttavia se si guarda alla realtà dei fatti il Presidente Russo non ha mai espresso una netta preferenza nei confronti dell’uno o dell’altro candidato americano, al di là di come si pensa comunemente. Nel settembre 2016, durante la campagna elettorale negli Stati Uniti Putin ha affermato che la Russia collaborerà con qualsiasi amministrazione e presidenza USA, aggiungendo:“Trump fa perno sull’elettorato repubblicano tradizionale, sul cittadino medio con un reddito medio, sulla classe operaia e su un determinato gruppo di imprenditori, su persone che aderiscono ai valori tradizionali. La signora Clinton si appoggia sull’altra parte dell’elettorato che sta altrettanto cercando di influenzare in tutti modi. Per questa ragione si attaccano a vicenda. Non vorrei che prendessimo esempio da loro e dal loro modo di fare. Penso che non rappresentano l’esempio migliore. Ma tale è la cultura politica degli Stati Uniti. E’ semplicemente necessario prenderla così com’è” (Traduzione I. Osipova). In queste parole del Presidente russo non viene espressa alcuna preferenza verso i due candidati americani e non vi è alcuna interferenza nella diatriba ideologica tra i democratici e i repubblicani. Commentando i due favoriti delle elezioni americane, Putin si limita a constatare la differenza politica

Per Mosca è indubbiamente più facile dialogare con Trump che con la Clinton, ma Putin non ha mai espresso una preferenza per uno dei candidati

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tra i candidati, sottolineando la divergenza culturale fra i due modelli elettorali (americano e russo), lasciandoli a giudizio del popolo americano. “Nel monastero altrui non si va con il proprio statuto” - dice un detto nazionale tradizionale russo, al quale sembra ispirarsi anche l’approccio putiniano.Il neopresidente americano, per quanto possa piacere anche ai simpatizzanti di Putin, ha un modo diverso di approcciarsi alla politica internazionale rispetto alla Russia. Putin e Trump sono politici di estrazione diversa e sono a capo di due Stati con degli obiettivi geopolitici differenti. Nonostante ciò, sembra essere simile l’approccio statocentrista, promotore del libero mercato ma rispettoso degli interessi nazionali. Le leve politiche coinvolte nel raggiungimento degli obiettivi restano differenti, così come la composizione della scala prioritaria dei partner internazionali. A differenza di Putin, come la maggior parte dei leader occidentali Trump non pensa due volte prima di esprimere dei giudizi sulla politica interna ad esempio dell’Unione Europea, attaccando con la retorica la Germania e l’Euro. Per quanto l’Unione Europea possa rappresentare un’entità geopolitica politicamente ed ideologicamente ostile alla Russia, Mosca non è solita dare indicazioni sul modus operandi in politica interna agli stati europei. Il Cremlino si limita ad intervenire negli affari degli Stati terzi solamente nei casi in cui si tratta di questioni legate alla sicurezza del propri cittadini o della sicurezza nazionale del paese. Un

avvenimento recente che mette in risalto la differenza dell’approccio diplomatico russo si è rivelato nel corso del tentato golpe in Turchia. Subito dopo la svolta politica di Erdogan i politici dell’Unione Europea hanno espresso grandi preoccupazioni sulle decisioni del leader turco, criticando apertamente i provvedimenti in politica interna del loro stesso alleato del blocco NATO e partner dell’Unione Europea. Il Ministero degli Esteri russo invece ha agito inviando una nota ad Ankara, chiedendo di garantire la sicurezza ai cittadini russi in Turchia. Le prove vengono fatte emergere dai vari portavoce della politica estera russa ogni qual volta i cosiddetti partners geopolitici cominciano a pestare i piedi alla Federazione Russa. Basta ricordare come ministero della Difesa russo ha organizzato la conferenza stampa e mostrato in mondovisione i sentieri percorsi dalle cisterne petrolifere dalle zone occupate dall’ISIS transitanti in Turchia. Queste immagini satellitari erano sicuramente possedute e analizzate da mesi, ma sono state fatte apparire, insieme ad una imposizione delle sanzioni, solo quando la Turchia ha oltrepassato il limite abbattendo il Su-24. Un’altra conferenza stampa con immagini satellitari a sostegno delle proprie ragioni è stata svolta dopo che l’Occidente ufficiale aveva rivolto le accuse contro Putin ore dopo l’abbattimento del MH17 in Ucraina. Come risulta ben chiaro da questi esempi la Russia ha agito in modo risoluto per difendersi, applicando la logica binaria azione-reazione. In Occidente le prese di posizione russe spesso vengono

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percepite come aggressione. Le stesse sanzioni imposte alla Russia vengono spiegate come punizione per la cosiddetta annessione della Crimea.

LA CRIMEA, IL DONBASSE LE SANZIONI

Il 17 marzo 2014 è entrato nella storiografica russa come giorno della riunificazione della Crimea e di Sebastopoli con la Russia, compiuta a seguito ad un referendum popolare. Nel mentre gli oppositori della Russia di Putin continuano ad usare il termine “annessione”, essendoci nella guerra dell’informazione anche una chiara battaglia delle parole. Se Trump ebbe modo di dire durante la campagna elettorale in Florida come bisognasse rispettare la decisione degli abitanti della Crimea, la Harey, ambasciatrice trumpiana presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU continua a rivendicare il ritorno della penisola sotto la giurisdizione ucraina, accusando la Russia della destabilizzazione nel Donbass. Sarebbe prematuro dare un giudizio a tale dualismo. L’ipotesi più verosimile spinge a pensare che da una parte Trump stia cercando di trovare un equilibrio dentro il partito repubblicano, e che dall’altra aspetti il momento di incontrare Putin per usare la Crimea come merce di scambio. Non a caso Trump ha già avanzato la condizione che debba verificarsi per muoversi verso l’abolizione delle sanzioni americane alla Russia: l’accordo sul disarmo nucleare. Queste parole suggeriscono una discontinuità

di Trump con la linea strategica dell’amministrazione Obama. Analizzando le vicende ucraine da vicino è semplice dedurre che l’operazione in Crimea è stata un grande errore di valutazione per gli USA, come pure frutto dell’aggressiva politica di espansione occidentale accompagnata dalla diplomazia non tradizionale. Gli avvenimenti in Crimea sono stati la conseguenza diretta dell’operazione Euromaidan organizzata e sostenuta dall’Occidente. Una rivoluzione alle porte di Mosca che con grande prepotenza intendeva ignorare gli interessi vitali dei russi. Come tenne più volte a sottolineare Putin riguardo le proposte di dialogo, alla Russia venne detto che gli accordi tra l’Ucraina alla UE non riguardavano Mosca. Invece questo accordo riguardava proprio gli interessi commerciali della Russia. Con l’entrata in vigore delle clausole commerciali del trattato di associazione dei giallo-blu, la Russia si sarebbe trovata costretta ad abolire il regime preferenziale degli scambi con l’Ucraina per evitare l’afflusso sul mercato russo delle merci europee ri-etichettate. Si sarebbe trattato di una misura volta ad evitare le triangolazioni capaci di danneggiare i produttori del mercato nazionale. Anche in questo caso la prepotenza dei funzionari della UE e del nuovo governo ucraino pensarono di fare a meno del dialogo con la Russia sottovalutando la serietà dell’approccio russo e i suoi interessi. Come preannunciato da Putin le clausole commerciali preferenziali con l’Ucraina sono state abolite e a partire dal 1 gennaio

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2016 il che mise in crisi diversi esportatori, che a loro volta avendo esaurito le quote sul mercato dell’Unione Europea affrontano delle difficoltà economiche. Questo ad esempio è il caso dei produttori delle uova di gallina.Non è un segreto neanche per Kiev, il fatto che dal punto di vista demografico, la maggioranza degli abitanti della Crimea si è sempre sentita appartenere al mondo russo. Invece dal punto di vista della sicurezza nazionale, il passaggio dell’Ucraina nelle mani dei poteri Occidentali avrebbe reso dubbio il controllo russo della sua marina dislocata in Crimea. La flotta russa del Mar Nero nasce nel 1783 proprio a seguito all’annessione della Crimea all’Impero Russo. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, essendo la Crimea divenuta territorio dell’Ucraina per iniziativa personale dell’ucraino Krusciov nel 1954, l’accordo bilaterale russo-ucraino sulla spartizione dell’eredita della flotta sovietica è stato siglato nel 1997. L’accordo ventennale sanciva: che la Russia avrebbe pagato annualmente all’Ucraina 97,75 miliardi di dollari di affitto per alcune insenature costiere per la flotta russa, che 25 mila soldati russi avrebbero potuto trovarsi in Crimea e che la Russia potesse possedervi 338 natanti e 106 aerei ed elicotteri. Intromettendosi negli affari interni ucraini con metodi non tradizionali per le relazioni bilaterali l’Occidente non ha tenuto conto della dottrina ventennale marittima russa del 2001 che sanciva esplicitamente che la difesa alla sicurezza nazionale nel Mar Nero fu assegnato lo

status di importanza prioritaria. Nello stesso documento promosso da Putin si stabiliva l’importanza del mantenimento della Flotta del Mar Nero a Sebastopoli nel lungo periodo. “La Russia non ha amici. Le sue dimensioni intimoriscono. La Russia ha solo due alleati fedeli: la flotta e l’esercito” – lo disse per primo lo zar Alessandro III, ma queste affermazioni trovarono eco in diverse occasioni anche nelle parole di Putin. Le dimensioni della Russia non hanno mai smesso di fare gola agli altri stati e il buon politico non può fare a meno di sottovalutare la constatazione di duecento anni fa. Ignorando gli interessi nazionali russi, nei giorni successivi all’Euromaidan, gli Stati Uniti stavano preparando un attentato proprio a uno dei due alleati più fedeli dello zar. Le navi del gruppo aeronavale statunitense che comprendevano la portaerei a propulsione nucleare George Bush (CSG-2) con 102 tonnellate di stazza e 90 aerei a bordo, accompagnata da 16 navi da guerra, fra cui l’incrociatore USS Philippine Sea, i lanciamissili Truxtun e Roosevelt, tre sottomarini nucleari d’attacco erano già in rotta verso la Crimea in violazione del Trattato di Montreux permessa segretamente dalle autorità turche.Un bravo judoca sa difendersi anche quando l’avversario tenta di sopraffarlo apportando colpi vietati dalle regole convenzionali. In uno dei suoi interventi al forum Valdai, parlando di terrorismo Putin disse – “Quando sai che lo scontro è inevitabile, bisogna menare per primi”. La riunificazione della Crimea alla Russia

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è stata la risposta diretta all’attentato dell’Occidente ufficiale agli interessi vitali del mondo russo. Uno scacco matto di Putin all’amministrazione Obama. La sconfitta americana è susseguita da un desiderio di vendetta da perdente. Gli atti vendicativi dell’uscente amministrazione Obama si manifestano non solo attraverso le sanzioni, ma anche attraverso il finanziamento della guerra in Ucraina e la presenza di uomini come McCain direttamente nel Donbass.Anche la ribellione del popolo del Donbass fu un atto di ostilità manifestato come rifiuto di recepire i comandamenti di Bruxelles. Anche questa volta non sarebbe corretto parlare di aggressione ma di una naturale reazione difensiva dei filo-russi del proprio territorio e della lingua madre. Uno dei primi atti legislativi del maidanismo golpista era l’abolizione della legge che conferiva alla lingua russa lo status ufficiale in Ucraina. (http://rada.gov.ua/news/Novyny/Povidomlennya/88068.html). La popolazione russofona sopratutto dell’est del paese ha manifestato i primi seri sintomi di ribellione proprio dopo questo attacco legislativo ad uno degli elementi fondanti della loro identità. La speranza di molti abitanti del Donbass di riunificarsi alla Russia, revisionando tramite referendum la decisione di Lenin di annetterli all’Ucraina non ebbe luce. La Russia rifiutò di riconoscere l’esito del referendum, spiegando che a differenza della Crimea non vi fu un netto quorum e si sospettavano numerose irregolarità. Kiev inviò dei carri armati per soffocare la

ribellione. Scoppiò la guerra. E’ strano che ci sia ancora qualcuno che dubiti del fatto che alla Russia sarebbero bastati pochi giorni per conquistare non solo il Donbass, ma anche Kiev, se solo ci fosse stata una tale intenzione. La realtà dei fatti vede Mosca insistere sul rispetto degli accordi di Minsk 2 auspicando un cessate il fuoco tra le parti, mentre un senatore americano non perde occasione di aizzare in prima persona i battaglioni mortali sulla linea del fronte in Ucraina.Questa ferita aperta in Ucraina, prevista nel lontano 1996 da Huntington nel suo libro “Scontro delle civiltà” continua a sanguinare, segnando quella linea rossa che potrà essere superata solamente attraverso una saggia soluzione diplomatica, perché da sempre è la parola ad iniziare e a porre fine ad una guerra.

Irina OsipovaFondatrice e presidente dell’ass. RIM Giovani Italo Russi, Politologo presso Zentr Aktual’noj Politiki

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Partnership con la rivista internazionale"CONFLITS"

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GRAND TOUR

170 E ORA DOVE ANDIAMO? IL LIBANO, UNA POZIONE MAGICA di Gianni Bonini

182 TRA IDENTITÀ E TERRORISMO. LA SFIDA DEI PALESTINESI DEL LIBANO di Luca Steinmann

188 LA RADICALIZZAZIONE DEI COMBATTENTI JIHADISTI NEI BALCANI OCCIDENTALI di Nina Kecojević

196 UN PAESE IN CUI TUTTO È IL CONTRARIO DI TUTTO” IL GRANDE IRAN DI GIUSEPPE ACCONCIA di Michela Mercuri

200 ANTARTIDE: FARE RICERCA ALLA FINE DEL MONDO. PER SALVARLO di Marco Ferrazzoli

In questa sezione:

210 «APRITI SESAME!» E L'ACCELERATORE DI PARTICELLE DEL MEDIO ORIENTE S'APRÌ SU SCIENZA E PACE di Renato Sartini

216 TUTTI AL MARE, MA NON ITALIANO di Giampaolo Scardia

219 LA DIFESA DI CORFÙ DEL 1716 di Andrea Liorsi

231 GLI ITALIANI DEI DUE MONDI: I PROTAGONISTI DELLA PRIMA REPUBBLICA FRA ARABI E AMERICANI di Matteo Gerlini

238 IL CIHEAM DALLA FONDAZIONE AD OGGI di Maurizio Raeli

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Sguardi su un mondoin frenetica trasformazione

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o appena letto il libro di Anto-nio Musarra sulla caduta di San Giovanni d’Acri nel 1291. Un li-

bro avvincente ed assolutamente attuale, perché legge la caduta degli Stati crociati nel contesto più generale dei movimenti che nel XIII secolo, “secolo lungo” tra la fine del sogno ottoniano e svevo del Sa-crum Imperium e la Morte Nera, la peste del XIV, così lo definisce Franco Cardini nell’Introduzione, interessano il territorio siro-libanese-palestinese, da sempre anel-lo di congiunzione tra civiltà mesopota-miche e Mediterraneo in una relazione di comunicazione che non ha mai conosciuto soluzione salvo rarissimi momenti. Il limes arabicus, la frontiera romano-bizantina, spalmata su più di 1300 chilometri, tra la Siria del Nord e il sud della Palestina, il centro della mezzaluna fertile, è sempre stata l’epicentro dei terremoti geopolitici dell’antichità ed anche oggi non cessa di

di Gianni Bonini

E ORA DOVE ANDIAMO?IL LIBANO, UNA POZIONE MAGICA

Parlandone con Maroun El Moujabber

H

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essere al centro di conflitti, interpretabili sotto molti aspetti, da quello energetico a quello etnico-religioso, che occupano la scena della politica internazionale con un peso nettamente superiore alle entità de-mografiche coinvolte. Non è difficile quin-di rintracciare una continuità storica fin dal secondo millennio avanti Cristo, quella continuità-contiguità che ha portato Gio-vanni Semerano, il filologo scomparso da una diecina di anni, insignito felicemente da Firenze, la mia città che lo ha adottato, del Fiorino d’Oro, a concludere perentoria-mente, nella polemica di una vita contro la favola dell’indoeuropeo, che “la grande civiltà sumero-accadica ha disciplinato gli elementi del linguaggio umano che si sono irradiati verso lontane regioni dell’oriente e dell’occidente”. Il Libano è completamente dentro questa realtà, anzi si può dire che ne è il crogiolo in tutti i sensi, per la coesistenza compe-

titivo-conflittuale delle religioni del Libro nelle più diverse espressioni liturgico-confessionali, per la permeabilità econo-mico-finanziaria, per il fatto che in Libano precipitano tutte le ambizioni e le contrad-dizioni politico-statuali dell’area MENA - Middle East and North Africa - di cui la tragica guerra cosiddetta civile, in verità una guerra di tutti contro tutti, di cui a noi sfuggono ancora molteplici sfaccettature, ha rappresentato il ring di combattimento privilegiato. In un articolo di tre anni fa, scritto nella forma di reportage giornalisti-co per la rivista IF, dopo una missione del CIHEAM-IAMB a Beirut e nella valle della Beqā’, in occasione della cerimonia conclu-siva del progetto L’Olio del Libano che ha insegnato agli agricoltori a produrre l’olio extravergine ed a commerciarlo, nel ribadi-re tutto il mio scetticismo sulle “primavere arabe”, un esempio sul versante dell’opi-nione pubblica europea ed occidentale di

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disinformazione programmata, a partire da Al Jazeera, fino a farne la premessa ob-bligata della mia analisi dello scacchiere euromediterraneo, parlavo della ventilata riforma elettorale, in virtù della quale ogni elettore avrebbe dovuto votare solo i can-didati della lista politico-confessionale a cui sarebbe stato precedentemente iscrit-to. Un’aberrazione che avrebbe cancella-to ogni principio di libertà per fissare sul piano della segregazione istituzionale la modifica dei rapporti di forza demografi-ci, che stanno alla base della Costituzione formale e materiale e del patto nazionale del 1943, quello della ripartizione delle cariche istituzionali, della terra dei ce-dri. L’allora, era il gennaio 2013, Ministro dell’Ambiente Nazem El Khouri, cristiano

maronita, si disse totalmente contrario ol-tre che preoccupato.E ora dove andiamo? La domanda ricalcata sul titolo italiano del bel film della regista ed attrice libanese Nadine Labaki - titolo originale Et maintenant, on va où? - pre-miato al festival di Toronto nel 2011, la rivolgo a Maroun El Moujabber, agronomo ed esperto di cooperazione internazionale, che ha vissuto sulla sua pelle, portandone un segno indelebile, la tragedia libanese; attualmente lavora a Bari all’Istituto Agro-nomico Mediterraneo di Valenzano - IAMB - un gioiello del CIHEAM - Centre Inter-national des Hautes Études Agronomiques Méditerranéennes - e un orgoglio della Co-operazione italiana allo Sviluppo, che i let-tori della rivista già conoscono per averne descritto la missione euromediterranea, in particolare nella monografia del Nodo di Gordio Il sogno di Marco Polo. Ci sono no-vità negli assetti istituzionali libanesi?Questo è un Paese che ha avuto la capacità di non farsi travolgere dalla guerra in Siria, nonostante detenga il primato mondiale del numero dei rifugiati, all’incirca 232 per 1000 abitanti, seguito a notevole distanza, per la statistica, dalla Giordania con 87 e dalla Turchia con 21. È riuscito a mantener-si in equilibrio sull’onda dei sommovimenti messi in moto per cambiare i connotati ci-vili del Medioriente, ridisegnarne i confini inventati dal cinismo dell’accordo Sykes-Picot, creare nuove zone di influenza e di sfogo alle velleità di potenza dell’Arabia Saudita - in otto anni ha comprato armi dagli USA per 115 bilioni di dollari - e de-gli Emirati allarmati per l’indebolimento,

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per ragioni complesse di politica ed inno-vazione energetica, shale oil&gas ma non solo, dell’accordo del 1945 siglato sull’USS Quincy, sicurezza in cambio di petrolio, le ultime fughe di notizie dal Segretario di Stato sulla strumentalizzazione dell’ISIS da parte di Obama contro Assad sono scon-tate ma fanno sempre un po’ scalpore, man-tenere l’ellisse energetica ad excludendum della Russia, contenendone l’aggressività nel solco della tradizionale politica este-ra inglese, secondo l’analisi dell’analista russa Narocnizkaja. Ed ancora come non vedere il bisogno della NATO in versione clintoniana di rafforzare il suo fianco sud indebolito dall’annessione russa - non pre-vista? - della Crimea, con un controllo più aderente del corpaccione della Turchia, in bilico tra la modernizzazione del kemali-smo e la tentazione del sultanato del XXI secolo, ormai lontana dall’Europa di Maa-stricht ed ancor più attratta dalla possibili-tà di esercitare un ruolo egemone sull’area turcofona, quanto in ansia per la nascita di uno Stato curdo ben provvisto di petrolio ai suoi confini meridionali; il tentato colpo di stato in Turchia, con o senza Fethullah Gülen, scaturisce da questo ordine di que-stioni. Insomma un groviglio di spinte e controspinte che definiscono lo spazio e il tempo di questo scambio di vedute, ef-fetti favoriti da quella geopolitica del soft power obamiano che abbiamo studiato ri-petutamente sulla nostra rivista come le linee guida della politica estera americana, stimolati e perché no, suggestionati anche dalle analisi dedicate di Germano Dottori e del Rapporto Nomos&Khaos di Nomisma,

di cui registriamo ormai l’assenza. Con il fatto nuovo, o forse non è mai stato tale, di una divaricazione , secondo Raghida Dergham, columnist libanese-americana per Al Hayat molto accreditata, tra gli in-teressi russi e i progetti regionali dell’Iran, accelerato dalla soluzione della crisi siria-na che sostanzialmente avrebbe per ga-ranti solamente la Russia e la Turchia, con l’esclusione dell’Iran e che prevederebbe il ritiro delle forze di quest’ultima dal te-atro di guerra, incluso Hezbollah. Tanto da far nascere il sospetto che il recente bom-bardamento di Israele, che si era tenuto a distanza dalla mischia siriana, non smen-tito nè confermato com’è naturale, dell’a-eroporto siriano di Mezzeh si inserisca in questa dinamica, preso atto della dichiara-

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zione di Netanyahu sul grave pericolo rap-presentato dalla caduta di Aleppo foriera di uno spostamento sul fronte del Golan di Hezbollah e dei Pasdaran iraniani.Riassumo così molto sinteticamente il quadro della situazione euromediterranea che ho ampiamente trattato nei numeri passati del Nodo di Gordio. È ancora presto per giudicare Trump, al di là degli impe-gni presi in una velenosissima campagna elettorale che sembrano voler rovesciare l’ideologia stessa del soft power, anche se le prime mosse alla Casa Bianca come la rimozione del TPP - Trans Pacific Partner-ship - e la visita a Washington del Premier britannico Theresa May, che, spesso lo di-mentichiamo, porta in dote il Commonwe-alth, annunciano tempi duri per l’UE. La consueta cialtroneria mediatica sorvola sul suo discorso sulla Brexit, un intervento di grande respiro strategico a cui non si può rispondere con le battute di dubbio gusto di Juncker, mentre il suo invito all’Europa a tenere un atteggiamento collaborativo e non autolesionistico, parole testuali, sem-bra confermare il ritorno a visioni strate-giche e ad alleanze neo atlantiche più tra-dizionali, compreso il riferimento all’area di libera circolazione con l’Irlanda in linea con la storia del Regno Unito dopo il di-stacco seguito alla guerra dei cent’anni. La sindrome dell’accerchiamento per l’UE è diventata a questo punto un rischio molto concreto e Romano Prodi, che può vantare un livello incommensurabilmente più alto di esperienza internazionale rispetto alla media del nostro ceto politico, avverte che forse è l’ora di smetterla con le sanzioni

contro Putin prima che si logori una rela-zione con la Russia che è un must storico della nostra politica estera, almeno fino dal riconoscimento italiano della Unione Sovietica negli anni venti, ma si potrebbe facilmente risalire a prima. Senza conside-rare che i Russi sono ormai tornati in Libia e con loro è conveniente ragionare a tutto campo, non escluse, anzi al primo posto, le relazioni in campo energetico.Ma torniamo al Libano ed al quadro più specificatamente mediorientale.“Qualcosa è cambiato sulla scena politica libanese- esordisce Maroun El Moujabber - l’elezione del Generale Michel Aoun il 31 ottobre 2016 come Presidente del Libano in seguito alla pacificazione tra le due maggior forze politiche cristiane cioè il Movimento Patriottico Libero e le Forze Libanesi indu-cendo un accordo tutto libanese e un largo consenso delle maggiori forze politiche del paese, potrebbe essere indubbiamente un punto di svolta a livello mediorientale. Il Libano che ha sempre subito gli eventi nel Medioriente, questa volta si prepara a con-tagiare gli altri paesi. Sembra un’esagera-zione ma non dimentichiamo che l’arabo è la lingua dell’esagerazione e quindi non c’è da sorprenderci. Per spiegare meglio questa svolta, bisognerebbe tornare al 13 aprile 1975 quando è scoppiata la guerra in Liba-no. Questa guerra (1975-1990) solo appa-rentemente civile, era la conseguenza della politica americana che all’epoca guardava principalmente al controllo delle risorse energetiche ed a mio parere allora esiste-va una complicità muta tra i regimi arabi e Israele quando si voleva cacciare i cristiani

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da questo paese e dare ai palestinesi un ter-ritorio alternativo alla loro terra”. Un’affermazione senza mezzi termini, pe-raltro in totale sintonia con la politica va-ticana che si muove nell’indifferenza del-le cancellerie democratiche e dell’Unione Europea, così sensibili ai diritti civili da ignorare il fondamentale diritto alla liber-tà religiosa delle primavere arabe. Una fra le tante iniziative a sostegno è quella della fondazione pontificia Aiuto alla chiesa che soffre, che si è mobilitata per lanciare una raccolta di fondi per i cristiani perseguitati in Iraq e Siria, una persecuzione non vir-tuale ma fatta di scene di vita quotidiana che ha provocato centinaia di migliaia di esodi ed il rischio concreto della fine della testimonianza nelle terre dove il messag-gio di Cristo è nato e si è irradiato in tutta l’Ecumène. E non è solo Daesh, acronimo arabo di ISIS - Islamic State of Iraq and al-Sham - il pericolo. Neanche i Curdi, pure tanto vezzeggiati dall’Occidente, la retori-ca mediatica occidentale dei peshmerga è stata battente, scherzano. Secondo quanto racconta Monsignor Jacques Behnan Hin-do, Arcivescovo siro cattolico di Hassaké nel nord-est della Siria, non si vergogna-no ad occupare arbitrariamente le terre e le case di quella comunità cristiana che in passato è sempre venuta in loro soccorso. Il giuoco dei buoni contro i cattivi come quello dell’esportazione della democrazia non si addice al Medioriente e la narrazio-ne stantia del politicamente corretto trova difficoltà ad attecchire in uno scenario che sembra fatto apposta per mescolare buoni e cattivi.

