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Date post: 12-Mar-2016
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DOSSIER: MAN BASSA SUI SALARI – alle pagine 15-19 Pubblicazione mensile supplemento al numero odierno de il manifesto euro 1,50 in vendita abbinata con il manifesto n. 2, anno XIX, febbraio 2012 sped. in abb. postale 50% Sommario dettagliato a pagina 2 n n n Recensioni e segnalazioni ALLE PAGINE 22 E 23 n n n n La nuova destra in Ungheria J. M. TAMáS n La febbre di Taiwan MARTINE BULARD n La dinastia Kim in Corea del nord BRUCE CUMINGS n Chi vuol strangolare l’Onu ANNE-CéCILE ROBERT n La finanza che affama i popoli JEAN ZIEGLER n Tre ipotesi per un Big Bang AURéLIEN BARRAU n L’ostinata resistenza dei sahrawi OLIVIER QUARANTE n La rete di Anonymous FELIX STALDER T RA LE RIVENDICAZIONI dei militanti del movimen- to Occupy Wall Street, ce n’è una che affonda profondamente le sue radici nella storia degli Stati uni- ti: stabilire un tetto per i redditi alti. Dall’epoca dorata del dopoguerra civile americano, le grandi mobilita- zioni a favore della giustizia econo- mica hanno sempre riproposto que- sta richiesta, oggi chiamata «salario massimo». La formula, che non si ri- ferisce solo al salario, ma alla totalità dei redditi annui, permette di creare un legame di contiguità con la nozio- ne di «salario minimo». È il filosofo Felix Adler – noto so- prattutto per avere fondato e presiedu- to, all’inizio del XX secolo, il National Child Labor Committee – che, per pri- mo, ha avanzato questa rivendicazio- ne. Riteneva che fosse lo sfruttamento dei lavoratori, giovani e vecchi, a pro- durre quelle immense fortune private che esercitano un’ «influenza corrut- trice» sulla vita politica americana. Per porvi un freno, proponeva di rea- lizzare una fiscalità fortemente pro- gressiva che, oltre una certa soglia, ar- rivasse anche al 100% d’imposizione. Un tasso che avrebbe lasciato all’in- dividuo «tutto ciò che può veramente servire alla realizzazione di una vita umana» e gli avrebbe tolto «ciò che è destinato allo sfoggio, alla superbia, al potere» (1). Mentre la povertà solleva unanime indignazione – com- batterla è il solo modo per rendere il mondo più giusto -, raramente si percepisce la ricchezza come un proble- ma. Ma la tempesta finanziaria fa riemergere il legame tra l’una e l’altra. Insieme all’idea nata negli Stati uniti più di un secolo fa di porre un tetto ai redditi più alti. A NCHE SE è sempre difficile mettere a confronto i processi decisionali in politica, il fatto che l’Iraq e la Siria siano stati con- trollati dal partito Baath (il primo dal 1968 al 2003, la seconda dal 1970) (1) e che abbiano avuto gli stessi ri- ferimenti ideologici permette di in- dividuare alcuni tratti comuni. I due regimi hanno creato una burocrazia centralizzata comprendente i servizi di sicurezza e dominata dal presidente. Tanto a Baghdad quanto a Damasco, i vari settori del partito Baath hanno agito come strumenti di controllo delle masse. Trascrizioni delle riunioni del consiglio del comando regionale del partito e registrazioni del Consiglio di comando della rivoluzione (Ccr) diret- to da Saddam Hussein danno un’idea del modo sorprendente con cui si pren- devano le decisioni a Baghdad. Il sistema funzionava con pochi ordini scritti. I dirigenti del partito, i membri del Ccr e gli ufficiali superiori partecipavano ai dibattiti; ma se Sad- dam Hussein si mostrava «non con- vinto» dai loro argomenti, la proposta iniziale rimaneva immutata. Questo modo di procedere per imposizione dall’alto era ancora più rigido in cam- po militare, malgrado la totale incom- petenza nel settore del presidente ira- cheno (al contrario di suo padre, Hafez Al-Assad, neppure Bashar Al-Assad ha una formazione militare). La struttura piramidale favoriva una crescente avversione per le cat- tive notizie – da questo punto di vi- sta, Saddam Hussein assomigliava a molti altri tiranni nel mondo. Durante un meeting in piena guerra del Golfo (1991), in presenza di alti responsa- bili militari, egli ostenta tutto il suo sdegno nei confronti di chi esprime dubbi sulle capacità del paese: «Non MECCANISMI AUTORITARI IN IRAQ E IN SIRIA Per decenni, in Iraq e in Siria, Saddam Hussein e Hafez Al-Assad – poi suo figlio Bashar – hanno esercitato un potere assoluto. Reprimendo ogni forma di opposizione e mettendo a tacere i dis- sidenti anche all’interno del regime, hanno reso impossibile qualsiasi dibattito reale sulle scelte strategiche. Incensati da media prezzolati, i tiran- ni non sono più in grado di valutare né la propria popolarità né realtà internazionali complesse, il che li porta a prendere decisioni disastrose. N EL 1997 il nostro giornale ha divulgato l’idea di una tassa sulle transazioni finanziarie (1); se allora que- ste ultime ammontavano a 15 volte la produzione an- nua mondiale, oggi sono arrivate a quasi 60 volte. Quindici anni fa ancora non si parlava di prestiti subprime, e nessuno immaginava una crisi del debito sovrano in Europa. Per la maggior parte dei socialisti europei, invaghiti del primo mi- nistro britannico Anthony Blair, la parola d’ordine era l’«in- novazione finanziaria». Negli Stati uniti il presidente William Clinton si preparava a incoraggiare le banche dei depositi a speculare col denaro dei loro clienti; e dal canto suo Nicolas Sarkozy, che stravedeva per il modello americano, sognava prestiti subprime in salsa francese…. Com’è facile immaginare, nel 1997 la Tobin tax non aveva buona stampa: andava tutto così bene! Il ministro dell’eco- nomia e delle finanze francese, Dominique Strauss Kahn, non esitò a bollarla come impraticabile, e Sarkozy decre- tò: «L’idea della Tobin tax è un’assurdità (...) Ogni qualvolta penalizziamo la creazione di ricchezza sul nostro territorio, non facciamo altro che favorirla altrove (2).» Poi, non appena eletto presidente della Repubblica, incaricò il suo ministro dell’economia e delle finanze, Christine Lagarde, di soppri- mere un’imposta sulle operazioni in borsa. Ecco come la dirigente del Fondo monetario internazionale ha giustifica- to questo provvedimento: «È una misura che ha contribu- ito a rendere Parigi più attraente come piazza finanziaria». Altrimenti – avvertiva poi, «l’esecuzione di un certo numero di ordini [sarebbe partita] dalle piazze di altri paesi, che da tempo hanno abolito questo tipo di imposta (3)». Da allora gli eventi evidenziano l’incuria dei responsabili politici che speravano di approfittare dell’«innovazione finanziaria» at- traverso il dumping fiscale. Gli Stati hanno salvato le ban- che senza altra contropartita che quella di spuntare profitti ancora più corposi. Ma mentre nessuna decisione veniva presa contro la finanza, si faceva a gara a chi sbandierava le proclamazioni più roboanti contro il «denaro re». Oggi, negli Stati uniti persino i candidati repubblicani ultraconservatori inveiscono contro i «falchi» di Wall Street, che «sottraggono tutto il denaro alle vostre imprese e vi trascinano al fallimen- to portandosi via milioni [di dollari] (4)». Non c’è dunque da sorprendersi se Sarkozy, a quattro mesi dalla scadenza del suo mandato, afferma di voler «chiamare la finanza a parte- cipare alla riparazione dei guasti che a provocato». Dimenti- cata così l’«assurdità» di una tassa sulle transazioni finanzia- rie, si sta dissipando anche il timore che le uova d’oro della speculazione vadano a schiudersi all’estero. Potremmo continuare anche noi ad accontentarci di «get- tare sabbia negli ingranaggi della finanza», come proponeva l’economista James Tobin. Ma poiché è oramai acquisita la nozione che quest’ultima rappresenta un bene pubblico vitale, che gli azionisti usano volentieri per tenere in ostag- gio la collettività, dobbiamo fare anche noi un passo avanti. Esigendo che le banche cessino di appartenere a interessi privati. (1) Si legga Ibrahim Warde, «Il progetto della Tobin tax, bestia nera degli speculatori, bersaglio dei censori», e Ignacio Ramonet, «Disarmare i mercati», Le Monde diplomatique/il manifesto, rispettivamente feb- braio 1997 e dicembre 1997. (2) France 2, 7 giugno 1999. (3) Dibattito al Senato, 23 novembre 2007. (4) Newt Gingrich, «Today Show», NBC, 9 gennaio 2012. Attualità della Tobin tax RINASCITA DI UN’ESIGENZA Stabilire un tetto per i redditi ENRICO BAJ Generale trombettiere, 1960 continua a pagina 16 * Ricercatore associato all’Institute for Po- licy Studies (Washington DC) e capore- dattore del sito Too Much (http://toomu- chonline.org). Autore di The Rich Don’t Always Win: The Forgotten Triumph Over Ploutocracy, 1900-1970, That Created the Classic American Middle Class, Seven Stories Press, New York, in uscita a fine 2012. (1) Felix Adler, «Proposing a system of graded taxation», The New York Times, 9 febbraio 1880. * Ricercatore associato all’Institute for Policy Studies (Washington DC) e caporedattore del sito Too Much (http://toomuchonline. org). Autore di The Rich Don’t Always Win: The Forgotten Triumph Over Plou- tocracy, 1900-1970, That Created the Clas- sic American Middle Class, Seven Stories Press, New York, in uscita a fine 2012. (1) Creato in Siria nel 1943 da un piccolo gruppo di intellettuali e diretto da Michel Aflak, un cristiano, e da Salah Al-Din Al-Bitar, un mu- sulmano sunnita, il Baath (parola che signifi- ca «resurrezione») si vedeva come un partito arabo più che siriano e aspirava all’unità della nazione araba. di JOSEPH SASSOON* di SAM PIZZIGATI * Così decidono i tiranni di SERGE HALIMI continua a pagina 9
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Page 1: lemondedip

dossier: MAN BAssA sUi sALAri – alle pagine 15-19

Pubblicazione mensile supplemento al numero odierno de il manifesto

euro 1,50 in vendita abbinata con il manifesto

n. 2, anno XiX, febbraio 2012 sped. in abb. postale 50%

Sommario dettagliato a pagina 2

n n n

Recensioni e segnalazionialle pagine 22 e 23

n n n

n La nuova destra in Ungheria J. M. TAMás

n La febbre di Taiwan MArTiNe BULArd

n La dinastia Kim in Corea del nord BrUce cUMiNgs

n Chi vuol strangolare l’Onu ANNe-céciLe roBerT

n La finanza che affama i popoli JeAN ZiegLer

n Tre ipotesi per un Big Bang AUréLieN BArrAU

n L’ostinata resistenza dei sahrawi oLivier QUArANTe

n La rete di Anonymous FeLiX sTALder

Tra le rivendicazioni dei militanti del movimen-to Occupy Wall Street, ce n’è

una che affonda profondamente le sue radici nella storia degli Stati uni-ti: stabilire un tetto per i redditi alti. Dall’epoca dorata del dopoguerra civile americano, le grandi mobilita-zioni a favore della giustizia econo-mica hanno sempre riproposto que-sta richiesta, oggi chiamata «salario massimo». La formula, che non si ri-ferisce solo al salario, ma alla totalità dei redditi annui, permette di creare un legame di contiguità con la nozio-ne di «salario minimo».

È il filosofo Felix Adler – noto so-prattutto per avere fondato e presiedu-to, all’inizio del XX secolo, il National Child Labor Committee – che, per pri-mo, ha avanzato questa rivendicazio-ne. Riteneva che fosse lo sfruttamento dei lavoratori, giovani e vecchi, a pro-durre quelle immense fortune private che esercitano un’«influenza corrut-trice» sulla vita politica americana. Per porvi un freno, proponeva di rea-lizzare una fiscalità fortemente pro-gressiva che, oltre una certa soglia, ar-rivasse anche al 100% d’imposizione. Un tasso che avrebbe lasciato all’in-dividuo «tutto ciò che può veramente servire alla realizzazione di una vita umana» e gli avrebbe tolto «ciò che è destinato allo sfoggio, alla superbia, al potere» (1).

Mentre la povertà solleva unanime indignazione – com-batterla è il solo modo per rendere il mondo più giusto -, raramente si percepisce la ricchezza come un proble-ma. Ma la tempesta finanziaria fa riemergere il legame tra l’una e l’altra. Insieme all’idea nata negli Stati uniti più di un secolo fa di porre un tetto ai redditi più alti.

anche se è sempre difficile mettere a confronto i processi decisionali in politica, il fatto

che l’Iraq e la Siria siano stati con-trollati dal partito Baath (il primo dal 1968 al 2003, la seconda dal 1970) (1) e che abbiano avuto gli stessi ri-ferimenti ideologici permette di in-dividuare alcuni tratti comuni. I due regimi hanno creato una burocrazia centralizzata comprendente i servizi

di sicurezza e dominata dal presidente. Tanto a Baghdad quanto a Damasco, i vari settori del partito Baath hanno agito come strumenti di controllo delle masse. Trascrizioni delle riunioni del consiglio del comando regionale del partito e registrazioni del Consiglio di comando della rivoluzione (Ccr) diret-to da Saddam Hussein danno un’idea del modo sorprendente con cui si pren-devano le decisioni a Baghdad.

Il sistema funzionava con pochi ordini scritti. I dirigenti del partito, i membri del Ccr e gli ufficiali superiori partecipavano ai dibattiti; ma se Sad-dam Hussein si mostrava «non con-vinto» dai loro argomenti, la proposta iniziale rimaneva immutata. Questo modo di procedere per imposizione dall’alto era ancora più rigido in cam-po militare, malgrado la totale incom-petenza nel settore del presidente ira-

cheno (al contrario di suo padre, Hafez Al-Assad, neppure Bashar Al-Assad ha una formazione militare).

La struttura piramidale favoriva una crescente avversione per le cat-tive notizie – da questo punto di vi-sta, Saddam Hussein assomigliava a molti altri tiranni nel mondo. Durante un meeting in piena guerra del Golfo (1991), in presenza di alti responsa-bili militari, egli ostenta tutto il suo sdegno nei confronti di chi esprime dubbi sulle capacità del paese: «Non

MECCANISMI AUTORITARI IN IRAQ E IN SIRIA

Per decenni, in Iraq e in Siria, Saddam Hussein e Hafez Al-Assad – poi suo figlio Bashar – hanno esercitato un potere assoluto. Reprimendo ogni forma di opposizione e mettendo a tacere i dis-sidenti anche all’interno del regime, hanno reso impossibile qualsiasi dibattito reale sulle scelte strategiche. Incensati da media prezzolati, i tiran-ni non sono più in grado di valutare né la propria popolarità né realtà internazionali complesse, il che li porta a prendere decisioni disastrose.

nel 1997 il nostro giornale ha divulgato l’idea di una tassa sulle transazioni finanziarie (1); se allora que-ste ultime ammontavano a 15 volte la produzione an-

nua mondiale, oggi sono arrivate a quasi 60 volte. Quindici anni fa ancora non si parlava di prestiti subprime, e nessuno immaginava una crisi del debito sovrano in Europa. Per la maggior parte dei socialisti europei, invaghiti del primo mi-nistro britannico Anthony Blair, la parola d’ordine era l’«in-novazione finanziaria». Negli Stati uniti il presidente William Clinton si preparava a incoraggiare le banche dei depositi a speculare col denaro dei loro clienti; e dal canto suo Nicolas Sarkozy, che stravedeva per il modello americano, sognava prestiti subprime in salsa francese….

Com’è facile immaginare, nel 1997 la Tobin tax non aveva buona stampa: andava tutto così bene! Il ministro dell’eco-nomia e delle finanze francese, Dominique Strauss Kahn, non esitò a bollarla come impraticabile, e Sarkozy decre-tò: «L’idea della Tobin tax è un’assurdità (...) Ogni qualvolta penalizziamo la creazione di ricchezza sul nostro territorio, non facciamo altro che favorirla altrove (2).» Poi, non appena eletto presidente della Repubblica, incaricò il suo ministro dell’economia e delle finanze, Christine Lagarde, di soppri-mere un’imposta sulle operazioni in borsa. Ecco come la dirigente del Fondo monetario internazionale ha giustifica-to questo provvedimento: «È una misura che ha contribu-ito a rendere Parigi più attraente come piazza finanziaria». Altrimenti – avvertiva poi, «l’esecuzione di un certo numero di ordini [sarebbe partita] dalle piazze di altri paesi, che da tempo hanno abolito questo tipo di imposta (3)». Da allora gli eventi evidenziano l’incuria dei responsabili politici che speravano di approfittare dell’«innovazione finanziaria» at-traverso il dumping fiscale. Gli Stati hanno salvato le ban-che senza altra contropartita che quella di spuntare profitti

ancora più corposi. Ma mentre nessuna decisione veniva presa contro la finanza, si faceva a gara a chi sbandierava le proclamazioni più roboanti contro il «denaro re». Oggi, negli Stati uniti persino i candidati repubblicani ultraconservatori inveiscono contro i «falchi» di Wall Street, che «sottraggono tutto il denaro alle vostre imprese e vi trascinano al fallimen-to portandosi via milioni [di dollari] (4)». Non c’è dunque da sorprendersi se Sarkozy, a quattro mesi dalla scadenza del suo mandato, afferma di voler «chiamare la finanza a parte-cipare alla riparazione dei guasti che a provocato». Dimenti-cata così l’«assurdità» di una tassa sulle transazioni finanzia-rie, si sta dissipando anche il timore che le uova d’oro della speculazione vadano a schiudersi all’estero.

Potremmo continuare anche noi ad accontentarci di «get-tare sabbia negli ingranaggi della finanza», come proponeva l’economista James Tobin. Ma poiché è oramai acquisita la nozione che quest’ultima rappresenta un bene pubblico vitale, che gli azionisti usano volentieri per tenere in ostag-gio la collettività, dobbiamo fare anche noi un passo avanti. Esigendo che le banche cessino di appartenere a interessi privati.

(1) Si legga Ibrahim Warde, «Il progetto della Tobin tax, bestia nera degli speculatori, bersaglio dei censori», e Ignacio Ramonet, «Disarmare i mercati», Le Monde diplomatique/il manifesto, rispettivamente feb-braio 1997 e dicembre 1997.

(2) France 2, 7 giugno 1999.

(3) Dibattito al Senato, 23 novembre 2007.

(4) Newt Gingrich, «Today Show», NBC, 9 gennaio 2012.

