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I Timoni u 30
ISBN: 978-88-7615-586-4
Titolo originale: Au bal de la chance© 2003 L’ArchipelTutti i diritti riservatiPubblicato in accordo con Grandi & Associati
Traduzione dal francese di Federica Alessandri
I edizione: novembre 2011© 2011 Alberto Castelvecchi Editore SrlVia Isonzo, 3400198 RomaTel. 06.8412007 - fax 06.85865742www.castelvecchieditore.cominfo@castelvecchieditore.com
Cover: Sandokan Studio
Édith Piaf
Au bal de la chanceLa mia vita
Prefazione di Jean CocteauPostfazione di Fred MellaA cura di Marc Robine
Traduzione di Federica Alessandri
«Edith Piaf ha la bellezza dell’ombra che si esprime alla luce.Ogni volta che canta sembra che strappi la sua anima per l’ul-tima volta».
JEAN COCTEAU
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Introduzione
T’avais un nom d’oiseau et tu chantais comm’ centComm’ cent dix mille oiseaux
qu’auraient la gorge en sang…*
À une chanteuse morteLÉO FERRÉ
Con la sola eccezione di George Brassens e Jacques Brel, nes-
sun artista della canzone francese è mai stato oggetto di tante
opere come Édith Piaf. Biografie, memorie di persone che le so-
no state più o meno vicine, album fotografici, raccolte di aned-
doti non sempre verificabili o troppo fantasiosi, tentativi di
analisi tematiche, ecc. Alcuni autori ci sono tornati sopra anche
due, tre volte, tanto il filone si è dimostrato redditizio.
Oggi, possiamo contare più di cinquanta volumi su di lei, ai
quali occorre aggiungere alcune pubblicazioni straniere (Polo-
nia, Svezia, Gran Bretagna), a dimostrazione del fatto che la
gloria della Môme, la Ragazzina, ha raggiunto un’indiscutibile
fama universale, superando i confini della Francia.
La stessa Édith Piaf ha partecipato alla costruzione di questo
monumento bibliografico firmando due libri di memorie, inti-
tolati Au bal de la chance e Ma vie. La cantante non ha scritto di
suo pugno nessuno dei due, ma entrambi sono frutto di collo-
qui con un giornalista che si è poi incaricato di dare forma al-
* Avevi il nome di un uccello e cantavi come cento / Come centodieci-mila uccelli / dall’ugola insanguinata.
l’abbondante materiale grezzo, organizzandolo in un racconto
in prima persona, proprio come se la Piaf si fosse abbandonata
al riaffiorare dei ricordi.
Au bal de la chance, il libro che avete ora tra le mani, fu scrit-
to da Louis-René Dauven, giornalista di Radio-Cité e di «La
Vie Parisienne», esperto di storia del circo, e fu pubblicato per
la prima volta nella primavera del 1958, con una prefazione di
Jean Cocteau1.
Ma vie uscì in libreria all’inizio del 1964, tre mesi dopo la
morte della cantante2. Si tratta di una raccolta di articoli e di in-
terviste già pubblicate da Jean Noli all’interno del settimanale
«France-Dimanche», tra il 1961 e il 1963, rielaborati per l’occa-
sione per unificarne lo stile e donare loro una maggiore coeren-
za narrativa.
In entrambe le opere, molto materiale è frutto di fantasia. In
più occasioni, i due libri forniscono versioni radicalmente diver-
se dello stesso aneddoto o dello stesso episodio. Trasfigurazione,
esagerazione o pura e semplice deformazione della verità sono
sempre in agguato. E infatti Jean Noli, nella raccolta di memorie
che una decina di anni dopo la scomparsa dell’artista3 firmerà
con il proprio nome, spiega a più riprese come nessuno dei due
si fosse preoccupato più di tanto della veridicità storica, volendo
dare la precedenza alla possibilità di commuovere il lettore. In
questo modo i due complici hanno inventato o esasperato alcuni
episodi, che poi altri biografi hanno ripreso come fatti certi e che
ormai sono tra i miti più radicati della «leggenda Piaf».