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“Gli israeliani hanno invaso per la prima volta il Libano il 14 marzo 1978 e hanno creato la cosiddetta fascia di sicurezza, approfittando anche di un malessere delle popolazioni per l’operato militare dei pa-lestinesi. Questa fascia di sicurezza non è riuscita a proteggere Israele dagli attacchi, da qui viene la seconda invasione del 4 giu-gno 1982. Il 13 giugno l’esercito israeliano arriva a Beirut. È la prima volta che una capitale araba è occupata dagli israeliani. Il 21 agosto 1982, partono i primi combat-tenti palestinesi con destinazione Tunisi, il 23 agosto Bashir Gemayel viene eletto Pre-sidente del Libano e il 28 agosto arrivano gli altri militari della Forza multinaziona-le. I Libanesi hanno sperato per un attimo nell’elezione di Gemayel per ricostruire il Libano e unire quello che la guerra aveva distrutto”. Maroun riprende fiato. La sua non è una narrazione distaccata, sono avvenimenti che lo hanno coinvolto insieme alla sua fa-miglia, sono di Byblos, una delle più anti-che città del mondo, ancora oggi a maggio-ranza cristiana. Lui, lo dice il nome stesso che richiama San Marone, il monaco siria-no venerato come santo dalla Chiesa cat-tolica e da quella ortodossa, fondatore di una congregazione monastica nel V secolo, è orgogliosamente cristiano-maronita. Il suo punto di vista forgiato nel fuoco delle atrocità di una guerra che noi abbiamo vi-sto solo alla televisione oppure al cinema come nel film franco-canadese Incendies - La donna che canta in versione italiana - non pretende di essere semplicisticamente oggettivo ma di filtrare la valutazione sto-

rica e politica attraverso il sentimento di un Paese assediato che vuole ritrovare la propria identità nazionale senza perdere la sua natura di melting pot religioso.“Il sogno è durato poco - prosegue Maroun fissando le date con la memoria di chi ha attraversato quegli eventi - gli incubi sono quelli che durano. Il 14 settembre Bashir Gemayel viene ucciso in un attentato a Beirut Est, proprio nel quartiere generale del suo partito. Un giorno di grande dolo-re e indignazione, ho 14 anni, è la prima volta che vedo mio padre piangere anche se la nostra famiglia di Byblos non ha mai simpatizzato per il partito di Gemayel. La zona di Byblos è conosciuta storicamente per essere fedele al Blocco Nazionale di Raymond Edde, un politico irrepetibile, morto in esilio a Parigi che aveva rifiutato di fare il Presidente della Repubblica nel 1976 perché non ha mai gradito le ingeren-ze nella nostra politica da parte dei nostri vicini.Voglio sottolineare che la nostra zona, pure essendo culturalmente diversificata, è stata una delle zone più sicure del Libano durante tutta la guerra. Sono stati allonta-nati soltanto i filopalestinesi che, guarda caso, erano principalmente cristiani come il grande cantante Marcel Khalifé. Since-ramente ho riflettuto molto sul perché di questa isola di tranquillità, la risposta l’ho trovata un giorno camminando nel centro di Byblos: gli abitanti hanno lo stesso livel-lo sociale, fanno più o meno le stesse at-tività commerciali e studiano nelle stesse scuole, non c’era nessun motivo di conflit-to. E malgrado tutte le ondate di rifugia-

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ti che sono arrivati a Byblos e dintorni, la maggioranza cristiana ha sempre protetto le minoranze musulmane, non hanno per-messo a questi rifugiati di occupare le case dei musulmani. Non è un caso che Byblos sia stata scelta nel 2000 come sito messag-gero della pace dalle Nazioni Unite. Il sogno è finito, bisogna affrontare la brut-ta realtà, accordi e complicità silenti tra le forze regionali e quelle internazionali. L’invasione israeliana ha allontanato una buona parte dei combattenti palestinesi ma i libanesi non hanno firmato una Camp David libanese. Il Libano è l’ultimo paese arabo che potrà mai un giorno naturaliz-zare i rapporti con Israele. Il massacro di Sabra e Chatila chiama la responsabilità israeliana, probabilmente con mano d’o-pera di appartenenza diversa, anche, non solo, libanese. E poi cominciò un periodo di resistenza li-banese fino al maggio 2000, l’anno in cui Tsahal si ritirò. Ma c’è un dettaglio, molto rilevante, questa volta a fare la resistenza sono gli sciiti, il partito di Dio, Hezbollah, che nacque nel 1982, forte della rivolu-zione islamica degli Ayatollah in Iran. E il primo ingresso dell’Iran nella palude liba-nese. Va detto che in precedenza, nella pri-ma invasione di Israele, gli sciiti non sem-bravano così avversi nei confronti delle truppe che avevano oltrepassato il Litani. Questo ci riporta al cuore del dramma del Libano e cioè che dal 1982 fino al 1990, si è combattuta una guerra di tutti contro tutti, i drusi contro i cristiani, gli sciiti contro i drusi, gli sciiti contro i palestinesi, i siria-ni contro i palestinesi, gli sciiti contro gli

sciiti e i cristiani contro i cristiani. In una guerra c’è solo da perdere e oggi possiamo dire chiaramente che si sbaglia quando si pensa di vincere in Libano con la sola forza delle armi.Il nome del Libano si cita circa settan-ta volte nella Bibbia, il primo miracolo di Gesù Cristo fu a Cana nel Sud del Libano. Questa sacralità del paese molto proba-bilmente l’ha protetto e lo proteggerà, gli scogli sul fiume “Nahr il Kalb” ne sono te-stimoni”.Non è facile trovare una fede così forte nell’Europa secolarizzata, una convinzio-ne profonda e battagliera che concepisce il martirio come possibilità concreta. Ed allora mi viene immediatamente da citare l’ultimo film di Scorsese, Silence, che par-la di un altro martirio, il significato greco originale è appunto testimonianza, quello giapponese del XVII secolo dei Gesuiti e dei Kakure Kirishitan, i cristiani nascosti; un racconto sulla debolezza dell’uomo e del prete che rimane tale fino alla fine, sul-la Chiesa che offre la propria vita soprat-tutto per gli indegni, per chi ha perduto la fede. Bellissimo. Maroun l’ha appena visto e ne è rimasto colpito. Chissa quanti Fer-reira e Rodrigues, i due padri gesuiti che sembrano aver perso la fede, ma mentre si procede all’incinerazione di Rodrigues la macchina da presa zoomma sulle sue mani che strette nascondono il piccolo crocefis-so di legno che lo ha accompagnato fin dal suo approdo nella prima comunità cristia-na in Giappone, penso tra me, avrà visto durante l’immane dramma libanese. Così prosegue il suo racconto sulla guerra senza

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quegli sconti che la ricostruzione a poste-riori delle vicende talvolta ci può indurre a fare. È il caso della posizione siriana, la cui valutazione non si ferma alle vicende del dopo 2011 e si allarga correttamente ad ab-bracciare il periodo storico che inizia con gli anni 70 e la guerra dei sei giorni. “La guerra civile, chiamiamola così per semplicità - continua Maroun, proponen-doci una carrellata degli eventi che arriva fino alla morte di Hariri- ha visto due inva-sioni israeliane ed è finita nel 1990 con gli accordi di Ta’if. L’accordo di Ta’if, in Arabia Saudita - che per la precisione fu stipulato il 22 Ottobre 1989 sulla base del lavoro di un comitato congiunto a cui partecipavano re Fahd dell’Arabia Saudita, re Hasan II del Marocco ed il presidente algerino Shadhli Benjedid, sotto la tutela ufficiosa degli USA, ratificato dal Parlamento libanese il 5 Novembre dello stesso anno - ha messo fine alle prerogative del Presidente della Repubblica, che per Costituzione deve es-sere maronita, in particolare quella di scio-gliere la Camera dei Deputati ed ha messo il potere nelle mani del Consiglio dei Mi-nistri, oltre ad aver equiparato i deputati musulmani a quelli cristiani.Il Primo Ministro in Libano è Sunnita. L’accordo di Ta’if che nasce sotto tutela saudita con la Siria come implementing agency che aveva il suo esercito in Libano dal 1976, parla di condivisione tra cristiani e musulmani del potere politico.All’epoca i rapporti tra Siria e Arabia Sau-dita erano ottimi e si preparava la prima guerra del Golfo contro Saddam Hussein, i siriani si erano alleati con gli americani

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e hanno avuto, tra i premi, quello di avere mano libera in Libano.I siriani per mantenere un equilibrio che permetteva a loro di sfruttare al meglio le risorse del Libano, hanno usato lo stru-mento delle leggi elettorali per creare delle figure funzionali ai loro interessi e com-pensare uno squilibrio demografico dovuto in particolare all’immigrazione.Non dimentichiamo che tutti i Signori del-la guerra sono finiti al governo tranne le due principali figure cristiane cioè Michel Aoun in esilio e Samir Geagea in prigione.E non mi risulta che la comunità interna-zionale abbia dato alcun segnale di sgo-mento od almeno di preoccupazione per questa situazione, gli interessi economici e geo-politici sono più importanti delle co-munità che in questi casi sono considerate danni collaterali. Per molti anni i respon-sabili della comunità internazionale anda-vano in Siria per parlare del Libano.”E qui Maroun fa una pausa e riprende l’a-nalisi a partire dal punto di vista dei cri-stiani.“Perché parlare dei cristiani? Cosa sareb-be il Libano senza la presenza di tutte le sue comunità religiose? Niente, il Libano è il Paese dove tutte, ribadisco, tutte le sue componenti devono essere rappresentate e partecipano attivamente alla vita politica ed economica.Purtroppo, l’applicazione dell’accordo di Ta’if ha molte zone grigie che lasciano spazio alle interpretazioni che facevano comodo ai siriani per poter controllare la vita politica ed economica libanese. Un so-gno che non smetteranno mai di sognare.

La prima trappola per i cristiani si realizza già nel 1992. In queste elezioni ha votato solo il 24% della popolazione. L’accordo di Ta’if prevedeva una legge elettorale basata sulle Mohfazat, le Regioni in italiano, ma è stata fatta una legge elettorale con cri-teri diversi che permetteva ai Signori del-la guerra al potere di tradursi in deputati eletti. Il 1992 è stato l’anno che Rafic El Hariri, il padrino dell’accordo di Ta’if è stato desi-gnato Primo Ministro. Rafia El Hariri, era molto vicino al Re dell’Arabia Saudita, ha dato il via alla ricostruzione del paese ed è stato Primo Ministro fino al 1998, quando Emile Lahoud, alleato di Bashar El Assad è stato eletto Presidente della Repubblica. Rafiq El Hariri è stato un personaggio di li-vello internazionale con grandi legami, ca-pace di riunire intorno a sè i capi di stato di tutto il mondo ed è diventato per un lungo periodo il fulcro della vita politica libane-se. Molti hanno discusso e avevano delle perplessità sulla sua politica economica, la sostenibilità di questa politica e anche la sua adattabilità alla realtà libanese, ma nessuno ha mai potuto negare le sue capa-cità imprenditoriali e politiche ma soprat-tutto le sue qualità umane. Durante tutta la guerra e anche dopo, Rafic El Hariri tra-mite la sua fondazione ha dato la possibi-lità a decine di migliaia di giovani libanesi, di tutte le comunità voglio sottolinearlo, di studiare all’estero permettendo al pae-se di avere una classe dirigente altamente qualificata. Con le elezioni del 2000 Rafic El Hariri, vincitore, è tornato al governo ed è rimasto fino al 2004 quando c’è sta-

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to un rinnovo del mandato del Presidente libanese Emile Lahoud per altri 3 anni. Un rinnovo non previsto nella costituzione ma praticato anche precedentemente con il presidente Elias Hraoui. La legge eletto-rale del 2000 chiamata correntemente col nome dell’ex capo dei servizi segreti siriani in Libano Ghazi Kanaan, è stata emanata sotto la tutela siriana dal Parlamento nel 1996. Così il Libano è stato diviso in quat-tordici distretti elettorali che non rispetta-no la realtà politica, né la logica geografica e sociale. La tensione in Libano era molto forte e il, 14 febbraio 2005 Rafic El Hariri è stato as-sassinato. Un vero terremoto che ha scon-volto non solo il Libano ma tutto il mon-do arabo. Il più forte uomo sunnita che sembrava intoccabile, è stato assassinato. Un’altra volta il sogno è finito, è ricomin-ciato l’incubo, un passaggio fondamentale in questa trasformazione del Medio Orien-te dalla culla delle civiltà al cimitero della ragionevolezza”.Qui Maroun fa una pausa ed io ne appro-fitto per raccontargli il mio viaggio a Bei-rut proprio nei giorni immediatamente a ridosso dell’attentato sul Lungomare in cui perse la vita il leader libanese. Ero con Stefania Craxi ed un paio di collaboratori della Fondazione intitolata allo statista socialista, tra cui il fedelissimo autista di Bettino, Nicola Mansi. Partecipammo ad un convegno sul diritto dei profughi pale-stinesi a riavere una patria, ricordo bene il nervosismo che si respirava ed il discorso di Stefania molto netto sulle responsabili-tà politiche siriane in Libano, incontram-

mo anche un alto esponente di Hezbollah e vedemmo l’ambasciatore italiano Franco Mistretta che mi fece un’ottima impressio-ne di competenza e di realismo politico. Ho una fotografia che mi ritrae insieme a Stefania Craxi in raccoglimento davanti al feretro di Hariri, intorno a noi era palpabile la commozione ma soprattutto la tensione e i giorni seguenti confermeranno questa perenne condizione del Libano sempre sul baratro di nuovi focolai di guerra civile.“La destabilizzazione di tutto il mondo arabo non sarebbe stata possibile senza l’assassinio di Hariri - si avvia a concludere Maroun - Aveva della capacità e delle po-tenzialità in grado di interloquire sul piano globale e lavorava per la risoluzione delle tensioni del puzzle mediorientale. Chi lo ha ucciso voleva mantenere alto il livello dello scontro sunnita-sciita in Mediorien-te. Elementi che sembrano dispersi, ma messi insieme con quello che è successo in Iraq potrebbero spiegare la nascita dell’I-SIS.I focolai di conflitto nel mondo arabo, Sira, Iraq e Yemen, non potranno mai essere ri-solti con l’applicazione della democrazia numerica. L’esperienza della Democrazia Consensuale Libanese potrà sicuramente essere una soluzione per portare questi paesi verso una zona di dialogo e di con-divisione. In tutti questi anni, molti paesi arabi hanno fatto passi importanti di mo-dernizzazione, gli Emirati arabi in partico-lare hanno avuto personalità lungimiranti come il governatore di Dubai ma al mondo arabo mancano le capitali culturali come Beirut, il Cairo, Damasco e Baghdad. Non si

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potrà stabilire di nuovo una situazione di tranquillità senza ridare a queste capitali il loro ruolo di faro. La situazione oggi nel Medioriente è dram-matica, assistiamo ad una spartizione dei ruoli e dei poteri tra la Turchia, l’Iran e Israele. A pagare le conseguenze è natu-ralmente il mondo arabo. Un ritorno alla diversità e il rispetto delle peculiarità etni-che religiose sembrano le uniche strade da intraprendere per uscire fuori da questo la-birinto. Il Libano è la migliore best practice a questo proposito, una pozione magica, perciò ritengo una svolta positiva l’elezio-ne del Generale Michel Aoun in seguito ad una riconciliazione storica coraggiosa con Samir Geagea. Un atto da uomini di stato che è stato accolto con altrettanto corag-gio da Saad Hariri. Hezbollah ha natural-mente appoggiato per ragioni geopolitiche ma soprattutto per riconoscenza verso il Generale Michel Aoun durante la guerra israeliana del 2006. Saranno loro quattro Aoun, Geagea, Hariri e Hezbollah a definire il futuro del Libano con una legge elettora-le che ci tiri fuori dalle paludi confessionali verso lo Stato di diritto e di cittadinanza. È un sogno forse, ma solo sognando pos-siamo uscire da questo incubo di una lotta continua senza esito”. La nota positiva finale di Maroun El Moujabber si basa su una valutazione at-tenta degli equilibri e dei rapporti di forza attuali in un Libano che con tutte le sue forze rifiuta di rivivere gli orrori del pas-sato, la Beirut che ha anticipato Aleppo, non è un esercizio di ottimismo della vo-lontà. Bisogna ora vedere come si evolverà

il quadro geopolitico complessivo, se vera-mente si realizzerà un asse Trump-Putin e come reagiranno gli attori mediorienta-li alla riproposizione del patronage delle due superpotenze della guerra fredda che ne raffredderebbe le ambizioni regionali e qualcosa di più. Gli ingredienti della pozio-ne magica vanno lavorati con sapienza da mani esperte, riprendere il controllo dopo la sciagura delle primavere arabe è in que-sto senso interesse dell’Europa e dell’Italia in special modo, a partire dalla situazione libica dove si giuoca una partita mediter-ranea confusa tra l’Europa e l’area MENA e dentro l’Europa, tra Serraj e Haftar e da cui può legittimarsi un nuovo ruolo del nostro Paese nel dopo soft power americano.

Gianni BoniniVicepresidente del CIHEAM (Centre international de hautes études agronomiques méditerranéennes) e Se-nior fellow del think tank “Il Nodo di Gordio”

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ono venuto qui portando in una mano il ramo di ulivo e nell’altra il fucile del com-

battente della libertà. Fate che il ramo d’ulivo non cada mai dalla mia mano”. Quando nel 1974 Yasser Arafat si rivol-geva con queste parole alle Nazioni Uni-te il conflitto arabo-israeliano era nel pieno della sua esecuzione e della sua violenza. Il leader della resistenza pale-stinese tese in quell’occasione la mano a un mondo, quello occidentale, che fino a quel momento era stato piuttosto schierato a favore delle posizioni israe-liane. Questo discorso di apertura venne letto da molti analisti di allora come il primo passo verso un processo di paci-ficazione con l’Occidente, nonché come una apertura al dialogo con il mondo ebraico. In molti, ancora oggi, leggono quelle parole come l’inizio di un proces-so di pacificazione che confluì nel 1993

di Luca Steinmann

TRA IDENTITÀ E TERRORISMO. LA SFIDA DEI PALESTINESI DEL LIBANO

Nel 1974, all’ONU, Arafat tese la mano ad un Occidente che si era sempre schierato a favore di Israele

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negli accordi di Oslo, quando le autorità palestinesi riconobbero ufficialmente la legittimità dell’esistenza di uno Sta-to ebraico in Palestina, accettando la cosiddetta “soluzione a due Stati”. Ara-fat probabilmente non si aspettava che mettendo da parte il fucile non avrebbe messo fine alla guerra. Non immaginava che la cosiddetta pace avrebbe generato una profonda sfiducia nei confronti suoi e dell’OLP. Non immaginava che le trat-tative per il reciproco riconoscimento tra Israele e Palestina avrebbero portato ad un vuoto di potere all’interno delle comunità di esuli palestinesi che, a sua volta, avrebbe generato una lotta inte-stina diffusa e perpetua. Una guerra ci-vile all’interno dei campi profughi pale-stinesi che si sta combattendo in questi giorni e in queste ore in diverse zone del Medio Oriente. E che ha come epicentro la Siria e il Libano.

LE ORIGINI

Fin da quando i primi esuli dovettero la-sciare le proprie case in Palestina a seguito della nascita dello Stato d’Israele nel 1948 e delle conseguenti guerre che scoppiaro-no tra arabi ed ebrei, la maggior parte dei palestinesi si stabilì nei Paesi confinanti: Giordania, Libano e Siria. Attendendo un rimpatrio che mai avverrà, essi andarono ad abitare in campi profughi che, col tem-po, diventarono dei veri e propri quartieri o città autonome, sotto il controllo delle au-torità palestinesi e di proprie milizie arma-te. La storia di questi campi e dei loro abi-tanti ha segnato tutto il corso del conflitto arabo-israeliano, dalle vicende di Settem-bre Nero in Giordania fino alla guerra civi-le libanese e alle due invasioni israeliane. Seppur le diverse società palestinesi dei campi abbiano sviluppato rapporti diffe-renti con le rispettive autorità dei Paesi

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ospitanti – generalmente positivi nella Si-ria degli Assad, di segregazione in Libano, molto altalenanti in Giordania – tutte sono accomunate da un elemento di base comu-ne: l’assimilazione all’interno delle società ospitanti è sempre stata vissuta come una minaccia alla propria identità e al proprio diritto al ritorno. Un’idea, questa, promos-sa soprattutto dalle autorità all’interno dei campi, quasi sempre nelle mani dell’OLP, il cui consenso tra i palestinesi è sempre sta-to maggioritario. Fino al 1993. Con il rico-noscimento dell’OLP al diritto ad esistere dello Stato di Israele e alla propria rinuncia al terrorismo, alla violenza e all’intento di distruzione dello Stato ebraico è stata uffi-cializzata la mancanza di volontà da parte dei leader palestinesi di garantire il rimpa-trio dei propri esuli. Molti dei quali si sono dunque sentiti abbandonati e hanno ini-ziato a mettere in pesante dubbio la legit-timità di Arafat e di Abbas a rappresentare la propria causa. La conseguenza di tutto ciò è stato l’arretramento dell’OLP come forza politica e la conseguente creazione di un vuoto politico e militare all’inter-no dei campi. La cui occupazione ha dato progressivamente vita a lotte intestine per il potere tra le milizie dell’OLP, principal-mente di al Fatah, e altri movimenti ad esse concorrenziali che rivendicano la tito-larità della lotta per i diritti del proprio po-polo a favore del rimpatrio e contro quella che chiamano “l’occupazione israeliana”. Negli ultimi anni questa conflittualità si è sovrapposta, mischiata e confusa con quel-la in corso tra sciiti e sunniti che interessa tutto il mondo arabo-musulmano. Gene-

rando una spaccatura interna ai palesti-nesi così profonda da mettere in secondo piano la lotta contro Israele, anche se non formalmente, rispetto alle faide interne.

LA FAIDA TRA SCIITI E SUNNITI

All’interno della guerra fra sciiti e sunni-ti, che ha come epicentro la Siria ma che coinvolge massicciamente anche il Liba-no, i palestinesi non hanno preso un’uni-ca posizione a favore dei primi o dei se-condi, ma si sono divisi internamente tra gruppi con vincoli di fedeltà differenti. I campi profughi sono diventati il luogo in cui questa contrapposizione si manifesta maggiormente e con maggiore violen-za, trasformandosi spesso in veri e propri campi di battaglia tra le diverse fazioni che si contendono il territorio. Le dinamiche che hanno segnato queste divisioni sono analoghe in Siria come in Libano. Con lo scoppio della guerra siriana i palestinesi si profondamente divisi: una minoranza ha giurato fedeltà al regime di Bashar al As-sad, altri si sono uniti ai variegati gruppi di ribelli che componevano inizialmente il fronte anti-governativo. Una piccola parte di loro ha aderito a formazioni terroristi-che come Daesh e Jabhat al Nusra. Sia i ri-belli che il governo hanno preso di mira i propri nemici, bombardando pesantemen-te i campi profughi e spingendo milioni di palestinesi-siriani a fuggire per trovare ri-paro nei campi del vicino Libano, dove le logiche di divisione e conflitto sono pres-soché le stesse. Con la grande differenza che tra i palestinesi-libanesi è molto forte

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l’infiltrazione di Hezbollah, che ha creato all’interno dei campi due milizie palesti-nesi, La Brigata di Sicurezza e Ansar Allah, che hanno giurato fedeltà direttamente al Partito di Dio e del quale sono a tutti gli effetti braccia armate operative. All’inter-no dei campi libanesi convivono a stret-tissimo contatto tutte le componenti che combattono conflitto tra sciiti e sunniti. E che si combattono a loro volta tra le cata-pecchie e i casermoni in cui vivono gli esuli palestinesi, generando centinaia di morti e feriti.

DAESH E NUSRA TRA I PALESTINESI

Particolarmente rilevante è la sovrapposi-zione tra la causa palestinese e quella dei gruppi terroristici sunniti come Daesh e al Nusra. Il tentativo dei terroristi di pre-sentarsi come i nuovi titolari della lotta anti-israeliana non è cosa nuova, ma af-fonda le proprie radici in decenni di ten-tativi di radicamento all’interno delle co-munità di esuli palestinesi, la cui causa è stata invece tradizionalmente animata da un’ispirazione laica se non laicista. La crisi di consenso dell’OLP a partire dal 1993 e il conseguente vuoto di potere hanno però aperto nuovi margini d’azione per i gruppi radicali sunniti che, facendo leva sulla co-munanza di fede con la maggior parte dei profughi, hanno iniziato a fare propagan-da mischiando le proprie parole d’ordine con aiuti sociali e materiali che forniscono alla gente bisognosa. Così facendo alcune loro cellule hanno trovato spazio in alcu-ni campi che hanno usato come base per

dar vita a rivolte armata contro le autori-tà libanesi ancor prima dello scoppio del-le cosiddette primavere arabe. Il caso più emblematico è quello del campo di Nahr El Bared, a Tripoli, nel Libano settentrionale e non lontano dal confine siriano. Nel 2007 un gruppo di 300 terroristi facenti parti del gruppo di Fatah al Islam, legato ad al Qaeda ed inizialmente supportato e finan-ziato da un noto partito sunnita libanese vicino all’Arabia Saudita, prese il controllo del campo. Si trattava di 300 persone pro-venienti da tutto il mondo (Siria, Libano, Afghanistan, Arabia Saudita, Giordania, Marocco, Pakistan, Kuwait) che in nome della difesa della causa palestinese uti-lizzò Nahr el Bared per tentare un colpo di mano armato contro lo Stato libanese. Le autorità nazionali reagirono e scoppiò una guerra che durò diversi mesi e rase il campo quasi totalmente al suolo a causa dell’utilizzo di bombe e missili da parte dei governativi che alla fine cacciarono i jiha-disti ma lasciarono a terra anche tantissi-me vittime civili. Secondo molti abitanti di Nahr El Bared quello di allora fu un ten-tativo di rivoluzione analogo a quello che qualche anno dopo avrebbe colpito la Siria. Questo esempio mostra chiaramente come da parte dei terroristi vi sia la volontà di utilizzare la causa palestinese per promuo-vere la propria guerra che vede come primo bersaglio non Israele, bensì quei musulma-ni che non si piegano al loro volere, quindi principalmente gli sciiti. Non è neanche un caso, dunque, che all’interno della guerra tra sciiti e sunniti importanti partiti sun-niti legati all’Arabia Saudita ed ai Paesi

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del Golfo abbiano supportato a fasi alterni questi gruppi terroristici in funzione anti-sciita.

IL RUOLO DI HEZBOLLAH

Per l’opinione pubblica palestinese, però, il principale nemico rimane Israele. È anche per questo che i gruppi terroristici sunniti che non attaccano direttamente lo Stato ebraico non hanno mai raggiunto un vasto consenso tra di loro. Va anzi sottolineato che pur essendo vero che alcuni palesti-nesi aderiscono a queste formazioni, la stragrande maggioranza è loro avversa e li combatte attivamente. In molti temono infatti che la sovrapposizione tra la causa jihadista e quella palestinese possa essere utilizzata come scusa da Israele per attac-carli nuovamente, mettendo fine manu militari alle proprie ambizioni di rimpa-trio. È per questo che, nonostante la fede sunnita della maggior parte dei palestine-si, alcuni di loro hanno giurato fedeltà a quella formazione che si è contraddistinta

come principale e indispensabile inter-prete della lotta anti-sionista: gli sciiti di Hezbollah. La potenza militare del Partito di Dio e la propria forza di intelligence fa permette a tale movimento di controllare de facto diverse aree di alcuni campi liba-nesi, permettendo all’interno di essi anche l’ingresso di spie siriane alla ricerca di per-sone palestinesi-siriane riparate in Libano per non essere arruolate tra le fila del regi-me. È il caso soprattutto di alcuni campi di Beirut, come quello di Sabra e Shatila, dove la presenza sciita e siriana è ormai visibile e dove le operazioni militari contro i dissi-denti anti-siriani (terroristi o meno) sono costanti.