Attualità della Tobin tax

RINASCITA dI UN’ESIgENzA

Stabilire un tetto per i redditi

enRico baj Generale trombettiere, 1960

continua a pagina 16

* Ricercatore associato all’Institute for Po-licy Studies (Washington DC) e capore-dattore del sito Too Much (http://toomu-chonline.org). Autore di The Rich Don’t Always Win: The Forgotten Triumph Over Ploutocracy, 1900-1970, That Created the Classic American Middle Class, Seven Stories Press, New York, in uscita a fine 2012.

(1) Felix Adler, «Proposing a system of graded taxation», The New York Times, 9 febbraio 1880.

* Ricercatore associato all’Institute for Policy Studies (Washington DC) e caporedattore del sito Too Much (http://toomuchonline.org). Autore di The Rich Don’t Always Win: The Forgotten Triumph Over Plou-tocracy, 1900-1970, That Created the Clas-sic American Middle Class, Seven Stories Press, New York, in uscita a fine 2012.

(1) Creato in Siria nel 1943 da un piccolo gruppo di intellettuali e diretto da Michel Aflak, un cristiano, e da Salah Al-Din Al-Bitar, un mu-sulmano sunnita, il Baath (parola che signifi-ca «resurrezione») si vedeva come un partito arabo più che siriano e aspirava all’unità della nazione araba.

di JOSEPH SASSOON*

di SAM PIZZIGATI *

Così decidono i tiranni

di SErGE HAlIMI

continua a pagina 9

Page 2: lemondedip

In questo numero febbraio 2012

Pagina 3Ungheria, laboratorio di una nuova destra, di J. M. Tamás

Pagine 4-5Taiwan, tregua diplomatica e febbre commerciale, di Martine Bulard – Costruire l’identità nazionale, di M. B.

Pagine 6 Corea del Nord, l’immarcescibile dinastia Kim, di Bruce cumings

Pagina 7Chi vuole strangolare l’Onu, di Anne-cécile robert – Nazioni unite e altre filiazionidi A.-c. r.

Pagina 8

Come la finanza affama le popolazioni, di Jean Ziegler

Pagina 9

Così decidono i tiranni, seguito dalla prima dell’articolo di Joseph sassoon

Pagina 10

L’Africa decolla, ma senza il Senegal, di sanou Mbaye

Pagina 11

La resistenza ostinata dei sahrawi, di olivier Quarante

Pagine 12-13

Tre ipotesi per un Big Bang, di Aurélien Barrau

Pagine 14

In Messico fa scuola la tv, di Anne vigna

Pagine 15-19

DOSSIER Man bassa sui salari. L’assenso di Berlino, di Anne dufresne – Stabilire un tetto massimo per i redditi, seguito dalla prima dell’articolo di sam Pizzigati – Per i sindacati, un difficile contrattacco, di A. d. – Dove sono finiti i soldi? di Julien Brygo – I contributi, uno strumento di trasformazione sociale, di Bernard Friot

Pagine 20-21

Anonymous, dall’umorismo adolescenziale all’azione politica, di Felix stalder – Rivolta egiziana, con o senza twitter, di Navid Hassanpour – Maghreb, i blogger sono stanchi, di smaïn Laacher e cédric Terzi

Pagine 22-23

DIPLOTECA, Recensioni e segnalazioni Rom in Italia, il popolo che non segue più il sole

Pagina 24

Stati uniti, il manifesto della contestazione, di Alexander cockburn

www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/

a cura di Geraldina Colotti, tel. (06) 68719545 [email protected] e-mail: [email protected] via Bargoni 8 – 00153 Roma

traduzioni Alice Campetti, Valerio Cuccaroni, Marie-George Gervasoni, Elisabetta Horvat, Alyosha Matella, Graziana Panaccione, Luna Roveda, Ornella Sangiovanniricerca iconografica Giovanna Massini, Nora Parcu, Anna Salvati iscrizione al Trib. stampa n.207/94 del 12.5.1994dir. resp. Valentino Parlato realizzazione editoriale Cristina Povoledo SAGP srl, via Nomentana, 175 – 00161 Roma

pellicole e stampa SIGRAF spa,via Redipuglia 77, Treviglio (Bg) pubblicità Concessionaria esclusiva POSTER PUBBLICITà srl Roma 00153, via Bargoni, 8 tel. (06) 68896911 fax 68308332 – Milano 20135, via Anfossi, 36 tel. (02) 5400001 fax (02) 55196055 numeri arretrati (06) 39745482diffusione abbonamenti (06) 39745482 [email protected], abbonamenti@red-

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Sbarigia, Roberto Zanini

direttore generale Claudio Albertini

consiglio d’amministrazione

Valentino Parlato (presidente), Emanuele

Bevilacqua, Ugo Mattei, Miriam Ricci,

Gabriele Polo (direttore editoriale)

Chiuso in redazione il 9 febbraio 2012. Il prossimo numero sarà in edicola il 15 marzo

il susseguirsi delle crisi finanziarie ha fatto emer-gere una figura specifica che occupa ormai tutto lo spa-zio pubblico: quella dell’uomo indebitato. Il fenomeno

del debito non è riducibile alle sue manifestazioni econo-miche. Esso costituisce la chiave di volta dei rapporti so-ciali nei regimi neoliberisti, provocando una tripla depri-vazione: la deprivazione di un potere politico già fragile, concesso dalla democrazia rappresentativa; la deprivazio-ne di una parte crescente della ricchezza che le lotte del passato avevano strappato all’accumulazione capitalista; ma soprattutto, la deprivazione del futuro, ovvero del tem-po come portatore di scelta, di possibilità.

Il rapporto creditore-debitore intensifica in maniera tra-sversale i meccanismi di sfruttamento e di dominio propri del capitalismo. Perché il debito non fa alcuna distinzione tra lavoratori e disoccupati, consumatori e produttori, atti-vi e inattivi, pensionati e beneficiari del sussidio di solida-rietà (1). Esso impone uno stesso rapporto di potere a tutti: persino gli individui troppo svantaggiati per avere accesso al credito partecipano al pagamento degli interessi legati al debito pubblico. La società intera è indebitata, il che non impedisce, anzi esaspera, le diseguaglianze – che sarebbe ora di definire «differenze di classe».

Come testimonia senza ambiguità la crisi attuale, una delle maggiori poste in gioco, a livello politico, del neo-liberismo è quella della proprietà: la relazione creditore-debitore esprime un rapporto di forza tra proprietari e non-proprietari dei titoli di capitale. Somme enormi sono trasferite dai debitori (la maggioranza della popolazione) ai creditori (banche, fondi di pensione, imprese, le fami-glie più ricche): a causa del meccanismo d’accumulazione degli interessi, l’ammontare totale del debito dei paesi in via di sviluppo (Pvs) è passato da 70 miliardi di dollari nel 1970 a 3.545 miliardi nel 2009. Nel frattempo, i Pvs aveva-no comunque rimborsato l’equivalente del 110% di ciò che dovevano inizialmente (2).

Il debito, peraltro, trasuda una morale che gli è propria, diffe-rente e allo stesso tempo complementare a quella del lavoro. La coppia sforzo-ricompensa dell’ideologia del lavoro è superata dalla morale della promessa (quella di onorare il proprio debito) e dell’errore (quello di averlo contratto). Come fa notare il filo-sofo tedesco Friedrich Nietzsche, nella sua lingua il concetto di Schuld (errore) – concetto fondamentale della morale – rinvia al concetto assai materiale di Schulden (debito) (3). La campagna della stampa tedesca contro i «parassiti greci» testimonia la vio-lenza della logica inoculata dall’economia del debito. I media, gli uomini politici, gli economisti sembrano avere un solo messaggio da trasmettere ad Atene: «voi avete sbagliato», «voi siete colpe-voli». Insomma, i greci si crogiolano al sole mentre i protestanti tedeschi sgobbano per il bene dell’Europa e dell’umanità sotto un cielo uggioso. Questa rappresentazione della realtà non si disco-sta da quella che trasforma i disoccupati in assistiti o lo stato pre-videnziale in «mamma statale».

Il potere del debito si presenta come se non fosse esercitato con la repressione né con l’ideologia. «Libero», il debitore non ha tut-tavia altra scelta che quella di iscrivere le sue azioni, le sue scelte, nei quadri definiti dal rimborso del debito che egli ha contrat-to. Non si è liberi se non nella misura in cui il proprio modo di vivere (consumo, impiego, spese sociali, tasse, ecc.) permette di far fronte ai propri impegni. Negli Stati uniti, per esempio, l’80% degli studenti che terminano un master in diritto accumula un debito medio di 77.000 dollari, se hanno frequentato una scuola privata, e di 55.000, se si tratta di un’università pubblica. Uno stu-

dente raccontava recentemente sul sito del movimento Occupy Wall Street, negli Stati uniti: «Il prestito che ho dovuto contrarre per studiare arriva a circa 75.000 dollari. Presto, non potrò più pagare. Mio padre, che aveva accettato di fare da garante, sarà obbligato a riscattare il mio debito. Presto, sarà lui che non potrà più pagare. Ho rovinato la mia famiglia, cercando di elevarmi al di sopra della mia classe» (4).

Il meccanismo si applica altrettanto bene agli individui che alle popolazioni. Poco prima della sua morte, l’ex ministro delle fi-nanze irlandese Brian Lenihan dichiarava: «Appena sono stato nominato, a maggio 2008, ho avuto la sensazione che le nostre difficoltà – legate al settore bancario e alle nostre finanze pub-bliche – erano tali da averci fatto praticamente perdere la nostra sovranità». Chiedendo aiuto all’Unione europea e al Fondo mo-netario internazionale (Fmi), proseguiva, «l’Irlanda abdicava uf-ficialmente alla sua capacità di decidere il proprio destino» (The Irish Times, 25 aprile 2011). L’influenza del creditore sul debitore ricorda l’ultima definizione del potere che dà Michel Foucault: azione che mantiene come «soggetto libero» colui sul quale essa si esercita (5). Il potere del debito ci lascia liberi, ma ci incalza – immediatamente! – ad agire unicamente per onorare i nostri debiti (sebbene l’uso che l’Europa e l’Fmi fanno del debito tende a indebolire i debitori attraverso l’imposizione di politiche econo-miche che favoriscono la recessione).

Ma il rapporto creditore-debitore non riguarda solo la popola-zione attuale. Fintanto che il suo riassorbimento non passerà per l’aumento della fiscalità sulle alte rendite e le imprese – ovvero per l’inversione del rapporto di forza tra classi che ha condotto alla sua comparsa (6) –, le modalità della sua gestione impegne-ranno le generazioni a venire. Spingendo i governi a promettere di onorare i propri debiti, il capitalismo s’impossessa dell’avve-nire. Esso può così prevedere, calcolare, misurare, stabilire delle

equivalenze tra i comportamenti attuali e i comportamenti a venire, in breve, può gettare un ponte tra il presente e il futuro. Così, il sistema capitalista riduce ciò che sarà a ciò che è, il futuro e le sue possibilità ai rapporti di potere at-tuali. La strana sensazione di vivere in una società senza tempo, senza possibilità, senza rotture concepibili – gli «indignati» denunciano forse qualcosa di diverso? – trova nel debito una delle sue principali spiegazioni.

Il rapporto tra tempo e debito, prestito di denaro e ap-propriazione del tempo da parte di colui che presta è noto da secoli. Se, nel Medioevo, la distinzione tra usura e interesse non era ben marcata – essendo considerata la prima soltanto un eccesso del secondo (ah, la saggezza degli antichi!) –, si sapeva molto bene, per contro, in cosa consisteva il «furto» di colui che prestava il denaro e in cosa consisteva il suo peccato: egli vendeva del tempo, qualcosa che non gli apparteneva e di cui l’unico proprie-tario era Dio. Sintetizzando la logica medievale, lo stori-co Jacques Le Goff domanda: «Cosa vende (l’usuraio), in effetti, se non il tempo che passa tra il momento in cui egli presta e quello in cui è rimborsato con gli interes-si? Ma il tempo appartiene solo a Dio. Ladro di tempo, l’usuraio è un ladro del patrimonio di Dio» (7). Per Karl Marx, l’importanza storica del prestito a usura consiste nel fatto che, contrariamente alla ricchezza consumatri-ce, esso rappresenta un processo generatore assimilabile a (e precursore di) quello del capitale, ovvero del denaro che genera denaro.

Un manoscritto del XIII secolo sintetizza quest’ultimo punto e il genere di tempo di cui il prestatore di denaro si appropria: «Gli usurai peccano contro natura volendo far generare denaro dal denaro come un cavallo da un caval-lo o un mulo da un mulo. Per giunta, gli usurai sono dei ladri perché essi vendono il tempo che non gli appartiene, e vendere un bene altrui, malgrado il possessore, è un fur-

to. Inoltre, siccome non vendono altro che l’attesa del denaro, ovvero il tempo, essi vendono i giorni e le notti. Ma il giorno è il tempo della luminosità, e la notte, il tempo del riposo. Di conse-guenza, essi vendono la luce e il riposo. Non è giusto dunque che essi abbiano la luce e il riposo eterni» (8).

La finanza vigila affinché le sole scelte e le sole decisioni pos-sibili siano quelle della tautologia del denaro che genera denaro, della produzione per la produzione. Mentre, nelle società indu-striali, sussisteva ancora un tempo «aperto» – sotto forma del progresso o della rivoluzione –, oggi, il futuro e le sue possibilità, schiacciati sotto le somme astronomiche mobilitate dalla finanza e destinate a riprodurre i rapporti di potere capitalistico, sembra-no bloccati; perché il debito neutralizza il tempo, il tempo come creazione di nuove possibilità, ovvero la materia prima di ogni cambiamento politico, sociale o estetico.

(1) In Francia si parla di Rsa: revenu de solidarité active.(2) Leggere Damien Millet e Eric Toussaint, «Bisogna pagare il debito?», Le

Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2011, articolo tratto da La Dette ou la vie, Comitato per l’annullamento del debito del terzo mondo, Editions Aden, Bruxelles, 2011. Cfr., degli stessi autori, Chi sono i padroni del mon-do? 50 domande sul debito estero dei paesi poveri, Edizioni Il punto d’incon-tro, Vicenza, 2006.

(3) Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano, 1984.(4) Citato da Tim Mak in «Unpaid student loans top $1 trillion», 19 ottobre 2011,

www.politico.com(5) Michel Foucault, «Le sujet et le pouvoir», in Dits et écrits, IV vol., Gallimard,

Parigi, 2001.(6) Leggere Laurent Cordonnier, «Un paese può fare bancarotta?», Le Monde

diplomatique/il manifesto, marzo 2010.(7) Jacques Le Goff, La borsa o la vita. Dall’usuraio al banchiere, Edizioni La-

terza, Bari-Roma, 1987.(8) Citato da Jacques Le Goff, ibid.

(Traduzione di V. C.)

di MAurIZIO lAZZArATO*

il debito o il furto del tempo

* Sociologo e filosofo. Questo testo è tratto dalla sua ultima opera, La Fabrique de l’homme endetté. Essai sur la condition néolibérale, Editions Amsterdam, Parigi, 2011.

febbraIo 2012 Le Monde diplomatique il manifesto2

iSiPL'uomo al di sotto, 1996

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Le Monde diplomatique il manifesto febbraIo 2012 3

Ungheria, laboratorio di una nuova destraVIKTOR ORBÁN, ARALdO dEI «PICCOLO-BORgHESI VIRTUOSI»

l’aTmosfera di paura e desolazione che regna in Un-gheria non è dovuta esclusiva-

mente alla crisi economica o alla po-litica del governo di Viktor Orbán; è anche il risultato dell’incapacità della repubblica democratica – e del regime liberista di mercato che la ispira – di creare un ordine sociale più giusto.

Il contrasto con la situazione prece-dente al crollo del regime comunista colpisce: per quanto repressivo, questo potere offriva un sistema previdenziale efficace, il pieno impiego, una miglio-re politica di salute pubblica, svaghi a prezzi contenuti o gratuiti, migliori condizioni di vita materiali. Certo il prezzo di tutto questo era elevato: ipo-crisia, censura, mancanza di scelta per il consumatore e conformismo. Il regi-me era considerato «socialista» o «co-munista»; in realtà si trattava piuttosto di uno stato-provvidenza, conservatore sul piano morale e culturale. Ha avuto il merito di introdurre in una società ru-rale e arcaica degli standard di vita mo-derni, dall’idraulica all’alfabetizzazio-ne, senza dimenticare l’emancipazione dalle schiavitù del mondo di prima, in particolare l’asservimento all’aristo-crazia. Questo cambiamento ha visto emergere un potere affidato a funzio-nari, militari e burocrati di uno stato autoritario. Il «realismo socialista», come veniva chiamato, sostituiva la mistica nazionalista e religiosa con una filosofia positivista aperta alla scienza e alla tecnologia.

Il pregiudizio, diffuso in occidente, che attribuisce la mancanza di tradizio-ne democratica in Europa dell’est alla naturale propensione per la schiavitù, è assurdo. La diffidenza diffusa nei con-fronti del liberalismo – sia sotto forma di democrazia rappresentativa sia di società di mercato affatto egualitaria – non comporta necessariamente l’ade-sione a norme familiari, sessuali o edu-cative rigide. Ma per i popoli dell’Euro-pa dell’est, se pur ribelli, la transizione verso un regime di mercato all’occiden-tale è stata fatale al loro modello socia-le. In Ungheria, per esempio, nei due anni successivi alla caduta del blocco sovietico ha provocato la scomparsa di metà dei posti di lavoro. Il paese non si è mai ripreso.

Lo stato-provvidenza, che si pro-poneva come un ordine egualitario fondato sull’equilibrio tra capitale e lavoro – grazie al movimento operaio –, si è disintegrato. Con la riduzione delle imposte sul capitale, la liberaliz-zazione del commercio internazionale e lo sviluppo delle nuove tecnologie, il salario reale e l’impiego hanno subito un crollo vertiginoso. Mentre una parte della popolazione, fino ad allora protet-ta, precipitava a margine del sistema, lo stato avrebbe dovuto concentrare i propri sforzi verso chi non riusciva più a guadagnarsi decentemente da vivere: disoccupati, immigrati, bambini e per-sone anziane. Così non è stato.

Al contrario, le persone che non po-tevano lavorare sono state paragonate a esseri inferiori, gli aiuti pubblici a un abuso, a un privilegio concesso a immi-grati oziosi, madri nubili, disoccupati, pensionati, handicappati, funziona-ri, studenti, artisti e altri intellettuali. Espellendo gli immigrati, si vorrebbe dimostrare che gli emarginati del siste-ma sono fondamentalmente – per non dire razzialmente – stranieri, e moral-mente colpevoli.

Mentre si inasprisce la lotta per le ri-

sorse e i servizi sociali sempre più rari, il potere presenta la sfida della compe-tizione in termini di eccellenza morale, di attitudine biologica e di superiorità intellettuale. Solo le persone giovani, diligenti e flessibili sono giudicate de-gne di considerazione: rifiutare questi criteri corrisponde a negare l’ordine naturale delle cose. Chi non vuole com-petere, chi non ne è capace, subisce la violenza dello stato, la sua repressione poliziesca. Gli oppositori a questa po-litica sono accusati di essere utopisti, totalitari o uomini e donne del passato, che metterebbero in discussione quelle libertà conquistate a caro prezzo.