Un esempio tra tutti: molto prima di diventare la Môme Piaf,
la «ragazzina passerotto», quando non era altro che una giova-
ne donna bisognosa, che cantava per strada per sopravvivere,
giorno per giorno, Édith ebbe una figlia di nome Marcelle. La
bambina visse soltanto diciotto mesi, prima di essere portata
ÉDITH PIAF
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via da una meningite fulminante4. Non avendo denaro per pa-
gare le spese delle esequie e non avendo la forza di cantare per
guadagnarlo, Édith riesce a farsi prestare qualche decina di
franchi dagli amici. Ma la somma non è neanche lontanamente
sufficiente, e per raggiungere la cifra richiesta la giovane non
ha altra risorsa che la prostituzione. «Un tizio che risaliva Rue
de Belleville dietro di me ha cercato di rimorchiarmi come se
fossi una prostituta. E io ho accettato. Sono salita con lui per
dieci franchi. Per seppellire la mia bambina!»5.
Per rendere il quadro ancora più straziante – e degno delle
canzoni cosiddette «realiste», ispirate alla vita di strada, che al-
lora costituivano il nocciolo del suo repertorio – in Ma vie rac-
conta l’episodio aggiungendovi una buona dose di pathos e sen-
timentalismo: commosso dalla storia della bambina, morta il
mattino stesso, il cliente la lascia andare senza pretendere nul-
la, regalandole i dieci franchi concordati.
Una versione edificante e melodrammatica, di cui Jean Noli
ci svela la genesi. Non dimentichiamo che all’epoca dell’intervi-
sta di Noli, Édith Piaf non è più l’anonima mendicante che stava
per essere scoperta da Louis Leplée, ma una stella la cui fama va
ben al di là dei confini dell’Europa. In poche parole, una delle
più grandi dive al mondo, ancora in attività.
«Temo, Édith, che se racconterà di essere andata a letto con quel-l’uomo, questa colpa potrebbe scioccare le lettrici…».«Ha ragione. Che suggerisce?».«Scriverò che, una volta salita in camera con lo sconosciuto, èscoppiata a piangere».«Va bene, e poi?».«Poi, il tizio le ha chiesto il motivo delle sue lacrime e lei gli haraccontato della morte di sua figlia. Allora l’uomo ha avuto pietàe le ha dato lo stesso il denaro senza toccarla, e se n’è andato».«Ha ragione. È meglio, anche sotto il profilo morale»6.
Noli ha aggiunto un ultimo commento, che la dice lunga sul po-
tere di autosuggestione di certe persone:
Qualche giorno dopo, tornando sull’episodio, Édith me lo rac-contò con il finale che le avevo suggerito io. «E lui non l’ha toccata, Édith?», le chiesi candidamente.«Neanche un capello. Era un gentiluomo».
In questo modo, Édith Piaf contribuirà a corroborare la mag-
gior parte delle leggende che hanno forgiato il suo mito, spesso
sembrando del tutto sincera. Come se alla fine si fosse convinta
anche lei che fosse tutto vero. È utile soffermarsi su questo pun-
to, perché senza dubbio non c’era in lei un desiderio cosciente
di ingannare, né di prendere in giro il suo pubblico, verso il qua-
le professerà sempre di provare il massimo rispetto, al punto di
cantare anche al limite delle proprie forze. È importante capire
che Édith Piaf non era un’imbrogliona, né una bugiarda. Era
una donna dotata di grande onestà e sincerità, con un lato senti-
mentale e un cuore semplice che la resero spesso vittima della
propria credulità. Vittima anche della voracità di chi, tra le per-
sone che le erano più o meno vicine, ha saputo abusare della
sua inesauribile generosità. Al punto da morire sommersa dai
debiti, lei che era stata una delle dive più pagate al mondo.
Questa complicità della stessa Piaf nella creazione di una mi-
tologia alla quale finirà per credere anche lei non è di per sé un
fenomeno raro. Sono diversi i personaggi pubblici e gli artisti a
cui piace correggere il tiro quando scrivono le loro memorie, o
affidano a una terza persona il compito di raccontare la loro in-
fanzia, gli esordi e il raggiungimento di quella gloria che ormai
non teme più di essere offuscata. Questi piccoli ritocchi alla sto-
ria, di solito, tendono all’idealizzazione o, peggio, cercano di
conservare un alone di mistero. Nel caso di Édith Piaf, si tende
ÉDITH PIAF
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sempre a un eccesso di pathos e all’insistenza sugli aspetti più
miserabili della vita, dietro i quali si scorge quello che si può de-
finire un innegabile masochismo. Oltre a una specie di idea di
rivalsa. Rivalsa sugli anni dolorosi dell’infanzia e sulla miseria
di un’adolescenza passata in strada, tra disperazione e fame.