EQUILIBRI NON CATALOGABILI

Quella che si sta combattendo tra i pale-stinesi è dunque una vera e propria guerra civile interna ad una guerra civile più am-pia, che vede la partecipazione di tutti gli attori in causa: Hezbollah, i lealisti siriani, i ribelli siriani anti-governativi, i gruppi

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terroristici sunniti, i partiti libanesi sunni-ti legati ai Paesi del Golfo. I combattimenti sono ininterrotti, anche se non coinvol-gono tutti i campi. Quelli che negli ultimi mesi sono stati maggiormente interessati dalle violenze sono quello di il campo di Yarmouk, vicino a Damasco, e quello di Ein el Hilwee, a Sidone. Entrambe dichiarate zone di guerra, nel secondo caso le Nazioni Unite hanno dovuto abbandonate momen-taneamente le proprie postazioni interne al campo perché non in grado di difender-le. Ein el Hilwee è un caso emblematico che mostra chiaramente come in questa guerra non esistano fazioni omogenee e che gli schemi interpretativi che spesso la stampa europea fornisce per interpretare la guer-ra tra musulmani non siano validi. A Ein El Hilwee si combattono tutti i giorni più fazioni: Daesh, Nusra, Fatah, Fatah Intifa-da, gruppi legati a Hezbollah. Sono proprio questi ultimi ad avere siglato a seguito de-gli scontri una insolita alleanza militare con al Nusra, gruppo terroristico guidato all’interno del campo da Bilal Bader, classe 1989, che ha dato il proprio nome alla for-mazione che guida pur rivendicando la sua appartenenza a al Nusra. Mentre in Siria e in altre parti del Libano sciiti e sunniti si combattono, i delicati equilibri di questo campo hanno portato ad un alleanza tra opposte fazioni. Divisi, frammentati e antagonisti, gli esu-li palestinesi sono oggi più lontani che mai non solo dal ritorno in Palestina ma anche dalla possibilità di lottare contro il proprio nemico israeliano. Se lo facessero verrebbero immediatamente bloccati da

Hezbollah, che difende la sua titolarità a combattere Israele per accreditarsi all’in-terno di tutto il mondo islamico. Quello che si registra oggi nei campi profughi è una profonda assenza di una classe diri-gente palestinese, che se e quando ha ab-bandonato le armi non ha investito sulla formazione e sulla comunicazione, ma ha aspettato che qualcuno permettesse loro di tornare in Palestina. Oggi stanno ancora aspettando, vittime delle violenze di tutti. Dei siriani governativi, dei ribelli, dei ter-roristi, di Hezbollah, delle stesse autorità palestinesi. Il fallimento degli accordi di Oslo, lo sradicamento e la difficile difesa di una fragile identità senza terra stanno mettendo a dura prova le comunità di esu-li. Che, nonostante tutto ciò, continuano a sognare il ritorno in Palestina. E anche per questo la stragrande maggioranza di loro combatte attivamente i terroristi, spe-rando di potersi, un giorno, rimpossessare del proprio destino. Oggi gestito da attori esterni.

Luca SteinmannGiornalista e docente universitario, è corrisponden-te in Italia del quotidiano svizzero “Il Corriere del Ticino” e collaboratore di diverse testate italiane e tedesche. Collabora con il Dipartimento di Relazio-ni Internazionali della facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano ed è costante-mente inviato come reporter e ricercatore in diverse aree del globo. In Libano tiene dei corsi di giornali-smo e comunicazione all’interno dei campi profughi palestinesi.

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el corso degli ultimi anni, il mon-do ha assistito alla vertiginosa ascesa di una “macchina del ter-

rore”, un brand-new denominato “Stato islamico in Siria e Iraq”. Ciò che ha mag-giormente stupito non è stato l’emergere del gruppo terroristico di per sé ma la sua componente internazionale. Il fenomeno dei foreign fighters, che ha caratterizzato questa “nuova entità”, ha visto migliaia di individui “abbracciare” le idee dello Stato islamico non solo per combattere e per ro-vesciare i regimi politici in Siria e in Iraq o per il dominio nel mondo islamico, ma anche per creare uno “stato” pienamente funzionante destinato a diventare la “pa-tria” di tutti i veri musulmani. La forza del richiamo dello Stato islamico, più che nella diffusione del terrore, sta quindi nella “vi-sion” del gruppo terroristico che intende proiettarsi globalmente scardinando i con-fini geografici esistenti.

di Nina Kecojević

LA RADICALIZZAZIONE DEI COMBATTENTI JIHADISTI NEI BALCANI OCCIDENTALI

La radicalizzazione nei Balcani ha radici nella dissoluzione violenta della Ex Jugoslavia

N

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Il conflitto per il dominio tra i regimi statali e i gruppi non statali nell’area MENA ha porta-to alla “transnazionalizzazione” del conflitto e al risveglio di foreign fighters pronti a lot-tare in nome dell’ideologia jihadista, con la promessa di una vita migliore nella società governata delle leggi della Shari’a. I dati relativi alla radicalizzazione jiha-dista in Bosnia-Erzegovina, Kosovo ed in Albania, nonostante la disponibilità di un minor numero di analisi e ricerche rispetto a quelle che hanno indagato sul fenome-no in altre aree, testimoniano il succes-so della campagna propagandistica dello Stato islamico nel corso degli ultimi anni. Con oltre 600 individui (anche se non tutti effettivi combattenti) giunti nei territori

dello Stato islamico, questi tre Paesi sono considerati tra i maggiori “esportatori” di jihadisti in Europa ed è quindi opportuno analizzare questo aspetto del fenomeno con particolare attenzione1. L’inizio de-gli anni Novanta nei Balcani Occidentali ha segnato, tra l’altro, la dissoluzione del peculiare regime comunista imposto da Tito portando al risveglio delle aspirazio-ni nazionaliste sopite ed alle sanguinose guerre civili in Bosnia-Erzegovina ed in Kosovo. L’incapacità dei governi di garan-tire il controllo e l’effettività di uno stato di diritto all’interno dei rispettivi confini nazionali ha generato l’erosione istitu-zionale e la disfatta dei confini nazionali, facendo dilagare la corruzione2. Inoltre, il

1. Vlado Azinović, Mehmet Jusić, The new lure of Syrian war – The foreign fighter’s Bosnian Contingent, Atlantic Initiative, Sarajevo, Aprile 2016, p. 21; Kosovo Center for Security Studies, Report inquiring into the causes and consequences of Kosovo citizens’ involvement as foreign fighters in Syria and Iraq, Apri 2015,p.24 e Peter R Neumann, “Foreign Fighter Total in Syria/ Iraq Now Exceeds 20,000; Surpasses Afghanistan Conflict in the 1980s”, ICSR, 26 January, 2015. 2. Il rapporto di UNODC del 2011 (Corruption in Bosnia and Herzegovina: Bribery as experiences by the popolation) classifica la corruzione come il quarto problema più grave del paese.

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deterioramento delle economie nazionali ha generato ulteriori problemi: elevata di-soccupazione (in particolare quella giova-nile giunta al 55.3% in Kosovo e al 62.8% in Bosnia-Erzegovina a gennaio 2014) e povertà crescente hanno accentuato un diffuso senso di insicurezza e frustrazione tra le popolazioni ormai divise su base et-nico-religiosa.3 In un contesto caratteriz-zato da esclusione sociale e mancanza di prospettive, il Salafismo4 ed il Takfirismo5 sono riusciti a penetrare nelle zone isola-te, sfidando l’ordine esistente e l’autorità delle Comunità Islamiche nazionali.6 Sono riusciti anche a sfruttare l’insoddisfazione popolare verso i regimi esistenti in favore di un progetto che oltrepassa i confini na-zionali: la creazione del Califfato. Nonostante gli sforzi politici e umanitari realizzati nel corso degli ultimi venti anni, la Bosnia-Erzegovina rimane ancora pro-fondamente contrassegnata dalla divisio-ne etnico-religiosa e lontana dal raggiun-gimento del suo ideale Euro-Atlantico. La difficoltà del processo di nation buliding sembra essere esaltata dal complesso si-stema governativo realizzato dopo le guer-re civili ostacolando la cooperazione tra i

partiti politici etnicamente divisi. Vista la precaria situazione della società post-bellica e il suo, finora, difficile percorso de-mocratico, una piccola parte della società ha iniziato ad abbracciare la propaganda dell’Islam radicale per cercare una stabilità sociale e economica. Il fondamentalismo islamico in Bosnia-Erzegovina, però, non è un fenomeno nuovo. La sua evoluzione si è avviata già in epoca comunista con la pubblicazione della Dichiarazione islami-ca (il manifesto della rinascita islamica di Alija Izetbegović7) che rivelava le aspira-zioni dell’élite musulmana di quel tempo: organizzare un movimento pan islamico che spezzasse le catene della schiavitù e della sottomissione musulmana e instau-rasse la società islamica governata da un governo mussulmano8. Anche se durante il periodo bellico, Izetbegović e il suo Partito d’Azione Democratica (Stranka Demokrats-ke Akcije) si dichiaravano protettori della Bosnia-Erzegovina multi-etnica, lo scop-pio della guerra creò i prerequisiti per l’a-scesa del movimento pan islamico nel Pae-se. La Risoluzione 713 del Settembre 1991 del Consiglio di Sicurezza delle N.U. pose l’embargo sulle forniture militari alla Jugo-

3. http://www.indexmundi.com/ 4. Salafismo è il movimento all’interno dell’Islam sunnita che professa il ritorno alle autentiche credenze e pratiche delle prime tre generazioni di musulmani, quali sono l’ideale di pratiche islamiche. Il suo carattere estremista e la forma militante sono alla base ideologica per varie organizzazioni terroristiche, in primis Al-Qaida. 5. Il Takfirismo è l’ideologia che si basa sulla pratica del “takfîr”. È un termine arabo utilizzato per indicare la “scomunica” ap-plicata nei confronti di un soggetto dichiaratosi appartenente ad una religione diversa dall’Islam o di un musulmano che non professa in modo radicale la sua fede. I takfiristi percepiscono la jihad come lo strumento per la restaurazione del Califfato. 6. Con l’espressione “Comunità Islamica” si indicano le più grandi organizzazioni religiose dei musulmana nei paesi in que-stione, quali Bashkësia Islame e Kosovës in Kosovo, Komuniteti Mysliman i Shqipërisë in Albania e Islamska zajednica Bosne i Hercegovine. 7. Alija Izetbegović è stato il Presidente della Bosnia ed Erzegovina dal 1990 fino al 1996 e il fondatore del Partito d’Azione Democratica. 8. Alija Izetbegović, Islamska deklaracija, 1990, pp. 21-22.

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slavia; di conseguenza, l’esercito bosniaco cercò vie alternative per provvedere alle proprie esigenze. Oltre ad aiuti umanita-ri e finanziari, da diversi Paesi arabi sono arrivati anche i Mujahideen (in seguito incorporati nell’unità El Mudžahid) e con essi la diffusione di diverse interpretazio-ni dell’Islam, strettamente legate alle reti terroristiche che percepivano la guerra in Bosnia-Erzegovina come un nuovo fron-te della jihad globale9. Durante il periodo delle guerre intestine, l’Arabia Saudita è stata considerata da alcuni analisti uno dei maggiori “sostenitori” dell’Islam radica-le in Bosnia-Erzegovina ed in Kosovo, ed ancora oggi continua a sostenere le reti di humanitarian aid agencies e di formazione degli imam10.Anche in Kosovo la nascita del fenomeno è legata alla crisi identitaria ed alla dilanian-te situazione socio-economica del Paese, che lo ha reso terreno fertile per l’espan-sione dell’estremismo violento. Secondo Isa Blumi, finita la guerra, le agenzie del SJCRKC (Saudi Joint Committee for the Relief of Kosovo and Chechnya) sfruttan-do le disattenzioni dell’UNMIK (United Nations Interim Administration Mission

in Kosovo11) nelle zone rurali e isolate, hanno disseminato le idee conservatrici della dottrina Salafita tramite la costru-zione delle moschee e l’educazione dei giovani12. Secondo uno studio del Centro per gli Studi sulla Sicurezza Kosovaro sui foreign fighters, l’estremismo islamico nel Paese è legato anche alla dottrina Takfiri-sta importata dalla Macedonia, negli anni successivi alla guerra di indipendenza13. I due imam macedoni Shukri Aliu e Rexhep Mumishi, entrambi addestrati in Egitto, sono considerati i principali importatori della dottrina estremista in Kosovo, dove hanno creato una base di reclutamento per lo Stato islamico14. Shukri Aliu è stato bandito dal Kosovo nel 2012 ma ciò non gli ha impedito a mantenere i contatti con gli imam locali e reclutare nuovi combattenti fino alla sua morte, avvenuta nel 2015. In Albania, dopo ventitrè anni dell’epoca atea, la ricostruzione religiosa è stata pro-fondamente contrassegnata dalla mancan-za di risorse finanziarie per la ricostruzio-ne delle istituzioni e delle figure religiose processate o uccise durante il regime co-munista. La riscoperta della libertà di cul-to ha coinciso con la decisione del primo

9. I Mujahideen erano i “holy warriors” stranieri che combattevano contro i Serbi e Croati durante la guerra in Bosnia-Erzegovina. Secondo Documentation Centre of Republic of Srpska sarebbero stati collegati con i gruppi terroristici come come Al - Qaeda, GIA, l’egiziano al-Gama’a al Islamiyya. 10. Shaul Shay, Islamic Terror and the Balkans, New Brunswick, 2007, p. 47; John R. Schindler, Unholy Terror, Zenith Press, 2007, p. 129. 11. L’istituzione dell’UNMIK è stata autorizzata da Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione 1244 - al fine di fornire un’ammini-strazione ad interim per il Kosovo in base alla quale la popolazione del Kosovo poteva godere di una sostanziale autonomia. In seguito alla dichiarazione di indipendenza nel 2008, i compiti della missione si focalizzano principalmente sulla promo-zione della sicurezza, della stabilità e sul rispetto dei diritti umani in Kosovo. 12. Isa Blumi, Indoctrinating Albanians Dynamics of Islamic Aid, ISIM Newsletter, Novembre, 2002. 13. Kosovo Center for Security Studies, Report inquiring into the causes and consequences of Kosovo citizens involvement as foreign fighters in Syria and Iraq, p. 51. 14. Ibid, pp. 52-53.

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Presidente post-comunista, Sali Berisha, di accogliere finanziamenti provenienti dai Paesi del mondo islamico. Con i fondi stranieri sono state costruite numerose moschee di ispirazione radicale operanti al di fuori della giurisdizione della Comu-nità Islamica e concesse borse di studio per studi di teologia islamica nei Paesi del Golfo ed in altri Paesi arabi. Al loro ritorno nel paese di origine, alcuni di questi imam hanno promosso idee radicali in contrasto con le posizioni ufficiali della Comunità Islamica Albanese, sfruttando le contro-versie esistenti per creare reti di recluta-mento e convincere i giovani albanesi ad abbandonare l’Islam tradizionale in nome della jihad15. La circolazione degli insegnamenti radi-cali, però, non è più limitata alle moschee

ma si sta diffondendo tramite i social media e l’attivismo degli agenti radicali operanti in zone rurali ed isolate. La “vit-timizzazione” dei musulmani che hanno perso la vita nei sanguinosi conflitti de-gli anni Novanta e la percezione che la “causa” della loro lotta è trascurata dalle strutture politiche “corrotte” rende anco-ra più seducente il richiamo dello Stato islamico.Le prime partenze da Bosnia-Erzegovina, Kosovo e Albania verso Siria e Iraq sono state registrate nel corso del 2012.16 La frequenza delle partenze si è poi intensifi-cata, anche diversificandosi quanto al tipo di impegno. Secondo uno studio condotto dall’Atlantic Initiative, gli individui erano inizialmente spinti a recarsi nelle aree di conflitto da spirito di solidarietà verso loro

15. AA.VV, Religious radicalism and violent extremism in Albania, IDM, Tirana, 2015, p. 34. 16. Adrian Shtuni, Ethnic Albanian Foreign Fighters in Iraq and Syria, CTC Sentinel, April 2015, p.11; Vlado Azinovic, Mehmet Jusic, The new lure of Syrian war – The foreign fighters Bosnian Contingent, pp. 31-32.

L'ex Presidente albanese Sali Berisha

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confratelli; ha poi prevalso, invece, la lotta al regime di Al Assad17.Si possono distinguere due categorie di fighters. La prima comprende i veterani delle guerre civili in Bosnia-Erzegovina e Kosovo che, fatte proprie le interpretazioni radicali dell’Islam, sono diventati influenti membri delle comunità radicali. L’altra, in-vece, annovera i giovani che si mobilitano con un forte desiderio di autorealizzazione e per la necessità di allontanarsi dall’esclu-sione economica e dalla marginalizzazione sociale. Molti di questi individui hanno in comu-ne la predisposizione per l’estremismo e per gli atti criminali (soltanto nel caso del contingente bosniaco in Siria e Iraq, il 26% aveva precedenti penali18). La propensione degli ex criminali ad aderire allo Stato isla-mico non è casuale ma è il risultato dei due fattori tra loro connessi: la mancanza delle prospettive sociali e familiari e l’inclina-zione dello Stato islamico a dare un senso ed un riconoscimento alle loro azioni. Il caso di Emrah Fojnica testimonia in modo lampante quanto possa incidere il passato criminale sui processi di radicalizzazione. Fojnica è stato sospettato di aver aiutato Mevlid Jašarević ad organizzare l’attacco terroristico all’Ambasciata degli Stati Uniti a Sarajevo nel 2011. È stato assolto dall’ac-cusa nel 2012 per mancanza di prove. Nel

suo caso, oltre che dai precedenti penali, il processo di radicalizzazione è stato anche facilitato dalla scarsa istruzione, dall’in-fluenza della comunità salafita di Gornja Maoča19 e dall’autorità del padre, Hamdo Fojnica, che, peraltro, avrebbe poi cele-brato il suo martirio avvenuto nell’Agosto 2014 in Iraq.Nella maggioranza dei casi la diffusione dell’Islam radicale è legata alle attività e all’influenza delle cosiddette “nuove auto-rità religiose”, ovvero agenti di indottrina-mento ideologico. La presenza delle comu-nità salafite isolate nelle zone rurali, come Gornja Maoča, Ošve e Velika Kladuša in Bosnia-Erzegovina, Leshnica, Zagoracan e Kachanik in Kosovo, Elbasan, Pogradec e Kukes in Albania evidenzia la presenza di diversi centri di reclutamento e di adde-stramento militare e ideologico dei nuovi jihadisti20. Anche nei Paesi citati, il potere dei social media è stato ampiamente sfruttato da-gli agenti islamisti per l’indottrinamento ideologico ed il reclutamento nelle forma-zioni paramilitari dello Stato islamico. E’ stata creata una serie di siti web di carat-tere educativo, specialmente nel caso della Bosnia-Erzegovina (come Vijesti Ummeta, Put Vjernika, Islam Bosna e Mladi Muslima-ni) destinati a lodare i successi dello Sta-to islamico. Inoltre, i video delle khudba

17. Vlado Azinović, Mehmet Jusić, The new lure of Syrian war – The foreign fighters Bosnian Contingent, p. 50. 18. Ibid., p. 40. 19. Gornja Maoča è un villaggio nel nord-est della Bosnia-Erzegovina. 20. Vlado Azinović, Mehmet Jusić, The new Lure of the Syrian war – The foreign fighters Bosnian Contingent, p. 37; Kosovo Center for Security Studies, Report inquiring into the causes and consequences of Kosovo citizens‟involvement as foreign fighters in Syria and Iraq, p.80; Enri Hide, Assessment of risks on national security/ the capacity of state and society to react: Violent Extremism and Religious Radicalization in Albania, Albanian Institute for International Studies, Tirana, 2015, p.7.

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(sermoni) hanno mostrato di essere uno strumento efficiente della radicalizzazio-ne. É emblematico il video della khudba di Bilal Bosnić nella quale egli loda la procla-mazione del Califfato21. Nel sostenere la causa dello Stato islamico egli enfatizza il fatto che solamente i non credenti mette-ranno in discussione la legittimità di tale proclamazione e contesteranno l’unifica-zione dei musulmani. La forza del suo ap-pello, inoltre, si arricchisce del confronto che egli fa tra il Vaticano (il luogo sacro cristiano che chiude le porte davanti ai fedeli) ed Israele (costruito nel cuore del mondo musulmano), da un lato, e lo Stato islamico dall’altro, che, invece, abbraccia i veri credenti proponendosi di ripristinare l’orgoglio a lungo perduto. Il suo discor-so vuole stimolare i potenziali seguaci ad aderire alle formazioni jihadiste, unendosi nella lotta contro gli apostati e gli infedeli. Le attività di Bosnić (condannato nel 2015 a sette anni di prigione per il reclutamento e l’organizzazione dei viaggi verso Siria ed Iraq) hanno provocato la morte di almeno sei cittadini bosniaci in Medio Oriente22.Altro video emblematico è quello di Al Ha-yat dal titolo “L’onore è in Jihad: un mes-saggio al popolo dei Balcani” in cui otto combattenti, provenienti da Bosnia, Ko-sovo e Albania, coinvolgono gli spettatori con una serie di immagini inquietanti e di testimonianze, attraverso un percorso sto-

rico dalla caduta dell’impero ottomano ad oggi.Gli esperti di radicalizzazione e di estremi-smo violento sono particolarmente preoc-cupati per i returnees (e di quelli la cui par-tenza è stata impedita dalle autorità) che rappresentano una potenziale minaccia per la sicurezza, sia interna che regionale. Gli stessi esperti danno la massima importan-za alla creazione delle misure efficaci per la riabilitazione e la reintegrazione sociale di individui precedentemente coinvolti nella narrazione estremista23. Anche se, nel cor-so degli ultimi anni, i Paesi in questione si sono impegnati a riformare i rispettivi codici penali e l’intero quadro giuridico in accordo con gli standard promossi dalla Strategia globale anti-terrorismo dell’ONU e dalla Strategia anti-terrorismo dell’UE in materia di lotta contro il terrorismo, sussi-ste ancora la forte necessità di promuovere il dialogo sociale e inter-religioso24. L’estremismo violento è anche conseguen-za della diffidenza reciproca tra i governi nazionali e della mancanza di cooperazio-ne in ambito sicurezza. Il problema trava-lica la sola limitata prospettiva interna di ogni Paese e la stessa dimensione regiona-le, necessitando di cooperazioni efficaci. Un esempio lo troviamo nella Operazione Van Damme del Dicembre 2015. Gli inter-venti condotti dalla polizia Italiana e Ko-sovara hanno portato all’arresto di quattro

21. Bilal Bosnić hutba: velika radost-proglašenje hilafeta, Luglio 2014, https://www.youtube.com/watch?v=wSbLs7OH5cY 22. Balkan Insight, Bosnia Jails Salafist Chief for Recruiting Fighters, November 2015, https://goo.gl/oqEZPq 23. Council of the European Union, The European Union Counter-Terrorism Strategy, November 2005, Brussels, p.8, https://goo.gl/EDK7bS 24. Bosnia and Herzegovina Council of Ministers, Strategy of Bosnia and Herzegovina for Preventing and Combating Terror-ism 2015-2020, Sarajevo 2015.

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individui provenienti dai Balcani e resi-denti in Italia. Di questi, tre sono stati ar-restati dalla polizia Italiana in seguito alle investigazioni condotte a Brescia, Perugia e Vicenza mentre uno è stato arrestato in Kosovo, nel villaggio Hani I Helezit. Essi erano sospettati di aver effettuato la pro-paganda jihadista nei Balcani e di aver pia-nificato un attentato a Papa Francesco e a Tracy Ann Jacobson, Ambasciatrice degli Stati Uniti in Kosovo. Questa operazione rispecchia il carattere transnazionale del terrorismo, anche a cavallo del confine orientale dell’Italia, da ciò ne consegue che una collaborazione consolidata ad ogni li-vello è indispensabile.

Nina KecojevicDi origine montenegrine, è laureata in Relazioni Internazionali (percorso: Pace, Guerra e Sicurezza). Ha svolto il tironcinio presso l’Ambasciata del Mon-tenegro a Roma. Attualmente è stagista presso ADC ICTY (The Association of Defence Counsel practising before the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia). Studiosa di questioni di estremi-smo violento, radicalizzazione e jihadismo soprattuto nell’area balcanica.

Campi di addestramento jihadisti nei Balcani

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n Paese in cui tutto è il contra-rio di tutto. La libertà è ipocrisia, la religione è politica, la carità

è profitto”. Anche questo è, citando le pa-role di Giuseppe Acconcia, Il Grande Iran. Un luogo che vive di mille contraddizioni, in cui regna una “pace metafisica” che col-pisce l’autore mentre torna nel Paese dal confine turco, un confine che “lo separa dal mondo intero”. L’antica Persia, però, è anche un luogo capace di “sconvolgere” chi osserva per la prima volta la sua capi-tale Teheran, “coi suoi 15 milioni di abitan-ti che si riversano su strade straripanti di macchine, taxi, moto”. Un Paese con una storia controversa, lacerata per certi versi, ma sempre orgogliosa di sé stessa. Come il suo popolo, capace di realizzare l’unica ri-voluzione – quella del 1979 per intenderci – davvero riuscita nel mondo arabo e che, giova ricordarlo, non hai mai preteso di es-sere “esportata”.

di Michela Mercuri

UN PAESE IN CUI TUTTOÈ IL CONTRARIO DI TUTTO”IL GRANDE IRAN DI GIUSEPPEACCONCIA

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Il libro procede tra le contraddizioni di un Paese sospeso tra Oriente e Asia, con una sorprendente capacità di unire il resocon-to storico, la narrazione e il vissuto per-sonale dell’autore, in un viaggio che dalla dinastia dei Qajar arriva all’Iran di oggi e che attraversa la sua società, la sua econo-mia e la sua politica. Molti sono gli aspetti che colpiscono il lettore. Tra i tanti, non si può non restare affascinati dalla resilienza della sua società civile che vive i “vincoli dell’islam ufficiale” inventando una sorta di “controcultura casalinga”. D’altra parte Teheran ha una cultura antichissima. Già durante il regno dei Qajar, come ben ricor-da l’autore, l’arte “iniziò ad essere conside-rata come forma partecipativa”. Nel testo, poi, si parla anche del ruolo dell’Iran negli equilibri geopolitici mon-diali, con un discorso capace di andare ben oltre il pur importante tema del nucleare iraniano. Passaggio inevitabile per un Pae-

se che oggi, forse suo malgrado, è essenzia-le per la risoluzione dei principali conflitti in Medio Oriente.È chiaro già dal titolo cosa vuole dirci Ac-concia. “Il Grande Iran” fa l’eco al “The Great Game” di Peter Hopkirk, al gioco di-plomatico e militare che, dai primi dell’Ot-tocento fino alle soglie della prima guerra mondiale, vide scontrarsi i due grandi im-peri, quello britannico e quello zarista, nel-la conquista del Medio Oriente e dell’Asia centrale. Quel gioco, in verità, non è mai finito. Basta guardare agli attuali sconvol-gimenti in corso nel Levante per capire che la storia sembra comunque procedere in direzione ostinata e contraria. I grandi attori hanno cambiato volto e nome, ma i territori contesi sono sempre gli stessi. La realpolitik dell’interesse nazionale ha superato indenne la nascita e lo sviluppo delle organizzazioni internazionali che parlavano di concertazione e “si illudevano

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di pace” e, oggi come allora, guida le poli-tiche degli Stati. Il libro ci svela, così, che il mito del Grande Iran è anche la risultante della politica unilaterale del Grande Medio Oriente di George W. Bush in cui l’Iran, l’I-raq e la Corea del Nord erano i tre cardini dell’asse del male. Tuttavia, la “salvifica esportazione della democrazia” ha fallito. Il sonno della ragione ha generato mostri ed ha piantato i semi per la destabilizza-zione del Medio Oriente.Da questa illuminata riflessione dell’auto-re possiamo partire per leggere alcuni degli attuali focolai di crisi nel mondo arabo.A iniziare dall’Iraq, un Paese che con la lunga dittatura di Saddam Hussein ha fa-ticosamente mascherato la sua natura di precario college di gruppi etnici e religiosi, come ricorda Sergio Romano nel libro Con gli occhi dell’islam, “assemblati da Chur-chill alla conferenza del Cairo nel 1920 per assicurare carburante alla flotta britanni-ca”. Lo capì Bush senior quando, durante la prima guerra del Golfo, lasciò che le truppe americane punissero gli uomini di Saddam in ritirata, mietendo più di 30.000 vittime nelle fila irachene, ma si fermò davanti alla liquidazione del regime, ricordando che la missione comprendeva la sola liberazione del Kuwait ed era conclusa. Forse immagi-nava che il crollo del Paese avrebbe avu-to come diretto corollario la guerra per la spartizione. 13 anni dopo il figlio non fu così lungimirante. Diede il via a Iraqi Free-dom, fece fuori il dittatore e consegnò il Paese a Teheran.Non è andata meglio, qualche anno dopo, in Siria. Qui gli Stati Uniti di Obama, già

nel 2011, decisero di supportare la Turchia e le monarchie del Golfo contro gli sciiti. La Russia per salvaguardare le sue basi nel Mediterraneo è intervenuta direttamen-te nel conflitto. Le “superpotenze” hanno così fomentato, manipolato e alimentato i revanscismi religiosi e settari per dare vita alla più grossa guerra per procura della storia recente. Teheran, come Mosca, aveva ben chiaro fin dall’inizio l’obiettivo siria-no: assicurarsi il controllo indiretto verso il Mediterraneo, ottenendo una proiezione strategica che neppure lo Shah aveva mai sognato. Si è alleato con Damasco e ha tro-vato la sponda russa, puntando sul cavallo vincente. Anche in questo caso l’Iran si è rafforzato grazie agli errori degli Stati Uni-ti e dei suoi alleati regionali e internazio-nali e ora siede al tavolo dei negoziatori, assieme alla Russia ed alla Turchia.Verrebbe da chiedersi cosa stia accaden-do oggi a quel Grande Medio Oriente? La risposta appare inevitabile: non esiste più. Oggi stiamo assistendo non solo alla dissoluzione dei confini artificiali, creati dalle potenze coloniali, ma anche a quella dei popoli, intesa come volontà di vivere insieme e condividere una comunità po-litica e sociale. La caduta dei dittatori, da Saddam alle primavere arabe, ha sancito il tramonto dell’era post-coloniale e dello Stato-Nazione. La mancanza di identità nazionali radicate ha condotto alla loro de-composizione all’interno dei confini statali e alla loro ricomposizione sulle linee pre-esistenti alla creazione degli Stati (tribù, regioni, clan, etnie etc.) dando vita a una ristrutturazione sociale basata su poteri a

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forte base localistica. Non ci si illuda, dun-que, che in Siria la fine della guerra, con o senza Bashar al Assad, ricomporrà il Paese così come lo abbiamo fin qui conosciuto. Probabilmente, dopo un’eventuale vittoria sull’Isis, anche in Iraq verrà il momento di stabilire una sorta di spartizione che qui potrebbe essere ancora più dolorosa a cau-sa delle ingenti risorse petrolifere. L’Iran, anzi, il Grande Iran, dall’alto della sua storia millenaria, sembra guardare con un certo distacco il disfacimento del Medio Oriente. Forse non è neppure troppo pre-occupato dall’aggressiva politica di Donald Trump che minaccia di farlo ripiombare nell’isolamento che ha vissuto fin dalla rivoluzione islamica del 1979, quando gli USA imposero sanzioni unilaterali, este-se nel 1995 e poi legittimate dall’Onu nel 2006. Allora, messo al palo dall’Occidente, Teheran aveva saputo inserirsi nel nuovo grande gioco apertosi in Asia, avvicinan-dosi alla Cina, uno dei principali impor-tatori del suo greggio e cogliendo la mano tesa della Russia, che ha fornito capitali pubblici e privati da investire nell’ammo-dernamento degli impianti petroliferi ma anche armi convenzionali e tecnologie nucleari. Se da un lato le sanzioni hanno danneggiato l’economia iraniana, dall’al-tro non l’hanno distrutta. L’Iran è stato in grado di resistere. Detta in altri termini, se è vero, come scri-veva Pier Paolo Pasolini, che “bisogna es-sere molto forti per amare la solitudine”, il Grande Iran sembra essere ben allenato in tal senso. Queste sono solo alcune delle considera-

zioni che nascono dalla lettura del testo di Acconcia. Un libro intenso, mai scontato, capace di accompagnare il lettore in un viaggio complesso, con l’accortezza di non volerne mai condizionare il giudizio, ma soprattutto uno strumento indispensabile per capire l’Iran di oggi e ciò che potrebbe rappresentare in futuro.