È in questa situazione che pren-de forma una nuova maggioranza di destra, la quale – essendo detentrice dei due terzi dei seggi nel Parlamento ungherese – ha il potere di emendare la Costituzione, e anche di scriverne un’altra. Il capo di questa maggioranza, Orbán, era stato un assiduo ed efficace fautore delle politiche del precedente governo liberal-socialista, al contem-po impopolare, impotente e corrotto. Aveva sostenuto il referendum vincente lanciato dai sindacati contro l’istituzio-ne dei diritti di ingresso all’università e contro l’aumento dei costi della sanità (in seguito ha reintrodotto l’uno e l’al-tro senza provocare il minimo fremito tra la popolazione). Nel 2010, durante la sua campagna, non ha presentato, per così dire, nessun programma. La mag-gior parte delle misure adottate succes-sivamente dal suo governo erano state tenute segrete.

La velocità a cui è stata votata una serie di leggi rende difficile tenerne il conto. Il 23 dicembre 2011, vigilia delle vacanze parlamentari, la maggioran-za ha fatto adottare una legge che in un solo colpo ne emenda trecentosette precedenti. L’obiettivo di questo furore legislativo (sempre in dicembre, sedici leggi sono state votate in un’unica gior-nata) è semplice: innanzitutto perpe-tuare il potere del partito maggioritario attraverso la nomina, per nove o dodici anni, delle alte cariche dello stato; quin-di, sostituire i corpi eletti con autorità al servizio della destra e degli alleati del padronato. Sebbene per il 93% siano già controllate dalla destra, la maggior parte delle assemblee locali sarà sosti-tuita da amministratori del governo, oppure vedrà il proprio potere sensibil-mente ridotto. Grazie a diverse astuzie, il personale delle corti di giustizia, del-le agenzie di valutazione dello stato, dei media pubblici, delle università, delle istituzioni culturali, ecc., sarà nomina-to dal governo, per una durata indeter-minata.

La nuova suddivisione elettorale as-sicura al partito al potere i due terzi dei seggi con il 25% dei voti. La guardia del corpo personale di Orbán dirige l’agenzia segreta più importante. Nuo-ve disposizioni legali rendono quasi impossibile il ricorso a scioperi e refe-rendum. L’articolo della Costituzione che prevedeva «un salario uguale per un lavoro uguale» è stato eliminato.

Quest’ultima ormai include diverse misure che rendono complicato qual-siasi cambiamento. Vi figura anche un’imposta sul reddito a tasso unico (flat tax) del 16%. L’Unione europea e la stampa liberale occidentale, che si in-dignano delle limitazioni poste all’auto-nomia dalla Banca centrale ungherese, passano sotto silenzio le proteste della Federazione sindacale europea contro una legislazione del lavoro repressiva. I partiti comunisti e i loro successori, os-sia i due partiti socialisti di opposizione (Partito socialista ungherese [Mszp]

e Coalizione democratica), sono eti-chettati dalla nuova Costituzione come «organizzazioni criminali». L’insegna-mento pubblico si trasforma in sistema ultra-concorrenziale manovrato dalla Chiesa cattolica. L’embrione è ormai considerato come un «essere umano a partire dall’inizio della gravidanza». Si sbattezzano le vie dai nomi di mar-tiri antifascisti o addirittura dell’ex presidente americano Franklin D. Roo-sevelt, ma viene inaugurata una nuova statua alla gloria di Ronald Reagan.

Alcune misure del governo di destra – la nazionalizzazione dei fondi di pen-sione privati, le tasse speciali applicate ad alcune banche straniere e alle catene della grande distribuzione come Tesco, o la parziale conversione in forint un-gheresi dei debiti immobiliari espressi in valute straniere – hanno provocato a ovest la collera dei circoli finanziari. In realtà, così formulate, rappresentano un profitto per qualche frangia delle classi medie superiori.

Orbán ha in testa una forma di ri-nascimento nazionale. Non solo una grandezza restaurata, ma anche la pro-sperità economica e la riabilitazione di uno stato che egli percepisce, non a torto, come un’istituzione inefficace che nessuno rispetta più. In una classe media ampia e forte, intraprendente, coraggiosa, disciplinata, vede la colon-na vertebrale del paese. Tutte le riforme fiscali, tutte le sovvenzioni sono al ser-vizio di questo gruppo sociale piuttosto giovane al quale lui stesso e i suoi ami-ci appartengono. Il suo ideale: i piccoli imprenditori, le professioni liberali, i patrioti, leali, devoti, rispettosi della tradizione e dell’autorità. La destra li ha aiutati ad acquistare delle villette monofamiliari, una delle cause dell’im-pennata dell’indebitamento delle fami-glie, in Ungheria come altrove.

Sul modello dei conservatori dell’Europa centrale, la destra unghe-rese considera che gli avversari di que-sta classe media siano, da una parte, le multinazionali, gli istituti bancari e il «capitalismo finanziario» e, dall’altra, i proletari, i poveri, i «comunisti» – sen-za contare la categoria dei «subumani» inutilizzabili. Razzista come ai tempi addietro, la destra ungherese è innan-zitutto contraria al sostegno economico ai poveri, ai disoccupati, paragonati ai rom (affermazione pienamente conte-stabile), e a qualsiasi elemento «impro-duttivo» della società, chiamato «inatti-vo» – categoria che include i pensionati.

Per favorire la sua clientela, il go-verno ha bisogno di soldi e procede dunque a tagli nel bilancio. Niente più sovvenzioni per l’arte, l’archeologia, i musei, l’edizione, la ricerca – si libera anche dell’intellighenzia moderata o di quella che simpatizza per la sinistra. Non ci sono più risorse per trasporti pubblici, ambiente, ospedali, universi-tà, scuole elementari, aiuto per i cechi, per i sordi, per gli handicappati e per i malati. Invece, si finanzia abbondan-temente lo sport, per la sua capacità di stimolare la combattività, lo spirito di gruppo, la lealtà, la disciplina persona-le, la forza virile…

Si preferisce l’azione ai discorsi (nel senso di pensiero critico) che tanto apprezzano le «classi chiacchierone». Niente di strano in questo: i conserva-tori – e in particolare gli intellettuali conservatori – che, fino a poco tempo fa, ritenevano i circoli di riflessione e le logge massoniche responsabili della Rivoluzione francese, hanno sempre odiato gli intellettuali contestatari.

Orbán, che parla di una «società fon-data sul lavoro», ha ufficialmente de-cretato la fine dello stato-provvidenza. In questo, non si distingue da molti dei dirigenti occidentali che tuttavia strille-rebbero come aquile se si paragonasse-ro le due concezioni. Il primo ministro ungherese è semplicemente più franco e coerente di loro. Meno attento alle forme e alle tradizioni, può attuare del-le riforme radicali. Una di queste pre-vede che il sussidio di disoccupazione venga corrisposto solo in cambio di servizi resi, per disposizione delle au-torità e sotto il controllo del ministero dell’interno, con una remunerazione inferiore al minimo vitale. Continua-mente tormentati e umiliati, questi «lavoratori pubblici», soprattutto rom, eseguono il proprio ingrato lavoro sotto stretta sorveglianza della polizia e ac-cusati di pigrizia dai media di destra.

L’Unione europea e il governo degli Stati uniti, seppur globalmente d’ac-cordo con la sua politica (la formazione di Orbán aderisce al Partito popolare europeo), si oppongono con veemenza ai suoi proclami nazionalisti e alla sua

retorica contro le banche. La propa-ganda ufficiale ungherese lo prende a pretesto per denunciare che il governo è soggetto alle pressioni della… sinistra internazionale! Per la destra radicale dell’Europa centrale, capitalismo fi-nanziario e comunismo sono simili: al tempo stesso modernisti, secolari, co-smopoliti e repubblicani.

Gli incessanti attacchi della stampa occidentale hanno già provocato un ritorno di fiamma in Ungheria: parla-mentari neonazisti bruciano le bandiere dell’Unione; la popolazione non ca-pisce come il suo governo, per quanto criticabile, possa per l’estero incarnare il male assoluto. L’indignazione nazio-nalista rischia di mobilitare la destra contro la protesta sociale e democrati-ca, che dovrà allora opporsi contempo-raneamente alle misure di austerità rac-comandate dall’Unione e alle politiche della destra ungherese. Insomma, le minacce europee non fanno che raffor-zare il governo Orbán che, dopo tutto, è il prodotto di uno scrutinio regolare.

Esistono diversi modi di corrompere la democrazia. Eliminare le sovvenzioni per modificare gli equilibri politici di un paese costituisce una forma di ricatto. Qualsiasi onesto liberale dovrebbe de-nunciare questi metodi. Ecco perché l’op-posizione ungherese protesta sia contro le politiche del governo sia contro le pres-sioni delle istituzioni europee e del Fondo monetario internazionale (Fmi).

(Traduzione di A.C.)

«Lavoro, casa, famiglia, nazione, gioventù, salute e ordi-ne» sono i valori invocati dal primo ministro ungherese Viktor Orbán che spera così di conservare il sostegno delle classi medie, laboriose e «sane». E il suo governo nazionalista di destra è ben deciso ad accusare gli oppo-sitori alla sua politica, fra cui gli stessi ungheresi, di esse-re agenti stranieri.

di G. M. TAMÁS *

* Filosofo ed ex-deputato.

Via G. Pepe 14 - 20159 Milano. Tel. e fax 02/874324i n f o @ p u n r o r o s s o . i t - w w w. p u n t o r o s s o . i t

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I NUOVI POPULISMI E LE DESTRE ESTREME IN EUROPA

Le sfide e le prospettive per la sinistra

MILANO, 9-10 MARZO, CASA DELLA CULTURA, VIA BORGOGNA 3

VENERDÌ 9 MARZO 2012 – ORE 15-20Introduzione al convegno e intervento di Onorio Rosati (Segr. CdL Milano)

Introduzione di Walter Baier (direttore Transform! Europe)Relazioni: Ernesto Laclau (Università di Essex), Il populismo come concetto teo-rico. René Monzat (giornalista e saggista, movimento Ras l'Front), I nuovi popu-lismi: il caso del Front National in Francia. Andrea Fumagalli (Università diPavia), Il lavoro e il populismo. La scissione tra lavoro garantito e precariato e lebasi di massa del populismo e dell'estrema destra.I casi nazionaliRoberto Biorcio (Università di Milano Bicocca), L'Italia: Lega Nord e il populismodi Berlusconi. Dimostenis Papadatos-Anagnostopoulos, La Grecia. AliEsbathi, La Svezia. Siglinde Rosenberger, L'Austria, Judit Morva, L'Ungheria

SABATO 10 MARZO ORE 9.30-18Le destre europee contemporanee e il nuovo contestoSaverio Ferrari (Osservatorio Democratico), Il panorama dell'estrema destraeuropea. Populismi e destre estreme a Est e a Ovest. Thilo Janssen, L'estremadestra populista al Parlamento europeo. Le alternative di destra all'UnioneEuropeaLe sinistre europee: la crisi dell'approccio tradizionale e il nuovo contesto.Contributi di Elisabeth Gauthier (Espace Marx, Francia), Haris Golemis(Fondazione Poulantzas, Grecia), Mimmo Porcaro (Asso. Cult. Punto Rosso,Italia)

Tavola rotonda finale. Le sfide per le sinistre europee: nuove prospettive e nuovi compitiIntroduce Walter Baier. Intervengono Luciana Castellina (ex parlamentareeuropea), Michael Brie (Fondazione Rosa Luxemburg), Hans van Heijningen,Nicola Nicolosi (segretaria nazionale Cgil), un esponente del Partito dellaSinistra Europea

Organizzano Fondazione Rosa Luxemburg BerlinoTransform!Europe, Associazione Culturale Punto Rossoin collaborazione con Camera del Lavoro Cgil di Milano e la rivista "Progetto Lavoro-Per la sinistra del XXI secolo"

budaPeSt, ungheRia, febbRaio 2009 un aderente al gruppo neonazista «blood and honour» alla commemorazione della «giornata dell'orgoglio» nella piazza degli eroi

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hsiao hsin-huang Michael ha fret-ta. Anche se vicino al Partito democra-tico progressista (Pdp, indipendenti-sta), questo ricercatore studioso delle

classi sociali non è coinvolto nella campagna elettorale che, in questo novembre 2011, suscita una certa effervescenza. Egli vorrebbe inserire Taiwan negli ambienti scientifici internaziona-li, se non in quelli diplomatici. Tra un convegno e l’altro, egli ci riceve all’ora di pranzo in un ri-storante piuttosto elegante del campus di Ac-cademia Sinica. Questo centro accademico, l’equivalente del Cnrs francese, offre una calma stupenda, lontano dalle automobili e dalla ma-rea di due ruote che invadono le vie della capi-tale. Le condizioni di lavoro sono buone tanto più che «siamo indipendenti dai poteri politici ed economici», dice questo sociologo noto per gli studi comparativi delle classi medie in Asia (1).

A Taiwan, piccola isola di 36.0000 chilome-tri quadrati, la middle class è cresciuta come nel resto del mondo. Eppure, spiega Hsiao, «ci sono ancora oggi due generazioni». La «vec-chia» classe media, composta da piccoli im-prenditori e artigiani, è cresciuta negli anni ’70 e ’80 ed è stata lei a elevare l’isola al livello di «drago asiatico»(2). Quella nuova, modellata negli anni ’90 e fatta di quadri, ingegneri, ma-nager nelle strutture pubbliche e private, pro-fessionisti, è diventata tre volte più importante della prima. Ma, «contrariamente a quanto po-tevamo pensare, la nuova arrivata non ha cac-ciato via la vecchia, da cui proviene in parte.» I figli e le figlie dei padroni di piccole e medie im-prese e di artigiani benestanti, che hanno stu-diato, a volte negli Stati uniti e in Europa, hanno imboccato la strada del liberismo … e per alcu-ni la svolta cinese, spostandosi dall’altra parte dello stretto per fare investimenti.

In genere, nel mondo sviluppato, «la middle class si colloca al centro dello scacchiere poli-tico. Qui essa costruisce la propria opinione in-crociando due dati: i problemi mondiali e quelli locali, perché la famiglia rimane un fattore de-terminante. Ieri questa classe media votava per il Pdp perché aveva bisogno di riforme. Ma con

la crisi, cerca piuttosto di tutelare i propri in-teressi ed è molto più conservatrice». Questa diagnosi sociologica, fatta due mesi prima del-le consultazioni presidenziali e legislative, ha trovato conferma con il risultato delle urne.

Il 14 gennaio scorso, la classe media ha pun-tato sulla continuità votando per il presidente uscente Ma Ying-jeou, sostenuto dal Guomin-dang (o Kuomintang, Kmt). Tutti gli affaristi che vivono a Taiwan hanno fatto lo stesso. Molti avevano invitato direttamente a votare per Ma, come ha fatto Douglas Hsu, il padrone del po-tente gruppo Far Eastern, o Terry Gou, fonda-tore di Foxconn, fornitore di Apple trapiantato in Cina. Alcuni hanno addirittura acquistato in-tere pagine dei giornali per rendere nota la pro-pria stima nei confronti del presidente uscente. Non si può certo dire che la signora Tsai Ing-

wen, l’avversaria di Ma, abbia ricevuto gli stessi appoggi. Sarebbe davvero esagerato parlare di un trattamento equo da parte dei candidati nei media, in gran parte nelle mani dei grandi grup-pi industriali e finanziari – o del potere.

«mio nonno ha un cognome giapponese; io uno cinese»

il candidaTo ma ha ottenuto il 51,6% dei suffragi e oltre la metà dei seggi in Parlamento.

Pur avendo perso quasi sei punti rispetto alle ele-zioni del 2008, conserva un forte vantaggio. Ha votato per lui anche parte dei lavoratori più pove-ri e degli agricoltori. Infatti, i problemi mondiali (le relazioni con la Cina continentale, con il resto del

pianeta) e quelli locali (salari, posti e condizioni di lavoro) si sono intrecciati favorendo chiaramente il presidente uscente. La tesi del Pdp secondo cui Ma avrebbe «venduto Taiwan alla Cina» non ha funzionato, e nemmeno la paura di essere in-ghiottiti dal continente. Ciononostante Pechino è stato al centro della campagna.

Per capire le relazioni tra le due rive dello stretto di Formosa, occorre rivisitare la storia i cui meandri restano impressi nella memoria collettiva. «Mio nonno ha un cognome giappo-nese; io uno cinese» dice Wu Qimao, un funzio-nario di Kaohsiung, la seconda città di Taiwan, il cui aspetto urbanistico reca ancora le tracce della occupazione nipponica. Nessuno dei due ha fatto questa scelta, né il nonno né il nipoti-no. Molte famiglie di Taiwan conoscono questa stranezza riguardo alla propria identità.

Certamente, dopo la sua vittoria contro la Cina nel 1895, il Giappone modernizzò l’iso-la che era stata trascurata dal continente, ma impose anche un ordine ferreo. Gli abitanti di Formosa «erano trattati dalla amministrazione coloniale come cittadini di secondo ordine», dice Peng Ming-min (3), grande intellettuale taiwanese e militante democratico. Quindi, nel 1945, quando arrivarono i cinesi, «trasportati da aerei e imbarcazioni americane per impos-sessarsi dell’isola», sostituendo i giapponesi che avevano perso la guerra, «la gente di For-mosa li accolse con entusiasmo, convinti che si stesse per aprire un’era nuova e meravigliosa».

La delusione fu immediata. Il 28 febbraio 1947, il «terrore bianco» si abbatte su Kaohsiung, Tai-pei e l’intero territorio: le truppe del Kmt, il par-

Taiwan, tregua diplomatica e febbre commercialeIl sollievo è stato unanime a Taipei, Pechino e Washington all’indomani delle elezioni taiwanesi, il 14 gennaio scorso. Il presidente uscente, Ma Ying-jeou, convinto fautore del riavvicinamento con la Cina continentale, è stato rieletto con una larga maggioranza – garanzia di stabilità regionale – mentre la sua avversaria del Partito democratico progressista, la signora Tsai Ing-wen, che appariva in grado di sostituirlo, era piuttosto favorevole all’indipendenza.

dalla nostra inviata speciale MArTINE BulArd

febbraIo 2012 Le Monde diplomatique il manifesto4dISgELO TRA LA CINA CONTINENTALE E L'ISOLA

«prima io mi sentivo cine-se, come avevo imparato nei libri di storia. Quando sono

arrivata in Belgio per studiare, ho scoperto che ero taiwanese.» Iris, che sta preparando una tesi di laurea sul teatro di marionette (argomento emi-nentemente cinese), è molto emozio-nata quando racconta la sa esperienza. Ha preso coscienza della sua diversità incontrando ragazzi cinesi che come lei sono venuti a studiare in Europa. A molti anni di distanza, parla di questa «rivelazione» con una rabbia trattenu-ta contro l’educazione che ha ricevuto.