Rivalsa anche nei confronti di una certa banalità della sofferen-
za: dopo una gioventù così, tanto vale calcare la mano sulla po-
vertà e sulle sventure e ricamare sulla miseria, per renderla an-
cora più patetica. Come a voler sottolineare il cammino percor-
so e accentuare, nei limiti del possibile, il contrasto tra l’umiltà
delle origini e le vette del successo.
Da più di mezzo secolo, il personaggio di Édith Piaf viene de-
scritto e sviscerato nel territorio compreso tra questi due estre-
mi, e distinguere il vero dal falso non è sempre un’impresa facile.
Il fatto che sia stata la cantante a dare credito alla maggior
parte delle invenzioni che hanno costruito la sua mitologia, e
che queste siano poi state abbondantemente divulgate dalla
stampa scandalistica, non facilita il lavoro dei biografi, che
sembrano copiarsi a vicenda senza sforzarsi troppo di verifica-
re le fonti, e senza il minimo tentativo di indagine. Tanto più
che queste leggende si adattano alla perfezione a quel mondo
di mascalzoni, ragazze di strada, militari in partenza per le co-
lonie, papponi senza scrupoli, Mômes de la cloche, le «ragazzi-
ne vagabonde», e passioni di una notte che costituirà il cuore
del repertorio della cantante, almeno durante la prima parte
della sua carriera.
Quando poi questa mitologia ottiene la convalida delle istitu-
zioni, al punto da finire incisa sul marmo delle lapidi comme-
morative, allora diventa ancora più difficile mettere in discus-
sione i fatti. Sopra l’ingresso dell’edificio che si trova al numero
72 di Rue de Belleville, a Parigi, ecco una lapide di marmo sulla
quale si legge:
Sui gradini di questa casa
il 19 dicembre 1915
nacque nella più grande indigenza
ÉDITH PIAF
la cui voce ha, poi,
sconvolto il mondo.
Questa nascita avvenuta per strada, in pieno inverno, abbelli-
ta con mille dettagli pittoreschi per farla sembrare più vera, è
uno dei momenti clou della leggenda Piaf.
Avvertendo i primi dolori del travaglio, la madre7 sarebbe
partita a piedi insieme al marito8 per recarsi all’ospedale ma,
colta di sorpresa dal parto, si sarebbe rifugiata in un atrio man-
dando Louis a cercare un’ambulanza. Questi, dopo aver fatto
numerose tappe nei bistrot del quartiere per festeggiare il lieto
evento, sarebbe tornato solo molto dopo la nascita della bambi-
na, mezzo ubriaco e, naturalmente, a mani vuote. Nel frattem-
po due agenti di polizia si sarebbero presi cura della donna,
stendendo le loro mantelle sul marciapiede, per evitare che la
madre e la neonata sentissero troppo freddo, mentre un’infer-
miera che abitava in zona avrebbe tagliato il cordone ombelica-
le con delle semplici forbici, ovviamente non sterilizzate.
Sembra proprio una canzone di Fréhel o di Berthe Sylva.
Come spesso accade, però, la realtà è ben più banale. Una
semplice visita agli archivi dell’ospedale Tenon, situato in Rue
de Chine a qualche centinaio di metri da Rue de Belleville, basta
per scoprire che – registro alla mano – in quel famoso 19 dicem-
bre 1915 una certa Anita Maillard, sposata Gassion, ha dato alla
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luce una bambina di nome Édith Giovanna, messa al mondo
dal dottor Jules Defleur, assistito dal medico Jacques Goviet e
dalla levatrice Jeanne Groize.
Che dire di più? Si potrebbe citare una delle ultime battute del
magnifico western di John Ford, L’uomo che uccise Liberty Va-
lance: in questo classico il personaggio principale, interpretato
da James Stewart, rivela al giornalista che lo sta intervistando
che la sua reputazione e la brillante carriera politica che ne è de-
rivata si basano su un malinteso, un imbroglio: non è lui l’uomo
che ha ucciso il sanguinario Liberty Valance che, molti anni pri-
ma, terrorizzava la regione. Strappando davanti a lui il testo del-
l’intervista, il redattore capo del giornale locale dice: «Qui siamo
nel West. Se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda».