Michela MercuriDocente di storia contemporanea dei Paesi del Medi-terraneo all’Università di Macerata e di Geopolitica del Mediterraneo all’Università Niccolò Cusano di Roma

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ul ruolo scientifico e geopolitico italiano a livello internazionale è diffuso un certo scetticismo,

spesso un pessimismo esplicito. Eppure, almeno per quanto concerne la ricerca po-lare, questo luogo comune va sicuramente smentito. L’Italia è tra i pochissimi paesi al mondo a gestire basi sia in Artide - la sta-zione Dirigibile Italia a Ny Alesund, nelle isole Svalbard - sia in Antartide, con le sta-zioni Mario Zucchelli nella Baia Terra Nova e Concordia a Dome C, nell’interno. L’importanza geopolitica di questa presen-za è legata alle speciali convenzioni inter-nazionali nell’ambito delle quali i ricerca-tori polari operano. In Artico, la comunità scientifica vive e lavora in un’enclave ex-traterritoriale del territorio norvegese. L’Antartide è l’unica parte del pianeta non assoggettata a sovranità nazionale: una ‘Terra di pace e di scienza’, come viene de-finita, in cui sono inibite tutte le attività

di Marco Ferrazzoli

ANTARTIDE: FARE RICERCA ALLA FINE DEL MONDO. PER SALVARLO

L’Italia è tra i pochissimi paesi al mondo a gestire basi sia in Artide sia in Antartide, da dove giunge questo reportage che mostra come il ruolo scientifico e geopolitico del nostro paese nella ricerca polare sia di assoluta rilevanza. La cre-azione dell’Area protetta del Mare di Ross, poi, apre prospettive strategiche per i ricercatori italiani

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commerciali e militari grazie al Trattato Antartico, entrato in vigore il 23 giugno 1961, e al Protocollo di Madrid, che ha vietato fino al 2041 lo sfruttamento degli idrocarburi e dei preziosi minerali di cui il continente bianco è ricco. Uno status del tutto unico, con il quale la cooperazione scientifica e il principio di condivisione che la anima hanno prevalso sulla compe-tizione, sugli interessi economici e sulle spartizioni di potere. L’Italia è tra i firmatari del Trattato, al quale hanno complessivamente aderito oltre 50 Paesi che coprono più dell’80% della popolazione mondiale, ed è membro di organizzazioni quali lo SCAR (Scienti-fic Committee on Antarctic Research) e il CoMNAP (Council of Managers of National Antarctic Programmes). Ma soprattutto as-sicura dal 1985, dopo le prime spedizioni nella Terra Vittoria, un’attività ufficiale e continuativa con il PNRA (Programma Na-

zionale di Ricerche in Antartide): 31 cam-pagne scientifiche che hanno contato fino a 340 partecipanti di vari enti e universi-tà, su finanziamento del MIUR (Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca scien-tifica). Il coordinamento scientifico e logi-stico compete al CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche), mentre ENEA (Agenzia na-zionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) è re-sponsabile dell’organizzazione delle spe-dizioni, dalla logistica al funzionamento delle stazioni.La stazione dedicata a Mario Zucchelli (MZS) si trova lungo la costa della Terra Vit-toria, tra i ghiacciai Campbell e Drygalski, coordinate latitudine 74° 41’ 42” sud, lon-gitudine 164° 07’23” est. Ospita circa 80 persone e si sviluppa su 7.000 mq con labo-ratori, alloggi, officine, mensa, locali per il tempo libero, pronto soccorso con due me-dici (che, come a Concordia, in caso di ne-

Pinguini imperatore, Cape Washington

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cessità possono far ricorso a un servizio di telemedicina concordato con il Policlinico Gemelli di Roma). La base di Dome C si tro-va a 75° 06’ sud, 123°20’ est, 1.200 km dalla costa e 3.230 m di quota. Dal 2005 è aperta ininterrottamente e ospita una comunità multinazionale di fino a 80 persone (16 in inverno) con una gestione congiunta italo-francese. La collaborazione internazionale è del resto una costante della ricerca an-tartica e gli italiani lavorano soprattutto con coreani, tedeschi, neozelandesi, au-straliani e statunitensi. L’ Antartide è uno dei crocevia più rilevanti per gli scienziati di tutto il mondo e qui, come alle Svalbard, gli italiani possono confrontarsi con i mag-giori centri di ricerca polare al mondo. So-prattutto per i più giovani significa riceve-re stimoli unici, oltre che stabilire sinergie importanti. Quanto i nostri ricercatori sia-no apprezzati lo dimostra tra l’altro, come racconta con un certo imbarazzo il diretto interessato, il fatto che proprio i colleghi stranieri abbiano proposto la dedica di un ghiacciaio a Marino Vacchi dell’Istituto di scienze marine del CNR.Questi oltre trenta anni di attività italia-

Atterraggio sulla pista di ghiaccio

Sopra: Baia Terra Nova, nell'Area marina protettadel Mare di Ross

Sotto: La Stazione italo-francese Concordia,sul plateau antartico

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na nel continente antartico si sono svolti in una fase politico-culturale che ha co-nosciuto importanti mutamenti nella co-scienza ambientale dell’opinione pubblica. Mantenere laboratori e ricercatori nelle aree più remote del pianeta significa oc-cuparsi di tematiche strategiche che inve-stono per esempio l’origine dell’universo, la riduzione dell’ozono, i movimenti della crosta terrestre, contribuendo in tal modo alla sempre maggiore consapevolezza che il nostro futuro è strettamente connesso con la comprensione dei fenomeni globa-li e, dunque, con studi capaci di interpre-tarli. Facciamo qualche esempio. Se oggi consideriamo la preservazione della bio-diversità un dovere irrinunciabile è anche perché diversi decenni fa, nell’ambito delle convenzioni antartiche, si stabilì il divieto di caccia alla foca, misura - all’epoca og-getto di perplessità che giunsero fino allo scherno - precursore delle normative che oggi mirano a tutelare tutte le specie a ri-schio di estinzione. Fattore non meno im-portante: l’Antartide è coperta per il 98% da una calotta di 30 milioni di km cubici di ghiaccio, che rappresenta il 91% del totale

disponibile e la maggiore riserva d’acqua dolce del pianeta e che offre un contribu-to fondamentale alla regolazione termica del pianeta, influenzando la circolazione atmosferica globale e in particolare il cli-ma dell’emisfero meridionale. L’attività antartica italiana si esplica anche nel coin-volgimento diretto del pubblico e in par-ticolare di media, giovani e scuole tramite collegamenti - se ne sono tenuti di conti-nuo anche nei giorni della nostra presenza - conferenze, mostre e servizi video e gior-nalistici: una divulgazione che si trasforma in sensibilità. Anche quando non conduce a risultati im-mediati di tipo applicativo, è dalla cono-scenza che derivano le soluzioni ai problemi vecchi e nuovi del pianeta e di conseguen-za le risposte alla nostra sopravvivenza su di esso. Una delle questioni scientifiche più complesse e controverse, attualmente, è senz’altro il ruolo dell’impatto antropico sul clima: si pensi solo a quanto sta acca-dendo negli USA con le scelte in materia del presidente eletto Donald Trump. Per dirimerla è fondamentale conoscere l’an-damento della co2 nelle ere passate, quan-

Campo remoto

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do le fasi climatiche erano ‘forzate’, come si dice in gergo, da fattori naturali: un dato essenziale per comprendere come l’azione dell’uomo a partire dall’epoca industriale incida nei mutamenti globali. In tale affa-scinante linea di ricerca l’Italia è stata già protagonista con il progetto EPICA, con un carotaggio glaciale eseguito alla profondi-tà di 3270,20 metri che ha consentito di ri-costruire il paleoclima fino a 840 mila anni fa, e lo è di nuovo adesso con Beyond EPI-CA. Proprio nei giorni della nostra recente, breve ed emozionante missione antartica, la traversa che trasporta le attrezzature nel punto dove si effettuerà il nuovo caro-taggio procedeva in un periglioso percorso tra i crepacci a una velocità, si fa per dire, di nemmeno dieci chilometri orari di me-dia. Il nuovo progetto, come ci ha spiega-to Massimo Frezzotti dell’ENEA, intende “giungere fino a 1,5 milioni di anni indie-tro, scavallando e chiarendo così il passag-gio cruciale nelle fasi glaciali-interglaciali avvenuto intorno a un milione di anni fa e il legame tra questi cicli e i gas serra pre-senti in atmosfera”.

Partecipare a progetti internazionali così ambiziosi “richiede ingenti risorse scien-tifiche, economiche e logistiche, per cui – osserva Antonio Meloni, presidente del-la CSNA, la Commissione Scientifica che valuta i progetti antartici di Università e Istituti di ricerca – è giusto chiedersi se si tratti di una semplice spesa o di un inve-stimento”. La crisi impone una gestione ancor più oculata delle risorse pubbliche, ma per quanto riguarda le area polari si può dire che il riconoscimento politico e scientifico ottenuto dall’Italia giustifica lo sforzo compiuto. Oltre al Progetto EPICA ricordiamo, tra i tanti, il carotaggio record di sedimento ANDRILL, i dati sulle inte-razioni stagionali mare/ghiaccio e sulle ripercussioni a grande distanza di tali pro-cessi, i sondaggi nella piattaforma conti-nentale, l’esperimento BOOMERanG sulla struttura dell’universo, la ricostruzione dell’evoluzione geologica nel Cenozoico, i risultati pubblicati su riviste scientifiche quali Nature, premi come il Balzan, il Dan David, il Cartesio. È essenziale che l’impe-gno italiano non venga meno perché solo

Cape Washington

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la regolarità delle spedizioni consente di ottenere i risultati scientifici attesi.Al di là del dovere morale di sostenere la ricerca, la motivazione migliore dei circa 700 milioni di euro che hanno consentito all’Italia i suoi trent’anni di presenza nel settimo continente è che ambedue gli am-bienti polari vanno conservati e studiati per capire meglio il nostro passato e, di conseguenza, il nostro futuro. La compa-razione tra i diversi fenomeni in corso nei due poli – al di là delle similitudini cli-matiche, paesaggistiche e geografiche - è di estrema importanza, per esempio per quanto riguarda l’andamento delle tempe-rature, le dinamiche dei ghiacci, le relazio-ni tra le specie viventi o la riflessione della luce solare. Non meno rilevante, dal punto di vista geopolitico, che l’area artica sia soggetta a ingenti mire di numerosi paesi, mentre quella antartica è l’ultimo angolo incontaminato del Pianeta. Un immenso laboratorio naturale e umano a cielo aper-to sostanzialmente inesplorato e pochissi-mo antropizzato, abitato dalla sola comu-nità scientifica, che conta tra le mille e le

Edmonson Point

Sopra: C130 atterrato a Baia Terra NovaSotto: Crepe sul ghiaccio

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diecimila persone a seconda delle stagioni. Il ruolo italiano in Antartide è nodale e lo sarà ancor più con la recente istituzione, dopo cinque anni di trattative, dell’Area marina protetta di Ross, la più grande ri-serva marina mondiale, di cui la Stazione Zucchelli potrà essere l’hub, rafforzando una vocazione e un’esperienza ormai con-solidate. Da tempo la pista aerea su ghiac-cio di 3.000 metri gestita dagli italiani a Baia Terra Nova consente i voli di Twin Ot-ter, Basler ed Hercules e, quindi, i riforni-menti e i collegamenti con la Nuova Zelan-da – dove, a Christchurch, si trova l’altro snodo da e verso l’Italia - e per l’interno del continente: tra Mario Zucchelli e Concor-dia, con le stazioni Jang Bogo (coreana), Gondwana (tedesca), McMurdo (statuni-tense) e Dumont D’Urville (francese) e con i campi remoti (ne sono stati allestiti in contemporanea fino a 9 e per 76 giorni di attività). Questo ruolo, oggi limitato all’in-verno australe (il nostro gruppo è rientra-to a fine novembre con l’ultimo volo utile, poiché con l’arrivo dell’estate il rischio di atterrare sul pack è eccessivo), potrà di-

Sopra: In elicotteroSotto: Pesca in Campo Remoto

MZS-Mario Zucchelli Station, la prima base italiana in Antartide

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Foche al sole

venire permanente grazie all’aviopista su terraferma in corso di realizzazione sem-pre nei pressi di MZS: proprio a fine 2016 è stato approvato un nuovo finanziamento ad hoc di cinque milioni di euro. Le navi re-stano però insostituibili per il trasporto di carichi pesanti: Italica, 5.600 tonnellate di stazza e 130 metri di lunghezza, ha avviato da poco la sua ultima missione, dopo una lunga e onorata carriera in cui ha collegato il Mediterraneo a Baia Terra Nova e con-dotto importanti ricerche oceanografiche; l’OGS di Trieste gestisce invece Explora, 1.400 tonnellate e 70 metri, attrezzata con multibeam e mooring per eseguire prospe-zioni geofisiche, rilevare la conformazione dei fondali e condurre campionamenti. Ma la strategicità italiana nel mare di Ross non è solo logistica. L’Area concentrerà maggiormente l’attenzione della ricerca internazionale sull’oceano australe, che ha un’estensione doppia rispetto alla ter-raferma antartica: un sistema regolato da un gioco affascinante di salinità, correnti e densità, estremamente complesso e diffi-cile da interpretare, per esempio per quan-

to concerne le dinamiche dei ghiacci, che si presentano in alcune aree in riduzione, come accade in modo più eclatante in Ar-tico, in altre in crescita. La creazione di questa riserva inoltre, secondo quanto sta-bilito da una convenzione internazionale, rappresenta una sorta di pilota per l’avvio di altre aree protette e in questo conte-sto noi abbiamo l’opportunità di assume-re un ruolo da leader. “Si potrà rafforzare una sorta di complementarietà - prevede Meloni - tra le ricerche svolte sul plateau a Concordia, nel deserto che caratterizza l’interno dell’Antartide, e quelle di Mario Zucchelli, rivolte tra l’altro alle scienze della vita”. Se a Dome C trovano il loro habitat idea-le alcuni studi di astronomia, astrofisica, fisica dell’atmosfera, sismologia e medi-cina, nei giorni della nostra missione ab-biamo seguito sul campo due dei biologi che a Baia Terra Nova lavorano sull’inim-maginabile biodiversità - alghe, licheni, muschi e funghi, invertebrati, krill, uccelli, foche, skua, balene - di questo luogo così apparentemente inospitale, occupandosi

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in particolare delle reti trofiche. Edoardo Calizza della Sapienza di Roma studia al-cune specie di pinguini e, confessa, “ogni volta che mi reco in pinguinaia per le ri-cerche l’emozione è sempre la stessa. Sono fortunato a poter lavorare qui”. I ravvicina-tissimi incontri con questi uccelli eccezio-nalmente socievoli, in effetti, rimangono tra le emozioni più forti che il continente bianco regala, assieme a quelle dei paesag-gi glaciali. Di straordinario interesse scien-tifico e ambientale sono anche le ricerche sulla fauna ittica - specie endemiche come l’ice fish, capace di resistere a temperatu-re sotto lo zero grazie a una circolazione acquosa, senza emoglobina - che persino a queste latitudini deve fare i conti con la pesca commerciale, il cui controllo e rego-lamentazione è tra gli obiettivi dell’Area marina. “Lavorare in questo ambiente, in questo silenzio quasi assordante, avendo come compagne di pesca le foche, è straor-dinario”, ammette Laura Caiazzo dell’Isti-tuto di scienze marine del CNR. Del resto, l’entusiasmo con cui un ricerca-tore lavora in Antartide è intuibile. La ri-cerca scientifica porta con sé passione per l’ignoto, desiderio di conoscenza, curiosi-tà. E dove ritrovare questo spirito di esplo-razione più che a latitudini così remote, in ambienti così estremi e ancora poco cono-sciuti, in un luogo che tra l’altro conta la maggiore altitudine media della terra ma rappresenta anche il deserto più esteso e il luogo più arido del pianeta? Ogni anno decine di italiani vengono fin quaggiù per conto di Enti di ricerca, Università e mini-steri come Esteri e Difesa: biologi, fisici,

medici, ingegneri, meteorologi, ma anche informatici, operai, autisti, personale di segreteria e amministrativo, cuochi… Gli studi polari abbracciano uno spettro che va dai meteoriti ai venti, dal sottosuolo alle osservazioni astronomiche, dalla geologia alla simulazione di ambienti extraterre-stri, dal campo magnetico alle interazioni elettromagnetiche tra terra e sole, con fe-nomeni come tempeste solari e aurore au-strali, fino all’adattamento dell’uomo allo stress. E la tecnologia collegata a queste discipline coinvolge telerilevamento, si-stemi satellitari, radar, informatica, tele-matica, robotica. A chi fa ricerca in queste lande distanti ol-tre 15 mila chilometri dalla nostra penisola è richiesta, oltre alle competenze tecniche e scientifiche, una buona dose di spirito di avventura, una capacità di adattamento e uno spirito di sacrificio non comuni. Ci vo-gliono almeno 2 o 3 giorni di volo per rag-giungere le nostre basi, settimane se si va in nave. Poi, bisogna vivere e lavorare un ambiente che registra temperature medie di -50° centigradi (il record fu toccato nel 1983 con -89,7 °C), nell’oscurità totale o in un giorno illuminato per 24 ore, magari in una base con una quindicina di persone appena, per più di nove mesi e a centinaia di chilometri dall’abitato più prossimo. La spinta motivazionale deve andare insom-ma oltre quella professionale, per quanto le condizioni di vita e le possibilità di con-tatto siano ormai relativamente comode ri-spetto ai tempi pionieristici di James Cook, Shackleton, Amundsen, Scott, ma anche a quelli di Ardito Desio e Caroline Mikkel-

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sen. E comunque i rigorosissimi standard di addestramento e sicurezza previsti per chi arriva in Antartide hanno consentito di limitare al minimo gli incidenti, anche se purtroppo nel 2014 si è registrata una tra-gica perdita, quella del biologo Luigi Mi-chaud, durante un’immersione subacquea. Le attività in cui questa comunità umana è impegnata sono tanto varie e comples-se che soltanto mettendo a fattore comu-ne approcci e conoscenze diverse, ma il medesimo entusiasmo, si può affrontare e comprendere un ecosistema così parti-colare e così correlato allo stato di salute dell’intero pianeta terrestre. Anche l’or-dine, la pulizia nelle basi, la qualità della cucina, sono indici della disciplina un po’ militare che è indispensabile mantenere in queste particolari condizioni e della pas-sione che tutti mettono nel lavoro. Persino un operaio, che abbina il servizio in base a un lavoro stagionale in Italia, spiega come

venire ogni anno diventi quasi inevitabile, una volta accettato l’isolamento. A testi-moniarlo forse meglio di tutti è lo station leader di Mario Zucchelli, Alberto Della Rovere dell’ENEA, oltre 20 anni di spedi-zioni alle spalle: “Ogni volta, quando torno a casa, non lascio nemmeno una penna. Ma poi c’è sempre qualche ragione per la qua-le ritorno qui”. Quanto queste terre tanto diverse, remote ed estreme suscitino ine-vitabilmente curiosità, fascino e interesse, avendo avuto la grande fortuna di poter visitare le nostre stazioni di ricerca in en-trambi i circoli polari, lo possiamo confer-mare in minima parte anche noi.

Marco FerrazzoliCapo Ufficio Stampa CNR

Foto di: Marco Ferrazzoli, Corrado Leone, Antonio Meloni, Vittorio Tulli @PNRA

Attività ricreative a Concordia Corrado Leone, logistico del CNR, durante una missione PNRA

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ésame, ouvre-toi!». Così scriveva in Les mille et une nuits Antoine Galland traducendo dall’opera

originale la formula magica che apriva la caverna col tesoro dei quaranta ladroni. Il racconto, ambientato nell’antica Persia, l’attuale Iran, è una novella fantastica che oggi sembra materializzarsi grazie alla luce di sincrotrone. Una radiazione elettroma-gnetica generata da particelle cariche, elettroni o positroni, che, “ammaestrate” dagli scienziati con “fruste” di campi ma-gnetici, sono costrette a viaggiare alla ve-locità prossima a quella della luce su tra-iettorie curve.Una di queste macchine che gli scienziati usano per approfondire le conoscenze sul mondo è entrata in funzione il 12 gen-naio scorso nel Medio Oriente, a trenta chilometri da Amman e circa trenta dal King Hussein/Allenby Bridge sul fiume Giordano. Ed è proprio questa “montagna

di Renato Sartini

«APRITI SESAME!»E L'ACCELERATORE DI PARTICELLE DEL MEDIO ORIENTE S'APRÌ SU SCIENZA E PACE

In quante altre situazioni si può sentire dire attorno a un tavolo “I fully agree with Israel.” da un rappresentante dell’Iran?