Fino alla metà degli anni ’80, a scuola i ragazzi dovevano ogni giorno inchinarsi davanti alla bandiera nazio-nale. L’insegnamento era totalmente impostato sulla storia della Cina impe-riale e sul confucianesimo. I naziona-listi del Guomindang (Gmd), scrive la studiosa francese Françoise Mengin, «hanno reinventato una cultura cine-se tradizionale, di cui Taiwan sarebbe diventato il laboratorio di fronte agli errori dei comunisti [del continente] per farne una allegoria della comuni-tà.(1)»

Questa visione veniva inculcata ai ragazzi. Tutto quello che poteva ri-guardare Taiwan era completamente

eliminato, il che nutriva il risentimen-to delle comunità da tempo insediate nell’isola, sia gli aborigeni (il 2% della popolazione) sia i Bendiren – cinesi giunti dal Fujan o dal Guangdong a partire dal XVII secolo (l’85% della popolazione).

Con la democratizzazione, a metà degli anni novanta, gli stessi dirigen-ti del Gmd si sono impegnati in una riflessione culturale e storica, pren-dendo parzialmente le distanze dalla Cina continentale (mainland). Il loro obiettivo, apertamente ammesso, era costruire una coscienza taiwanese (Taiwan Yishi), con la rivalutazione della storia e la valorizzazione della tradizione aborigena (2). Poco a poco si delinea una nuova versione del rac-conto storico.

L’arrivo al potere degli indipenden-tisti del Dpd (avrebbero governato dal 2000 al 2008) accelera l’iniziativa. I libri di scuola vengono modificati, le culture nazionali sono promosse, le differenze etniche celebrate, la lin-gua taiwanese riacquista il diritto di cittadinanza… a volte con qualche esagerazione. «Ho visto – racconta una giovane intellettuale ‘taiwanese di nascita’ – un consigliere cultura-le del governo chiedere a un regista

d’opera di introdurre eroi della storia taiwanese; un altro reclamare la pre-senza di canti in taiwanese…. Questo, naturalmente, è inaccettabile, a pre-scindere dalle posizioni politiche del governo.» Tanto più – aggiunge – che oggi, il grande problema a Taiwan sa-rebbe piuttosto l’americanizzazione della cultura popolare. «I film di auto-ri taiwanesi che vedete all’estero non sono praticamente visti dai taiwanesi. Tsai Ming-liang (La Rivière, nel 1997 o Visage nel 2009) vende personal-mente i biglietti di cinema in strada per avere un pubblico…» Forse non è sempre così per la nuova generazione di cineasti.

Negati ieri, i riferimenti etnici di-ventano quasi sistematici. A Kao-hsiung, vicino al vecchio porto dai magici paesaggi, Zhang, seduto sulla porta del suo negozio di ferramenta su una delle sedie in legno allineate sul marciapiede, rifiuta di essere collocato in una categoria identitaria: «Alla tele-visione, ci dicono che un tale à cinese, un altro aborigeno, un terzo taiwane-se. Soprattutto durante i periodi elet-torali, Mi io non so in quale categoria dovrei mettermi. Mio padre è arrivato dalla Cina continentale a 18 anni [alla fine degli anni quaranta], mia madre viene da Penghu [le isole Pescadores,

al largo della costa ovest di Taiwan]. È lì che sono nato. E oggi sono a Kaoh-siung. Vivo a Taiwan.» A volte sono le stesse radici cinesi a essere cancellate in nome della «taiwanità»: uno studio del Centro studi delle elezioni (Cee) dell’università nazionale Chengci rile-va che il numero degli abitanti che si dicono «tawanesi» è passato dal 17,6% nel 1999 al 52,6% nel 2007; quelli che si definiscono cinesi sono diminui-ti dal 46,4 al 2,9%, quelli «taiwanesi e cinesi» sono aumentati dal 25,5 al 39,5%. Un cambiamento spettacolare.

Quanto alle relazioni con i cinesi del continente, Shu-may, una ragazza che studia il cinema del Quebec, ne parla così: «Parliamo una lingua che è vicina, ma non abbiamo esattamen-te lo stesso immaginario culturale.» A modo suo lo conferma anche la signora Hsieh Pei-ni Beatrice (3), direttrice del museo di Belle Arti di Kaohsiung, che non ha paura di parlare: a proposito di un aneddoto sulla traduzione della pa-rola «laser»: «A Taiwan, hanno dato una traduzione per quanto possibile vicina al suono inglese; i cinesi invece hanno cercato di avvicinarsi al signifi-cato. Questa differenza illustra benissi-mo le nostre rispettive evoluzioni. Ab-biamo lo stesso sangue, eppure a volte facciamo fatica a comunicare.»

Con il passare del tempo, a prezzo di infiniti accorgimenti, Taiwan si è costruita la propria identità. Il paese elegge il presidente della Repubblica e i deputati al suffragio universale, possiede una sua Costituzione, una sua moneta… Il sociologo Hsiao Hsin-Huang riassume il sentimento più diffuso nell’isola: «Siamo cinesi culturalmente e taiwanesi politica-mente:»

Hsieh Pei-ni si esprime un po’ diver-samente. Con i cinesi del continente: «siamo come fratelli di genitori di-vorziati vissuti in famiglie differenti dal 1947 al 1997. Questi due fratelli si ritrovano, fanno conoscenza… L’ul-tima generazione, quella oggi in ar-rivo, sarà probabilmente in grado di trovare una soluzione che convenga a tutti.»

M.B.

(1) Françoise Mengin, Trajectories chinoises. Taiwan, Hong Kong et Pékin, Khartala, Pa-rigi, 1998.

(2) Cfr. in particolare Samia Ferhat e Sandrine Marchand (a cura di), Taiwan. Ile de mé-moires, Tigre de papier, Lione, 2011.

(3) La sua testimonianza e il suo lavoro al mu-seo sono consultabili sul nostro blog Planète Asie, http://blog.monde-diplo.net/1181.

(Traduzione di M-G. G.)

Costruire l’identità nazionale

(1) Cfr. Hsia Hsin-huang Michael, «East Asian Middle Class in Comparative Perspective», Institute of Ethnoogy, Academia Sinica, Taipei, Taiwan (Repubblica cinese).

(2) La Corea del sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan sono state definite «quattro draghi» per il loro forte sviluppo economica a quell’epoca.

(3) Peng Ming-min, Le Goût de la liberté, ed. René Viénet, Belaye, 2011. Questa ciazione e le due che seguono sono tratte da questo volume.

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taiPei, SetteMbRe 2011 aspettando le quotazioni in borsa

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tito nazionalista al potere in Cina, massacrano migliaia di persone. «Mio padre – scrive Peng – disse persino che si vergognava del suo sangue cinese e si augurava che i suoi figli sposassero donne straniere sicché i suoi discendenti non potessero più sentirsi cinesi.» Il leader naziona-lista Chiang Kai-shek – rifugiatosi a Taiwan nel 1949 dopo essere stato battuto dai comunisti e da Mao Zedong a Pechino – e i suoi successori imposero la legge marziale fino al 1986. Per gli oppositori vi era il carcere o l’esilio. Alla giap-ponizzazione militarista succede la sinizzazione totalitaria: le radici culturali dell’isola sono can-cellate, la lingua locale annientata per far posto al mandarino (classico), la storia rivisitata. Si spiega quindi il risentimento tuttora vivo pres-so le popolazioni da tempo radicate nell’isola. Tanto più che la lotta per la democratizzazione è sempre stata confusa con quella condotta contro i nazionalisti cinesi del Kmt.

Appena insediati, questi ultimi sperano di partire alla riconquista del continente. Sono appoggiati dagli americani i quali, nel 1950, installano la loro VII flotta nello stretto e basi militari sulla terra ferma, e finanziano generosa-mente questo potere dittatoriale. Il Kmt ritenne di agire nel suo pieno diritto, tanto più che, per ventiquattro anni, Taiwan avrebbe rappresen-tato la «vera Cina» agli occhi delle Nazioni uni-te, e dunque del resto del mondo.

Quando Pechino entra nel Consiglio di si-curezza dell’Onu, nell’ottobre 1971, la sorte dell’isola non è definita. Quasi tutti i paesi del pianeta riconoscono che «ormai esiste una sola Cina» (4). Taiwan scompare dagli schermi inter-nazionali ma, se sbandiera la propria rivendica-zione di indipendenza, il drago cinese tira fuori gli artigli: nel 1996, alla vigilia dell’elezione di un presidente taiwanese al suffragio universale, Pechino ordina un lancio di missili balistici (con testate inerti); dal 2000 al 2008, sotto il governo di Chen Shui-bian (5), fautore dell’indipenden-za, i cinesi rafforzano le postazioni missilistiche puntate in direzione delle coste taiwanesi.

Questo periodo sembra superato. Su en-trambe le rive dello stretto è sorta una nuova generazione di dirigenti. Sia i comunisti che sognavano di inghiottire con la forza que-sto isolotto recalcitrante, sia i nazionalisti che credevano di poter sconfiggere duramente gli usurpatori di Pechino, sanno che il progetto non vedrà mai la luce. Anzi, i nazionalisti anti-comunisti di ieri sono diventati i migliori alleati del partito comunista cinese, che non smette di sostenerli. Singolare inversione della storia.

Certo Pechino non transige circa i principi di unità e d’integrità territoriale della Repubblica popolare cinese – del resto né l’esercito né la popolazione lo ammetterebbero. «Non cer-chiamo una riunificazione immediata – confida un diplomatico incontrato nella capitale cinese – ma non possiamo accettare una indipenden-za immediata» (6). Da parte di Taipei, i dirigenti al potere ricordano il loro obbiettivo fonda-mentale: «negoziare un accordo di pace» (tra Stati?). Per ora, lo statu quo conviene a tutti. Pechino continua a parlare di «una Cina, due sistemi» e Taipei di «una Cina, interpretazioni diverse», (a seconda che ci si trovi da questo o da quel lato della riva). Nessuno perde la faccia e tutti si abbracciano.

Dobbiamo inoltre tener conto del terzo ladro-ne di questo grande gioco strategico: gli Stati uniti, che non vogliono cedere di un centimetro di fronte alla Cina. Durante la campagna eletto-rale, i commentatori non hanno mai smesso di osservare attentamente eventuali pressioni ci-nesi. Inutilmente. In compenso non hanno mol-to sottolineato l’appoggio rilevante di Washing-ton al presidente uscente: nel settembre 2011, l’amministrazione Obama annunciava la mo-dernizzazione dei caccia F-16 (di fabbricazione americana) richiesta da anni; in dicembre, la soppressione dei visti per recarsi in territorio americano. Questo per rassicurare i notabili del Kmt e ricordare al mondo che gli Stati uniti re-stano l’alleato numero uno. Infatti, si può scom-mettere che Ma punterà sui due versanti, quello americano e quello cinese.

Con Pechino, nel 2010, egli ha firmato un accordo-quadro di cooperazione economica (Economici Cooperation Framework Agree-ment, Ecfa). Una specie di trattato di libero scambio che prevede soppressioni dei dirit-ti doganali da entrambi i lati. Infatti, anche se, per Pechino, Taiwan non ha lo statuto di paese, percepisce diritti doganali come qualunque altra nazione. Non è riconosciuto dall’Onu ma siede all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) in qualità di «territorio do-ganale separato di Taiwan, Penghu, Kinmen e Matsu». La politica, no, ma il commercio, ok….

Teorizza questo principio Charn Kao, vice ministro del Consiglio degli affari continentali (Mainland Affairs Council, Mac), un organismo incaricato delle relazioni con Pechino. Charn

Kao, molto rispettoso delle procedure quando ci riceve in un salone del Mac (fotografie e scambi di regali), rappresenta bene la nuova generazio-ne. Studi negli Stati uniti, inglese perfetto, stile diretto: «Il nostro metodo? Mettere da parte la politica e portare al centro l’economia. La nostra linea è nota: è quella dei tre “no” – “no” all’unifi-cazione (bu tong). “No” all’indipendenza (bu du), “no” all’uso della forza (bu wu). Le questioni po-litiche sono quelle più difficili da risolvere: non si può aprire il dialogo per questo. Quindi abbiamo optato per una tregua diplomatica.»

Del resto, gli esponenti economici di Taiwan non hanno aspettato il consenso del potere per precipitarsi sul continente fin dalle prime rifor-me degli anni ottanta. I loro investimenti diret-ti in Cina si aggirano intorno a 100 miliardi di dollari americani, addirittura a 200 miliardi se si mettono in conto le somme che transitano via

Hong Kong. Si sono moltiplicate le delocaliz-zazioni e oggi oltre due milioni di taiwanesi (su una popolazione attiva di undici milioni) lavora-no sul continente.

Nelle aziende elettroniche o di servizi per le imprese (contabilità, programmi informati-ci, ecc.) quasi tutti i dirigenti passano periodi più o meno lunghi – da alcuni giorni a diversi anni – in territorio cinese. «Non abbiamo scel-ta – ammette, mantenendo l’anonimato, uno di questi che lavora in una nota compagnia di elettronica –. Dobbiamo andare via, lasciare le nostre famiglie, anche per parecchi mesi.» Ol-tre a questa costrizione, egli detesta le relazioni con i suoi omologhi del continente: «Andiamo via con delle disposizioni precise: non fidarsi degli ingegneri e dei quadri cinesi. Li trattiamo con disprezzo, mentre molti sono competenti. Vivono spesso in condizioni difficili. Gli operai e le operaie sono ammucchiati nei dormitori. Do-vremmo vergognarci di trattarli così.»

un sistema interamente rivolto all'esportazione

l’esempio più noto è quello di Foxconn, insediato a Shenzhen. La durezza dei suoi

metodi è tale che si moltiplicano i suicidi fino a scatenare scioperi (7). Questo caso, che ha fatto il giro del mondo, indigna i taiwanesi che guardano più spesso ai continentali con il di-sprezzo dei ricchi verso i poveri: il prodotto in-terno lordo per abitante è due volte più alto a Taiwan (19.155 dollari contro 7.628).

Comunque sia, l’integrazione economica è avviata. Possiamo forse parlare di «Chaiwan»,

l’espressione coniata dalla stampa sud-core-ana, e poco gradita dai taiwanesi di ogni ten-denza? Sarebbe eccessivo, ma già oggi la Cina assorbe il 40% delle esportazioni taiwanesi, «Sette tra le prime quindici aziende esporta-trici “cinesi” sono filiali di società taiwanesi» dicono gli economisti Stéphane Cieniewski e Pierre Moussy (8). Nell’isola, l’attrazione per l’altra sponda dello stretto si traduce con una massiccia riduzione dell’industrializzazione, in particolare nel meridione.

Kaohsiung illustra bene questa situazione. Si vedono ancora i terreni incolti, nonostante la febbrile attività edilizia che ha colpito questo porto, e nonostante il volontarismo forsennato della signora Chen Chu, una militante del Pdp che ha conosciuto le carceri del Kmt e dirige Kaohsiung dal 1996. Così spiega il processo avviato da diversi anni: «Avevamo industrie pesanti (chimica, siderurgia…) e di trasforma-zione (meccanica, tessile, giocattoli…) la cui redditività poggiava sui bassi salari. Quando i lavoratori hanno richiesto aumenti, migliori condizioni di lavoro, il riconoscimento delle ore straordinarie, insomma quando hanno recla-mato una maggiore giustizia sociale, le aziende hanno poco a poco delocalizzato verso la Cina continentale, ma anche verso l’Asia del sud-est, in particolare in Vietnam.» Più che Pechi-no, Chen Chu accusa «i finanzieri che hanno scelto la delocalizzazione. Inutile lamentarsi. In ogni caso, noi non vogliamo più questo tipo di aziende che inquinano molto». La città prova a diversificare le sue attività. Ma nonostante la modernizzazione, Kaohsiung, che fu il primo porto al mondo per i containers fino ai primi anni 2000, si colloca oggi al nono posto.

A Taipei, Chang non nega questa realtà. Tut-tavia, dice, alla fine il gioco finisce zero a zero e le relazioni economiche si equilibrano. Citan-do l’esempio dell’elettronica, egli ritiene che «la nostra produzione sia raddoppiata, perché noi fabbrichiamo elementi chiave che vengono in seguito assemblati dall’altra parte dello stret-to.» Elenca molti esempi di successo, secondo lui nell’agricoltura, nei prodotti ittici e nel turi-smo. I dati che ci fornisce sono attendibili… e i disoccupati sempre più numerosi.

La prima conseguenza di questa fuga verso la Cina, ricorda l’opposizione, è che sostiene soprat-tutto il modello economico fondato sui salari bas-si. Un sistema interamente rivolto verso l’esporta-zione – in particolare nel settore delle tecnologie dell’informazione – appoggiato sulle agevolazioni fiscali per attirare i capitali (l’imposta sulle società è caduto al 17% nel 2010), e molto dipendente da chi decide (americani, giapponesi…).

Le prime vittime sono i giovani diplomati, a cui Tanguy Le Pesant, ricercatore francese che lavo-ra a Taiwan, ha dedicato un'ampia ricerca. Quan-

do escono dall’università, quattro anni dopo la maturità, trovano lavoro senza grandi difficoltà, dopo una settimana o un mese. Ma percepisco-no in media da 22.000 a 25.000 nuovi dollari tai-wanesi (Ndt), ossia da 576 a 624 euro mensili. Lo stipendio minimo ufficiale ammonta invece a… 455 euro. Quale prospettiva per loro? Possono andare a lavorare dall’altra parte dello stretto dove saranno quadri e guadagneranno (un po’) di più. Una situazione che disegna un’altra visio-ne della Cina (si veda il box).

Nella minuscola sede della Confederazione taiwanese dei sindacati, in via Roosevelt, Shih Chao-hsien e Hsie Tsuan-chih, rispettivamente presidente e segretario generale, confermano l’entità del fenomeno dei bassi salari, in par-ticolare per i giovani diplomati: «Ci ritroviamo dieci anni indietro.» Niente cravatta né vestito, niente grandi discorsi: i due uomini illustrano le difficoltà incontrate in un paese in cui la libertà sindacale è appena stata riconosciuta e il 78% dei lavoratori presta la propria opera in una Pme. «La legge dice che la durata del lavoro è di quaranta ore; nella realtà, si va da quaranta-cinque a quarant’otto. Come nella Cina conti-nentale. Le ore straordinarie non sono pagate.» E le ferie? Sette giorni per il primo anno, dieci dopo tre anni, quattordici dopo cinque. Ma, di nuovo, nulla può essere verificato.