Lo stesso varrà sempre anche per la vita di Édith Piaf. Una cosa
che forse potrebbe anche averla infastidita, alla fine. Ma sembra
solo in modo inconscio, poiché lei stessa non smise mai di diffon-
dere queste storie, tanto che, come abbiamo visto, era arrivata
addirittura a crederci. Un pizzico di consapevolezza doveva es-
serci, però, se arrivò a dire: «Quando morirò, si saranno dette tal-
mente tante cose su di me che nessuno saprà davvero chi ero»9.
Au bal de la chance è stato il primo dei tanti libri pubblicati
sulla vita della Piaf, e uno dei due usciti mentre la cantante era
ancora in vita10. Rispetto a tutto ciò che è stato scritto in seguito
sull’artista, contiene relativamente poche stravaganze, ad ecce-
zione della storia della nascita sui gradini di Rue de Belleville,
ma sulla quale la cantante non si sofferma più di tanto. Per il re-
sto, si tratta soprattutto di piccole deformazioni dei fatti, che
potrebbero essere imputate a una memoria imprecisa, di omis-
sioni volontarie con lo scopo di preservare la propria vita priva-
ta oltre che quella di un certo numero di uomini che hanno at-
traversato la sua esistenza, o di piccoli abbellimenti di aneddoti
nell’insieme piuttosto veritieri. Niente di redibitorio, quindi, in
quest’opera di piacevole lettura dove Édith si concede in modo
brillante e gustoso, preferendo non insistere troppo su coloro
che l’hanno ferita, per esprimere invece il proprio affetto e la
propria ammirazione verso i suoi amici più cari, o verso quelle
cantanti che per alcuni dovevano essere sue pericolose rivali:
Damia, Fréhel, Marie Dubas, ecc.
Senza considerare il fatto che non facevano neanche parte
della stessa generazione (quasi tutte avevano già raggiunto l’api-
ce della loro carriera quando la Môme Piaf era solo al debutto11),
Édith non perderà mai occasione di esprimere pubblicamente il
rispetto assoluto che provava per loro, oltre a quanto sentisse di
essere loro debitrice. Ecco un aneddoto rivelatore: il 3 luglio
1953 Marie Dubas ed Édith si incontrano a Metz, dove dovevano
cantare entrambe. All’epoca, la Piaf è già una star conosciuta in
tutto il mondo, soprattutto negli Stati Uniti, mentre la Dubas,
pur essendo riconosciuta come un «monumento della canzo-
ne», seguiva il Tour de France di città in città per esibirsi ad ogni
tappa. Le due donne si incontrano dopo i rispettivi spettacoli.
Durante la conversazione si accorse che le davo del lei. Me lo fecenotare.«Non mi dai del tu, Édith?».«No Marie», le ho risposto. «L’amo troppo. Mi sembrerebbe di ro-vinare qualcosa…»12.
Questa era Édith Piaf. Senza dubbio la più grande cantante di
tutta la storia della canzone francese. Ma, soprattutto, una don-
na mirabile e dal cuore tanto grande che, come dirà giustamen-
te Guy Béart: «Era una fiamma che si consumava illuminando
gli altri».
ÉDITH PIAF
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In Au bal de la chance Édith Piaf e Louis-René Dauven scelse-
ro di cominciare il racconto al momento dell’incontro tra quella
che era solo un’anonima cantante di strada e Louis Leplée, l’uo-
mo che le offrirà la prima vera opportunità facendola debuttare
nel suo cabaret, il Gerny’s, dopo averle trovato il primo nome
d’arte: la Môme Piaf. Siamo nell’ottobre del 1935, la ragazza
compirà vent’anni qualche settimana più tardi: una ventina
d’anni che nel libro vengono evocati solo attraverso piccoli
frammenti o brevissimi flashback, ma che restano comunque
essenziali per comprendere il personaggio, la sua evoluzione e
quell’inesauribile desiderio di vivere, di amare ed essere amata
che farà dire a Bruno Coquatrix: «Si è vendicata per tutta la vita
di una spaventosa gioventù».