«S

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tecnologica” la protagonista di questa ri-visitazione in chiave moderna dell’antica favola. In SESAME, infatti, il Synchrotron-light for Experimental Science and Appli-cations in the Middle East, che di fatto è un supermicroscopio, è nascosto un im-menso tesoro chiamato conoscenza. A cui tutti vorrebbero accedere per “arricchirsi” di saperi da utilizzare anche in campo in-dustriale, magari per nuove e innovative applicazioni. Ma in questa narrazione non ci sono cattivi, ma persone con interessi e visioni culturali contrapposte. E Margiāna, la schiava che per difendere Alì Babà uc-cide con l’olio bollente i furfanti nascosti nelle otri, è interpretata dalla Scienza, che cerca di irretire tutti i protagonisti con la parola Pace. Con la lettera maiuscola. Per-ché Scienza di queste cose se ne intende. Ne sono un esempio lampante la Stazione Spaziale Internazionale intorno alla quale collaborano USA e URSS, o il progetto del

Cern, nato dopo la Seconda guerra, e intor-no al quale si sono stretti la mano vincenti e sconfitti. Ma anche le missioni scientifi-che in Antartide o verso il pianeta Marte si sono rivelate terreni fertili di cooperazione e deterrenza per conflitti e incomprensio-ne politiche e culturali. «In quante altre si-tuazioni si può sentire dire attorno a un ta-volo “I fully agree with Israel.” da un rap-presentante dell’Iran?» racconta via skype Giorgio Paolucci, direttore scientifico del progetto. «È quello che è accaduto durante una delle tante riunioni del progetto. SE-SAME rappresenta una grande occasione per tutta l’area interessata affinché si su-perino le reciproche incomprensioni e si valorizzi il meglio di ognuno. Con l’obietti-vo di progredire insieme. Basti pensare che gli scienziati dei Paesi coinvolti hanno una grandissima preparazione teorica, come per esempio gli iraniani, ma hanno scarse possibilità di concretizzare le idee perché

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non hanno strumenti potenti di questo ge-nere. Perché queste infrastrutture costano. E per il loro funzionamento hanno bisogno di un’importante bagaglio di conoscenza sia in termini progettuali che operativi. Fino a oggi queste menti eccelse per lavo-rare su un sincrotrone dovevano rivolgersi a quelli più vicini. Come l’Elettra di Trie-ste o lo spagnolo Alba a Cerdanyola del Vallès, in provincia di Barcellona. Adesso hanno la loro macchina, e questo gli con-sente di contenere anche il brain drain, la fuga dei cervelli dai loro territori». Sotto l’egida dell’UNESCO e il supporto della comunità mondiale, SESAME ha messo a lavorare gomito a gomito scienziati prove-nienti dall’Autorità Nazionale Palestinese, Bahrain, Cipro, Egitto, Iran, Israele, Gior-dania, Pakistan e Turchia. Ma anche ricer-catori di nazioni che collaborano al pro-getto quali Italia, Francia, Spagna, Brasile, Cina, Germania, Grecia, Giappone, Kuwait,

Russia, Svezia, Svizzera, Stati Uniti e Gran Bretagna. Paesi che, probabilmente, si ri-troveranno tutti insieme per partecipare alla presentazione ufficiale che si terrà il 16 maggio alla presenza del re Abdallah II di Giordania. Per quanto riguarda il ruolo dell’Italia nel progetto, al quale partecipa con Infn - Isti-tuto Nazionale di Fisica Nucleare, Univer-sità “La Sapienza” di Roma, Elettra Sincro-trone Trieste e Città della Scienza di Na-poli, è stata fondamentale l’autorevolezza e preparazione nel campo della fisica e l’esperienza accumulata nella realizzazio-ne e uso di Elettra. «Abbiamo contribuito a realizzare le 4 cavità risonanti che rap-presentano il cuore della macchina e acce-lerano gli elettroni» spiega Paolucci. «Tre sono già installate, di cui due alimentate. Saranno due le linee di luce che inizieran-no a funzionare: una nell’infrarosso per lo studio delle cellule tumorali nell’ambito

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delle scienze della vita e un’altra nell’as-sorbimento dei raggi X. Quest’ultima sarà la prima a entrare in funzione verso aprile e verrà utilizzata per lo studio dei terreni industriali contaminati». Tra le ricerche interessanti in questo specifico ambito ve ne sarà una pakistana riguardante la phytoremediation, ovvero lo studio della capacità di una pianta di essere utilizzata per assorbire inquinanti dai terreni e ac-cumularli nelle foglie. I biologi coinvolti potranno, grazie alla luce di sincrotrone, vedere come i contaminanti risalgono lun-go la pianta, così da poter testare efficienza ed efficacia del metodo. I campi di applica-zione della luce sono, però, innumerevoli, tra cui l’ingegneria dei materiali, l’archeo-logia, la chimica, la fisica e la medicina. Si potranno studiare proteine a livello atomi-co, fornendo linee guida per lo sviluppo di nuovi farmaci, oppure sperimentare cata-lizzatori chimici dalle prestazioni migliori

che possono trovare impiego, per esempio, nell’industria petrolchimica. Si potranno identificare in maniera non invasiva, quin-di non distruttiva, anche le composizioni chimiche di fossili e dipinti, ma anche fare l’imaging in tempo reale di cellule viventi.«Oltre alla tecnologia, l’Italia provvederà anche alla struttura per l’accoglienza dei ricercatori che si recheranno ad Amman per i loro esperimenti» sottolinea Fer-nando Ferroni, Presidente dell’Infn. «Gra-zie anche all’impegno del MIUR, il nostro Paese ha investito 5 milioni di euro per la scienza e per la pace. Contribuendo an-che a stemperare tutte le difficoltà che ci sono state e che ci saranno in un progetto in cui si vuol tenere uniti sotto la scienza alcuni Paesi tra di loro ostili». Tra le varie problematiche da affrontare c’è stata an-che quella dovuta ai passaporti in quanto i cittadini di alcuni Paesi partecipanti non possono farsi reciproca visita. Problemati-

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ca risolta alla radice con l’individuazione della Giordania quale luogo di costruzione della macchina. Paese in buoni rapporti con tutti gli altri. «Riguardo alla copertura del finanziamento il problema è stato più complicato. Per esempio, l’Iran, che a cau-sa delle sanzioni non ha più potuto portare soldi all’estero, a un certo punto non ha più pagato le sue quote di partecipazione al progetto. Cipro, a causa di una profonda crisi economica, da un certo momento in poi non è stata più in grado di sostenere la spesa». Ma anche Egitto, Israele e Pakistan a un certo punto non hanno più versato. A oggi, Giordania e Turchia sono gli unici paesi ad aver onorato gli impegni riguardo ai contributi annuali e a capitale del fondo di partenza. Al problema finanziario hanno sopperito anche i 5 milioni di euro di con-tributo dell’Unione Europea su un proget-to che, in totale, è costato poco più di 110 milioni di euro.«Oltre che un’occasione per la pace SESAME rappresenta anche un simbolo di emancipa-zione e libertà della donna mediorientale» tiene a sottolineare Ferroni. «Gihan Kamel, 40 anni, fisica egiziana, è da circa un anno e mezzo l’unica rappresentante femminile a lavora alla macchina. Ma sarà l’apripista per l’arrivo di tante altre scienziate». Laureatasi in fisica all’università di Helwan del Cairo, in Egitto, ha svolto un dottorato di ricerca all’Università “La Sapienza” di Roma prose-guendo poi gli studi nel 2014 presso i labo-ratori dell’Infn di Frascati. Col sincrotrone lavorerà a esperimenti di biofisica.SESAME, però, oltre che aspetti positivi pone anche problematiche riguardanti il

rischio terrorismo. Perché tra il 2009 e il 2010 sono stati assassinati con autobom-be due scienziati iraniani del programma. Nonostante questo oggi sembrano non esserci timori riguardanti azioni da parte dell’ISIS. «Non credo che possa interessare a qualcuno creare problemi a scienziati che si occupano soltanto di far progredire il genere umano» conclude Ferroni. Ma pen-sando allo strazio archeologico di Palmira, in Siria, c’è davvero da stare poco sereni. Sarebbe davvero un peccato se un proget-to così tanto desiderato venisse compro-messo da chi vorrebbe restaurare il Medio Evo. Anche perché su questo sincrotrone si sono investiti danaro e decenni. Anche se il primo fascio di particelle è circolato nell’impianto a inizio di quest’anno, infat-ti, scampoli della prima luce sono balenati nel cervello di alcuni scienziati visionari più di 25 anni fa. Tra cui il premio Nobel pakistano Abdus Salamm, scienziati del CERN e del MESC (Cooperazione Scientifi-ca del Medio Oriente) guidato dallo scom-parso fisico italiano Sergio Fubini. Durante la metà degli anni Ottanta, oltre che al ta-volo scientifico a Dahab in Egitto, si teneva la riunione tra il ministro egiziano dell’I-struzione Superiore, Venice Gouda, ed Eliezer Rabinovici (MESC e Hebrew Univer-sity, Israele), impegnati a sostenere attività di cooperazione arabo-israeliana. Nel 1997, Herman Winick (SLAC National Accelera-tor Laboratory, USA) e Gustav-Adolf Voss (Deutsches Elektronen Synchrotron, Ger-mania) suggerirono la costruzione di una fonte di luce di sincrotrone in Medio Orien-te a partire dai pezzi del BESSY di Berlino,

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che sarebbe stato di li a poco dismesso e smantellato. Questa idea fu portata avanti e discussa nel corso di workshop organiz-zati in Italia (1997) e in Svezia (1998) dal MESC e da Tord Ekelof (MESC e Università di Uppsala, Svezia). Su richiesta di Fubini e Herwig Schopper (ex direttore generale del CERN) si arrivò alla decisione da parte del governo tedesco di donare parti della macchina per la costruzione di SESAME. A patto, però, che i costi venissero sostenuti dai promotori del progetto che trovarono nell’UNESCO non solo il finanziatore per lo smontaggio e il trasporto, ma anche il coordinatore, attraverso la propria di-rezione generale, dell’incontro avvenuto presso la sede di Parigi del giugno ‘99 tra delegati del Medio Oriente e altri Paesi. Un momento cruciale al seguito del quale ci fu l’avvio del progetto e l’istituzione di un Consiglio Internazionale ad interim. E anche la scelta della Giordania quale Paese in cui costruire il centro, che avrebbe mes-so a disposizione il terreno e i fondi per la costruzione dell’edificio. La cerimonia inaugurale si svolse nel gen-naio del 2003, mentre la messa in posa del-la “prima pietra” ad agosto. Dando il via a un sogno in parte già realizzato, ma che dovrà essere sostenuto “a occhi aperti” da tutti i protagonisti e dalla Comunità Inter-nazionale.

Renato SartiniGiornalista scientifico e divulgatore. È esperto in comunicazione della conoscenza scientifica e tecno-logica. In ambito comunicazione ha supportato la direzione operativa del MARS Center di Napoli e la presidenza del Polo High Tech di Napoli Est. È Presidente dell’Associazione Culturale Divulgo, per la disseminazione di temi di scienze, natura e tecnologie.

www.renatosartini.it

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l "Rapporto sul turismo italia-no" edito dall’Istituto di ricerca su innovazione e servizi per lo

sviluppo del CNR, grazie a un approccio si-stemico ed interdisciplinare, si pone come uno strumento prezioso per chi si occupa di pianificazione del territori nell’ottica della competitività internazionale delle imprese turistiche. Da tempo si conside-ra l’industria delle vacanze come volano per la ripresa del Belpaese, ma negli ulti-mi anni non sono state apportate misure adeguate per lo sviluppo dell’economia in questa direzione. L’Italia che soffre la cri-si, con conseguenze economiche e sociali evidenti, perde anzi ogni anno punti per-centuali, nonostante le potenzialità per competere: cerchiamo di capire il perché.Secondo le stime del Rapporto coordinato da Emilio Becheri e Giulio Maggiore, ne-gli ultimi 10 anni l’Italia ha aumentato le proprie presenze complessive (straniere e

di Giampaolo Scardia

TUTTI AL MARE,MA NON ITALIANO

Turismo: Italia dietro a troppi concorrenti. E cresciamo poco. Il ‘Rapporto sul Turismo Italiano’ del CNR evidenzia le difficoltà del comparto e le incertezze normative e fiscali che frenano in particolare la crescita del comparto balneare. Mentre gli altri turismi sono molto più aggressivi

I

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nazionali) del 9,3%, un valore sotto ten-denza rispetto all’Unione Europea, che sta oltre il 20%, ai Paesi del Nord Europa (Sve-zia +22,5%, Finlandia +19%) e all’area del Mediterraneo (Spagna +17,3%, Portogallo +31,8%, Grecia + 81%). Se invece si ana-lizza il mercato nella sua globalità, l’Italia resta al quinto posto per arrivi internazio-nali con 50 milioni di arrivi, dietro a Fran-cia (84,5), Stati Uniti (77,5), Spagna (68,2) e Cina (56,9). Il Paese più bello del Mondo nel 1970 era al primo posto. Se poi valu-tiamo il parametro economico degli incassi si scivola al settimo posto, dietro la Gran Bretagna e la Thailandia.Lo stesso World Economic Forum ricono-sce al Belpaese il primato mondiale per patrimonio storico culturale e l’eccellen-za per il turismo naturalistico (secondo nel ranking). Cosa manca allora, se sotto il profilo dell’offerta storico-artistica, eno-gastronomica e paesaggistica non abbia-

mo rivali? Interventi normativi, sblocco di investimenti in infrastrutture, piani di marketing territoriale. Queste le azioni che finora sono mancate per mirare alla competizione sui mercati internazionali. I prezzi sono troppo alti per l’eccessiva tas-sazione, l’offerta balneare è obsoleta e non riesce a rinnovarsi per la paralisi ammi-nistrativa, manca un piano promozionale che riposizioni nel mondo il made in Italy, ancorato ad un modello di vacanza e viag-gio ormai tramontato. Il 35% del mercato del turismo è costituito dal mare e circa il 24% è prodotto dai turisti stranieri. Ana-lizzando il posizionamento internazionale di questo asset l’Italia conferma la scarsa attrattività che questo Paese nutre verso il turismo internazionale, data la presen-za di un’offerta alternativa estremamente aggressiva, più moderna e meno costosa in diverse zone del Mediterraneo (Spagna e, con trend crescenti, Turchia e Croazia).

Tonnara di Scopello - Sicilia

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Il Rapporto del CNR evidenzia le difficol-tà: mentre gli altri turismi balenari sono aumentati nel loro complesso del 20,6%, ad un tasso medio annuo dell’1,3, nel pe-riodo che va dal 2000 al 2015, il comparto italiano segna una situazione stazionaria: +0,01%.Non si può, a fronte di questo risultato così negativo, non interrogarsi sulle cause che hanno prodotto tali effetti. Certamente la crisi economica continua ad indirizzare verso il risparmio, ma ancor più sta inci-dendo l’annosa fase di incertezza normati-va che ha destabilizzato l’intero comparto turistico balneare, aperta dalla cosiddetta “Direttiva Bolkestein” che fissava per il 2015 la messa a bando delle concessioni demaniali (prorogata al 2020 con il De-creto Crescita, convertito in Legge 17 di-cembre 2012, n° 221), paralizzando ogni iniziativa di investimento e bloccando sul nascere progetti di sviluppo.Si avverte la necessità di un intervento normativo statale, al fine di regolarizzare il settore e sbloccare gli investimenti, ma la stagnazione procedurale si avverte a tutti i livelli della filiera amministrativa: Governo, Regioni, Comuni, si vive. Forse il World Economic Forum si riferisce a que-sta situazione quando posiziona l’Italia al 147° posto per Business Enviroment, evi-denziando le gravi lacune per il contesto ambientale di chi fa impresa, a causa dei lacciuoli amministrativi, fiscali e norma-tivi. Resta poi il tema dei prezzi, relativo alla tassazione: il settore balenare sconta l’Iva al 22%, mentre i paesi europei turi-sticamente più rilevanti praticano aliquo-

te inferiori al 10%, assestandosi anche su percentuali del 5,5% come in Francia, o del 7%, come accade in Spagna. Il Rapporto offre una valida panoramica su tutti turismi ed i mercati, analizza il siste-ma delle imprese ricettive e le filiera turi-stiche nella loro complessità, confrontan-do la competitività delle destinazioni ed il ruolo delle Istituzioni. Chi si occupa di pia-nificazione territoriale dovrebbe ricordare quanto questi elementi siano connessi.

Giampaolo ScardiaCapo Ufficio Stampa Nazionaledi Federbalneari Italia

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ra il 1714 e il 1718 la Repubblica di Venezia combatté la sua ultima guerra contro l’Impero Ottoma-

no, con l’obiettivo di mantenere il possesso della Morea, faticosamente conquistata da Francesco Morosini non molti anni prima. La guerra non andò bene per i veneziani, nono-stante l’intervento dell’Impero Asburgico a fianco della Serenissima, ma non mancarono alcuni successi, tra cui la difesa dell’isola di Corfù, la sentinella dell’Adriatico, la cui per-dita avrebbe seriamente compromesso la so-pravvivenza della Repubblica. Artefice primo del vittorioso evento fu il Feldmaresciallo Jo-hann Matthias von der Schulemburg, valente militare sassone passato per l’occasione al servizio di Venezia, che in breve tempo riuscì a fortificare adeguatamente la piazzaforte e successivamente a respingere gli attacchi di una preponderante forza ottomana. Il bril-lante risultato conseguito nella difesa dell’i-sola favorì poi altri successi militari, per ter-

di Andrea Liorsi

LA DIFESA DI CORFÙDEL 1716

L’ultimo successo militare terrestre della Serenissima nella secolare contesa con l’Impero Ottomano

F

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ra e per mare, che, se non cambiarono l’esito della guerra, permisero tuttavia a Venezia di conservare il possesso delle isole Ionie e, in definitiva, il controllo dell’Adriatico.

I PRODROMI

La seconda metà del Settecento era stata caratterizzata per la Serenissima da al-terne vicende nella secolare contesa con la Sublime Porta: con la Guerra di Candia (1645-1669), nonostante diverse brillan-ti vittorie sul mare ed il blocco (parziale) dei Dardanelli, aveva perso definitiva-mente l’isola di Creta, mentre la succes-siva Prima Guerra di Morea (1684-1699) si era conclusa con la conquista del Pelo-ponneso, ad opera soprattutto di France-sco Morosini. Il secolo si era quindi chiu-so con la Pace di Carlowitz (26 gennaio 1699), assai insoddisfacente per gli Ot-tomani, a cui la perdita della Morea non

era andata giù. Seguì un periodo in cui le capacità militari della Sublime Porta si andarono rafforzando fino a che la guerra fu nuovamente dichiarata l’8 di-cembre 1714 (Seconda Guerra di Morea). Nel corso del 1715 gli Ottomani ricon-quistarono rapidamente il Peloponneso (in verità scarsamente difeso) con azioni navali, poco contrastate dalla flotta ve-neziana, e terrestri; il prossimo obietti-vo sarebbe stata l’isola di Corfù, ultimo baluardo difensivo veneziano. La caduta di quella importante piazzaforte nel-le mani dell’Impero Ottomano avrebbe non solo spianato la strada per Venezia, ma avrebbe anche consentito al Sultano di minacciare l’Italia intera e l’Europa centro-orientale, con ciò suscitando i timori dell’Imperatore asburgico Carlo VI. Il 16 aprile 1716 fu pertanto firmata un’alleanza tra Venezia e il Sacro Roma-no Impero.

Corfù

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L’ORGANIZZAZIONE MILITARE DELLA SERENISSIMA

Con la Guerra di Candia Venezia era ritor-nata a mettere in linea un certo numero di unità a vela che affiancassero la tradizio-nale flotta di unità a remi - galee e galeazze - con la quale la Repubblica aveva raggiun-to nei primi secoli della sua esistenza quel potere marittimo che le aveva consentito di prosperare. L’Armata Grossa - questo il suo nome - era stata costituita inizialmen-te utilizzando mercantili armati noleggiati - soprattutto inglesi e olandesi - con equi-paggi e capitani di quei Paesi, anche se a bordo veniva comunque posto un patrizio veneziano a dirigere la nave. Successiva-mente si era fatto uso delle navi catturate durante le guerre, segnatamente le sulta-ne ottomane. Infine, quando tali metodi di approvvigionamento erano risultati poco attuabili, si era dato inizio alla costruzione

in proprio di navi a vela nell’Arsenale, che si era dovuto adattare alle nuove realizza-zioni. Le navi a remi non furono mai ab-bandonate, andando a costituire l’Armata Sottile, che accompagnava sempre quella Grossa, con compiti sussidiari. Il Capita-no Generale da Mar, supremo comandante della Marina in tempo di guerra, tendeva tradizionalmente ad alzare la sua insegna su questo tipo di nave (galea generalizia).Per quanto riguarda le forze terrestri, un ambito in cui la tradizione veneziana era molto più recente (dall’inizio della costitu-zione dei domini di terraferma), si era fatto per lo più ricorso a truppe e comandanti mercenari, attingendo alla numerosa mes-se di capitani di ventura che all’epoca offri-vano i loro servigi a chi pagava meglio, non disdegnando talvolta di passare dall’uno all’altro campo guerra durante. Le truppe mercenarie provenivano soprattutto dal-la Germania e dalla Svizzera, mentre fra i

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condottieri si annoveravano nomi famosi come il Colleoni, il Carmagnola, il Gatta-melata, ecc.. L’altro bacino di reclutamento era costituito dalle popolazioni dello Stato da Mar, ossia principalmente la Dalmazia e l’Istria che fornivano i famosi Schiavoni. Queste milizie, denominate craine quel-le oltremarine, cernide quelle su territorio italiano, venivano costituite all’occasione. Nel complesso, in caso di necessità la Re-pubblica riusciva a dotarsi di un sufficiente numero di armati, al quale era però prepo-sta un’organizzazione di vertice alquanto farraginosa, non permanente, affidata a Provveditori nominati per l’occasione che avevano poca o nulla esperienza militare.

IL TEATRO DELL’EVENTO

L’isola di Corfù era la maggiore delle sette Isole Ionie e il perno del sistema difensivo dell’Adriatico - il Golfo di Venezia. Dopo la perdita di Cipro e Creta, Corfù era la princi-pale base avanzata della Repubblica, dove le navi dell’Armata Grossa di norma stazio-navano (le galee, ad eccezione di quelle in navigazione con scopi di pattugliamento, stazionavano a Venezia, nei pressi dell’Ar-senale). Situata a breve distanza dalla co-sta greca dell’Epiro, Corfù era veneziana di fatto dal 1386, di diritto dal 1402.Il capoluogo dell’isola, la città omonima, si trova circa a metà della costa orienta-le, occupando una breve e tozza penisola che si prolunga sul mare verso est con un alto sperone roccioso. La città era stata già oggetto delle cure degli ingegneri militari in passato, trattandosi di un baluardo di

estrema importanza (aveva già subito un assedio da parte di navi e truppe ottoma-ne, spalleggiate da una squadra di galee francesi, nel 1537, interrotto dopo poche settimane), tra cui si era particolarmen-te distinto tale Filippo Besset di Verneda, francese. La situazione agli inizi del 1716 era quindi quella di un complesso fortifi-cato, ma con molte lacune (alcune modifi-che suggerite dal Verneda non erano state ancora attuate), pochi cannoni, pochi arti-glieri e una guarnigione assai scarsa e poco motivata (anche per effetto della recente perdita della Morea).

LE FORZE IN CAMPO

Su suggerimento del principe Eugenio di Savoia, non disponendo la Serenissima di validi generali, il Comando in Capo di tut-te le forze terrestri della Repubblica era stato affidato al Feldmaresciallo Johann Matthias von der Schulenburg, abile con-dottiero tedesco, veterano di molte cam-pagne, che il principe conosceva e stimava. Una volta assunto l’incarico, a fine 1715 (la Morea era stata purtroppo già persa), Schulemburg si rese conto dell’importan-za della difesa di Corfù e decise perciò di occuparsene personalmente. A metà feb-braio 1716 giunse sull’isola e fece iniziare subito le opere di consolidamento delle fortificazioni, realizzando trincee e rinfor-zando le porte cittadine. Assunse quindi il Comando militare della piazza, affiancato dal Provveditore Generale delle Isole Ionie, Antonio Loredan, in qualità di Governatore civile. All’inizio delle ostilità Schulemburg

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poteva contare su circa 3100 uomini, di cui 1429 Tedeschi e Svizzeri, 556 Italiani, 1112 fra Schiavoni, Greci e Albanesi. Solamen-te due terzi dei soldati erano abili al com-battimento, i restanti versavano in cattive condizioni di salute. La maggior parte dei difensori erano quindi mercenari tede-schi e svizzeri, inquadrati in reggimenti, che, purtroppo, con gran costernazione di Schulenburg che li aveva espressamente richiesti, si dimostrarono le truppe meno affidabili.Sul fronte navale la situazione era di poco migliore: l’Armata Grossa contava 27 navi di varie dimensioni e potenza di fuoco. C’e-ra poi sicuramente un desiderio di rivalsa, visto che l’anno precedente l’Armata Gros-sa non era riuscita, se non ad impedire,

Johann Matthias von der Schulemburg

nemmeno a contrastare la vittoriosa azione della squadra ottomana protagonista della conquista della Morea, a causa soprattutto della tattica eccessivamente attendista del suo comandante, il Capitano Straordinario delle Navi Daniele Dolfin. Il nuovo coman-dante, Andrea Corner, appena nominato, aveva ricevuto l’ordine dal Capitano Ge-nerale da Mar, Andrea Pisani, Comandante in Capo della Marina Veneziana, anch’egli di fresca nomina, di stazionare nei pressi di Zante allo scopo di intercettare l’ormai certo arrivo della flotta ottomana. Pisani invece, che tradizionalmente aveva posto la sua insegna di comando su di una galea, con l’Armata Sottile (18 galee, due galeaz-ze, una decina di legni minori) si era tratte-nuto a Corfù, per la difesa ravvicinata.Gli opponenti erano di tutto rispetto. L’intera operazione era sotto il comando del Kapudan Pasha - ossia il Comandante in Capo della Marina Ottomana - Janun Hogia, che già si era posto in luce nella conquista della Morea. Personaggio cari-smatico, negli anni successivi all’impresa di Morosini era stato uno strenuo fautore appunto della riconquista del Peloponne-so (era nativo di Corone); inoltre aveva un conto personale da regolare con Venezia, essendo stato schiavo per sette anni su una galea generalizia. Hogia poteva contare su una cinquantina di navi a vela di vario tipo, di cui alcune particolarmente poderose, più il solito codazzo di galee (nemmeno gli Ottomani le avevano abbandonate ...). Sul fronte terrestre il corpo di spedizione ottomano, che si era concentrato nel porto albanese di Butrinto, in prossimità dell’in-

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gresso nord dello stretto di Corfù, contava circa 30.000 uomini, di cui almeno la metà truppe di assalto (il resto era costituito da genieri, artiglieri e altri) e circa 3000 caval-li. Li comandava personalmente il Coman-dante in Capo dell’Esercito Ottomano, il Sarasker (o Serraschiere) Kara Mustafa. Il disegno d’operazione ottomano prevedeva dunque il trasferimento protetto, a mezzo delle unità della flotta, delle truppe d’asse-dio da Butrinto alla costa corfiota.

LE FORZE OTTOMANE PRENDONO POSIZIONE

Janun Hogia, dimostrando la sua abilità marinaresca e sfruttando la sua cono-scenza delle acque, riesce ad evitare l’ag-guato di Corner presso Zante e, passando molto al largo, ad entrare nello Ionio non visto, presentandosi all’ingresso nord del canale di Corfù il 5 luglio. Pisani, do-

tato solo di galee, non può far altro che richiamare Corner, ancora in attesa a Zante. Nel frattempo l’armata ottomana procede allo sbarco di qualche migliaio di genieri e artiglieri sull’isolotto di Vido, prospiciente il capoluogo dell’isola, che viene fortificato e dotato di artiglierie per battere le difese veneziane di Corfù.L’arrivo di Corner viene ritardato da bo-nacce e venti contrari e quando final-mente l’8 luglio si presenta all’estremità nord dello stretto, dove Pisani gli aveva disposto di dirigere, si trova di fronte la flotta ottomana, all’ancora, che sorve-glia le operazioni di traghettamento dei soldati da Butrinto alla spiaggia di Ipsos, sulla costa corfiota poco a nord della cit-tà. Avviene qui il primo (e unico, duran-te la difesa di Corfù) scontro navale fra l’Armata Grossa di Corner e la squadra ottomana di Hogia, dotata di un nume-ro di navi circa doppio. Lo scontro è ca-

Disposizione dell'assedio

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ratterizzato inizialmente dal tentativo di mantenere il sopravvento, essenziale per la buona manovrabilità delle navi, favorevole ai veneziani (vento da Nord-Ovest). Alle 15 inizia la battaglia con le navi più o meno su linee di fila, dove si distingue particolarmente tra i Venezia-ni Marcantonio Diedo, che manovra di iniziativa salvando situazioni rischiose. Alle 2030 circa si sospendono le ostilità e le flotte si separano, ognuna con gra-vi danni. Il mattino successivo Corner si lascia (inspiegabilmente) scadere sotto-vento, verso la città e gli Ottomani rico-stituiscono la linea di fila attraverso il canale, riprendendo il trasporto di trup-pe (e sbarrando l’accesso nord del canale ai rinforzi da Venezia). A causa del vento dominante di Nord-Ovest, la flotta ve-neziana non riuscirà più a impensierire quella ottomana.

L’ASSEDIO

Una volta traghettato l’intero corpo di spe-dizione, gli Ottomani iniziano i prepara-tivi per l’assedio, costruendo le trincee di avvicinamento. Nel frattempo l’Esercito Asburgico al comando di Eugenio di Savoia inizia le ostilità contro gli Ottomani nella penisola balcanica, attraversando la Sava (13 luglio) e dirigendo verso la fortezza di Petervaradino. Pochi giorni dopo a Corfù gli Ottomani saggiano le difese veneziane con un primo attacco, respinto. Succes-sivamente arriva, passando dall’ingresso sud dello stretto di Corfù, un convoglio di rinforzo, scortato dall’Armata Sottile, poi quattro navi maltesi, che vanno a integrar-si nella flotta veneziana.A fine mese gli attacchi ottomani si fanno più frequenti, ma i difensori riescono sem-pre a respingerli. Le navi, impossibilitate ad attaccare la flotta ottomana a causa del

Le fortificazioni della città

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potendo bersagliare le fortificazioni vene-ziane dall’alto.Il 5 agosto il Sarasker Kara Mustafa fa re-capitare ai Veneziani l’ultimatum, che vie-ne respinto. Lo stesso giorno avviene un tentativo di portare le unità dell’Armata Grossa in posizione di battaglia, rimor-chiandole con le galee, approfittando della caduta mattinale del vento contrario, ma alla ripresa di questo l’azione deve essere annullata.A seguito del rifiuto di arrendersi, il gior-no successivo gli Ottomani attaccano in massa appoggiati dalle artiglierie sui for-ti conquistati; i difensori resistono come possono, sempre seguiti personalmente da Schulenburg, presente in tutte le fasi dei combattimenti. Un po’ di ottimismo rin-franca gli animi quando arriva la notizia, portata da una nave inglese, della vittoria asburgica a Petervaradino, dopo una san-guinosa battaglia fra 70.000 Austriaci e cir-ca 100.000 Ottomani guidati personalmen-te dal Gran Visir Ali Damat, che era caduto in combattimento. Pochi giorni dopo giun-gono 1700 soldati in rinforzo, quanto mai necessari agli assediati (come si può nota-re, gli Ottomani non erano stati in grado di imporre un assedio “stretto”, visto che gli assediati avevano sempre potuto ricevere rinforzi da sud). Il 18 una sortita notturna per tentare di riprendere il Monte d’Abra-mo si risolve nella perdita di una sessan-tina di Schiavoni, colpiti per errore dai so-liti mercenari tedeschi. Il giorno dopo gli Ottomani scatenano quello che avrebbe dovuto (e potuto) essere l’attacco decisivo alla Fortezza Nuova, ma ancora una volta i

vento contrario, cercano di appoggiare le azioni veneziane a terra bombardando le posizioni nemiche; arriva un nuovo con-voglio di aiuti composto da navi pontificie, spagnole, genovesi e toscane (cinque navi a vela e 14 galee). Il 1° di agosto avviene un attacco in grande stile degli Ottomani, che investono le due alture prospicienti la città, Monte d’Abramo e Monte San Salva-dor; da questa seconda postazione i tede-schi di guarnigione si ritirano quasi subi-to, provocando anche la caduta dell’altra piazzaforte, difesa invece fino all’ultimo dalle truppe schiavone. Conquistate le due alture gli attaccanti si trovano a godere di una notevolissima posizione di vantaggio,

Scontro navale fra le flotte di Andrea Corner e Janun Hogia

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difensori resistono. Nel momento più criti-co Schulenburg, guidando personalmente un contingente di 800 soldati, esce da un passaggio secondario e investe sul fianco i nemici, che si ritirano disordinatamente lasciando sul campo moltissimi morti. Il giorno dopo - il 20 - ha luogo un ultimo e inutile attacco ottomano verso Porta Rai-monda, sotto una pioggia torrenziale che in poco tempo devasta le opere d’assedio e l’accampamento nemico. Lo stesso giorno il cambiamento di vento potrebbe ripor-tare in battaglia le navi veneziane, ma la forte tempesta lo rende impossibile, dan-neggiando fra l’altro entrambe le flotte.