Ma avremo conferma di tutto ciò alcuni giorni dopo, in casa di amici. Ping-fan, giovane dise-gnatrice industriale, elegante trentenne, lavora in una micro-azienda con altre due persone. Circa la durata del lavoro, dice immediatamen-te: «otto ore». Forse perché le pagano davve-ro otto ore. Dopo aver descritto il suo lavoro quotidiano, rettifica: «almeno dieci-undici ore», perché la regola vuole che «il lavoro previsto venga terminato.» Il capo può chiamarla al la-voro di sabato, di domenica e chiederle di fare tardi la sera. Vanno rispettati i rituali dell’azien-da, occorre sottostare alla gerarchia, non far-si notare. Una organizzazione piramidale alla giapponese, che si ritrova anche nelle grandi aziende di punta, secondo quanto ci dice il gio-vane quadro citato prima. Per gli informatici, la costrizione viene dalla pressione dei colleghi più che dal capo stesso. Ma di sicuro questo non agevola lo spirito di iniziativa…

Sebbene la confederazione sindacale tiri fuori fotografie di manifestazioni per aumen-ti salariali o contro le soppressioni di posti di lavoro, il suo margine di intervento resta ridot-to. Ci furono certo, per alcuni giorni, gli «indi-gnati» di fronte a Tapei 101, la seconda più alta torre del mondo, nel quartiere degli affari, ma senza un grande seguito. Secondo Le Pesan, che conosce benissimo la situazione giovani-le, «il peso della dittatura si fa ancora sentire nella società civile dove la critica di sinistra – in passato duramente repressa in nome della lot-ta contro il comunismo – resta essenzialmente limitata agli ambienti accademici e a un piccolo gruppo di militanti. Né il sistema educativo e i valori confuciani che si continuano a invocare incoraggiano meglio la possibilità di rimettere in questione l’ordine stabilito».

Il governo conta su questo conformismo. A meno che le agitazioni sociali che travolgono la Cina oggi finiscano per coinvolgere anche l’iso-la. Sarebbe un ennesimo capovolgimento nelle relazioni dei due fratelli nemici – ma questa vol-ta positivo.

MArTINE BulArd

(4) L’indipendenza di Taiwan (Repubblica cinese) è ricono-sciuta solo da ventitré paesi.

(5) Si legga François Godement, «Défi taïwnais pour les dirigeants de Péking», Le Monde diplomatique, aprile 2000.

(6) Cfr. Chine-Inde: La course du dragon et de l’éléphant, Fayard, Parigi, 2008.

(7) Cfr. Isabelle Thireau, «I “cahiers de doléances” del po-polo cinese», Le Monde diplomatique/il manifesto, set-tembre 2010.

(8) «Bulletin économique Chine», n.42, dicembre 2011, del servizio economico dell'ambasciata di Francia a Pechi-no.

(Traduzione di M-G. G.)

Le Monde diplomatique il manifesto febbraIo 2012 5

120°

Tropico del Cancro

20°

CINA

TAIWAN

FILIPPINE

Mardella Cinaorientale

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meridionale

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delle Pescadores)

Taipei

Kaohsiung

Fuzhou

250 km

Taiwan

Nome ufficiale: «Repubblica di Cina»; capitale: Taipei.

Superficie: 36.000 chilometri quadri.Popolazione: 23,04 milioni di abitanti.Moneta: nuovo dollaro taiwansi (Ndt), non

convertibile.Prodotto interno lordo (Pil): 430 miliardi di

dollari americani (330m 3 miliardi di euro).PIL per abitante: 19.155 dollari (7.628 dollari in

Cina continentale).Sviluppo: +10,9% nel 2010: - 1,9% nel 2009. Percentuale ufficiale della disoccupazione: 5,4%.

Fonte: «Taiwan Statistical data book», 2011.

alcune date1895-1945. Il Giappone occupa l’isola.1945. Taiwan rientra a far parte della Repubblica di

Cina.1949. Dopo la sconfitta di fronte ai comunisti e

a Mao Zedong, il dirigente nazionalista del Guomindang (Kmt), Chang Kai-shek si rifugia a Taiwan, 1,5 milioni di «continentali» si stabiliscono nell’isola negli anni 1949-1950.

1971. La Repubblica popolare di Cina (Pechino) diventa membro dell’Onu al posto della Repubblica di Cina (Taiwan).

1987. Sospensione della legge marziale a Taiwan. 1996. Il presidente della Repubblica è eletto con il

suffragio universale.2000-2008. Chen Shui-bian, del Partito democratico

progressista (Pdp, indipendente), è eletto presidente.

2008. Ma Ying-jeou (Kmt) lo sostituisce.

taiPei, agoSto 2011 taiwan Stock exchange

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febbraIo 2012 Le Monde diplomatique il manifesto6

L'immarcescibile dinastia KimCOREA dEL NORd: LA SUCCESSIONE E I SUOI ANTEfATTI

il 17 dicembre, giorno della morte di Kim Jong-il, trovandomi per un periodo a Singapore, ero

fortunatamente a una distanza ragio-nevole dalla confusione degli «esper-ti» americani. Un vecchio consigliere del presidente George W. Bush prono-sticava senza esitazione dalle colon-ne del New York Times la «fine della Corea del nord così come l’abbiamo conosciuta (…). Il regime non sarà in grado di conservare l’unità», perché il figlio inesperto non ha la tempra per affrontare i cacicchi ottuagenari dell’esercito (1). Alcuni osservatori evocavano un possibile colpo di sta-to, altri, al contrario, scommettevano su un inasprimento del regime orche-strato, fin dalla sua entrata in scena, da Kim Jong-un per fronteggiare i militari; altri ancora, prefiguravano lo scenario di un collasso del paese che avrebbe obbligato i soldati americani, di stanza alla base giapponese di Oki-nawa, a intervenire per recuperare le armi nucleari prima che queste si per-dessero nella natura…

Dopo l’ictus di cui fu vittima l’ex presidente nordcoreano nell’agosto 2008, la maggiore preoccupazione di Washington, espressa a più riprese per voce della segretaria di stato Hillary Clinton, è quella di una lotta ai verti-ci del potere. Il modello sembra essere quello dell’Unione sovietica alla morte di Stalin o della Cina dopo Mao Tse-tung. Tutti vogliono ignorare quel che è successo alla morte di Kim Il-sung nel 1994: niente.

La mia prima visita nella Repub-blica popolare democratica di Corea (Rpdc), risale al 1981. Ero arrivato da Pechino con l’intenzione di ripartire attraversando l’Unione sovietica a bordo della Transiberiana. Le autori-tà consolari avevano preteso un visto rilasciato dall’ambasciata sovietica di Pyongyang. Fin dal mio arrivo nell’edificio, un consigliere, certa-mente un agente del Kgb, mi aveva amabilmente invitato a bere un co-gnac e a spiegargli le ragioni del mio soggiorno coreano. Ben presto aveva sondato la mia opinione su Kim Jong-II che era stato appena designato suc-cessore del padre, al tempo del sesto congresso del partito comunista, nel 1980. Avevo risposto che mi era parso piuttosto scialbo, bolso e dall’aspetto ordinario. «Oh! Voi americani – ave-va replicato – rimanete sempre at-taccati alla persona. Non vi rendete conto che, dietro di lei, c’è un blocco burocratico rappresentato da figu-re la cui ascesa o caduta è indisso-ciabile da quella del sistema. Sanno perfettamente quel che fanno», aveva aggiunto prima di consigliarmi di «ritornare nel 2020 per vedere suo figlio al comando».

Questa predizione è la più esatta che io abbia potuto sentire sul desti-no di questo strano stato al contem-po comunista e dinastico – anche se Kim Jong-il è morto all’età ufficiale di 69 anni, anticipando di qualche anno il processo di successione. Il po-polo nordcoreano ha conosciuto una monarchia millenaria e un secolo di dittatura: innanzi tutto quella della colonizzazione giapponese (dal 1910 al 1945), che costringeva i coreani a venerare l’imperatore; poi il dominio della famiglia Kim, che dura da ses-santasei anni. L’8 gennaio 2012, gior-

no del compleanno di Kim Jong-un (l’anno esatto della sua nascita, 1983 o 1984 rimane un mistero) la televi-sione nazionale ha diffuso un docu-mentario di un’ora attribuendo al gio-vanotto mille virtù. Il nipote di Kim Il-sung veniva paragonato a tutti quei luoghi e monumenti simbolici visitati dal suo illustre nonno e, in partico-lare, al monte Paektu, la «Montagna dalla testa bianca». Questa lunga ca-tena vulcanica situata a ridosso del confine cinese, crogiolo dell’identità nordcoreana, fu teatro della guerri-glia condotta da Kim Il-sung contro

i giapponesi negli anni trenta e luogo di nascita ufficiale di Kim Jong-il, nel 1942.

Il documentario metteva in evi-denza anche il linguaggio del corpo di Jong-un. Grande e forte, il giovane appariva sorridente, mentre stringeva le mani, adottando già la postura di un uomo politico: una persona comu-ne perfettamente a suo agio nel ruolo di «beneamato successore». Più in ombra invece l’immagine del padre, austero, autoritario e cinico, infagot-tato in un giaccone da sci, lo sguardo nascosto da enormi occhiali da sole. In aggiunta, il documentario insiste-va sulla somiglianza dei tratti e dello stile del giovane con quelli del nonno al suo arrivo al potere alla fine degli anni quaranta; e riesumava delle foto-grafie per mostrare l’identico taglio di capelli. Come se il nipote fosse l’erede diretto dell’intatto patrimonio geneti-co del nonno.

La cultura coreana – la poesia come la letteratura – è impregnata di tutto quel che riguarda il cerimoniale, i ri-tuali, le tradizioni, e anche i pettego-lezzi sulle famiglie reali, in particolare per quel che riguarda i successori del re. Sono in molti a essere saliti al tro-no giovanissimi. Il più illustre, Sejong (1397-1450), che impose l’alfabeto na-zionale coreano (hangul), salì al trono a 21 anni assistito dal padre. Come Jong-un, Sejong era il terzogenito: il primogenito era stato bandito da Seul a causa della sua volgarità e il secondo si era fatto monaco buddista. Così, nel 2000 Kim Jong-nam, il primogenito di Kim Jong-il, aveva causato gravi imbarazzi al regime facendosi ferma-re quando aveva tentato di entrare in Giappone sotto falso nome (dicono per visitare Disneyland). In seguito ha

scelto di trasferirsi a Macao, capitale mondiale del gioco. Non si sa nulla del fratello cadetto che, del resto, non era presente alle esequie del padre.

Fra i vari stereotipi attribuiti agli asiatici, c’è quello secondo cui essi de-testino «perdere la faccia». I termini di «dignità» e «onore» sarebbero più appropriati. Agli occhi dei nordcorea-ni, il volto del leader riflette il presti-gio della nazione. Nel 1981, all’uscita dell’aeroporto, mentre passavamo davanti agli immensi ritratti di Kim Il-sung, la mia guida mi aveva messo amichevolmente in guardia: «Per cor-tesia, non insultati il nostro leader», cosa che non avevo alcuna intenzione di fare, non volendo mettere a rischio la mia uscita dal territorio.

La dottrina in vigore, allora come oggi, è il juche, o chuche, un concetto che pone la Corea al di sopra di ogni altra cosa. Secondo l’esperto della pe-nisola coreana Gari Ledyard, il carat-tere «e», associato a kukch, la nazione, era usato nei discorsi classici, per evo-care il volto del paese, la sua dignità. «Il kukche, ha scritto, può essere feri-to, imbarazzato, infastidito, insultato,

sporcato. I membri della società de-vono comportarsi in maniera appro-priata, affinché il kukche non venga perduto». Queste parole entrano in risonanza con dei valori profondamen-te radicati nell’inconscio collettivo nordcoreano. Chiunque abbia visitato questo paese ha potuto appurare quan-to questi siano ben presenti, nonostan-te si traducano spesso in un orgoglio smisurato o in monumenti grandiosi. Ma questo dipende anche dalla volon-tà di affermare il perpetuarsi della di-gnità nazionale.

Il penultimo re di Corea, Kojong, aveva soltanto 11 anni quando salì al trono, nel 1864. Fino alla sua maggiore età fu guidato dal padre Daewongun. Nel corso della sua reggenza, il padre aveva ridato lustro all’ideologia do-minante dell’epoca, il neoconfuciane-simo e adottato una politica rigorosa-mente isolazionista per contrastare gli appetiti dei vari imperi che bussavano alla porta. Si batté contro la Francia (1866) e gli Stati uniti (1871), prima di respingere, due anni dopo, il tentativo di invasione del Giappone, all’inizio dell’era Meiji. Fu l’epoca più emble-matica del «regno eremita» e quella in cui l’ideologia kukche, fu la più pre-gnante.

Le cose cambiarono quando Kojong raggiunse l’età per governare. Co-minciò a riformare e a modernizzare la Corea, firmò dei «trattati inegua-li» aprendo il paese al commercio, e provò a mettere le grandi potenze una contro l’altra. Il sistema funzionò per un quarto di secolo, prima di provoca-re la perdita della sovranità nel 1910. Nel museo della Rivoluzione di Py-ongyang, davanti al quale si innalza la statua di Kim Il-sung, alta diciotto metri, i visitatori possono assistere a

delle sedute di elogio di Daewongun, scoprire delle stele che simbolizzano la difesa dai barbari, o ancora ascol-tare i racconti edificanti delle vittorie contro i francesi e gli americani.

Ai funerali di Kim Jong-il, dietro Kim Jong-un, è stato visto sfilare il

cognato Jang Song-taek, di 55 anni, a lungo a capo dei servizi segreti. Lo se-guiva Kim Ki-nam, che oggi ha più di 80 anni ed era molto vicino a Kim Il-sung. Tre generazioni marciavano così solennemente alla destra della Lincoln continental da collezione, ricoperta di stemmi di famiglia, che accompagna-va le spoglie mortali verso l’ultima dimora. Dall’altro lato della limousine c’erano i capi dello stato maggiore del-la quarta potenza militare del mondo.

Il rituale era stato lo stesso alla mor-te di Kim Il-sung. Già allora gli esperti e gli organi ufficiali si erano lanciati in congetture. Newsweek aveva titolato «The headless beast» («La bestia sen-za testa») (2). Il comandante delle for-ze americane in Corea del sud ripete-va ininterrottamente che la Corea del nord sarebbe presto «implosa o esplo-sa». Alla fine degli anni 1990, l’immi-nente caduta del regime era diventata il leitmotiv della Central intelligence agency (Cia).

Circa due decenni dopo, la Rpdc esiste ancora. Fra qualche anno, la longevità del regime uguaglierà quella dell’Unione sovietica. Poco prima del-la morte di Kim Jong-il, un professore universitario americano durante una conferenza aveva affermato che alla sua morte la folla si sarebbe sollevata per rovesciare il sistema: la profezia non si è realizzata. In una sorta di iste-ria collettiva, la folla si è riversata nelle strade per piangere il proprio dirigente. Anche nel 1919 la popolazione si era radunata per le esequie del re Kojong, all’apice di un movimento nazionale contro la legge coloniale giapponese.

Dopo la morte del padre, Kim Jong-il si era ritirato dalla vita pubblica, lasciando il campo libero alle voci su

possibili lotte per il potere. Eppure aveva agito come avrebbe fatto qual-siasi delfino designato dell’ancien régime, portando il lutto per tre anni. Nel 1998, durante le celebrazioni per il cinquantenario dalla creazione del-la Rpdc, Kim Jong-il era apparso nel pieno possesso dei poteri e pronto ad assumere la direzione del paese. Per immortalare l’evento, la Corea del nord aveva scelto quel giorno per pro-cedere al lancio del suo primo missile a lunga gittata.

Il presidente soleva dire che il co-munismo aveva fallito in occidente a causa dell’impoverimento e dello sgre-tolamento della sua purezza ideologi-ca; la Corea del nord, invece, ha messo Karl Marx sottosopra – o rimesso in piedi Hegel – concludendo che «l’idea determina tutto»: una formula che gli scribi neoconfuciani di Daewongun avrebbero apprezzato.

Anche Kim Jong-un osserverà un lungo periodo di lutto prima di assu-mere la sua carica? Non sembra aver preso quella strada, come testimo-niano le sue numerose apparizioni pubbliche, soprattutto in occasione di visite alle basi militari. Ha certo interesse a mantenere un basso profi-lo per il tempo necessario a maturare una maggiore esperienza, lasciando le redini del potere ai vecchi custodi del regime.

Quest’anno avranno luogo le ele-zioni presidenziali negli Stati uniti come anche in Corea del sud dove il presidente uscente, Lee Myung-bak, detestato dal nord per la sua estrema fermezza, non può più ripresentar-si. In Cina, Hu Jintao passerà presto la mano e, in Russia, la rielezione di Vladimir Putin non è affatto certa. In questo contesto di ridistribuzione dei ruoli, è consigliabile essere cauti. Nell’attesa, il potere cerca, con Kim Jong-un, di mostrare alla popolazione un regime dalle sembianze più presen-tabili rispetto a quello del padre.

Ancora una volta, il mio interlocu-tore sovietico aveva ragione e io avevo torto ad attribuire un importanza ec-cessiva all’apparenza. Poco importa a cosa assomigli, il re non può avere torto. Può anche, come racconta la leggenda costruita sulla figura di Kim Jong-il, con un solo swing terminare più di una buca nel suo primo percorso di golf.

Nel suo celebre saggio Les Deux Corps du roi, Ernst Kantorowicz so-steneva ci fossero due re: il primo, un uomo normale con le sue fragilità, che si confronta con tutte le contin-genze umane, e investito della carica reale; il secondo che, nella sua eterna perfezione, incarna la monarchia (3). I nordcoreani hanno fatto del defunto Kim Il-sung un presidente per l’eterni-tà, privo di imperfezioni. Il mausoleo eretto alla sua gloria è l’edificio più imponente del paese.

Il volto di Jong-un, così simile al suo, potrà in breve tempo far dimen-ticare i diciassette anni del regno di Kim Jong-il, segnato da innumerevoli disgrazie, inondazioni, siccità, crol-lo completo dell’economia e carestie responsabili di migliaia di morti? Il leader defunto conta al suo attivo una sola opera, tanto singolare quanto di-scutibile: il conseguimento dell’arma nucleare.

L’uomo è fatto così: coscientemen-te o meno, è alla ricerca di un passa-to ideale. Kim Jong-un non ha ancora trent’anni ma, se il mio interlocutore sovietico aveva ragione anche su que-sto punto, potremmo già prepararci a vedere la sua faccia per molti anni.

(1) Victor Cha, «China’s newest province ?», The New York Times, 19 dicembre 2011.

(2) 18 luglio 1994, qualche giorno dopo la mor-te di Kim Il-sung.

(3) Ernst Kantorowicz, Les Deux Corps du roi. Essai sur la théologie politique au Moyen Age, Gallimard, Parigi, 1989 (prima edi-zione Princeton, 1957).