Spaventosa. L’aggettivo non è per nulla esagerato, sebbene la
situazione sia stata rischiarata anche da qualche istante di rela-
tiva felicità.
Al momento della nascita di Édith Giovanna Gassion, il 19 di-
cembre 1915, l’Europa è devastata da una delle guerre più terri-
bili della Storia dell’umanità. Gli uomini sono al fronte, sepolti
nelle buche delle trincee, mentre nelle retrovie i civili si barca-
menano come possono per sopravvivere.
Anita Maillard, detta Line Marsa, è una cantante di strada.
Figlia d’arte, originaria della Cabilia, sua madre è un’artista del
circo che presenta un numero con le pulci, con lo pseudonimo
di Aïcha13. Il suo diciannovesimo compleanno coincide con la
mobilitazione generale, e lo stesso giorno sposa14 un acrobata
contorsionista incontrato alla Fiera di Parigi, Louis Gassion, un
uomo molto bello che ha grande fortuna con le donne.
Quando la moglie Anita lo informa che si avvicina il giorno
del parto, Louis fa di tutto per ottenere un permesso. Sebbene
fosse arrivato a Parigi qualche giorno prima della fatidica data,
non si può affermare con certezza che fosse presente all’ospeda-
le Tenon al momento della nascita della figlia: forse si trovava
davvero a festeggiare l’evento in qualche bar del quartiere.
La bambina, che nasce in un giorno così vicino alla vigilia di
Natale, viene battezzata Édith Giovanna. Édith in onore di
Edith Cavell, un’infermiera inglese che viveva in Belgio, fucilata
dai tedeschi il 12 ottobre 1915 per aver organizzato l’evasione di
numerosi alleati feriti che si trovavano nel suo ospedale. All’e-
poca, il caso fece molto scalpore e la coraggiosa infermiera di-
venne una specie di eroina del popolo. Quanto a Giovanna, no-
me che la Piaf detesterà sempre, deriva, secondo una pratica
molto diffusa a quei tempi, dal secondo nome della madre, nata
in Italia pur non avendo alcun familiare di origine italiana.
Qualche giorno dopo la nascita di Édith, Louis Gassion riparte
per il fronte. Tornerà solo nel 1917, quando otterrà un nuovo per-
messo. La figlia comincerà presto ad essere un peso per la madre
che, non avendo altra risorsa che il canto, non sa che farsene di
quel fardello. Per essere più libera nei movimenti affida la bambi-
na alla nonna Aïcha, che abita in una catapecchia in Rue Rébe-
val, un’arteria stretta e sinuosa che interseca Rue de Belleville in
prossimità del famoso civico 72. Malgrado le origini algerine, i
precetti del Corano non hanno impedito ad Aïcha di spro fondare
nell’alcolismo più nero. Quando Louis Gassion ritorna a Parigi
dopo due anni di assenza, scopre con sgomento che i biberon del-
la figlia sono allungati col vino rosso; la scusa: fortifica i bambini
e uccide i microbi. Inoltre, la figlioletta è straordinariamente ma-
gra e sporca: non solo viene mandata a piedi scalzi sia d’estate
che d’inverno, ma è anche coperta di parassiti e di croste.
Decide allora di affidarla alla propria madre, Louise, che abi-
ta a Bernay nel dipartimento dell’Eure, dove l’ambiente sarebbe
ÉDITH PIAF
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stato migliore per quella cosetta scheletrica che è diventata la
piccola Édith. Proveniente da una famiglia numerosa (aveva
più di venti fratelli), Louise, che ha avuto quattordici figli, lavo-
ra come cuoca in un bordello tenuto da una sua cugina. Baste-
rebbe questo per far venire in mente una di quelle canzoni che
definiamo «realiste». Le prostitute della casa sono entusiaste
dell’arrivo della piccola, sulla quale possono riversare il proprio
istinto materno troppo spesso frustrato. E per Édith è un perio-
do felice. Tutti si occupano di lei e la coccolano. Una foto dell’e-
poca mostra una bella bambina con le guance piene e lo sguar-
do immenso, che posa come una modella con un bel fiocco tra i
capelli. Tuttavia, a causa di una cheratite trascurata, Édith sem-
bra quasi aver perso la vista. Tutta Bernay si sente coinvolta. Un
dottore, cliente abituale della casa di Rue Saint-Michel, le pre-
scrive un collirio e le fa indossare una benda nera, che dovrà
portare per diverse settimane. La porterà per mesi.