LA RITIRATA DEGLI OTTOMANI

L’impresa ottomana è finita: la strenua di-fesa dei Veneziani, la sconfitta di Peterva-radino e una rivolta dei Giannizzeri, trup-pa d’élite del Sultano. persuadono il nuovo Gran Visir ad ordinare la ritirata. Tra il 21 e il 22 le truppe terrestri si reimbarcano, lasciando sul terreno cannoni, materiali vari, bandiere e i cavalli, perdendo fra l’al-tro varie centinaia di uomini nelle opera-zioni di reimbarco. La flotta veneziana non riesce a contrastare le operazioni a causa del vento contrario che ostacola anche gli Ottomani. Solo il 26 Hogia riesce a uscire dal canale di Corfù, Corner pensa di prece-derlo da sud ma Pisani glielo vieta. Quando l’Armata Grossa riesce a prendere il vento giusto, le navi ottomane hanno già una giornata di vantaggio: ancora una volta Hogia manovra meglio e riesce a sottrarsi all’inseguimento. Alla fine Corner si ferma

a Zante per le riparazioni, dove gli ausiliari (pontifici, maltesi, spagnoli, ...) si staccano e rientrano alle rispettive basi. La succes-siva sosta è a Modone dove arriva anche Schulemburg che giudica inattaccabile la fortezza. L’Armata Grossa resta nelle acque del Peloponneso, ma non si fida a cercare la flotta ottomana, che è già rientrata alle basi, mancando la possibilità di infliggere alla Sublime Porta una pesante sconfitta anche per mare, dopo il vittorioso esito della difesa terrestre di Corfù.Per aver guidato in modo magistrale la dife-sa del presidio veneziano Schulenburg ot-tenne onori e riconoscimenti tangibili, tra cui una statua nella piazzaforte di Corfù - vivente - e un oratorio, Juditha triumphans, commissionato per l’occasione ad Antonio Vivaldi, basato sulla vicenda di Giuditta e Oloferne, successivamente rappresentato all’Ospedale della Pietà di Venezia. Il feld-maresciallo poi rimase a vita al servizio della Serenissima, passando gli ultimi anni a Verona come Governatore Militare. Janun Hogia fu invece riconosciuto responsabile del fallimentare esito dell’impresa (tut-to sommato ingiustamente), nonostante avesse dato ottima prova delle sue qualità marinaresche, privato dell’incarico e im-prigionato; lo si rivedrà comunque alla fine della guerra, reintegrato come assistente del Kapudan Pasha di turno.

LA FINE DELLA GUERRA

Nei due anni successivi le forze navali ve-neziane e quelle ottomane si scontrano ancora quattro volte. Nel 1717 l’Armata

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Grossa, al comando del nuovo Capitano Straordinario Ludovico Flangini, questa volta in campagna offensiva, si dirige per i Dardanelli con lo scopo di bloccare la flot-ta ottomana ed eventualmente penetrare all’interno. Nei pressi dell’imboccatura degli stretti le due flotte si scontrano due volte, il 12 e il 16 giugno, riportando gra-vi perdite ma senza che nessuna prevalga. Nel secondo scontro Flangini viene grave-mente ferito e muore poco dopo. La flotta veneziana, al comando ora di Marcantonio Diedo, dirige per la Morea. Qui avviene il terzo scontro dell’anno, nel golfo di Laco-nia. Alla fine le flotte si ritirano, entrambe danneggiate, senza vincitori. Nel 1718 le due flotte si scontrano per tre giorni di se-guito dalle parti di Capo Matapan, ancora una volta riportando gravi danni ma sen-za vincitori: sarebbe stata l’ultima volta. L’Armata Sottile negli stessi anni conqui-sta due piazzeforti ottomane sulla costa epirota, Prevesa e Vonitza, e pone l’assedio alla base corsara di Dulcigno, con un cor-po di spedizione anfibio appoggiato dal mare. Non appena ottenuta la resa degli assediati, tuttavia, arriva la notizia della firma della pace di Passarowitz, avvenuta il 21 luglio, e le operazioni devono essere interrotte.La pace, orchestrata da Impero Asburgico e Impero Ottomano, a cui Venezia deve in qualche modo sottostare, si basa sul prin-cipio dell’uti possidetis (status quo), per cui a Vienna, che risulta la vera vincitrice del conflitto, restano i vasti territori balcanici conquistati agli Ottomani, i quali manten-gono la Morea, mentre Venezia conserva le

Statua di Schulemburg

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Isole Ionie e qualche possedimento in Dal-mazia e Albania. Un altro aspetto negativo per Venezia, seppur non direttamente con-nesso alla firma del trattato (risale infatti all’anno precedente), è la dichiarazione di libera navigazione in Adriatico per le navi dell’Impero Asburgico, un atto poco so-stanziale in sé (le Marine sia mercantile che da guerra dell’Impero erano assai limi-tate), ma indice della perdita della supre-mazia della Serenissima sul “suo” Golfo ...

LESSONS LEARNED PER VENEZIA

Alla luce dell’impiego delle truppe terre-stri a Corfù, Venezia decide di affidare a Schulenburg vari provvedimenti corretti-vi, sia sul piano tecnologico che su quello amministrativo. Il Nostro si dedica quindi a indicare una serie di provvedimenti mi-gliorativi delle fortificazioni in essere, non solo dell’isola di Corfù, ma anche di altre fortezze dello Stato veneto. Prosegue poi a supervisionare una riorganizzazione dell’Esercito veneziano, in parte già ini-ziata qualche anno prima da un suo pre-decessore, il generale Adam Heinrich von Steinau, facendone una forza permanente di circa 20.000 uomini organizzati in reg-gimenti e compagnie e facendo a meno delle inaffidabili truppe mercenarie. For-nisce poi suggerimenti sull’arruolamento, sull’addestramento, sul trattamento dei militari e sull’organizzazione di vertice. Si preoccupa anche di suggerire la creazione di un corpo di ingegneri militari, che pos-sano progettare, costruire e manutenere le numerose fortificazioni della Repubbli-

ca (per la cui formazione sarà istituito un Collegio a Verona, nel 1759). Dà infine alle stampe un trattato in cui si descrive con precisione teutonica tutti gli aspetti della vita militare (“Esercizio Militare e regola universale dell’Infanteria della Serenissima Repubblica di Venezia”).In campo navale l’analisi del comporta-mento delle navi aveva potuto dare qualche utile indicazione, che tuttavia poté essere messa in pratica in modo limitato, anche per la mancanza di occasioni successive di mettere alla prova eventuali miglioramen-ti. Nei vari scontri era stato verificato come le due flotte fossero sostanzialmente in parità, dove il numero maggiore delle navi ottomane spesso era controbilanciato dal miglior addestramento al tiro dei venezia-ni; quindi con flotte equivalenti la tattica del fuoco in linea di fila non era efficace (il “taglio del T” di nelsoniana memoria era di là da venire...). La segnaletica a bandiere, nonostante un accurato Libro dei Segnali preparato da Flangini in occasione della campagna del 1717, era di difficile inter-pretazione, soprattutto se il comandante non si trovava a metà dello schieramento (sia nel 1717 che nel 1718 le navi di coda spesso non avevano preso parte al combat-timento, non avendo visto i segnali e non avendo ricevuto istruzioni in proposito). Le navi dovevano essere grandi, dotate di un gran numero di cannoni di calibro ele-vato per poter manifestare una certa su-periorità (erano sorti vari dissidi in seno all’Arsenale sulla dimensione delle navi e sull’armamento). La scelta di fare vascelli più piccoli per poterli impiegare anche in

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tempo di pace risultò non pagante; in loro vece furono introdotte le c.d. “navi atte”, mercantili armati che non necessitavano di scorta e potevano all’occorrenza essere impiegate anche per limitati scopi bellici (esempio tipico la “Polacca”, dotata di tre alberi a velatura mista, una decina di can-noni e propulsione ausiliaria a remi). Il vo-ler poi far lavorare insieme vascelli a vela e galee non era risultato efficace, se non talvolta per azioni di rimorchio in assen-za di vento; più spesso le galee erano state di intralcio, costringendo le navi a vela a ritardare o a distaccarsi per portare loro soccorso.

EPILOGO

All’indomani della poco soddisfacente pace di Passarowitz Venezia aveva davanti circa ottant’anni di pace, essendosi auto-obbligata ad una neutralità assoluta, che non abbandonò nemmeno in seguito ai pressanti e allettanti inviti di partecipare ai successivi conflitti contro l’Impero Ot-tomano da parte di Austria e Russia, che promettevano nuove annessioni nel Le-vante. Gli “ultimi fuochi” si sarebbero ve-rificati solo con le imprese di Jacopo Nani e Angelo Emo contro i corsari barbareschi, che dal Nordafrica effettuavano scorrerie sulle coste italiane. Venezia si chiuse così in un certo immobilismo politico (malgra-do la vita intellettuale e culturale fosse vi-vace). La classe politica dominante aveva progressivamente rinunciato alle attività commerciali marittime, più rischiose, a fa-vore di quelle fondiarie in terraferma; non

fu capace di interpretare i segnali dei cam-biamenti in atto e si trovò quindi imprepa-rata a gestire gli avvenimenti che inesora-bilmente ne provocarono la caduta.

Andrea LiorsiCapitano di Vascello, già Direttore dei corsi dell’I-stituto di Studi Militari Marittimi e Senior fellow del think tank “Il Nodo di Gordio”

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otrà sembrare curioso l’uso di due citazioni letterarie e cinematogra-fiche giapponesi per presentare un

saggio che tratta di questioni mediorientali ed euro atlantiche. Tuttavia, solo due titoli riescono a esprimere icasticamente e lo spi-rito che anima “Il dirottamento dell’Achille Lauro e i suoi inattesi e sorprendenti risvolti”. Il primo è il film di Akira Kurosawa, Rasho-mon, che benissimo si presta ad essere strut-tura narrativa di un assieme di fatti, alcuni noti altri solo intravisti, che cambiano il loro significato a seconda del soggetto che li vive. Esso offre la chiave per intendere il primo brano qui tratto dal saggio.Col pollice chiuso verso il palmo, il dorso rivolto alla platea di un convegno romano del 2002, Giulio Andreotti levava le quattro dita del- la mano destra chiedendosi come avessero fatto quattro palestinesi a tenere per giorni sotto scacco l’intero equipaggio di una motonave, una ciurma composta

di Matteo Gerlini

GLI ITALIANI DEI DUE MONDI: I PROTAGONISTI DELLA PRIMA REPUBBLICAFRA ARABI E AMERICANI

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non da «Figli di Maria», ma da marittimi di Torre del Greco1. Dubbio forse retorico, perché probabilmente una risposta il sena-tore a vita già l’aveva; dubbio reale e con-creto invece, per tutti coloro che cerchino di orientarsi nei convulsi eventi che dal 7 al 12 ottobre 1985 segnarono il dirottamento della nave da crociera, il sequestro dei suoi passeggeri e il tormentato accertamento dei responsabili dell’attentato. Il dubbio di Andreotti, nella sua apparente banalità, portava l’autore di queste pagine a chiedersi se il suo fosse solo biasimo ver-so il comportamento dell’equipaggio, da lui ritenuto non adeguato alla difficile si-tuazione, oppure se, guardando alla mano e non ai marittimi, fosse legittimo ritenere che assieme ai quattro dirottatori, poi con-dannati, ve ne fossero altri a bordo. L’esito del processo ai sequestratori aveva escluso tale possibilità, però di tanti passaggi oscu-ri o semplicemente poco convincenti era piena la vicenda del dirottamento dell’A-chille Lauro. Ma se alla luce delle fonti oggi disponibili diventa argomento ancor più incerto ciò che effettivamente avvenne sulla nave, diviene per converso molto più decifrabile la condotta dei governi coin-volti nel dirottamento, finalmente scevra da considerazioni e omissioni dettate dalle circostanze e dalla comune volontà, in ne raggiunta dai rappresentanti di Egitto, Ita-lia e Stati Uniti, di lasciarsi dietro le spalle i contrasti e i dissapori.

Proprio questo appianamento delle serie asperità emerse fra i governi coinvolti, rag-giunto con grandi difficoltà, ha reso invalsa una narrazione che privilegiava una parte dei significati della vicenda, mettendo in ombra altri significati e talvolta anche altri fatti. Una narrazione non falsa, ma parzia-le, che meglio di altre rispondeva alla ne-cessità di spiegare l’accaduto alla luce del-la ricomposizione dei con itti fra italiani, americani e egiziani. Una narrazione della quale è stato ampia-mente prigioniero anche l’autore. Si scri-veva che durante il sequestro gli italiani frenarono il più possibile l’azione di for-za americana: un arrembaggio della Delta Force consono alla politica «muscolare» reaganiana, esasperata dall’uccisione di cittadini statunitensi per opera del «terro-rismo», come se questo fosse un soggetto storico. Si riprendevano le fruste vesti di quella recitazione che vuole gli americani provenienti da Marte e gli europei da Ve-nere, dove venerei e marziali alla ne diven-tano venusiani e marziani, cioè categorie extraterrestri inutili alla spiegazione delle vicende politiche2. Si diceva altresì che la decisione italiana di lasciare andare uno dei due negoziatori della liberazione del-la nave – successivamente scoperto invece correo del sequestro – era giustificata dalla ferma coerenza rispetto a una direttrice di politica estera verso il mondo arabo tena-cemente perseguita. I governanti italiani,

1. L’episodio è avvenuto durante il convegno «La politica estera italiana negli anni Ottanta», tenutosi a Roma nel 2002; la frase è riportata negli atti del convegno medesimo: Di Nolfo, Ennio (a cura di), La politica estera italiana negli anni Ottan-ta, Marsilio, Venezia 2007 (Lacaita, Manduria 2003), p. 117. 2. Cfr. Kagan, Robert, Of Paradise and Power. America and Europe in the New World Order, Alfred A. Knopf, New York 2003.

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o meglio, i rappresentanti democristiani e socialisti, credevano nel capo palestinese Yasser Arafat e nella possibilità di pace con Israele in associazione con la Giordania, e si erano pertanto scontrati sia con gli isra-eliani, la cui causa era maggiormente in-terpretata in Italia dai repubblicani, sia con gli statunitensi: questi ultimi fatalmente distanti dalla civilizzazione mediterranea che rendeva facile agli italiani il dialogo con gli arabi. Sulla riappacificazione fra il presidente de- gli Stati Uniti Ronald Rea-

gan e il presidente del Consiglio Bettino Craxi si diceva, con toni più dimessi, che gli americani fossero spaventati dal con-senso che Craxi aveva acquisito nel paese e da una disponibilità dei comunisti di dare a Craxi i voti persi nella rottura coi repub-blicani. Tutte queste convinzioni rispecchiavano una sola parte di una vicenda assai com-

plessa, e se considerate spiegazioni ultime, traggono in serio errore. Non un errore di opinione, ma un errore di ricostruzione, di cronaca; non uno, ma vari errori che come sempre si scoprono confrontando quanto acquisito con altre fonti e nuova documen-tazione. Si legge così che gli italiani erano pronti ad assaltare la nave sin dal giorno 7 ottobre, approfittando di un’apertura di negoziato tramite i siriani, che aveva l’unico ne di tenerla ferma di fronte al porto di Tartus e permettere l’arrembaggio. L’ambasciato-re degli Stati Uniti in Italia Maxwell Rabb esercitò delle forti pressioni su Craxi, che chiuse il canale a discapito di quanto ave-va stabilito Andreotti, ministro degli Esteri nel suo governo. Questa non è una novi-tà assoluta, ma uno di quei fatti rimasti in secondo piano rispetto al gioco delle parti venereo-marziale. Ciò che invece non si trovava nelle precedenti ricostruzioni era il motivo di questa preoccupazione statu-nitense: la sfiducia nelle capacità degli in-cursori italiani. Proprio le relazioni fra le forze armate dei due Stati, i rispettivi rami che dovevano essere maggiormente affini e intrecciati, furono invece le più lacerate. L’organizzazione del trattato dell’Atlanti-co del Nord, che tanto aveva integrato le forze armate degli Stati membri nella for-mazione, standardizzazione e catena di comando, pareva segnare in quelle ore il perimetro di uno scontro anziché l’ambito di una condivisione. Furono le minacce di crisi dello stesso perimetro atlantico, cioè di revisione delle decisioni prese, a chiu-dere l’episodio, quando Andreotti pose sul

Non si trattava dell’etica protestante contro lo spirito levantino: la più seria crisidiplomatica fra la Repubblica italiana e gli Stati Uniti d’America si consumò attornoalla gestione delle basi NATO, e l’atteggiamentoverso il terrorismo palestinese fu solo la micciache fece esplodere la polveriera.

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piatto della crisi la base di Comiso, luogo di schieramento dei nuovi sistemi d’arma dell’alleanza noti come Euromissili. Fu un duro colpo, che richiese un tempo fisiolo-gico per essere assimilato e elaborato nel modo più oculato da parte degli america-ni. Questo, più dell’appoggio comunista, che pure fu determinante nel permettere a Craxi di sparigliare le carte, in un interven-to di fronte alla Camera che mise alla sbar-ra il ministro della Difesa Giovanni Spado-lini, chiuse veramente la crisi. I comunisti non fecero mancare il loro aiuto a Craxi e Andreotti, e la vicenda segnò un notevole passaggio nei loro rapporti, pur senza pre-figurare alleanze alternative. Dai comunisti italiani a quelli russi il pas-so era lungo, eppure anche i sovietici non furono completamente assenti dalla crisi. Entrambi i negoziatori palestinesi, la cui liberazione tanto turbamento arrecò alle relazioni italostatunitensi, non furono cer-

tamente espulsi dall’Italia per salvarne la politica verso il con itto araboisraeliano; forse furono sottratti agli americani per-ché erano personaggi di collegamento fra l’OLP e il blocco orientale durante la cal-da crisi degli ostaggi sovietici in Libano. Sicuramente volarono su un aereo jugo-slavo non per dissimulazione agli occhi, o meglio alle orecchie statunitensi, che tutto sapevano e ascoltavano, ma furono caricati su un volo di linea per minimizzare il ri-schio che l’aviazione americana abbattesse l’aereo, o lo dirottasse. C’entrava poco lo spirito levantino, che doveva accomunare arabi e italiani contro l’etica protestante. Il comune Mar Me-diterraneo non poteva certo intendersi come garanzia di maggior comprensione fra civiltà, identità o gruppi, se non at-traverso generalizzazioni retoriche o di basso uso politico. In particolare l’intesa sviluppata con l’OLP era contestuale alla

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guerra del governo italiano contro i pale-stinesi dissidenti e oppositori di Arafat, che in quella stagione godevano di parti-colare credito presso vari governi, in par-ticolare del blocco orientale, una guerra che insanguinò le strade e gli aeroporti italiani. Viceversa, la «crociata» contro il terrorismo promossa da vari esponen-ti del governo statunitense e benedetta da Reagan fu denudata dallo scandalo Iran-contra: un traffico d’armi con la re-pubblica islamica, da poco entrata nel novero delle madrine del terrorismo, i cui «machiavellici» obiettivi politici pareva-no poca cosa rispetto ai concreti dividen-di del commercio di armamenti con mani che avrebbero verosimilmente ucciso altri cittadini statunitensi. Ancor di più queste acquisizioni evinte dagli opinionisti – spesso di alto livello giornalistico – crollano di fronte alla nuo-va documentazione qui presentata rispet-to al cosiddetto «lodo Moro», che lodo non era e neppure di Aldo Moro. Il «colloquio», stabilito nel 1972 fra il direttore del Servi-zio Informazioni Difesa (SID) Vito Miceli e la direzione arafattiana, era una prassi di espulsione al posto della detenzione, praticata solo in alcuni casi e perciò ap-provata dal presidente del Consiglio An-dreotti e dal suo guardasigilli, Guido Go-nella. Una prassi, come suggerito da altra documentazione successiva, impiegata a maglie più larghe da altri Stati europei come la Repubblica francese o la Confe-derazione elvetica. I mediterranei italiani

erano dunque assai più duri de- gli euro-pei continentali nei confronti dei riviera-schi palestinesi. In ne, la missione italiana dell’alto dirigente dell’intelligence ameri-cana Hugh Montgomery, ampiamente ne-gletta sino alla parziale pubblicazione dei documenti statunitensi3 qui invece esa-minati integralmente, chiarisce quanto profonda fosse stata la ferita nelle forze armate italiane e quindi nello stesso ner-bo dell’alleanza atlantica. Da medesimi archivi si ricava un quadro a tinte più forti della crisi di governo e dei rapporti fra gli italiani e gli statunitensi, quale quello che emerse nell’incontro fra Rabb e il sotto-segretario alla presidenza del Consiglio, Giuliano Amato, epitome delle differenze fra Craxi e Andreotti nei rapporti con gli americani.Soprattutto, appare ancora una volta con-fermato l’interesse prioritario degli statu-nitensi nell’evitare che gli italiani restrin-gessero l’uso delle basi alla lettera degli accordi italostatunitensi in materia, e non alla prassi invalsa nei siti militari. Si trova dunque, cercando nelle nuove fonti, un quadro nel quale le questioni orientali rimanevano sullo sfondo, ovvero era stato la scintilla che aveva innescato un fuoco inedito nell’alleanza fra Italia e Stati Uniti rafforzata dal governo socia-lista, e che proprio per questo rese ancor più evidenti le venature dei pregiudizi che segnarono la crisi. Pregiudizi veri, sull’a-tavismo degli italiani e degli statunitensi. Pregiudizi che la politica ricompose anche

3. Cfr. Fondazione Craxi, La notte di Sigonella. Documenti e discorsi sull’evento che restituì orgoglio all’Italia, Mondadori, Milano 2015.

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grazie alle conoscenze mutuali dei singoli partecipanti alle vicende, alle loro con-vinzioni e frequentazioni. Non si troverà in queste pagine un’erme-neutica delle personalità politiche coin-volte, né dissertazioni sulla loro mentalità, perché protagonisti sono i fatti. Si tratta di storia fattuale, tanto disprezzata da alcuni storici contemporanei, eppure ricerca della conoscenza, di costruzione dell’evento come necessità della narrazione, senza la quale ri-marrebbero solo filosofie e digiune di realtà.

Di pagine ne sono state consultate molte per la costruzione del saggio; pagine di giorna-li, elettronici o in microfilm; pagine di do-cumenti, in copia o in originale. In questa messe di fogli, è capitato di trovare un breve documento, apparentemente adombrato da-gli altri, come intende il senso del titolo di quella famosa di etica giapponese: Hagakure, nascosto fra le foglie. Una sola pagina, inse-rita verosimilmente da Andreotti nel faldone di documenti relativo a Craxi. Un foglio che contiene elementi evidentemente sensibilis-simi quanto difficilmente verificabili, ma che l’euristica delle fonti impone di riportare in quanto non proveniente da un sito scandali-stico, bensì dall’archivio di un presidente del Consiglio. Chiave di questo secondo brano del saggio, Hagakure trattava le regole morali dei samurai attorno alla fedeltà al proprio signo-re, dissertando però sulla vita del samurai che si trovi a perdere il signore stesso. Traslare questo vincolo in ciò che comportò per i pro-tagonisti della vita repubblicana il crollo del-la prima Repubblica è una suggestione forse troppo poetica, ma certo efficace.

C’è una vulgata che vuole l’atteggiamento tenuto da Craxi e Andreotti durante la crisi di Sigonella come primum movens dei pro-cedimenti giudiziari avviati nel 1992 e rac-colti poi nel lessico giornalistico col nome di «Tangentopoli», processi che come è noto inquisirono prima i quadri e poi i di-rigenti dei partiti di governo. Una vulgata che alla fine non convinceva lo stesso Cra-xi, come ebbe a dichiarare in una videoin-tervista, in cui riteneva però la mano estera – scilicet americana – concreta e credibile, dietro i procedimenti a suo carico. Non da mano estera, ma da mano interna – e a noi anonima – Andreotti ricevette uno stato sulle ipotesi di imputazione che gli era sta-to recapitato in data ugualmente ignota. “Contro Andreotti, secondo le nostre fon-ti, saranno a breve utilizzati due «profili». Ulteriori e più approfondite analisi sono purtroppo impossibili allo stato. Il primo «profilo», giudicato per ora debole e diver-sivo, è l’accusa di attività mafiosa, che non sembra adeguatamente supportata e docu-mentata dagli atti dei giudici di Palermo. Tuttavia, tale profilo potrebbe facilmente essere rafforzato con la visita del procura-tore Giancarlo Caselli negli USA. Il secon-do «profilo», giudicato in sostanza come il vero attacco, è costituito dalle vicende le-gate all’omicidio Moro prima, Dalla Chiesa poi. Andreotti, si sostiene, potrebbe indi-rizzare il suo contrattacco contro Leoluca Orlando Cascio, sufficientemente vulne-rabile sotto il profilo politico e morale, ma sufficientemente rappresentativo della vo-lontà di avvertire gli anglo-americani che ulteriori attacchi non saranno più tollerati

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senza reagire. In seconda battuta, si osser-va, potrebbe essere scelto da Andreotti il terreno della massoneria, reso però infido dal rischio di creare complicazioni politi-co-giudiziarie che coinvolgerebbero Licio Gelli. L’opzione che potrebbe essere scelta è la scoperta e relativa divulgazione di un elenco (ovviamente falso) di aderenti alla «vera loggia P2», quella che alcuni gior-nalisti ai tempi definirono la «super P2» e simili”4. Il contegno tenuto durante la crisi, che ave-va non di poco esasperato le forze armate italiane, parrebbe una ragione sufficiente a escludere un collegamento estero fra la crisi di allora e la situazione giudiziaria in cui Andreotti si trovò quando pareva im-minente la sua elezione a presidente della Repubblica. Ma senza altre fonti storiche si resta nell’indeterminatezza, ed è neces-sario attenere a un piano obiettivo, su ciò che noto e comprovato. Certo i processi finirono bene per Andreotti, sul piano me-ramente giudiziario. Sul piano politico no, fu una débacle in cui sprofondò anche tutto il partito cattolico. E cattolico e conserva-tore Andreotti lo era, e sempre per rima-nere sul piano obiettivo non può sfuggire che cattolici furono anche due personaggi dirimenti nel sanare la crisi, come Vernon Walters e Clare Boothe Luce. Ma questa considerazione, poco più di mero colore, si inserisce invece in un af-fresco più grande, quello delle percezioni mutuali degli italiani e de- gli americani, cioè nella loro costruzione stereotipica,

che infiammò la crisi diplomatica di Sigo-nella e a cui solo una cruda ratio politica pose un argine.