(Traduzione di A. C.)

Le discussioni del Gruppo dei sei – Stati uniti, Giappone, Corea del sud, Cina, Russia e Corea del nord – che si erano interrotte dopo la morte di Kim Jong-II, sono ripre-se al fine di ottenere una denuclearizzazione del paese. Se il nuovo presidente Kim Jong-un moltiplica le visite pubbliche alle varie armate, il fratello maggiore, dalla sua residenza di Macao, predice l’imminente collasso del regime.

di BruCE CuMINGS*

* Direttore del dipartimento di storia all’uni-versità di Chicago. Autore di The Korean War: A History, Random House, NewYork, 2010.

Pyongyang, coRea del noRd,

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Le Monde diplomatique il manifesto febbraIo 2012 7

Chi vuole strangolare l’OnuSCARSITà dI MEzzI IN CONCOMITANzA dEL g20

fin dall’arrivo colpisce il contrasto: rispetto al «palazzo di vetro» di New York, al quale

le questioni di pace e sicurezza con-feriscono una certa solennità, la sede dell’Organizzazione delle nazioni uni-te (Onu) a Vienna ricorda piuttosto un piccolo residence studentesco. Vi si affaccendano circa quattromila fun-zionari, che attraversano corridoi fre-giati di opere d’arte dal gusto variabile (ma provenienti dal mondo intero) e di gigantografie di caschi blu in azione. «Lavoriamo per le agenzie tecniche delle Nazioni unite», ripetono legger-mente sulla difensiva, per marcare la differenza con il carattere più politico delle istituzioni di Manhattan.

Insieme a New York, Ginevra e Nairobi, la capitale austriaca costitu-isce uno dei quattro quartieri gene-rali dell’Onu. A qualche stazione di metro dai sontuosi palazzi dell’antica città imperiale, in un edificio a forma di stella che evoca gli anni ’60-’70, il Vienna International Centre (Vic) (si veda il box) ospita non meno di nove organizzazioni internazionali. La Francia invia a Vienna tre ambasciato-

ri permanenti – presso l’Austria, l’Or-ganizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa (Ocse) e l’Onu, quando la maggior parte degli altri paesi si «limita» a due.

Ogni anno, negli uffici del Vic si concludono le trattative per decine di trattati e migliaia di risoluzioni e rap-porti tecnici. Lontano dai riflettori, diplomatici e giuristi vi mantengono talvolta conflitti di bassa intensità su alcuni emendamenti o formulazioni – dovremmo forse parlare di «riciclag-gio di proventi di reato» o di «riciclag-gio di denaro»? A volte le questioni in gioco si rivelano ancora più importan-ti, come per esempio nella definizione di un atto terroristico. L’8 settembre 2006, l’Assemblea generale dell’Onu ha adottato una strategia mondiale di lotta al terrorismo che fa riferimento ai trattati successivi al 1937 in vigore in quest’ambito. L’ufficio delle Nazio-ni unite contro la droga e il crimine (Unodc), ubicato a Vienna, è incarica-to di facilitare l’attuazione di tale stra-tegia attraverso misure di consulenza tecnica: assistenza legale, missioni sul campo, formazione di magistrati, ecc.

una sorTa di ripartizione di compiti disegnata su scala mon-

diale. Gli Stati sollecitano le agenzie tecniche dell’Onu per delucidare o re-golamentare questioni o interventi sul campo, come lo sviluppo o la coopera-zione scientifica. Ecco che molti Paesi del Sahel hanno richiesto all’Unodc la messa a punto di un manuale pratico per la lotta al terrorismo; altri hanno sollecitato un’assistenza tecnica nel-la lotta alla corruzione. In compenso, rispetto alle grandi questioni politi-che, gli Stati sono più spesso inclini a mobilitare le organizzazioni regionali, come l’Unione europea, o gruppi di potenze, come il G8 o il G20 (1).

Istituiti in maniera informale dai Paesi più industrializzati, questi «G» funzionano di fatto come dei governi. Permettono infatti ai loro membri di li-berarsi dalle procedure onusiane per le-giferare senza la minima legittimità. «Si tratta soprattutto di impatto mediatico, smorza il tono Jean-Pierre Bugada. Riu-nioni di questo tipo non portano neces-sariamente a risultati concreti, fermo restando il ruolo dell’Onu quale stru-mento principale della comunità inter-nazionale.» Se il Direttore del Servizio informazioni delle Nazioni unite (Unis) per l’Europa sembra rassicurante, egli riconosce allo stesso tempo che l’orga-nizzazione «ha perso il treno della crisi finanziaria»: sono infatti il Fondo mo-netario internazionale (Fmi), la Banca mondiale, alla periferia del sistema onu-siano, e l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) ad occupare il cam-po. Cosa fanno la Conferenza delle Na-zioni unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) o l’Organizzazione delle Na-zioni unite per lo sviluppo industriale (Unido)? Al contrario delle istituzioni di Bretton Woods, il loro impegno resta caratterizzato dalle questioni dello svi-luppo, specialmente dei paesi del sud; la loro azione non punta quindi sul libero scambio o sulla finanza.

Direttore della Commissione del-le Nazioni unite per il diritto com-merciale internazionale (Uncitral), Renaud Soriel rimprovera la margi-nalizzazione di un’istituzione dove la «piccola musica» della coopera-zione internazionale, e non solo della concorrenza, si fa sempre sentire, a

dispetto delle lobby padronali estre-mamente attive. Segno dei tempi, le date della Conferenza mondiale delle Nazioni unite sullo sviluppo sosteni-bile (Rio + 20), prevista per l’inizio di Giugno 2012, sarebbero state postici-pate di 15 giorni per armonizzarsi con il calendario del G20.

In materia di sicurezza internaziona-le, dove l’Onu – attraverso il suo Con-siglio di sicurezza – è al centro della scena, sono i cinque paesi detentori del diritto di veto che danno il la, mentre l’esecuzione delle decisioni prese è spesso affidata all’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del nord (Nato), come in Libia nella primavera del 2011. «Si tratta di una fase fondamentale per le organizzazioni internazionali, afferma un alto funzionario francese

che preferisce mantenere l’anonimato. Gli Stati sembrano navigare a vista: sbandierando il loro attaccamento al multilateralismo, rianimano tuttavia le relazioni bilaterali e cercano di strin-gere, come prima del 1914, alleanze ad hoc che permettano loro di controlla-re la gestione di problemi circoscritti, come la droga o il terrorismo.» Nei fat-ti, il budget delle agenzie Onu a Vienna copre appena il 10% delle loro attività. Per il resto, queste devono bussare ai donatori. «Presentiamo i progetti su richiesta degli Stati o dell’Assemblea generale e poi cerchiamo i fondi», spie-ga Mauro Miedico dell’Unodc, prima di precisare che «si tratta unicamente di fondi pubblici, per non rischiare di confondere i ruoli».

Alcune agenzie dell’Onu risentono di riduzioni budgetarie drastiche e tassative, e i dirigenti ammettono di autofinanziare i loro spostamenti a

New York. I contratti a tempo deter-minato sono divenuti la norma per il personale internazionale, spesso ul-tra-qualificato. Il 23 dicembre 2011, l’organizzazione ha previsto una ri-duzione del budget del 5% per il 2012 e 2013 – 260 milioni di dollari (200 milioni di euro) in meno su un tota-le di più di 5 miliardi. «Il boom degli anni ’60 e ’70 sembra ormai lontano, sospira Bugada. All’epoca, il dena-ro dello sviluppo scorreva a fiumi.» Nel corso del tempo, invece, l’Onu è diventata una grossa macchina buro-cratica – il Segretariato generale da lavoro più o meno a quarantaquattro-mila persone nel mondo – che soprin-tende a un lavoro quotidiano senza ri-uscire tuttavia ad inserirsi nei grandi dibattiti della società. Inoltre alcune iniziative, come quella del Global Compact (Patto mondiale) della fine degli anni ’90, hanno danneggiato la sua immagine nel mondo dell’as-sociazionismo. Questo partenariato mira infatti a rafforzare i legami tra le agenzie e le grandi imprese per accre-scere la generale efficacia sul campo. Non c’è forse un rischio di conflitto di interessi (2)?

«Non si fa altro che parlare dell’Onu quando qualcosa va storto, eppure non si mette mai in risalto il suo lavoro quotidiano sul campo», fa notare un funzionario dell’Unido. O le centinaia di programmi sanitari o di aiuto ai rifugiati senza i quali milioni di persone nel mondo non sopravvi-vrebbero. Presso il Vic, ogni agenzia – meglio ogni funzionario – porta avanti un progetto specifico: un trattato in preparazione, delicati negoziati, un «codice di condotta» da aggiornare, una legge-quadro da rifinire, un grup-po di lavoro da ravvivare…

Dal suo piccolo ufficio Niklas Hed-man, vice direttore dell’Ufficio per gli affari dello spazio extra-atmosferico (Unoosa), espone con meticolosità i pericoli dell’inquinamento causato dalle dodicimila sonde spaziali lancia-te nell’atmosfera a partire dagli anni ’50. Una mano nervosa sulla tastiera del suo pc, questo svedese dall’aria affidabile mostra il nuovo archivio elettronico degli oggetti lanciati nel-lo spazio. «Non è che l’inizio di tutto un lavoro di informazione e monito-raggio», spiega. Dietro di lui, su uno scaffale ordinato con cura, dei satelliti

in miniatura sono in mezzo a un modellino dell’asse lunare in rosso e bianco del Professor Tournesol. L’Unoosa lavora anche ad una sorta di polizia della circolazione spaziale: chi è responsabile in caso di col-lisione? Una questione ancora più sensibile dal momento che paesi emergenti come la Cina, l’India e il Brasile, ma anche attori privati come Space Ima-ging, si lanciano ormai nella corsa allo spazio.

Le agenzie dell’Onu hanno preso coscienza della necessi-tà di divulgare il loro lavoro in maniera più efficace intrapren-dendo nuove strategie di comu-nicazione: la distribuzione di documenti, l’apertura delle ri-unioni ai giornalisti, la consul-tazione di attori multipli, ecc. Mostrandosi anche disposte a collaborare con le organizza-zioni non governative (Ong). Una collaborazione a volte molto stretta dato che alcuni testi – come il Trattato sull’in-terdizione delle mine antiuomo del 1997, denominato «Icbl» (Campagna internazionale per la messa al bando delle mine) – sarebbero esclusivamente ope-ra di Ong.

Ma non è affatto certo che l’intreccio tra pubblico e pri-vato contribuisca infine alla chiarezza dei processi e al loro controllo democratico. Sen-za contare la propensione dei funzionari dell’Onu e delle associazioni all’utilizzo di un gergo talvolta stomachevole che mescola enigmatici acro-

nimi, riferimenti criptati e linguaggi incomprensibili a base di inglese di aeroporto. Ed ecco che, da qualche mese, nei corridoi delle Nazioni unite non si parla d’altro che della possibi-le sostituzione degli «Odm» con gli «Odd» a pochi mesi dal Summit Rio +20. Provate a tradurre «Obiettivi del millennio per lo sviluppo» con «obiet-tivi per uno sviluppo sostenibile» – la differenza non salta agli occhi!

Le relazioni internazionali rassomi-gliano sempre più ad un caleidoscopio di organizzazioni, programmi e agen-zie che la ristrettezza budgetaria spinge verso un coordinamento molto poco spontaneo. Così, l’Onudi collabora con l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), che gestisce un programma insieme al Fondo inter-nazionale di sviluppo agricolo (Ifad), che a sua volta ha ricevuto un manda-to dall’Unione africana che, ancora, ha stretto un partenariato con l’Unione eu-ropea… Ma i rapporti non sono sempre così armoniosi. Per esempio l’Unione europea, cui piace presentarsi come una multinazionale dei diritto commer-ciale, snobba le riunioni dell’Uncitral. «La Commissione di Bruxelles non se-gue i nostri lavori e non fa che inter-venire a posteriori, quando si accorge che il testo adottato non le sta bene», osserva Sorieul. I ventisette sembrano spesso colpiti da emiplegia, ed è solo a volte in extremis che riflettono sulla co-erenza dei negoziati all’Onu con il di-ritto europeo. Grande è quindi il rischio di plasmare norme contraddittorie che regalano momenti di gloria a tribunali internazionali e avvocati. Va detto che lo statuto che l’Unione possiede in seno all’Onu non è chiaro: ufficialmente ap-partiene alla categoria degli osservato-ri, ma ciò non le conferisce alcun diritto di voto. Inoltre alcuni stati, come il Re-gno unito, fanno della sua marginaliz-zazione un punto di principio.

(1) Durante la crisi petrolifera, per iniziativa della Francia, si sono incontrati nel 1975 Germa-nia, Stati uniti, Giappone, Regno unito e Ita-lia. Questo G6 è stato raggiunto dal Canada nel 1976 (G7) e poi dalla Russia nel 1998 (G8). Il Presidente della Commissione euro-pea ne è membro. Il G20 si è riunito per la prima volta nel 1999 a Berlino, dopo la crisi finanziaria asiatica del 1997-1998.

(2) Si legga Christian G. Caubet, «Liaisons dangereuses avec le monde des affaires», LeMonde diplomatique, settembre 2005.

(Traduzione di L.R.)

Per la seconda volta in cinquant’anni, le Nazioni unite hanno scontato, lo scorso 23 dicembre, una revisione del bilancio al ribasso per il 2012-2013. Se la crisi finanzia-ria giustifica ufficialmente una simile riduzione, gli Stati membri, che spesso ostentano un attaccamento inde-fettibile all’Onu, non esitano a eluderla. L’organizzazione sembra ricercare la propria strada in un quadro geopoliti-co in piena trasformazione.

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Navigare a vista

nazioni unite e altre filiazioni

«le cose potrebbero essere più limpide, compreso il G20», afferma Florence Mangin, ambasciatrice e rappresentante permanente per la

Francia presso l’Onu. Sottolinea che Parigi ha appoggiato vigorosamente una risoluzione del maggio 2011 che rafforza il rango protocollare dell’Unio-ne in seno alle istituzioni onusiane. Ma al di là degli aspetti simbolici, le piccole guerre di trincea sulle questioni statutarie possono avere impatti concreti. Se la supremazia dell’Onu sullo scacchiere internazionale sembra limitata è anche perché i testi fondatori dell’organizzazione rimangono im-pregnati di una filosofia umanista ormai poco diffusa nell’ordine economico globalizzato. Oltre alla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, che definisce i valori dell’Onu, il Trattato di San Francisco, firmato il 26 giu-gno 1945, inizia con delle parole – «Noi, popoli delle Nazioni unite, abbiamo deciso (…) [e dato mandato ai] nostri rispettivi governi» – incompatibili con i diktat dell'Fmi o del direttorio franco-tedesco per i paesi dell’eurozona.

La sede dell’Organizzazione delle nazioni unite a Vienna ospita nove organizzazioni: l’Ufficio delle Nazioni unite contro la droga e il crimine (Unodc), la Rete internazionale di informazione sul riciclaggio di dena-ro (Imolin), l’Organo internazionale di controllo degli stupefacenti (Oics), dell’Ufficio per gli affari dello spazio extra-atmosferico (Unoosa), l’Am-ministrazione postale delle Nazioni unite (Apnu), l’Ufficio Onu per i ser-vizi e i progetti (Unops), il Comitato scientifico delle Nazioni unite per lo studio degli effetti delle radiazioni ionizzanti (Unscear), la Commissione delle Nazioni unite per il diritto commerciale internazionale (Cnudci) e l’Organizzazione delle Nazioni unite per lo sviluppo industriale (Unido). Si aggiungono gli uffici regionali del Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Pnue) e dell’Alto commissariato per i rifugiati (Hcr). Ma Vien-na accoglie anche l’Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa (Ocse), l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) e Organizzazione per il Trattato del bando totale degli esperimenti nucleari (Ctbt), che non appartengono al sistema delle Nazioni unite.

A.-C. r.

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ganizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) si stabiliva in media al di sopra del 24% rispetto a quello del 2007, e del 57% rispetto a quello del 2006. Nel caso del mais, la produzione di bioetanolo americano – dopato da circa 6 miliardi di dollari (4,7 miliardi di euro) di sov-venzioni annuali erogate ai produttori di «oro verde» – ha considerevolmente ridotto l’offerta statunitense sul mer-cato mondiale del mais. Dal momento che questo serve in parte all’alimen-tazione animale, la sua scarsità sui mercati, mentre la domanda di carne cresce, ha contribuito ad aumentare i prezzi del 2006. L’economista Philippe Chalmin (6) rivela che «l’altro grande cereale coltivato, il riso, ha conosciu-to all’incirca la stessa evoluzione, con prezzi che, a Bangkok, sono passati da 250 a oltre 1.000 dollari per tonnellata (7).» Il mondo ha preso bruscamente coscienza del fatto che nel XXI secolo decine di milioni di persone muoiono di fame. Poi il silenzio ha ricoperto nuovamente la tragedia.

Ma, dopo lo scoppio della crisi fi-nanziaria, la speculazione sulle ma-terie prime alimentari non ha fatto che accelerare: fuggendo dal disastro che essi stessi avevano provocato, gli speculatori – in particolare i più im-portanti, gli hedge funds, o fondi spe-culativi – si sono spostati sui mercati agroalimentari. Per loro, tutti i beni del pianeta possono diventare oggetto di scommesse sul futuro. Allora per-ché non gli alimenti «di base» – riso, mais e grano – che, insieme, coprono il 75% del consumo mondiale (50% per il riso)? Secondo il rapporto 2011 della Fao, solo il 2% dei contratti a ter-

una sTrada driTTa, asfal-tata, monotona. I baobab sfila-no e la terra è gialla, polverosa,

malgrado l’ora mattutina. Nella vec-chia Peugeot nera l’aria è soffocante e irrespirabile. In compagnia di Adama Faye – ingegnere agronomo e consi-gliere per la cooperazione dell’amba-sciata svizzera – e del suo autista, Ibra-hima Sar, ci dirigiamo al nord, verso i grandi possedimenti del Senegal. Per misurare l’impatto delle speculazioni sui prodotti alimentari disponiamo – stese sulle ginocchia – delle ultime tabelle statistiche della Banca africa-na di sviluppo. Ma Faye sa che, più avanti, ci aspetta un’altra dimostrazio-ne di tale impatto. La vettura penetra nella città di Louga, a 100 chilometri da Saint-Louis. Poi, all’improvviso, si ferma e Adama dice: «Vieni! Andiamo a vedere la mia sorellina. Lei non ha bisogno delle tue statistiche per spie-gare ciò che sta succedendo.»