Il grande poeta inglese William Blake diceva che «i bordelli
[si costruiscono] con i mattoni della religione». Niente di più
vero in questo caso. Malgrado gli anatemi del parroco, le ospiti
di Rue Saint-Michel sono molto devote. Al punto che, determi-
nate a dare un aiutino di natura divina alla medicina degli uo-
mini, decidono insieme a Louise di organizzare un pellegrinag-
gio a Lisieux. La scena è degna de La casa Tellier di Maupassant:
il giorno stabilito, le signore indossano i loro abiti migliori,
chiudono la casa e partono con il carretto per andare a pregare
santa Teresa di restituire la vista alla loro protetta.
Qualche settimana dopo, il trattamento del dottore libertino
dà i suoi frutti ed Édith può finalmente togliere la benda. Ci vede!
Tutti, o meglio tutte, gridano al miracolo e lodano santa Teresa.
Questo è il secondo momento fondante della leggenda Piaf.
Un «miracolo» al quale crederà anche lei, al punto che non si se-
parerà mai dal ritratto della santa, alla quale si rivolgerà prima
di ogni avvenimento decisivo della sua vita – come, ad esempio,
una prima all’Olympia o gli incontri importanti di Marcel Cer-
dan –, né dalla medaglietta con l’effigie, della sua protettrice che
porterà al collo fino alla morte. Con l’andare del tempo, delle in-
terviste, degli articoli scandalistici e delle biografie, la semplice
cheratite si trasforma in una completa cecità. La stessa Édith
parlerà del tempo in cui era «cieca», e il «miracolo» verrà defi-
nitivamente registrato come tale.
Dopo aver ritrovato la vista, la bambina inizia a frequentare
la scuola Paul-Bert di Bernay, fino al giorno in cui il padre non
torna a prenderla per farla partecipare al suo spettacolo ambu-
lante. All’epoca Édith ha solo sette anni e non è capace di fare
nulla che possa distrarre le folle, ma Louis Gassion pensa che
far passare con il cappello una bambina così piccola possa com-
muovere il pubblico e aumentare le entrate.
Nelle pagine che state per leggere, Édith Piaf confessa pudi-
ca: «Papà Gassion non era un tenerone. Ho avuto la mia dose
abbondante di scapaccioni. Ma sono sopravvissuta». In effetti,
tutte le varie testimonianze su quel periodo concordano nel
confermare che l’acrobata aveva la mano pesante, e che Édith si
lasciava picchiare più spesso del dovuto. È una circostanza
molto importante, poiché si tratta di un’«abitudine» della quale
non riuscirà mai a disfarsi… E non è certo per caso o per como-
dità di linguaggio che prima abbiamo evocato l’innegabile ma-
sochismo della cantate.
Spesso si ritrovavano a dormire all’aperto, o nel retro di qual-
che bistrot; a volte in qualche squallida stanza d’albergo, se l’e-
lemosina era stata abbondante o quando Louis Gassion trovava
compagnia per la notte. Padre e figlia vissero per otto anni un’e-
sistenza da bohémien, avventurosa e miserabile, senza poter
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mangiare ogni volta che avevano fame, ma col vino e il cattivo
cognac sempre a disposizione per riscaldarsi quando il freddo
diventava troppo intenso. Un po’ alla volta la ragazzina si abitua
all’alcol a un’età in cui di solito ci si accontenta di sciroppo di
melassa allungato con l’acqua.
Pare che sia stato un po’ per caso, nel corso degli anni di vaga-
bondaggio, che Édith ha scoperto il potere della sua voce sulla
gente. Fatto sta che dopo la prima prova, padre e figlia si accor-
gono che gli incassi sono migliorati. Édith, quindi, inizia a can-
tare alla fine di ogni rappresentazione, appena prima di passare
con il cappello, diventando sempre più sicura di sé e ampliando
il suo repertorio di motivi alla moda. Resterà con il padre anco-
ra per qualche tempo, finché non deciderà, all’età di quindici
anni, che è arrivato il momento di volare con le proprie ali.