Matteo GerliniUniversità degli Studi di Firenze e Autore del libro “Il dirottamento dell’Achille Lauro e i suoi inattesi e sorprendenti risvolti” (Mondadori education 2016)

4. ASILS AGA, s. Craxi, ss. Varie, b. 272, carte non riordinate, La questione Andreotti, s.l., s.d.

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el 1957, sei Paesi, tra i quali l’Ita-lia, decidono di creare quella che all’epoca era denominata CECA

(Comunità Europea del Carbone e dell’Ac-ciaio), antesignana dell’attuale Unione Eu-ropea. Nel 1962, quegli stessi Paesi si dota-no di uno strumento operativo: la Politica Agricola Comune. Nello stesso anno, gli stessi uomini – grandi visionari – stabili-scono la creazione – all’interno dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) – di un’organizzazio-ne che possa dedicarsi alla formazione di una classe dirigente in grado di rispondere alla grande sfida di quel periodo storico: alimentare le popolazioni sia dell’Europa che del Mediterraneo. Il CIHEAM (Centre International de Hautes Etudes Agronomiques Méditerranéennes) nasce da questa straordinaria contingenza e l’Istituto italiano sorge grazie alla lungi-miranza, tra gli altri, dell’allora Ministro

di Maurizio Raeli

IL CIHEAMDALLA FONDAZIONE AD OGGI

Nel 1962 i paesi europei, fra cui l’Italia si sono dotati di un fondamentale strumento operativo: la Politica Agricola Comune

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degli Esteri Aldo Moro che volle la sede ita-liana del Ciheam a Bari. Perché Bari? Per-ché la Puglia è una penisola al quadrato, una penisola nella penisola con vocazione mediterranea, che guarda ad oriente verso il Mashrek e ad occidente verso il Magh-reb; una terra che ha avuto, nella storia, dominazioni arabe, angioine, spagnole; un incrocio di culture che all’Istituto Agrono-mico Mediterraneo di Bari del CIHEAM si perpetua da cinquantacinque anni, acco-gliendo migliaia di ragazzi e ragazze. Tra di essi vi sono giovani che provengono da Pa-esi in cui ancora oggi è in atto una guerra, ragazzi che hanno vissuto sulla loro pelle dolore e violenza, giovani di etnie e reli-gioni diverse che, a Bari, sfidando i costumi e le abitudini dei loro Paesi, sedendo fianco a fianco nelle aule di studio o passeggiando nei giardini del grande Campus. Da oltre cinquantacinque anni il CIHEAM promuove l’agricoltura sostenibile nell’inte-

ra Regione mediterranea, affrontando, oltre a problemi di sicurezza e di igiene alimentare, anche le sfide più difficili imposte dalla glo-balizzazione, valorizzando le risorse umane, approfondendo, ampliando e diffondendo la conoscenza scientifica e tecnologica, disse-minando la cultura della cooperazione inter-nazionale.In particolare, negli ultimi trent’anni di atti-vità, grande impulso è stato dato alla forma-zione, intensificando i corsi post-universitari ed i rapporti di collaborazione scientifica con le Università ed i Centri di ricerca di tutto il mondo, e alla cooperazione, promuovendo numerosi accordi internazionali e realiz-zando progetti di sviluppo senza, tuttavia, dimenticare di coinvolgere attivamente il territorio pugliese e gli Enti locali. Numerosi sono i personaggi illustri che hanno voluto, con la loro presenza, testi-moniare il valore e l’impegno della nostra comunità.

INTERNATIONAL CENTER FOR ADVANCEDMEDITERRANEAN AGRONOMIC STUDIES

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Il Presidente Giorgio Napolitano è sicu-ramente uno tra essi; la sua visita, il 14 settembre 2006, ha rappresentato il rico-noscimento ufficiale dello Stato italiano dell’importanza e del valore della missione di pace e solidarietà che il CIHEAM di Bari svolge nella Regione mediterranea. Negli anni, il CIHEAM di Bari ha attuato centinaia di progetti di cooperazione inter-nazionale recependo i bisogni istituzionali e operando attraverso interventi di assisten-za tecnica e di rafforzamento istituzionale; lo ha fatto ponendosi l’obiettivo di svilup-pare in maniera sostenibile aree socio-eco-nomiche fragili e suscettibili di migrazioni a causa, tra l’altro, di condizioni sfavorevoli determinate dai cambiamenti climatici e/o da instabilità politica.Le attività di cooperazione, in un primo tempo focalizzate su temi inerenti ai prin-cipali settori di attività del Centro (gestione dell’acqua, protezione integrata delle coltu-re, agricoltura biologica), si sono progressi-vamente arricchite. Oggi gli interventi sono strettamente correlati agli ambiti tematici che costituiscono l’attuale piano d’azione per il Mediterraneo del CIHEAM per il 2025 (CAPMED 2025).L’Agenda Strategica 2025 del CIHEAM e il suo piano d’azione – in forte connessione con l’Agenda delle Nazioni Unite 2030 - sono strutturati intorno a quattro pilastri relativi allo sviluppo sostenibile del Mediterraneo e divisi in quindici priorità tematiche quali, per citarne alcune, sicurezza alimentare e nutrizione, dieta mediterranea, sistemi ali-mentari sostenibili, cambiamenti climatici e gestione delle risorse naturali, migliora-

mento della qualità delle produzioni agri-cole e agro industriali, sviluppo dei territori rurali e costieri, pesca e acquacoltura soste-nibili, sostegno alle fasce sociali vulnerabili, parità di genere, lotta allo spreco ecc.Operare in tematiche e settori così sensibili, ha permesso all’Istituto di Bari del CIHEAM di sviluppare approcci e soluzioni concrete, costruiti su basi tecnico-scientifiche conso-lidate.Le iniziative del CIHEAM di Bari sono ide-ate, pianificate e realizzate per essere com-plementari e sinergiche fra loro, nel rispetto delle priorità di sviluppo di ciascun Paese attraverso un modus operandi che include una metodologia partecipativa, inclusiva e integrata a doppio flusso (bottom-up-bot-tom), che mira ad avviare, laddove possibi-le, partenariati pubblico-privati.Forte della rete costituita negli anni con i Paesi oggetti di intervento, il CIHEAM di Bari è considerato un punto di riferimen-to per le Istituzioni ed i Ministeri dei Pae-si mediterranei con cui sono stati attivati specifici accordi di collaborazione tecnico-scientifica e di cooperazione. Lo scorso 23 gennaio, per esempio, è stato siglato un Ac-cordo quadro di collaborazione istituziona-le con l’Agenzia Italiana per La Cooperazio-ne allo Sviluppo (AICS). L’AICS ha ritenuto opportuno avvalersi delle competenze e dell’assistenza tecnica del CIHEAM Bari per rafforzare la sua presenza nei Paesi Med e non solo, favorendo e catalizzando i proces-si relazionali con i Ministeri tecnici (Agri-coltura, Pesca, Ambiente, Risorse idriche) e recependo le esigenze delle istituzioni e delle comunità locali beneficiarie degli in-

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terventi di cooperazione allo sviluppo. Tale collaborazione è volta a rafforzare l’incisi-vità del sistema della Cooperazione italiana nei processi di sviluppo coerentemente con il Documento di programmazione trienna-le del Governo italiano, principalmente nei settori della sicurezza alimentare e nutri-zione, dello sviluppo rurale, della gestione delle risorse naturali, dell’acquacoltura/pesca, del sostegno alle comunità costiere/ rurali e delle questioni relative al rafforza-mento del ruolo dei giovani e delle donne.Oggi come ieri, l’Istituto di Bari del CIHE-AM continua ad essere un’organizzazione aperta alla partecipazione ed alla collabo-razione di tutti i Paesi del Bacino mediter-raneo, terreno ideale per la crescita della spazio Euro-mediterraneo per la ricerca e l’innovazione, non solo nel settore agricolo ed agronomico, ma anche in quello agro-alimentare e nella sfera dell’occupazione e dello sviluppo.Ancora oggi siamo certi, tuttavia, che la nostra forza resta soprattutto la formazio-ne dei futuri quadri dirigenti. È sui giovani che bisogna investire, di più e meglio. Sia-mo consapevoli che la situazione attuale è complessa, ma cerchiamo di non dimenti-care mai che anche nelle contingenze più sfavorevoli il contadino taglia su tutto, ma non sulla semina. I giovani rappresentano il futuro sul quale investire.

Maurizio RaeliDirettore del CIHEAM di Bari

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Recensioni libri / Riviste internazionali

EURASIA E JIHADISMO: GUERRE IBRIDE SULLA NUOVAVIA DELLA SETA A cura di: Matteo Bressan, Stefano Felician Beccari, Alessandro Politi e Domitilla Savignoni

Roma, Carocci Editore 2016pp 194, € 18

Nell’ambito della vasta letteratura sul terrorismo, ed in particolare per quel che attiene alla componente legata al “jihadi-smo” o “radicalismo islamico”, il recente volume Eurasia e Jihadismo – Guerre ibride sulla Via della Seta si distingue per affron-tare il tema in modo innovativo, sia sul pia-no geografico che su quello metodologico.Sul piano geografico, esso non si limita a trattare il “classico” caso del Medio Orien-te nelle sue declinazioni principali (quali l’ISIS in Siria-Iraq o il tradizionale caso

LA BIBLIOTECADI GORDIOwww.nododigordio.org

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afghano), già abbondantemente presen-te in letteratura, ma allarga la ricerca ad ambiti relativamente sconosciuti. Da qui la principale chiave di lettura del volume, ovvero come il terrorismo contemporaneo leghi diversi ambiti geografici anche molto distanti fra loro, con una prospettiva geo-politica che parte dal Medio Oriente, per-corre la “Via della Seta”, passando dal Cau-caso, tocca la Cina (con approfondimenti sul caso dello Xinjiang e degli Uiguri) ed infine “scende” fino alla Nuova Zelanda, analizzando anche l’articolato quadrante dell’Asia Pacifica. Sul piano metodologico, è interessante no-tare come l’analisi, grazie alle multiformi expertise messe in campo, sia capace di esaminare non solo il terrorismo in sé, ov-vero la mera descrizione dei vari gruppi o sottogruppi e le relative aree di operazio-ne, ma affronti pure ambiti collegati ed importanti per comprenderne il ruolo e la portata. Va sottolineato il contributo forni-to da analisti stranieri, fra i quali spiccano cinesi e russi, rispettivamente focalizzati sul problema del jihadismo in Caucaso e sulla complicata questione dello Xinjiang e del separatismo uiguro. Il volume esplora quindi la dimensione del terrorismo combinando questi due piani con il risultato di una fotografia ampia ma dettagliata del terrorismo e delle sue ten-denze più recenti, facendo comprendere come oggi gli avvenimenti in Siria ed Iraq siano capaci di avere un impatto veramen-te globale, che lega i sanguinosi (e noti) eventi di Parigi, Nizza e Bruxelles a episodi più oscuri ma non meno importanti quali

gli attentati in Bangladesh, Jakarta o nello Xinjang. In definitiva, “Eurasia e Jihadismo – Guerre ibride sulla Via della Seta” è un volume age-vole ed interessante, diretto non solo agli addetti ai lavori ma anche a quel pubbli-co più ampio che intende comprendere e conoscere il fenomeno del terrorismo, non limitandosi alla mera dimensione “me-diorientale” dell’ISIS/DAESH. La struttura del volume permette di selezionare con immediatezza gli ambiti di maggiore in-teresse e di usufruire di un ricco apporto cartografico. Nel panorama italiano Eura-sia e Jihadismo si presenta quindi come una interessante novità capace di fornire una chiave di lettura ampia e innovativa del terrorismo contemporaneo, basata su una solida attività di ricerca e sulle molteplici esperienze dei qualificati autori.

Francesco Lombardi

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Recensioni libri / Riviste internazionali

IMMIGRAZIONE. TUTTO QUELLOCHE DOVREMMO SAPEREGian Carlo Blangiardo, Gianandrea Gaiani, Giuseppe Valditara

Edizioni Aracne, 2016pp. 88, € 10,00

“Il business dell’accoglienza rende più appetibile assistere gli immigrati rispet-to agli italiani poveri (oltre 4,5 milioni secondo l’Istat): questi ultimi ricevono infatti sussidi e welfare ad personam, mentre i clandestini vengono assistiti at-traverso intermediari italiani che incassa-no direttamente le diarie previste per ogni immigrato illegale”. Gian Carlo Blangiar-do, Gianandrea Gaiani e Giuseppe Valdi-tara hanno scelto la strada della chiarezza nel loro libro “Immigrazione. Tutto quello che dovremmo sapere”, edito da “Aracne”.

E da sapere, secondo gli autori, c’è dav-vero molto. Tutto quello che la disinfor-mazione politicamente corretta cerca di censurare e di nascondere. Tutto quello che viene falsato e distorto. Dal numero dei reati alle bufale sulle positive ricadu-te economiche, sociali e demografiche. Un libro “scorretto” e proprio per questo fondamentale per tutti coloro che si occu-pano di problemi legati all’immigrazione. D’altronde è il tema diventato prioritario in tutte le agende di politica interna ed estera dei Paesi europei. Incide sui bilan-ci, sull’occupazione, sui diritti dei lavo-ratori. Ma anche sulla geopolitica perché sconvolge gli equilibri, determina frattu-re, provoca alleanze inconsuete ed inimi-cizie impreviste. La Brexit è stata favorita anche dalla disastrosa gestione del feno-meno migratorio, i muri interni che han-no messo a rischio la sopravvivenza stessa dell’Unione europea sono la conseguenza di fallimentari politiche su questo tema.Ma i tre autori non sono adusi a slogan, a dichiarazioni ad effetto. Il loro è un lavo-ro documentato, preciso, ricco di citazioni di esponenti di varie istituzioni. A partire dalle imbarazzanti ed imbarazzate dichia-razioni di poliziotti tedeschi “caldamente invitati” a minimizzare e a nascondere i reati commessi dai migranti. E ancora articoli di giornali politicamente corretti che, ciò nonostante, non riescono sempre a censurare le notizie scomode.Un lavoro pregevole che ha poco da spar-tire con i proclami “di pancia” di chi poco conosce ma protesta a prescindere. Un li-bro crudo ma di estremo buon senso, in-

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dispensabile per chi deve affrontare i pro-blemi legati ad un fenomeno che non si vuole gestire ma che, al contrario, sarebbe gestibile a patto di averne consapevolezza e di avere voglia di affrontarlo.

Augusto Grandi

I GUERRIERI DI DIOHezbollah: dalle origini al conflittoin SiriaStefano Fabei, Fabio Polese

Edizioni Mursiapp. 394, € 21,00

Scritto da uno storico e da un giornalista foto-reporter recatosi più volte in Libano, I guerrie-ri di Dio. Hezbollah: dalle origini al conflitto in Siria costituisce uno strumento utile per orientarsi nell’attualità del Medio Oriente e comprendere le profonde ragioni della sua in-stabilità. Il saggio ripercorre infatti la storia di uno dei protagonisti contemporanei più origi-nali e importanti del mondo arabo e islamico, il Partito di Dio. Nato nei primi anni Ottanta del scorso secolo sull’onda della vittoriosa Ri-voluzione islamica iraniana, Hezbollah si pro-pose due obiettivi fondamentali: dare voce alla componente maggioritaria nel Paese dei cedri – la sciita, fino allora marginalizzata − e creare una Repubblica simile a quella fondata a Tehe-ran dall’ayatollah Khomeini, anche attraverso la Resistenza a Israele, considerato il nemico numero uno non solo del Libano e dei palesti-nesi, ma anche degli oppressi di tutto il mondo. Se il progetto d’instaurare un regime islamico come quello iraniano nel corso degli anni è stato pragmaticamente messo da parte, la lot-ta contro lo Stato ebraico continua a costituire una delle ragioni fondanti del partito guidato dal carismatico Hassan Nasrallah, oggi impe-gnato al fianco di Putin e dell’Iran nella difesa della Siria di Assad dall’aggressione dell’ISIS, mostro creato dall’Occidente e sostenuto, fra gli altri, da Arabia Saudita e Israele.

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Recensioni libri / Riviste internazionali

ITALIA E STATI UNITI. Terrorismo e disinformazioneVittorfranco Pisano

Roma, Nuova Cultura, 2016pp 278, € 25

Le cronache dei nostri giorni riportano, con stressante continuità, le notizie (e le analisi conseguenti) sugli attentati o le tentate stragi di matrice jihadista. La pau-ra, oramai, è compagna di vita nei Paesi oc-cidentali, oltre che nei martoriati territori mediorientali. Per noi italiani, ed in parti-colare per le generazioni più mature, il fe-nomeno non è nuovo. A cavallo degli anni ’70-’80, il terrorismo di matrice politica insanguinò la Penisola, ed anche allora la

Oltre a rappresentare puntualmente le tappe del percorso di Hezbollah, il contesto econo-mico, sociale, religioso e culturale in cui esso è nato, quelli che ne sono stati gli ispiratori e i leader, Fabei e Polese illustrano la realtà di un soggetto politico attivo in tutti i setto-ri della vita nazionale: vero e proprio Stato nello Stato libanese; protagonista nella lotta contro l’imperialismo e per la liberazione del Libano da Israele; struttura tentacolare impe-gnata in ogni ambito, dall’assistenziale all’e-ducativo, dal militare all’informativo. Il libro, destinato a un pubblico non solo di specialisti, con chiarezza comunicativa e scrupolo infor-mativo dimostra come esista un Islam diver-so da quello fanatico, settario e oscurantista rappresentato dal cosiddetto Stato islamico o da al-Qaeda. Gli autori, oltre a offrire un’utile definizione di Islam distinguendo quello sun-nita, maggioritario, da quello sciita, accompa-gnano il lettore nella conoscenza del contesto del Medio Oriente i cui mali risalgono a un se-colo fa, quando − sconfitto nella Prima guerra mondiale e smembrato l’Impero ottomano, alleato della Germania e dell’Austria-Unghe-ria − Francia e Inghilterra ridisegnarono la carta geografica dell’area in funzione dei loro esclusivi interessi colonialistici, senza tenere in considerazione le aspirazioni dei popoli arabi e tradendo gli impegni presi con i rap-presentanti di questi ultimi. Le ripercussioni di quelle miopi scelte continuano a eviden-ziarsi in modo drammatico sotto gli occhi di tutti dalla Palestina all’Iraq, dalla Siria al Li-bano, dove è nato e opera Hezbollah.

La Redazione

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valutazione sull’appoggio, anche solo mo-rale, che parte della cittadinanza o compo-nenti di istituzioni partitiche o sindacali potevano aver dato alla causa criminale divenne oggetto di confronto, al pari di oggi, in cui è acceso il dibattito sul soste-gno che il terrorismo radicalizzato riceve dalle comunità islamiche, dentro e fuori i confini nazionali. Il volume, realizzato dal Prof. Pisano, dal titolo “Italia e Stati Uniti. Terrorismo e disinformazione”, ripercorre quegli anni, concentrandosi su un tratto dell’aspetto comunicativo e mediatico che, al pari di quanto avviene con la minaccia contemporanea, viene utilizzato con la stessa spregiudicatezza con cui si impiega-no armi tradizionali. Con questo pregevole lavoro Vittorfranco Pisano ha inteso con-futare una tesi che a lungo è serpeggiata in quel periodo noto come “anni di piom-bo”. Una tesi sostenuta da soggetti, anche autorevoli, provenienti da diversi ambiti del mondo accademico, professionale ed istituzionale: la tesi di una trama oscura, di matrice statunitense, che avrebbe dato origine e gestito il terrorismo in Italia. Per smontare questa tesi complottista, l’auto-re ha realizzato una meticolosa indagine scientifica su una elevata e differenziata quantità di fonti, elaborata grazie alla va-stissima esperienza maturata nelle Forze Armate USA in Italia e ad una successiva intensa attività accademica. Una esperien-za che gli ha permesso di conoscere il fe-nomeno terrorismo prima, analizzarne le dinamiche poi e comprenderne, infine, le ragioni e le linee evolutive. L’autore ac-compagna il lettore, sia quello informato

e qualificato, anche quello tecnicamente edotto, sia quello più giovane, fornendogli gli strumenti metodologici di indagine pri-ma e gli oggetti di analisi poi, in un percor-so dove razionalità, logicità e completezza costituiscono i driver portanti. Con la de-scrizione puntuale di fatti, eventi, analisi, dichiarazioni, testi, a suo tempo realizzati, e tendenti a dar corpo alla tesi complotti-sta, e la loro successiva particolareggiata invalidazione, grazie a sostanziali eviden-ze, l’autore ricompone il quadro del percor-so mistificatorio che ha accompagnato la realizzazione degli atti delittuosi. Questo libro, inoltre, si arricchisce di una vastis-sima appendice che censisce buona parte delle opere (volumi ed opuscoli) realizzate in lingua italiana riguardanti il terrorismo nel nostro Paese, editi tra il 1965 ed il 2016. Per ognuno dei 91 testi segnalati l’autore si è premurato di elaborare una scheda che riporta i contenuti del testo stesso; un uti-lissimo strumento di ricerca, quindi, per chiunque voglia approfondire le vastissi-me sfaccettature del fenomeno. In defini-tiva, questo volume è utile per coloro che vogliano avvicinare una metodologia di analisi ed anche per coloro che desiderano meglio comprendere, con un filtro di veri-tà, aspetti che, nel nostro Paese, sono an-cora al limite tra cronaca e storia.

Francesco Lombardi

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GERUSSIA – L’ORIZZONTE INFRANTO DELLA GEOPOLITICA EUROPEAIl rapporto tra la Germania e la Russia, le due vere potenze europee.Salvatore Santangelo

Edizioni Castelvecchipp. 269, € 14,00

GeRussia ricostruisce la storia e l’attualità di uno degli snodi politici più importanti del nostro tempo.L’analisi risale alle radici e alle ferite stori-che della relazione tra Mosca e Berlino, per arrivare agli sviluppi degli ultimi anni, nel nuovo quadro emerso dalla crisi dell’equi-librio unipolare e dall’affermazione di due forti leadership politiche, quelle di Angela Merkel e di Vladimir Putin.

Dalle immagini drammatiche degli stermi-ni e delle macerie fumanti di Stalingrado e di Berlino fino agli odierni intrecci politici, economici e culturali tra russi e tedeschi, Gerussia disegna una scacchiera viva, fatta di calcoli, interessi e strategie, da cui di-penderà in larga misura il futuro dell’Euro-pa. Dopo l’uscita di “Frammenti di un mon-do globale” e “Le lance spezzate”, Salvatore Santangelo, giornalista professionista che, dopo la laurea in Scienze politiche ha con-seguito un dottorato in Storia dell’Europa, traccia in questo volume i corsi e ricorsi storici che hanno caratterizzato i non sem-pre facili rapporti tra Mosca e Berlino. Gli orrori del I conflitto mondiale, i totali-tarismi nazionalsocialista e comunista che si sono battuti all’ultimo sangue per con-quistare le anime, le menti e i corpi delle decine di milioni di esseri umani intrappo-lati nelle maglie dei loro sistemi repressivi; la Germania occupata, umiliata, smembra-ta, un feroce confronto politico, militare e ideologico tra blocchi contrapposti: tutto ciò ha contribuito a plasmare il XX secolo.La caduta del Muro, la Riunificazione, il collasso dell’Urss hanno portato a ridefini-re i confini della carta dell’Europa, e spinto la relazione tra la Germania e la Russia ver-so una nuova dimensione, contrassegnata da una rinnovata speranza e da un’intensa collaborazione: tutto ciò almeno fino alla Crisi ucraina del 2014. In realtà, quello tra Germania e Russia è stato, per secoli, un rapporto strettissimo, per certi versi simbiotico; ma niente af-fatto facile. Anzi, lo si può ben definire un rapporto d’amore-odio, in cui alla consa-

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pevolezza dell’utilità reciproca si è affian-cata una diffidenza di fondo.In controluce, possiamo trovare gli appunti sparsi di un’altra storia: per secoli le clas-si dirigenti dei due Paesi hanno sfidato il cambiamento radicale dei propri regimi, gli equilibri e i contesti geopolitici internazio-nali, e persino due guerre globali in cui un’i-nimicizia e un odio senza quartiere hanno avuto il sopravvento. Chi lo ha intuito, forse per primo, è stato il grande economista in-glese John M. Keynes, per il quale il ruolo storico di Berlino sarebbe proprio quello di modernizzare il Paese degli Zar. Adottare questo punto di vista significa comunque superare tanti stereotipi, in-comprensioni, andare non solo oltre i fo-togrammi dei film di Sergej Ejzenshtein, ma anche archiviare definitivamente, sen-za dimenticare, le immagini drammatiche degli stermini e delle macerie fumanti di Stalingrado e di Berlino.Con la consapevolezza che comunque oggi il confine orientale dell’Europa - lì dove sono giunti le istituzioni e le regole della Ue, ma anche lo scudo dell’Alleanza atlan-tica - vive in un tempo diverso dal nostro, e i popoli che “presidiano” questa frontie-ra guardano al passato in modo dissimile, sentendosi forse ancora prigionieri delle Terre insanguinate.La memoria, il dolore, l’appartenenza, gli odi atavici, stanno diventando altrettante fiches gettate su questo tavolo da gioco.Se l’integrazione tra Russia e Germania - GeRussia - non sarà semplicemente un progetto egemonico costruito su freddi calcoli che prendono in considerazione

solo vantaggi o svantaggi economici, ma un processo che tende la mano anche a chi più ha sofferto a causa dei russi e dei tedeschi, e quindi se saprà nutrirsi, maga-ri rinvigorendolo, dello stesso spirito che ha animato i padri fondatori che vollero edificare la Casa comune sulle macerie fu-manti della guerra civile tra europei, forse, finalmente, gli spettri e gli orrori di questa geografia insanguinata potranno essere esorcizzati.