Un mercato povero, alcune banca-relle sul bordo della strada. Mucchi di niébè e di manioca, qualche pollo che chioccia dietro le reti. Arachidi, pomodori raggrinziti, patate. Arance e clementine dalla Spagna. Non c’è un mango, frutto tuttavia noto in Senegal. Dietro una bancarella di legno, una giovane donna, vestita con un ampio boubou giallo acceso e con un foulard sul capo, chiacchiera con i suoi vicini, È Aïsha, la sorella di Faye. Risponde vivacemente alle nostre domande, ma,

man mano che parla, la sua collera monta. Presto, sul bordo della stra-da del nord, si forma intorno a noi un chiassoso e gioioso assembramento di bambini di tutte le età, di giovani e di donne anziane.

Un sacco di 50 chilogrammi di riso importato costa 14.000 fran-chi Cfa (1). Di colpo, la zuppa della sera è sempre più liquida. Solo pochi chicchi sono autorizzati a galleggia-re nell’acqua della pentola. Presso i mercanti, le donne acquistano ormai riso al bicchiere. Una piccola bombo-la di gas è passata, nell’arco di pochi anni, da 1 300 a 1.600 Cfa; un chilo di carote da 175 a 245 franchi Cfa; una baguette di pane da 140 a 175 franchi Cfa. Quanto alla vaschetta da trenta uova, il suo prezzo è salito in un anno da 1.600 a 2.500 franchi Cfa. Rispetto al pesce, le cose non sono molto diverse. Aïsha finge ora di li-tigare con i suoi vicini, a suo parere troppo timidi, nella descrizione che essi fanno della loro condizione: «Dì al Toubab [parola che designa le per-sone bianche e occidentali] quel che paghi per un chilo di riso! Diteglielo, non abbiate paura! Quasi ogni gior-no aumenta tutto.»

È così che, lentamente, la finan-za affama le popolazioni, Senza che queste ultime comprendano sempre i meccanismi su cui si fonda la specu-lazione.

all’origine di tutto c’è una specificità, perché lo scambio dei

prodotti agricoli non funziona affatto come gli altri: su questo mercato, si consuma più di quanto si vende. Così – stima l’economista Olivier Pastré (2) – «il commercio internazionale di cereali rappresenta poco più del 10 % della produzione, comprendendo tutte le colture (7 % per il riso)». L’econo-mista conclude che «uno spostamen-to minimo della produzione mondiale in un senso o nell’altro potrebbe fare tremare il mercato (3).» Davanti alla crescente domanda, l’offerta (la pro-duzione) si scopre non soltanto fram-mentata, ma estremamente sensibile alle variazioni climatiche: siccità, grandi incendi, inondazioni, ecc.

È per questa ragione che all’inizio del XX secolo, a Chicago, apparvero i prodotti derivati. Questi strumenti fi-nanziari, il cui valore è «derivato» dal prezzo di un altro prodotto, definito «sottostante» – come azioni, obbliga-zioni, strumenti monetari –, erano ini-zialmente destinati a permettere agli agricoltori del Middle west di vendere la loro produzione ad un prezzo fissato prima della raccolta – da cui il nome di «contratto a termine». In caso di cadu-ta dei prezzi al momento della mietitu-ra, l’agricoltore era protetto; in caso di impennata, gli investitori registravano un profitto.

Ma, all’inizio degli anni ’90, questi prodotti a vocazione prudenziale si sono trasformati in prodotti speculati-vi. Heiner Flassbeck, economista alla guida della Conferenza delle Nazio-ni unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad), ha stabilito che tra il 2003 e il 2008 la speculazione sulle materie prime per mezzo di fondi indicizza-

ti (4) è aumentata del 2.300% (5). Al termine di questo periodo, l’impen-nata dei prezzi degli alimenti di base ha provocato le famose «rivolte della fame» che hanno scosso trentasette paesi. Le immagini delle donne della bidonville haitiana di Cité Soleil che preparavano gallette di fango per i loro figli sono circolate sugli schermi televisivi. Violenze urbane, saccheggi, manifestazioni che radunavano centi-naia di migliaia di persone nelle strade del Cairo, di Dakar, di Bombay, di Port au Prince, di Tunisi, che reclamavano pane per assicurarsi la sopravvivenza, hanno occupato per diverse settimane la prima pagina dei giornali.

L’indice 2008 dei prezzi dell’Or-

mine sulle materie prime si conclude effettivamente con la consegna di una merce. Il restante 98% è rivenduto dagli speculatori prima della data di espirazione.

Questo fenomeno ha preso una tale ampiezza che il Senato americano se ne è preoccupato. Nel luglio 2009 ha

denunciato una «speculazione ecces-siva» sui mercati del grano, criticando in particolare il fatto che alcuni traders detengono fino a cinquantatremila contratti nello stesso momento! Il Se-nato ha anche denunciato il fatto che «sei fondi indicizzati sono attualmente autorizzati a tenere centotrentamila contratti sul grano nello stesso mo-mento, per un ammontare superiore al limite autorizzato per gli operatori finanziari standard (8)».

Il senato statunitense non è l’unico ad allarmarsi. Nel gennaio 2011, un’al-tra istituzione ha classificato l’impen-nata dei prezzi delle materie prime, soprattutto alimentari, come una delle cinque maggiori minacce che pesano sul benessere delle nazioni, allo stesso livello della guerra cibernetica e della detenzione di armi di distruzione di massa da parte dei terroristi: il Forum economico mondiale di Davos….

Una condanna che ha del sorpren-dente, dato il meccanismo di recluta-mento di questo cenacolo. Il fonda-tore del Forum economico mondiale, l’economista svizzero Klaus Sch-wab, non ha lasciato al caso la do-manda di ammissione al suo Club dei 1.000 (nome ufficiale del circo-lo): sono invitati esclusivamente i dirigenti di società il cui bilancio supera il miliardo di dollari. Ognuno dei membri paga 10.000 dollari per l’entrata nel Forum. Essi solo posso-no avere accesso a tutte le riunioni. Tra loro, evidentemente, gli specula-tori sono numerosi.

i discorsi di aperTura te-nuti nel 2011 nel bunker del cen-

tro congressi hanno tuttavia indicato chiaramente il problema. Essi hanno condannato con tutte le loro forze gli «speculatori irresponsabili» che, per il puro richiamo del profitto, rovinano i mercati alimentari e aggravano la fame nel mondo. Poi, per sei giorni, una se-quela di seminari, conferenze. Incontri, riunioni confidenziali nei grandi alber-ghi della piccola città innevata, hanno discusso la questione… Ma è davvero nelle sale dei ristoranti, nei bar, nei bi-strot di Davos specializzati nella vendi-ta di raclette (formaggio fuso, ndt) che il problema della fame nel mondo tro-verà le orecchie più attente?

Per vincere una volta per tutte gli speculatori e preservare i mercati delle materie prime agricole dai loro attac-chi a ripetizione, Flassbeck propone una soluzione radicale: «togliere agli speculatori le materie prime, in parti-colare quelle alimentari (9).» E riven-dica un mandato specifico dell’Orga-nizzazione delle Nazioni unite. Ciò, spiega, conferirebbe ad Unctad il con-trollo mondiale sulla formazione dei prezzi di Borsa delle materie prime agricole. A partire da quel momento,

solo i produttori, i commercianti e gli utilizzatori di materie prime agrico-le potranno intervenire sui mercati a termine. Chiunque negozierà un lot-to di grano o di riso, degli ettolitri di olio ecc., dovrà essere costretto a con-segnare il bene negoziato. Converrà anche instaurare – per gli operatori – un’elevata quota minima di autofinan-ziamento. Chi non farà uso del bene negoziato verrà escluso dalla Borsa.

Il «metodo Flassbeck», se venisse applicato, allontanerebbe gli specu-latori dai mezzi di sopravvivenza dei dannati della terra e ostacolerebbe seriamente la finanziarizzazione dei mercati agroalimentari. La proposta di Flassbeck e della Unctad è energica-mente sostenuta da una coalizione di organizzazioni non governative (Ong) e di ricerca (10).

Ciò che manca, ora, è la volontà de-gli stati.

(1) Le cifre risalgono al maggio 2009, 1 euro = 655,96 franchi Cfa. Il Salario minimo inter-categoriale (Smic) ammonta a 40.000 franchi Cfa.

(2) Ndr. Anche presidente di IMbank (Tunisia) dal 2001, amministratore dell’Associazione dei direttori di banca (dal 1998) e di Cmp-Banque (depuis 2004).

(3) Olivier Pastré, «La crise alimentaire mon-diale n’est pas une fatalité», in Pierre Jac-quet e Jean- Hervé Lorenzi (a cura di), Les Nouveaux Equilibres agroalimentaires mondiaux, Presses universitaires de France (Puf), Parigi, 2011.

(4) Si dice a proposito di fondi di investimento il cui rendimento è supposto sposare quello di un indice di riferimento (portafoglio valori, Cac 40, ecc.).

(5) Conferenza delle Nazioni unite sul commer-cio e lo sviluppo, «Rapport sur le commerce et le développement», Ginevra, 2008.

(6) Ndr. Inoltre, ex consigliere della Società francese di assicurazioni (Euler-Sfac), tra il 1991 e il 2003, e presidente d’Objectif alpha obligataire (gruppo Lazard) dal 2005.

(7) Philippe Chalmin, Le Monde a faim, Bourin editeur, Parigi, 2009.

(8) Paul-Florent Montfort, «Le Sénat américain dénonce la spéculation excessive sur les marchés à terme agricoles», rapporto del sotto-comitato permanente del Senato degli Stati uniti incaricato delle inchieste, www.momagri.org/fr

(9) Heiner Flassbeck, «Rohstoffe den Speku-lanten entreissen», Handelsblatt, Düssel-dorf, 11 febbraio 2010.

(10) Le loro argometazioni sono riassunte in un saggio di Joachim von Braun, Miguel Ro-bles e Maximo Torero, «When Speculation Matters », International food policy research institute (Ifpri), Washington, 2009.

(Traduzione di Al. Ma.)

Dalla sua entrata in carica,all’inizio di gennaio, José Gra-ziano, il nuovo direttore generale dell’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura, ha promesso di aumentare le risorse destinate all’Africa, la «priorità» del suo mandato. Ma al di là del puntuale – e necessario – aiuto, si dovrebbero sottrarre al sistema spe-culativo le materie prime agricole, come suggeriscono alcuni economisti.

febbraIo 2012 Le Monde diplomatique il manifesto8

Come la finanza affama le popolazioniLE dERRATE ALIMENTARI, ULTIMO RIfUgIO dELLA SPECULAzIONE

di JEAN ZIEGlEr*

* Vicepresidente del comitato consultivo del Consiglio di diritti umani dell’Organizza-zione delle Nazioni unite. Autore di De-struction massive. Géopolitique de la faim, Seuil, Parigi, 2011.

Un dispositivo perverso

Per un controllo mondiale dei prezzi

bolgatanga, ghana, febbRaio 2008l'associazione di donne sole daborin controlla la produzione di riso

daKaR, Senegal, Maggio 2008trasporto di riso proveniente dalla thailandia

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permetterò punti di vista pessimistici, ma solo positivi (2).»

In Iraq – e per certi versi è la stes-sa cosa nella Siria di Al-Assad –, era difficile opporsi al presidente. Le re-gistrazioni delle riunioni sottolineano la piaggeria dominante, che impediva qualsiasi discussione seria su argo-menti vitali. Le riunioni dipendevano dall’umore del capo, e nessuno si occu-pava realmente dell’ordine del giorno: per la maggior parte del tempo, Sad-dam Hussein parlava di quello che gli passava per la testa.

Il culto della personalità favoriva i deliri di onnipotenza del presidente, la convinzione di essere popolare e che fosse suo destino portare un messag-gio speciale (rissala) al popolo. Quan-to ad Al-Assad, di recente è arrivato a dichiarare a un giornalista: «Conduco una vita normale. Per questo sono po-polare (3).»

Che si tratti di Saddam Hussein o di Al-Assad, il presidente si ritiene al di sopra di ogni critica. Le decisioni sbagliate vanno addebitate a qualcun altro. Per non voler cambiare nulla, questi tiranni finiscono per vivere sempre più staccati dalla realtà, sia per il favore mediatico di cui godono, che per le lodi ininterrotte di colleghi e subordinati. In un’intervista alla televisione americana, Al-Assad ha spiegato: «Ho fatto del mio meglio per proteggere il popolo, quindi non mi sento colpevole... Non ci si sente colpevoli quando non si uccide il pro-prio popolo (4).»

Che sia in Iraq, in Siria o in Libia, è con il terrore che i regimi autoritari si assicurano la sopravvivenza. In una riunione con alti funzionari, nel 1987, Saddam Hussein giustifica la sua de-cisione di usare la violenza. Spiega al capo della sicurezza generale (Al-Amn Al-Am): «Siamo qui per servire i cittadini, non per ucciderli. Tuttavia, chiunque debba essere abbattuto sarà abbattuto. Taglieremo delle teste per servire quindici milioni [d’iracheni] (5).» In Siria, però, sembrerebbe che nella popolazione il timore diminui-sca man mano che aumenta la brutalità della repressione: «Le pallottole hanno ucciso la paura (6).»

Eliminare ogni forma di opposizio-ne provoca un’alterazione costante del-la verità. I capi militari e i responsabili dell’informazione evitano di comuni-care notizie non gradite al presidente. In un’illuminante registrazione di una riunione tenutasi nel 1992, nel fare il bilancio dell’invasione del Kuweit dell’agosto 1990, e della rivolta della primavera 1991 (7), Hussein Kamel, genero di Saddam Hussein e all’epo-ca uno dei collaboratori più vicini, gli annuncia: «La verità, è che la maggior parte [dei militari] è fuggita, salvo due o tre.

– Il presidente: le persone serie mo-strano il loro vero volto in queste cir-costanze.

– Kamel: Non le abbiamo fornito un quadro reale della situazione per tut-ta una serie di ragioni, in parte paura, ma anche per evitare che qualcuno ne deducesse che stavamo per perde-re. (…) Il morale era molto basso, ma quando [i generali] sono venuti a par-larle, non potevamo dirle la verità sul-la nostra situazione (8).»

Nel 1991 e nel 2011, Saddam Hus-sein e Al-Assad sono stati colti di sor-presa dall’esplodere dell’insurrezione nel loro paese. In entrambi i casi, il cerchio di persone vicine al presidente non ha svolto un ruolo di vigilanza. In tutte e due le situazioni, il nucleo cen-trale era composto da membri della famiglia e del clan: fratelli, cugini di primo o secondo grado sposati con membri della famiglia del presidente. Se da un lato questo consente la for-mazione di un gruppo compatto che condivide gli stessi interessi ed è co-sciente che la caduta del presidente lo porterebbe alla rovina, dall’altro, una simile strutturazione comporta la to-

tale assenza di discussioni franche e aperte.

In Iraq, col passare del tempo, la maggior parte delle decisioni veniva-no prese da Saddam Hussein, senza consultazione. Nessuna discussione ha preparato l’invasione del Kuwait nel 1990, mentre l’attacco contro l’Iran, nel settembre del 1980, era stato prece-duto da una serie di dibattiti politici e militari.

La longevità del regime si spiega con la determinazione del gruppo dirigente nello sradicare ogni forma di opposi-

zione, sia militare che civile, e nel ricorrere alla violenza e alla paura per controllare la popola-zione; con l’instaurazione di un sistema di ricompense e puni-zioni; con il reclutamento di un gran numero di sostenitori, an-che se molti non sono stati sem-pre attivi; con la capacità di uti-lizzare il talento e l’intelligenza degli iracheni colti per ricostru-ire il paese (dopo il 1988 come dopo il 1991); e infine, con la perspicacia di Saddam Hussein e la sua abilità nello sventare le manovre di avversari e con-correnti. Non ha mai permesso neppure ai due figli, Oudai e Qoussai, di diventare abbastanza forti da contestare il suo potere.

Saddam Hussein ha affrontato le lotte interne e le sconfitte con perfet-to sangue freddo, dovuto in parte alla forte personalità e in parte ad uno stato d’animo delirante. Un esempio: si era convinto – e ha convinto il popolo – di aver vinto la guerra contro l’Iran, no-nostante le enormi perdite materiali e umane. Dal canto suo, Al-Assad ha affermato di non aver perso il sonno durante la crisi attuale: «Sono calmo di natura... Non tratto le crisi in modo emotivo. Le tratto con calma. Questo mi rende più efficace e capace di tro-vare soluzioni (9).»

Saddam Hussein controllava i cen-tri più importanti del potere. Non ave-va alcun serio concorrente, e nessuno ha mai avuto abbastanza influenza da poterlo sfidare. Diventato presiden-te nel 1979 (era vice-presidente dal 1968), ha chiarito subito quali fossero le responsabilità di un ministro: «ri-cevere le direttive del Ccr e control-larne l’esecuzione da parte dei gradi inferiori [del suo ministero] in modo che vengano realizzate nelle date ri-chieste (10)». Anche in Siria la buro-

crazia ministeriale è un’«istituzione subalterna (11)».

D’altra parte, la forza e la longevità di Saddam Hussein possono essere at-tribuite anche alla sua capacità di adat-tarsi rapidamente alle nuove situazioni. Quando sentiva di aver fatto un calcolo sbagliato, cambiava posizione, ma sen-za mai ammettere di aver commesso un errore di giudizio. È stato così per gli spettacolari voltafaccia riguardo al tribalismo, alla religione o allo sta-tuto delle donne (12). Tuttavia, questo controllo implacabile ha creato un processo decisionale imperfetto, che

ha portato a gravi errori di calcolo: il presiden-

te iracheno ha sottostimato le reazioni all’invasione del Kuweit nel 1990 e non ha preso sul serio la determinazione dell’amministrazione americana a in-vadere l’Iraq nel 2003.

Al contrario di suo padre o di Sad-dam Hussein, che hanno dovuto co-struirsi una solida base politica, Al-Assad ha ereditato la guida del paese e dipende dalla famiglia, in particolare dal fratello Maher, capo della Guardia repubblicana. Affronta la sua prima sfida interna seria e il tempo dirà se il gruppo dirigente riuscirà a trovare so-luzioni alla crisi, o si disintegrerà sotto l’enorme pressione interna e esterna.

Per i due dirigenti, il test decisi-vo sarà stato, o è tutt’ora, la lealtà del gruppo dirigente. Durante la rivolta della primavera del 1991, quando le diserzioni nell’esercito erano diventate massicce, il regime iracheno non è mai stato veramente in pericolo. Il Baath ha regolato la questione nel modo abitua-le: ricompensando chi denunciava i di-sertori e punendo chi li aiutava. Il Ccr ha ordinato di tagliare le orecchie non solo ai disertori, ma anche a coloro che li nascondevano.

Saddam Hussein ha spiegato al suo gabinetto: «Più volte ho provato a dissuadere la direzione dal ricorrere a queste misure [tagliare orecchie e mani], perché so che in questo modo ammazzeremo da cinque a seimila persone. Ma alla fine ho accettato (13)…» È troppo presto per dire se le diserzioni nell’esercito destabilizze-ranno il gruppo dirigente siriano e provocheranno scissioni, ma l’espe-rienza dimostra che questi regimi, per combattere l’opposizione, fanno leva su un piccolo numero di fedeli tra i soldati e i membri dei servizi di sicurezza.