Gli anni che seguono sono pieni di difficoltà. Édith vive alla
giornata, cantando per la strada o nei cortili dei palazzi, in com-
pagnia della sua amica Momone15. Gli inverni, in particolare, so-
no più duri perché le finestre delle case restano chiuse, e cantare
nei cortili è inutile. Restano solo le strade, a patto però di evitare
i poliziotti, che non amano gli assembramenti, disperdono il
pubblico e usano la forza per far sgombrare i saltimbanchi.
Per aggirare il problema, a Édith viene l’idea di andare a can-
tare nelle caserme. Certo, ogni volta bisogna chiedere l’autoriz-
zazione al colonnello, ma quando la ottiene il pubblico è assicu-
rato e la sala dove ha luogo lo spettacolo, cantina o refettorio
che sia, è riscaldata.
L’adolescente sta vivendo il pieno risveglio della sua sessua-
lità e quegli uomini ben nutriti, puliti e virili, con le loro unifor-
mi da marinai, legionari o spahi, la turbano. Non serve andare
lontano per rintracciare l’origine della figura della «ragazza del
soldato» che Édith coltiverà per tutta la vita e che ritorna spesso
nelle sue canzoni.
Nella primavera del 1932 va a vivere con un giovane fattori-
no, Louis Dupont, dal quale avrà presto una figlia di nome Mar-
celle. La paga di P’tit Louis non basta a soddisfare i bisogni di
tre bocche da sfamare, perciò Édith torna a cantare sulla strada
con la neonata in braccio. Se la scena a prima vista potrebbe
sembrare eccessivamente melodrammatica, appare più com-
prensibile se pensiamo a come la giovane cantante debba aver
sofferto per l’abbandono da parte della madre; Édith non ha
nessuna intenzione di separarsi dalla sua figlioletta.
Tuttavia, malgrado la buona volontà da cui sono animate, né
Édith né Momone sono in grado di occuparsi come si deve di un
neonato: e come avrebbero potuto, non avendo mai conosciuto
una vera famiglia ed essendo loro stesse poco più che due ragaz-
zine? Dopo meno di diciotto mesi la piccola Cécelle muore per
una meningite fulminante. Già minato dalle infedeltà di Édith,
il rapporto con P’tit Louis non sopravvive alla tragedia e il ra-
gazzo sparisce per non tornare mai più. Senza un soldo per pa-
gare le spese del funerale, Édith è costretta a prostituirsi per po-
ter seppellire la figlioletta: abbiamo già visto come la vicenda,
ingentilita da Jean Noli, diventerà uno dei passaggi clou della
leggendaria storia della cantante.
Ormai Belleville è troppo piena di brutti ricordi, e la ragazza
sente il bisogno di cambiare aria; decide di trasferirsi a Pigalle.
Le sue frequentazioni allora cambiano del tutto, e si ritrova a
far parte del mondo della malavita. Non quello dei criminali di
alto livello, ma quello dei piccoli magnaccia senza arte né parte,
degli squallidi teppistelli, dei rapinatori occasionali, dei borseg-
giatori… Un protettore di cui diventa l’amante cerca di metterla
sul marciapiede. Ma la ragazza riesce a tenere duro fino a con-
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cludere un accordo particolare: continuerà a cantare per le stra-
de, perché è l’unica cosa che ha intenzione di fare, ma ogni sera
sarà tenuta a versare al protettore la stessa somma di una pas-
seggiatrice in buona salute.
Gli anni a Pigalle avranno grande peso nella vita di Édith.
Non solo perché queste sue conoscenze nel mondo della mala-
vita le verranno rimproverate dalla polizia all’indomani della
morte di Louis Leplée, o perché una parte della stampa le utiliz-
zerà senza scrupoli per i suoi scoop. Ma soprattutto perché, nel-
l’ambito della propria creatività, svilupperà una mitologia per-
sonale che idealizzava le figure del ragazzaccio e della donna di
strada, al punto di farne due archetipi di eroe popolare, simboli
di un certo concetto di libertà, un po’ come aveva fatto Aristide
Bruant alla fine del secolo precedente.
D’altro canto, grazie alle sue nuove conoscenze, la cantante
ottiene i primi ingaggi nei locali di Pigalle, come il Juan-les-
Pins, il Tourbillon o lo Chantilly, o alle feste popolari dove si esi-
bisce con i più svariati pseudonimi, come Tania, Denise Jay o
Huguette Hélia.