La Redazione

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SAMARCANDA: UN SOGNO COLOR TURCHESEFranco Cardini

Edizioni Il Mulinopp. 325, € 16,00

Kan ma kan... c’era una volta, come si recita in lingua araba quando inizia il racconto di una fiaba. E proprio una fiaba sembra la ca-valcata attraverso i secoli che Franco Car-dini invita il lettore a compiere sfogliando le pagine del suo Samarcanda (Il Mulino, Bologna). Città dalle cupole dorate, dai cortili inondati dal sole, degli imponenti monumenti funebri, crocevia sulla via del-

la seta, antico emporio di merci preziose, spezie, avorio, indaco, diamanti. Samar-canda, la mitica, la misteriosa, sarebbe sta-ta fondata dal principe ario Samar, da qui il nome, ma quella che Cardini afferma di amare di più è l’antica Afrasiab che si trova a Est dell’attuale città, quella che raggiun-se il suo splendore tra il VII e l’VIII secolo, con le sue moschee, le medrase; quella che gli uzbeki preferiscono contrapporre a Sa-mar, voluta da un altro principe: Afrasiab per l’appunto, di origine turanica essendo i turanici nemici giurati degli arii, un po’ come gli uzbeki lo sono degli afghani. Con-quistata da Alessandro Magno fra il 329 e il 327 a.c., poi da Gengis Khan nel 1220, divenuta capitale dell’impero timuride tra XIV e XV secolo è la città che ospita la più grande moschea dell’Asia centrale, quel-la di Bibi Khanum, restaurata di recente. Un mosaico di popoli, di lingue, di culture quelle che Renè Grousset ha definito l’im-pero delle steppe, dove sogdiani, turkmeni, cumani, transoxiani hanno vissuto e com-battuto, si sono incontrati e scontrati. Le pagine di Cardini sono un utilissimo ba-edeker ad uso del viaggiatore colto, o per meglio dire curioso e affascinato da quello che gli antropologi definiscono l’altro da sè. La “tomba del re vivente”, Shah-e Zin-da, la piazza del Reghistan, la madrasa di Ulugh Beg che vi campeggia, sono altret-tante testimonianze della magnificenza che ispira l’attuale capitale dell’Uzbeki-stan. Ma Samarcanda non è solo questo. Il grande storico fiorentino, come spesso gli capita di fare, oltrepassa i confini, si spinge oltre e racconta di come l’Islam si sia af-

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fermato in quelle regioni tra l’Amu Darya e il Sir Darya, di come esso abbia assorbito le tradizioni precedenti, quelle sciamani-che, perpetrandole anche all’interno del-la nuova religione. “L’anima più profonda dell’Islam centroasiatico - osserva Franco Cardini - che ha una radice robustamente collegata a quello persiano, anche se, a dif-ferenza di esso, è rimasto sunnita, è quello della pietas sufica impregnata di un misti-cismo che ha consentito in passato l’assor-bimento di numerose pratiche sciamani-che....”. Marco Polo ha viaggiato sulle vie che portano a Samarcanda, nel suo Devise-ment dou monde quello che noi conosciamo come il Milione, dice di Samarcanda: “è una nobile cittade, e sonvi cristiani e saracini”, Odorico da Pordenone così come il fioren-tino Giovanni de' Marignolli sono transitati per la città sogdiana, mentre Ruy Gonzales de Clavijo, ambasciatore del Re d’Aragona, ce ne fornisce un’ entusiastica descrizione. Tra storia e mito l’autore ci parla del signo-re della paura, Timur, da noi conosciuto come Tamerlano, fondatore dell’impero ti-muride che di Samarcanda fece la sua capi-tale. Lo zoppo per alcuni mentre per i mon-goli il suo toponimo sarebbe stato Temur “ferro” e il ferro, osserva ancora Cardini “è appunto metallo sacro nella tradizione degli sciamani, i poteri dei quali sono tra-dizionalmente legati all’arte delle fucine”. Lo sguardo acuto dell’autore tuttavia non si ferma all’epoca più antica, Cardini ci de-scrive anche la Samarcanda sovietica, con le sue contraddizioni, i piani di sviluppo, le brutture che ancora oggi le fanno da non proprio regale corona. Per farlo egli spa-

zia sull’intera realtà sovietica sofferman-dosi su quella delle repubbliche dell’Asia centrale, sulla politica di Chruscev e sulla perestroika gorbacioviana, che seppe of-frire una nuova vita culturale alle diverse etnie che componevano l’ex impero sovie-tico. In fondo Samarcanda è tutto questo: la grandezza di un impero e la fine di esso, l’arte più raffinata e le caserme-alberghi costruite dai sovietici, la magnificenza dei suoi empori e la miseria che negli anni più tristi della dominazione della falce e mar-tello ne ha alterato, sebbene parzialmente, i connotati. È verso la favolosa Samarcanda che cavalca il soldato di ritorno dalla festa per la fine di una lunga guerra. Il suo re gli ha regalato il destriero più veloce perché egli possa sfuggire alla Signora in Nero che però è lì ad aspettarlo. Kan ma kan. Non è poi così lontana Samarcanda...

Alessandro Bedini

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IL SOCIALISMO DEL XXI SECOLOLe rivoluzioni populiste in SudamericaLuca Lezzi, Andrea Muratore

Circolo Proudhon Edizionipp. 260, € 15,00

Nel mondo multipolare delle Tre Torri, non manca soltanto la quarta torre, quella europea. Manca anche la quinta, quella latinoamericana. Un continente dalle enormi potenzialità ma del tutto trascurato non soltanto dalle grandi potenze, ma anche da analisti ed opinione pubblica. Per questo è di grande rilevanza il libro che Luca Lezzi e Andrea Muratore hanno dedicato alla situazione del Sud America ed alla storia più recente dei vari Paesi. “Il socialismo del XXI secolo”, edito

dal Circolo Proudhon (15 euro per 241 pagine più un utilissimo glossario finale), è indubbiamente un libro schierato. Dalla parte di Chavez, dei Kirchner, di Correa, di Morales e di Mujica. Ma lo è in modo trasparente ed è accompagnato da cifre, date, analisi approfondite che svelano una realtà sconosciuta ai più e che spesso viene raccontata in Italia da chi conosce poco o nulla del Sud America. Un ottimo libro che spiega le ragioni del successo dei populisti e dei populismi sudamericani, l’ingresso dei lider indigenos sulla scena, le trasformazioni economiche e sociali. Ma che illustra, con grande onestà intellettuale, anche le ragioni di un declino e di alcuni pesanti insuccessi. Innanzi tutto il caudillismo, il legame eccessivamente forte ed esclusivo tra il popolo ed il suo condottiero. Così quando il leader scompare per cause naturali (come la morte di Chavez) o per ragioni politiche, diventa un enorme problema la scelta di un successore che sia all’altezza non solo come competenza ma anche nel rapporto con il popolo. Maduro, il successore di Chavez in Venezuela, si è rivelato del tutto inadeguato. Ma esistono anche altri aspetti. La corruzione, innanzi tutto. Endemica in tutta l’America Latina, non soltanto nel Sud America. Un grimaldello per tutte le opposizioni che cercano di ribaltare i governi populisti. Oppositori che, ovviamente, non sono per nulla immuni dalla stessa corruzione ma che possono contare su media di loro proprietà che attaccano gli errori del governo ed

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ignorano quelli dell’opposizione. E poi l’atteggiamento di una classe media che ha potuto crescere e svilupparsi grazie alle politiche dei populisti ma che, arrivata alla stabilizzazione, si è trasformata in plebe desiderante attratta da modelli come quelli Nord Americani.Gli autori non dimenticano il peso che Washington e le multinazionali Usa continuano ad avere sull’America del Sud, quella che gli yanqui hanno sempre considerata come il giardino di casa. Per evidenti ragioni di tempo mancano le ipotesi su quali conseguenze potrebbe avere sull’America Latina la nuova presidenza Trump. A partire dalla cancellazione del trattato TTP che potrebbe ripercuotersi sugli Stati sudamericani del Pacifico. Per arrivare al Paese che corre i rischi maggiori: il Messico. Non sudamericano ma comunque latinoamericano e che potrebbe essere obbligato a guardare verso Sud per ovviare alle misure promesse da Trump a Nord.

Augusto Grandi

HOLY SEE’S ARCHIVES AS SOURCES FOR AMERICAN HISTORY Kathleen Sprows Cummings,Matteo Sanfilippo a cura di

Edizioni Sette Cittàpp. 269, € 14,00

Le cancellerie internazionali attendono di capire quanta parte dei proclami lanciati in campagna elettorale dal nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, venga effettivamente posta in essere nel corso del suo mandato. Tra di esse vi è certamente anche la Santa Sede.

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Sono principalmente due le politiche di Donald Trump che saranno osservate con attenzione in Vaticano. La prima è quella relativa alla tute-la della vita, ovvero le iniziative che verranno adottate per proteggere la vita umana dal suo inizio fino alla sua conclusione; la seconda riguarda il fenomeno migratorio, un vasto ca-pitolo che interessa non solo l’aspetto dell’ac-coglienza ma anche quello della sicurezza na-zionale.Su quest’ultimo tema non sono mancati de-gli scambi d’opinione, anche duri, tra Papa Francesco e Donald Trump. Ad esempio, il 17 febbraio 2016, durante il volo di ritorno dalla visita pastorale in Messico, il giornalista Phil Pulella della ‘Reuters’ ha chiesto al Santo Pa-dre, tra l’altro, un giudizio sulle dichiarazioni di Trump in merito alla volontà di costruire un muro di 2.500 Km lungo la frontiera tra Sta-ti Uniti e Messico e “se un cattolico potesse votare per una persona del genere”. Con stile raffinato Papa Francesco ha risposto che lui non si immischia nella competizione elettorale statunitense aggiungendo subito dopo: “Soltan-to dico: se dice queste cose, quest’uomo non è cristiano. Bisogna vedere se lui ha detto queste cose. E per questo do il beneficio del dubbio.”. Un beneficio, quello nei confronti di Trump e della sua prossima azione di governo, ribadito da Papa Francesco nel corso dell’intervista rila-sciata al quotidiano spagnolo ‘El Pais’ lo scorso 22 gennaio, in concomitanza con l’insediamen-to di Trump alla Casa Bianca, con le seguenti parole: “Ver qué pasa, pero asustarme o alegrar-me por le que pueda suceder, en eso creo que podemos caer en una gran imprudencia … Se verá. Veremos lo que hace y ahí se evalúa.”.Questi esempi inducono a pensare che si stia per

aprire una nuova stagione nei rapporti tra San-ta Sede e Stati Uniti d’America. Su quali basi? Forse la storia può essere un’utile strumento per fare delle ipotesi sulle future direttrici.Appare quindi molto tempestiva l’iniziativa presa dalla casa editrice Sette Città di pubblica-re, interamente in inglese, il libro “Holy See’s Archives as sources for American history”. La tesi di fondo del libro è che gli archivi vaticani e quelli degli ordini religiosi possano offrire uti-li documenti per comprendere alcuni passaggi storici sul cattolicesimo nel continente america-no e, più in dettaglio, sui rapporti tra Stati Uniti e Santa Sede.L’opera, curata da Kathleen Sprows Cummings e Matteo Sanfilippo, raccoglie saggi di studiosi italiani e stranieri.Tra di essi, si segnala in particolare, il saggio del prof. Daniele Fiorentino dal titolo: “A pe-culiar relationship: the U.S. and the Vatican, 1893-1919”. Questo saggio può essere d’aiuto nell’ipotizzare i futuri rapporti tra Stati Uniti e Santa Sede.

Costantino Moretti

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HILLARYVita e potere in una dynasty americanaGennaro Sangiuliano

Le Scie | Mondadori, 2016pp. 298, Euro 22,00

Lunedì 12 dicembre 2016, ore 17: a Roma presso Palazzo Mattei di Paganica si pre-senta il libro di Gennaro Sangiuliano ‘Hilla-ry. Vita e potere di una dynasty americana’ (Mondadori). Intervengono, oltre all’auto-re, Fausto Bertinotti, Maria Stella Gelmi-ni e Francesco Verducci. Da poco più di un mese, Donald Trump è il presidente eletto degli Stati Uniti d’America. Un paradosso sul quale in pochi avrebbero scommesso.

Hillary «è caduta all’appuntamento decisi-vo con la storia americana e con il suo per-sonale destino, per colpa di un miliardario newyorchese non di sinistra come lei, che a differenza di lei è riuscito a vincere contro l’establishment al quale entrambi appar-tengono. Paradossale, se si vuole, ma è così che talvolta vanno le cose in America», si legge nelle presentazione del volume pub-blicata sul sito della Treccani.Hillary Rodham Clinton è una donna che ha consacrato la sua vita al potere, scrive Sangiuliano, e a leggerne la biografia è dif-ficile dargli torto. Secondo il giornalista, già autore delle biografie di Vladimir Putin e Angela Merkel, l’ex-first lady nella vita ha seguito solo la propria ambizione: fin da quando studiava a Yale con Bill, non è solo una moglie. Avvocato di successo, in ottimi rapporti con l’alta finanza, si inte-ressa come legale allo scandalo Watergate, diventa senatrice, contende a Obama la candidatura alla presidenza, ne diventa se-gretario di Stato nonostante i rapporti non splendidi con il partito democratico, che forse di lei non si fida: del resto Hillary da giovanissima era una militante repubblica-na, sulle orme del padre. «Sono molto or-gogliosa di essere stata una Goldwater girl, avevo idee radicate nel conservatorismo. Io non sono nata democratica», spiega lei (Goldwater fu il candidato presidenzia-le repubblicano nel 1964) e del resto non è questa la tappa più controversa del suo percorso.La storia della mancata prima donna pre-sidente d’America appare come una saga a metà tra Dynasty e House of Cards, spre-

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giudicata, fatta di scandali, trabocchetti, agguati. Assieme al suo uomo, Hillary ha superato incomprensioni, dissapori e un tradimento rimasto nella storia che - se-condo Sangiuliano - ha ulteriormente ce-mentato l’alleanza con il marito, il quale le ha sempre attribuito ruoli decisionali e da protagonista politica. Per carità, non si tratta di un caso unico nella politica ame-ricana. Fu un po’ così anche per Eleanor Roosevelt. E il familismo nella storia pre-sidenziale americana è una costante, dai Kennedy ai Bush. Quello che colpisce nella biografia è la luce alternata a ombre inquietanti, la frequenza con cui la protagonista viene sfiorata da-gli scandali uscendone indenne. E anche come i due costituiscano una coppia per-fetta. Lui estroverso ma disordinato; lei diligente ma antipatica. Hillary entra nel-lo staff della commissione Giustizia della Camera; Bill diventa governatore del suo Stato, l’Arkansas. Complementari e capaci di crescere in parallelo, di sostenersi reci-procamente. Dopo l’infanzia a Park Ridge, sobborgo di Chigago, il ‘68 e la guerra in Vietnam, lei matura la sua nuova coscienza politica a Yale grazie al giovane Bill «con i capelli lunghi e la barba incolta» di cui si innamora subito. Ma quando lui va in crisi durante il periodo reaganiano è la moglie a convincerlo a non mollare. Anzi: dei due, secondo Sangiuliano, il Principe in senso machiavellico è proprio Hillary.Insieme supereranno tanti ostacoli: il Clin-tongate, il caso di Monica Lewinsky a causa del quale, il 17 agosto 1998, Bill è il primo presidente in carica della storia degli Stati

Uniti a deporre davanti a un Gran Giurì. Ma la coppia attraversa anche altre crisi, meno note e forse più significative. Il 20 luglio 1993 viene trovato morto l’avvocato Vin-ce Foster, l’amico di una vita di Bill, uno dei consiglieri dello staff presidenziale: suicidio, scrive il medico, si dice che l’uo-mo fosse depresso a causa di uno scandalo sull’amministrazione della Casa Bianca, il cosiddetto Travelgate, e di una sequela di errori e veleni interni all’entourage. Ma quando si comincia a scavare nello scanda-lo Whitewater si ipotizza un complotto, un assassinio. Secondo la commissione d’in-chiesta del Senato, riporta Sangiuliano, alcuni «documenti che collegavano Hillary Clinton allo scandalo Whitewater» sareb-bero stati «fatti sparire». Il senatore re-pubblicano Alfonse D’Amato li definisce la «possibile pistola fumante» dello scandalo.Una coppia così non si arrende facilmente. «Con la fine del secondo mandato, la car-riera di Bill Clinton si sarebbe conclusa, ora toccava a lei. Non aveva senso gettare via anni di lavoro», scrive Sangiuliano. I due non avevano però fatto i conti con Donald Trump.

Marco Ferrazzoli

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Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017

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SULLA TRANSIBERIANASette fusi orari, 9200 km, sul treno leggendario da Mosca al mar del Giappone Mauro Buffa

Ediciclo Editorepp. 204, € 15,00

In viaggio attraverso l’Eurasia. Così po-trebbe essere sintetizzato il bel libro di Mauro Buffa, Direttore dell’Istituto Cul-turale Mòcheno, un museo storico colmo di tradizioni e situato a Palù del Fersina nell’omonima valle del Trentino. Un vo-lume che fa il paio con un altro scritto dell’Autore dedicato alla Transmogolica “oltre 9000 km in treno da Mosca a Pechi-no sulle orme di Gengis Khan”. Un lungo percorso da Mosca a Vladivostok sui treni

della leggendaria ferrovia, quello raccon-tato nelle pagine di “Sulla Transiberiana”. Un vero e proprio reportage di viaggio che ha origine dalla fascinazione di Buffa per la descrizione idilliaca della Siberia tratta da Dostoevskij. Con alcuni compagni di avventura contattati su internet, l’Auto-re parte per andare a vedere cosa c’è oltre gli Urali. Percorrerà più di 9200 chilome-tri attraverso sette fusi orari deviando dal tracciato della ferrovia per raggiungere il lago Baikal e addentrarsi, su un trabal-lante pulmino, nella steppa della remota Repubblica di Tuva ai confini con la Mon-golia. Viaggiare su treni lenti, dagli spazi angusti, dormendo nelle cuccette corte e strette in vagoni affollati e mangiando il cibo comprato alle fermate dalle babush-ke si rivelerà un’esperienza densa di sug-gestioni letterarie, storiche e soprattutto umane. Mentre le giornate scorrono pi-gramente a bordo del treno, sfilano sotto i suoi occhi le città siberiane sopravvis-sute alla distruzione della seconda guerra mondiale. Soste di pochi giorni o di poche ore che sono occasioni per entrare in con-tatto con affascinanti culture e tradizioni. Bellissime donne dagli occhi a mandor-la, nostalgici del comunismo e sostenitori del nuovo ordine, un cuoco stagionale che ha trovato lavoro a seimila chilometri da casa e un ex combattente della guerra di Cecenia. Tutti contenti di vivere in Sibe-ria dove fino a venticinque gradi sottoze-ro non è considerato freddo e solo oltre i quaranta i bambini non vanno a scuola. Giunto infine al mar del Giappone non gli resterà che tornare indietro riportando testimonianze, impressioni e colori di un

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Recensioni libri / Riviste internazionali

viaggio nel cuore e nella periferia del più grande paese del mondo che ancora oggi rimane in gran parte sconosciuto.Un percorso personale che consente al Lettore di guardare con gli occhi dell’Au-tore nella profondità di una terra tanto estesa quanto ancora poco conosciuta.

La Redazione

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Il Nodo di Gordio n. 12 - Settembre-Dicembre 2016

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BOARDThink tank "Il Nodo di Gordio"Scopri di più su: www.nododigordio.org

Daniele LazzeriChairman

@DanieleLazzeri

Franco CardiniDirettore Editoriale

Andrea LiorsiSenior Fellow

Augusto GrandiSenior Fellow

@augusto_grandi

Andrea MarciglianoSenior Fellow

@AndreaMarciglia

Carlo Marsili Senior Fellow

@carlo_marsili

Giulio PrigioniSenior Fellow

Gianni BoniniSenior Fellow

@GBonini50

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Board / Autori

Mario Bernardi GuardiSenior Fellow

Riccardo MiglioriSenior Fellow

Ezio FerranteSenior Fellow

Togrul IsmayilVisiting professor

@Togrul65

Mohamed ChtatouVisiting professor

@Ayurinu

Miguel Angel Otero TamayoVisiting professor

Alessandro BertirottiVisiting professor

@ABertirott

Elvio RotondoCountry analyst

@elvio_rotondo

Federico PrizziPolitical military affair analyst

Valeria GiannottaVisiting professor

@valegiannotta

Manuela DonghiMedia expert

@ManuelaDonghi

Marco CochiCountry analyst

@afrofocus

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Il Nodo di Gordio n. 12 - Settembre-Dicembre 2016

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Francesca OrestaAssociate analyst

@theorchestra18

Marcello CiolaAssociate analyst

@marcellociola

Antonciro CozziAssociate analyst

@to_nci

Kudret Altun Associate analyst

@drkudretaltun

Alessandro Marocchi Chief press officer

@marockers

Maurizio Beber Logistica e Organizzazione

Daniel CasarinStrategic & creative partner

@Daniel_Casarin

Giorgio FuoliLogistica e Organizzazione

Matteo MarsiniAssociate analyst

@maemarsii

Fabio L. GrassiCountry analyst

Massimiliano AvogadriCountry analyst

Giorgio BallarioCountry analyst

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Il Nodo di Gordio n. 12 - Settembre-Dicembre 2016

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Marlen BelgibayevMarlen Belgibayev is a research fellow at Wuhan University Centre of Economic Diplomacy.

Stephen BryenGià sottosegretario alla Difesa degli Stati Uniti d’America ed ex Presidente di Finmeccanica Nord America.

Marco FerrazzoliCapo Ufficio Stampa CNR

Matteo GerliniUniversità degli Studi di Firenze e Autore del libro “Il dirottamento dell’Achille Lauro e i suoi inattesi e sorprendenti risvolti” (Mondadori education 2016)

Nina KecojevicDi origine montenegrine, è laureata in Relazioni Internazionali (percorso: Pace, Guerra e Si-curezza). Ha svolto il tironcinio presso l’Ambasciata del Montenegro a Roma. Attualmente è stagista presso ADC ICTY (The Association of Defence Counsel practising before the Inter-national Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia). Studiosa di questioni di estremismo violento, radicalizzazione e jihadismo soprattuto nell’area balcanica.

Michela MercuriDocente di storia contemporanea dei Paesi del Mediterraneo all’Università di Macerata e di Geopolitica del Mediterraneo all’Università Niccolò Cusano di Roma

Manuel Moreno MinutoComando Flottiglia Sommergibili Servizio Addestramento Capo Reparto Operazioni

Irina OsipovaFondatrice e presidente dell’ass. RIM Giovani Italo Russi, Politologo presso Zentr Aktual’noj Politiki

AUTORIHanno collaborato in questo numero:

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Board / Autori

Vittorfranco PisanoCapo del Dipartimento di Scienze Informative per la Sicurezza dell’Università Popolare UNINTESS, ha prestato servizio con il grado di colonnello nello U.S. Army ed è stato consu-lente ed estensore di relazioni per commissioni del Congresso degli Stati Uniti

Maurizio RaeliDirettore del CIHEAM di Bari

Renato SartiniGiornalista scientifico e divulgatore. È esperto in comunicazione della conoscenza scientifica e tecnologica. In ambito comunicazione ha supportato la direzione operativa del MARS Cen-ter di Napoli e la presidenza del Polo High Tech di Napoli Est. È Presidente dell’Associazione Culturale Divulgo, per la disseminazione di temi di scienze, natura e tecnologie. www.renatosartini.it

Giampaolo ScardiaCapo Ufficio Stampa Nazionale di Federbalneari Italia

Amanda SchnetzerDirector of Global Initiatives at the George W. Bush Institute in Dallas, Texas. In this role, she is responsible for developing innovative research, programmatic, and policy efforts to advance societies rooted in political and economic freedom and to empower women to lead in their communities and countries.

Luca SteinmannGiornalista e docente universitario, è corrispondente in Italia del quotidiano svizzero “Il Cor-riere del Ticino” e collaboratore di diverse testate italiane e tedesche. Collabora con il Di-partimento di Relazioni Internazionali della facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano ed è costantemente inviato come reporter e ricercatore in diverse aree del globo. In Libano tiene dei corsi di giornalismo e comunicazione all’interno dei campi profughi palestinesi.

Xiaotong ZhangExecutive director of Wuhan University Centre of Economic Diplomacy and associate profes-sor of the School of Political Science and Public Administration of Wuhan University.

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Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017

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n. 1 Giugno 2012

Tutte le rottedi UlisseL’isola del Mondo e i suoi Mediterranei. Scenari del nuovo Grande Gioco

n. 2 Febbraio 2013

La spada di AlessandroNuove vie della seta e crisi mediorientale

n. 3 Settembre 2013

La Via delle CiviltàMercanti e Guerrierinel Cuore del Mondo

n. 4 Gennaio 2014

Il Mosaico globaleScenari di un mondo pericoloso

n. 5 Maggio 2014

Metamorfosidel GloboMutazioni e rivoluzioni della geopolitica

n. 6 Settembre 2014

War GamesGiochi di Guerra / Dossier Difesa

“IL NODO DI GORDIO”: LA COLLEZIONE

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n. 7 Gennaio 2015

Masters of TerrorI signori del Terrore

n. 8 Maggio 2015

Mari che unisconoItalia e Turchia, pilastri del Mediterraneo

n. 9 Ottobre 2015

I due voltidella mezzalunaÇanakkale: alle radicidella Turchia moderna

n. 10 Gennaio-Aprile 2016

Alleanze NecessarieCome reagire alla minac-cia globale

n. 11 Maggio-Agosto 2016

Soft power hard powerNuovi scenari lungo la Via della Seta

n. 12 Settembre-Dicembre 2016

Il valzerdelle potenzeDanzando sul Titanic

n. 13 Gennaio-Aprile 2017

Le tre TorriUsa, Cina e Russia: i tre polidello scacchiere geopolitico

SOFT POWERHARD POWERSOFT POWERHARD POWERNUOVI SCENARI LUNGOLA VIA DELLA SETA

Rivista quadrimestrale di geopolitica ed economia internazionale

n.Anno V

Maggio-Agosto 2016

11

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Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017

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Rivista quadrimestrale di geopolitica ed economia internazionale

Abbonamento annuale(3 numeri)

con spedizione postale

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in PDF

Italia

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Estero Italia ed Estero

Direttore Responsabile: DANIELE LAZZERI

Direttore Editoriale: FRANCO CARDINI

Board del think tank “Il Nodo di Gordio”:

MARIO BERNARDI GUARDI - GIANNI BONINI - FRANCO CARDINI AUGUSTO GRANDI - EZIO FERRANTE - DANIELE LAZZERIANDREA LIORSI - ANDREA MARCIGLIANO - CARLO MARSILIRICCARDO MIGLIORI - GIULIO PRIGIONI

Servizio Clienti

Abbonamento annuale

(3 numeri) euro 39,00

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Casella Postale:

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Pergine Valsugana (TN) 38057 - ITALY

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Pubblicità:

Adv Daniel Casarin

M. +39 345 5755352

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COLLANA MONOGRAFIE "VOX POPULI""IL NODO DI GORDIO"

1. Paolo Zammatteo, Codex wangianus.

La produzione dell’argento in Trentino, 2008 - pp. 126

e 10,00

2. AA.VV., Imperi delle Steppe. Da Attila a Ungern Khan, 2008 pp. 300 - e 19,00 (edizione limitata in cofanetto e 30,00)

3. AA.VV., Porte d’Eurasia. Il Grande Gioco

a vent’anni dalla caduta del Muro

di Berlino, 2009 pp. 255 + 22 p. appendice

fotografica e 24,00

4. Giorgio Fogazzi, Il Testamento, 2010 pp. 300 - e 19,00

5. Ermanno Visintainer, Ahmed Yassawi. Sciamano, sufi e letterato kazako, 2010

pp. 206 + 8 p. appendice fotografica

e 18,00

6. AA.VV., La profondità strate-gica turca nel pensiero di Ahmet Davutog lu, 2011

pp. 134 + 16 tavole illustrate e 16,00

8. Ermanno Visintainer, Andrea Marcigliano, L’Aquila nel Sole. Leadership e carisma

da Kul Tegin a Nursultan Nazarbayev, 2011

pp. 206 + 8 tavole illustrate e 18,00

7. Paolo Zammatteo, Dal codex wangianus all’essenza sulfu-rea, 2011

pp. 132 + 8 tavole illustrate e15,00

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11. AA.VV., Da Baikonur alle Stelle. Il Grande Gioco spaziale, 2013

pp. 208 - e 19,00

12. AA.VV., Viandanti tra due mondi.

Il taccuino turco di Othmar Winkler, 2014

pp. 172 - e 18,00

13. AA.VV., La Chiesa apostolica Albana.

Le radici di un simbolo dell'Azerbaigian, 2014

pp. 123 - e 18,00

14. Nursultan Nazarbayev, G-GLOBAL Il mondo

del XXI secolo, 2014 pp. 216 - e 18,00

15. Ermanno Visintainer, Ka-zakhstan: un tempo, uno spazio, un destino, 2015 pp. 192 - e 18.00

16. AA.VV., Il sogno di Marco Polo, proiezioni della

politica estera italiana dal Mediterraneo all’Asia Centrale, 2016

pp. 200 - e 18.00

17. AA.VV., Le nuove reti eurasiatiche.

Il futuro dell'Italia lungo la Via della Seta, 2016 pp. 214 - e 18.00

18. AA.VV., Terre degli Argonauti, l'autonomia del Trentino Alto Adige come modello per la convivenza tra i popoli, 2016

pp. 288 - e 25.00

Per ordinazioni: [email protected]

Sconto del 20% sul prezzo di copertina per gli abbonati alla rivista “Il Nodo di Gordio”

9. AA.VV., Oltre Lepanto. Dallo scontro di ieri all’intesa di oggi, 2012

pp. 288 + 16 tavole illustrate e 28,00

10. Francesco Roat, La pienezza del vuoto. Tracce

mistiche nei testi di Robert Walser, 2012

pp. 274 - e 15,00

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EURO 18,00


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