Tuttavia, anche se quel periodo finirà presto, Édith appartie-
ne alla strada. E infatti non perde occasione per tornarci, anche
tra un ingaggio e l’altro, ogni volta che sente il bisogno di farsi
una cantatina respirando l’aria del marciapiede.
E sarà proprio la strada a regalarle la grande opportunità del-
la sua vita, quel colpo del destino che deciderà del suo futuro;
come sanno bene i veri giocatori, le carte che all’inizio sembra-
no pessime si possono trasformare in una mano vincente.
La scena si svolge nel corso di un pomeriggio d’ottobre del
1935. Dopo poco meno di due mesi Édith compirà vent’anni.
Quel giorno lei e Momone hanno deciso di fare un giro nei quar-
tieri più ricchi e si sono piazzate all’angolo tra Rue de Troyon e
Avenue Mac-Mahon, a un passo da Place de l’Étoile. Tra i curio-
si che si assembrano intorno a loro c’è anche un uomo elegante,
che ascolta con particolare attenzione e approfitta del momen-
to in cui Momone si allontana con il cappello per presentarsi…
Ma non priviamoci del piacere di ascoltare il seguito dalla
bocca di Édith…
MARC ROBINE
ÉDITH PIAF
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Prefazione
Ho sempre apprezzato la disinvoltura con la quale Stendhal
utilizza la parola genio. Trova del genio in una donna che sale in
carrozza, in una che sa come sorridere, in un giocatore di carte
che lascia vincere l’avversario. In poche parole, riporta il termi-
ne con i piedi per terra. Con questo intendo dire che quelle don-
ne e quel giocatore incarnano per un secondo tutte le potenze
confuse che compongono la grazia, portandole all’estremo.
Permettetemi di imitare Stendhal per dire che la signora Édith
Piaf possiede del genio. È inimitabile. Non ce ne sono mai state
altre come Édith Piaf e non ce ne saranno più. Come Yvette
Guilbert o Yvonne George, come Rachel o Réjane, è una stella
che si consuma nella solitudine notturna del cielo di Francia. Le
coppie abbracciate che sanno ancora amare, soffrire e morire
contemplano lei.
Guardate questa personcina minuta le cui mani sono simili a
quelle di una lucertola. Guardate la sua fronte degna di Bona-
parte, gli occhi ciechi che hanno appena ritrovato la vista. Co-
me canterà? In che modo si esprimerà? Come riuscirà a far
uscire da quel piccolo petto gli enormi lamenti della notte? Ec-
cola che canta o, meglio, che come l’usignolo in aprile si eserci-
ta nel suo canto d’amore.
Avete mai sentito un usignolo all’opera? Si sforza. Esita. Grat-
ta. Si strozza. Si butta e ricade. E poi all’improvviso lo trova. Vo-
calizza. Sconvolge.
Édith Piaf, sondando se stessa e il suo pubblico, ha trovato
molto presto il suo canto. Ed ecco che una voce che viene dalle
viscere, che la abita dalla testa ai piedi, srotola una grossa onda
di velluto nero. Quest’onda calda ci sommerge, ci attraversa, pe-
netra in noi. Il gioco è fatto. Édith Piaf diventerà invisibile an-
che lei, come l’usignolo invisibile posato sul ramo. Di lei reste-
ranno solo lo sguardo, le mani pallide, la fronte di cera che cat-
tura la luce e la voce che si gonfia, che sale, sale, che un po’ alla
volta si sostituisce a lei e che, crescendo come la sua ombra sul
muro, prenderà gloriosamente il posto di questa timida ragaz-
zina. Ora il genio di Édith Piaf diventa visibile e tutti lo possono
contemplare. Si supera. Supera le proprie canzoni, ne supera la
musica e le parole. Supera anche noi. L’anima della strada pe-
netra in tutte le stanze della città. Non è più la signora Édith
Piaf a cantare: è la pioggia che cade, il vento che soffia, il chiaro
di luna che stende la sua tovaglia. La «bocca dell’ombra». Sem-
bra che Victor Hugo abbia inventato questa espressione pen-
sando a questa bocca di oracolo.
ÉDITH PIAF
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Indice
Introduzione 7Prefazione 23
AU BAL DE LA CHANCE 25
Postfazione 177Note 181Ringraziamenti 189
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