Di fron-te ai pro -ble-mi,

Saddam Hussein o Al-Assad hanno sempre optato per soluzioni provviso-rie, il che dà loro un certo margine di manovra. Agiscono con la convinzione profonda di avere ragione e che il tem-po giocherà a loro favore. Per tutti gli anni ’80, durante la guerra Iran-Iraq, il presidente iracheno ha voluto credere che il regime dell’ayatollah Rouhollah Khomeiny fosse sull’orlo del baratro; si è aggrappato all’idea che l’Iran potesse essere facilmente sconfitto. Quando la guerra finì, commentò: «Abbiamo fat-to bene a ordinare al popolo iracheno di celebrare [la vittoria]. Il popolo ira-cheno ha bisogno che gli si dica cosa deve fare (14).»

Negli anni ’90, quando l’Organizza-zione delle Nazioni unite (Onu) impose sanzioni rigorose, Saddam moltiplicò piccole iniziative nei suoi confronti, ma per diversi anni, persuaso di poter ottenere un accordo migliore, rifiutò il programma «Petrolio contro alimenti» (15), finché non dovette cedere. Il po-polo iracheno ha pagato cara questa mancanza di perspicacia. Allo stesso

modo, gli emendamenti proposti da Al-Assad ai piani della Lega araba per porre fine alla violenza in Siria sono altrettante misure dilatorie per ritarda-re i compromessi reali.

Esistono, tuttavia, delle differenze tra i due regimi. Saddam Hussein ha costruito un suo modo di cooptazione e creato un vasto sistema di ricom-pense e punizioni che ha permesso al regime di resistere per trentacinque anni, nonostante molte guerre, rivolte e sanzioni severe. È anche riuscito a cre-are una base che gli è rimasta fedele, e il regime non avrebbe potuto essere

rovesciato senza l’intervento americano del 2003.

Al-Assad, al contrario, non è così profondamen-te radicato militarmente o politicamente. Inoltre, l’Iraq è un paese ricco di petrolio, e paradossalmente le sanzioni hanno raffor-zato il controllo del pote-re sul mondo degli affari centralizzando le attività economiche nelle mani del governo. L’economia della Siria, invece, è più aperta sul mondo e se crollasse ri-schierebbe di mettere in pe-ricolo i sostegni economici di Al-Assad. La decisione, all’inizio dell’ottobre 2011, di sospendere, a una setti-mana dall’entrata in vigore,

la proibizione d’importare beni di consumo, conferma il peso

del mondo degli affari. Peraltro, la fuga di denaro siriano all’estero, in partico-lare in Libano, non è un buon segnale per il regime.

Il problema è sapere se Al-Assad può ancora salvare il suo potere o se continuerà a falsare la realtà per capi-re troppo tardi, come Saddam Hussein prima di lui, fino a che punto i suoi cal-coli fossero sbagliati.

JOSEPH SASSOON

(2) Colloquio con un generale che aveva assistito alla riunione, 27 novembre 1995.

(3) The SundayTelegraph, Londra, 30 ottobre 2011.(4) Intervista a Bachar Al-Assad della giornalista americana Bar-bara Walters, Abc, 6 dicembre 2011.(5) Registrazione del maggio 1987, Conflict Records Research Center (Crrc), documento SH-SHTP-A- 000-958.(6) Leggere Alain Gresh, «Jours de tourmente en Syrie», Le Monde diplomatique, agosto 2011. (7) Alla sconfitta irachena in Ku-wait, ha fatto seguito una rivolta contro il regime, in particolare nelle regioni sciite e curde.(8) Crrc, SH-SHTP-D-000-614. Hussein Kamel è fuggito dall’Iraq nell’estate 1995, per poi rientrare nel paese dove è stato ucciso da membri della famiglia.(9) The Sunday Times, Londra, 20 novembre 2011. (10) «Saddam Hussein in a dis-cussion with the Cabinet, July

31, 1979», in Al-Mukhtarat, vol. 7, Dar al-Shu’un al-Thaqafiyya al-’Ammah, Bagh-dad, 1988. Al-Mukhtarat è una collezione di dieci volumi di discorsi e interviste di Sad-dam Hussein.

(11) Raymond A. Hinnebusch, Authoritar-ian Power and State Formation in Ba‘thist Syria: Army, Party and Peasant, Westview Press, Boulder (Stati uniti), 1990.

(12) All’inizio del suo regno aveva condotto una battaglia contro il tribalismo, a favore della marginalizzazione della religione e per i diritti delle donne, per poi rimettere in discussione queste conquiste, in particolare nel corso della guerra contro l’Iran.

(13) Registrazione della riunione di gabinetto, 21 febbraio 1994, Crrc, SH-SPPC-448. I soldati tagliavano le orecchie dei disertori e le mani dei medici che li curavano. Alcuni morivano perché le mutilazioni venivano eseguite senza controllo medico.

(14) Registrazione della riunione di gabi-netto, agosto 1988, Crrc, SH-SHTP-A-000-816.

(15) Programma voluto dall’Onu per permettere all’Iraq, sotto sanzioni internazionali dopo l’invasione del Kuwait nel 1990, di esporta-re una certa quantità di petrolio per compare alimenti, medicinali e prodotti di prima ne-cessità. L’Iraq firmerà questo accordo solo nel maggio 1996.

(Traduzione di G. P.)

Le Monde diplomatique il manifesto febbraIo 2012 9

Così decidono i tiranniMECCANISMI AUTORITARI IN IRAQ E IN SIRIA

continua dalla prima pagina

enRico baj Lacrime di generale1961

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febbraIo 2012 Le Monde diplomatique il manifesto10

L’Africa decolla, ma senza il SenegalUN MANdATO dI TROPPO PER IL PRESIdENTE WAdE

il senegal, paese dell’Africa occidentale che al momento dell’in-dipendenza, nel 1960, era il meglio

dotato in infrastrutture e risorse uma-ne, ha visto tali vantaggi sgretolar-si nel corso degli anni. Peggio: oggi esso si mostra incapace di prendere il treno dell’espansione economica che sta passando nel continente nero. Infatti, tra il 2011 ed il 2015, sette dei dieci paesi che registreranno i tassi di crescita più elevati del mondo, oltre a Cina, India e Vietnam, si situeran-no nell’Africa subsahariana. Etiopia: 8,1%; Mozambico: 7,7%; Tanzania: 7,2%; Congo: 7%; Ghana: 7%; Zam-bia: 6,9%; Nigeria: 6,8% (1). Invece il Senegal sprofonda al 2,7%.

I dirigenti del paese hanno sempre invocato le cause esterne – deteriora-mento dei termini dello scambio (2), programmi di aggiustamento strut-turale, svalutazione del franco Cfa, globalizzazione – per spiegare la po-vertà della grande maggioranza della popolazione. Facendo passare sotto silenzio i fattori interni: corruzione, nepotismo, logiche d’apparato e clien-telismo. Le elite hanno continuato a frenare qualunque crescita industriale, facendo dell’accaparramento di licen-ze d’importazione, derrate alimentari e prodotti manifatturieri i mezzi per costruire fortune personali.

Se i senegalesi si mostrano così delusi dei due mandati di Abdoulaye Wade (2000-2012), è perché quest’ul-timo si è inserito in questa tendenza mortifera per il paese. Egli l’ha ad-dirittura aggravata attraverso una personalizzazione senza precedenti del potere, arrivando al punto di desi-gnare il figlio come successore prima di cercare di ottenere di persona un nuovo mandato, in violazione della Costituzione (3). Nel 2009, Wade ha ammesso di avere consegnato una forte somma di denaro a un funzio-nario del Fondo monetario interna-zionale (Fmi), Alex Segura, per «rin-graziarlo» della sua missione a Dakar (4). Ancora, la stampa ha rivelato che alti responsabili del governo si era-no spartiti 20 miliardi di franchi Cfa (30 milioni di euro) di commissioni all’epoca della cessione di una licen-za globale di telefonia alla compagnia sudanese Sudatel (5).

In un memorandum dell’8 giugno 2010, i partner tecnici e finanziari (6) del Senegal denunciavano queste derive e affermavano che «la buona governance, la trasparenza e la lotta contro la corruzione sono indispensa-bili (7).» Per Mouhamadou Mbodj, co-ordinatore del Forum civile, un’asso-ciazione di lotta contro la corruzione, «non è l’esistenza della corruzione in Senegal a porre il problema, ma l’in-sufficienza degli sforzi delle autorità (8).» Eletto trionfalmente nel 2000, Wade aveva tuttavia suscitato grandi speranze mettendo fine all’intermina-bile regno del Partito socialista sene-galese (Pss), rappresentato da Abdou Diouf, in carica dal 1960 e accusato egli stesso di ogni sorta di malversa-zione.

Questi fenomeni s’inscrivono in un rapporto di sottomissione alla Francia e ai suoi interessi che dura da cinquant’anni. Il settore privato è interamente in mano a gruppi france-si: Bolloré, Bouygues, Total, France-

Télécom, Société générale, Bnp Pari-bas, Air France... Inoltre, le politiche di cambio e di credito, cruciali per lo sviluppo, sono legate alla Francia attraverso i meccanismi della zona franco (9). In cambio del deposito del 50% delle riserve in valuta dei paesi membri su un conto del Tesoro francese, il franco Cfa è convertibile e saldato all’euro ad un tasso di cam-bio fisso sopravvalutato, mentre tutte le altre monete del continente han-no corsi fluttuanti. La convertibilità permette alle imprese francesi e alle classi dominanti di trasferire libera-mente le fortune che esse accumula-no rimanendo al sicuro da qualunque svalutazione monetaria. Inoltre, la rivalutazione dell’euro in rapporto al dollaro rovina l’economia dei paesi della zona franco. L’economista sene-galese Ely Madiodio Fall critica du-ramente il capo dello stato: «Wade lo sa da lungo tempo, ma è come tutti gli altri: non dice mai niente (10).» Tut-

tavia, alcune riforme s’imporrebbero: ancorare il franco Cfa a un paniere di monete locali, mettere fine al tasso d’interesse fisso e alla convertibilità, ammorbidire le politiche creditizie draconiane e impegnarsi sulla strada dell’integrazione regionale (11).

scelTe più giudiziose avrebbero permesso un’industrializzazione

del Senegal, che si sarebbe appoggia-ta su una rete d’infrastrutture, un ap-provvigionamento di energia solare pulita e a buon mercato (che il clima locale permette facilmente), un’indu-stria agroalimentare e un’industria chimica, con il fosfato sempre sotto sfruttato (un miliardo di tonnellate giacerebbero nel sottosuolo del paese [12]), una metallurgia, con il ferro del-la regione poverissima del fiume Se-negal (mai sfruttato malgrado i proget-ti evocati a partire dal 1960), la pesca e il turismo. Niente di tutto questo si è intrapreso in cinquant’anni.

Il settore agricolo, che impiega il 60% degli attivi, mostra una produtti-vità tra le più deboli. La crescita media annuale della produzione (1,2%) non è sufficiente per rispondere ai bisogni di una popolazione che cresce ogni anno del 2,5%. A dispetto di un controllo delle acque del fiume Senegal – grazie alle dighe di Diama e, in Mali, di Ma-nantali – che avrebbe favorito l’esten-sione delle colture, il paese importa quattro quinti del suo riso. La rovina della via delle Niayes impedisce qua-lunque progresso. La preferenza è stata data alla costruzione della circonval-lazione Nord (Vdn), poi a quella della tangente occidentale della capitale. Quest’ultima, affidata a Karim Wade, è stata realizzata senza gara d’appalto. Un controllo dei conti di questo can-tiere di diverse centinaia di milioni di euro è ancora da realizzare.

Le falde sotterranee di acqua dolce nei dintorni di Dakar sono oggetto di un sfruttamento povero e antiquato per la produzione di frutta e verdura. Il peggio è l’aver lasciato che le popo-lazioni, spinte dall’assenza di alloggi, costruissero delle abitazioni su terre soggette a inondazione. Per quanto riguarda le risorse della pesca, esse s’impoveriscono per il supersfrutta-mento, in particolare da parte dei paesi dell’Unione europea. Non è stata ten-tata alcuna politica, sia per rinegozia-re i contratti leonini che il Senegal ha firmato, sia per rinnovare gli stock di pesce mediante l’applicazione di un programma di ripopolamento.

L’allevamento soffre delle stesse ca-renze. Il bestiame rappresenterebbe un immenso potenziale se si attivasse un piano direttivo preciso in vista dell’au-mento della produttività. A titolo di

esempio, un programma d’insemina-zione, di fornitura di alimenti appro-priati e di controllo veterinario con-tribuirebbe a un aumento significativo della produzione di carne e di latte. Oggi il paese importa queste derrate a prezzi esorbitanti.

Durante le buone stagioni, il raccolto annuale di arachidi, la coltura base, può avvicinarsi al milione di tonnellate. Lo stato ne compra soltanto trecentomila, lasciando ai contadini la loro produ-zione di cui fanno olio artigianale e ali-mento per il bestiame. Il Senegal avreb-be potuto coprire le proprie necessità, come anche intervenire sul mercato mondiale dell’olio di arachidi, con po-litiche di trasformazione e di commer-cializzazione. Le elite preferiscono invece l’arricchimento procurato loro dall’importazione di olio vegetale (13).

In ambito energetico, grazie alla tecnologia del «solare concentra-to», due scienziati tedeschi, Gerhard Knies e Franz Trieb, hanno calcola-to che sarebbe sufficiente utilizzare una superficie equivalente allo 0,5% dei deserti caldi per coprire i bisogni energetici mondiali, senza contare i benefici addizionali per l’ambiente. Questi ricercatori promuovono il pro-getto Desertec, dal costo stimato di 400 miliardi di dollari (310 miliardi di euro), finalizzato all’installazione di impianti solari nel deserto del Sahara per l’approvvigionamento elettrico dei paesi dell’Europa, del Medio oriente e dell’Africa del Nord. Ma, in Senegal, tale impresa comprometterebbe le im-portazioni di petrolio, fonte di reddito per le elite e di profitti colossali per le banche commerciali francesi: Bnp Paribas e Société générale finanziano queste operazioni con crediti a breve termine a tassi di interesse proibitivi. Come se non bastasse, Dakar si appre-sterebbe anche a importare carbone per alimentare le centrali elettriche che il paese vuole installare per col-mare le sue carenze energetiche.

A questi errori di gestione si aggiun-gono le derive di un «bicefalismo po-litico-religioso». Esso si fonda sull’al-leanza tra le elite occidentalizzate e gli influenti marabutti, che ha contri-buito a basare l’economia del paese su un’unica coltura per la vendita imme-diata: l’arachide. Tale scelta è stata fatta molto presto: dal 1958 i capi spirituali si sono opposti con successo alle riforme agricole proposte dal primo presidente

del consiglio, Mamadou Dia. Il loro at-teggiamento non era motivato da ragio-ni spirituali, ma soltanto dal mercanti-lismo. Infatti, essi avevano il controllo della coltura dell’arachide che costitu-iva la loro principale fonte di reddito oltre che di quello del paese. Questa coltura inaridisce il suolo. Di fronte all’esaurimento progressivo delle terre, i coltivatori emigrarono in gran nume-ro verso la lussureggiante Casamance, rovesciando il ritmo delle colture tradi-zionali di tale regione del sud. L’esodo è tra le cause di un conflitto politico, fondiario e comunitario che dura da tre decenni (14).

L’impasse in cui il regime di Wade ha fatto sprofondare il paese ha con-dotto, nel 2008, all’organizzazione delle Assisi nazionali del Senegal, sot-to la presidenza di Amadou Mokhtar Mbow, l’ex direttore generale dell’Or-ganizzazione delle Nazioni unite per l’educazione, la scienza e la cultura (Unesco). È ormai in lizza una pleto-ra di candidati che si richiamano a tre correnti differenti.

La prima è quella dei giovani, che

rappresentano la maggioranza della popolazione: il 55% dei senegalesi ha meno di 20 anni. Il loro tasso di disoc-cupazione si avvicina al 50% – quat-trocentomila diplomati sono senza impiego – e aspirano a cambiamenti rapidi. Tra essi, il movimento Y en a marre («Ne abbiamo abbastanza»), nato dopo l’ennesima interruzione generale di corrente nella capitale se-negalese, rivendica un «nuovo tipo di senegalese» (Nts), impegnato nella società e preoccupato per l’interesse generale. Sostenuto dai rapper, molto popolari in Senegal – in particolare il cantante Thiat, – il movimento si op-pone frontalmente alle politiche liberi-ste del presidente Wade. Erano diverse migliaia a manifestare nelle strade del-la capitale, il 2 giugno 2011, contro la terza candidatura del capo dello stato alle elezioni presidenziali. La seconda corrente chiede un governo transitorio incaricato di votare una nuova Costi-tuzione e di organizzare le elezioni. Questa opposizione, raccolta nella coalizione Bennoo Siggil Senegaal («Uniti per il Senegal» in wolof) non ha tuttavia saputo scegliere una guida in grado di condurre questo progetto.

infine, la Terza e ultima cor-rente è quella dei liberisti, Essi han-

no come figure di spicco, oltre a Wade, l’ex primo ministro Idrissa Seck ed il suo successore Macky Sall. Ma Wade vede il suo movimento, il Partito de-mocratico senegalese (Pds), soffrire per il suo nepotismo: i suoi quadri più rappresentativi lo lasciano uno dopo l’altro. I giovani, che non sono affiliati ad alcun partito politico, non conduco-no nemmeno un’assidua campagna di iscrizione sulle liste elettorali. Il loro rifiuto della classe politica tradiziona-le potrebbe giocare a favore di un altro personaggio, il candidato indipendente Ibrahima Fall, un ex alto funzionario dello stato e delle Nazioni unite, a cui

manca tuttavia l’appoggio di un parti-to. L’identità dei popoli deriva ampia-mente dalle leggende e dai miti in-trattenuti lungo i secoli. In Senegal, si crede fermamente in una «eccezione nazionale» caratterizzata da una tra-dizione democratica secolare. Questa risalirebbe al 1848, data di abolizione della schiavitù ma anche della conces-sione del diritto di voto agli abitanti dei «quattro comuni» (Dakar, Saint-Louis, Gorée e Rufisque) sotto la III Repubblica in Francia. È quindi una caratteristica degli elettori senegalesi provocare sorprese ed evitare al paese le crisi postelettorali che hanno recen-temente funestato la Costa d’Avorio, la Guinea, la Nigeria e il Niger.

(1) «The Lion Kings?», The Economist, Londra, 6 gennaio 2011.

(2) I termini dello scambio si deteriorano quan-do i prezzi delle importazioni aumentano in rapporto a quelli delle esportazioni.

(3) Si legga Abdoul Aziz Diop, «Il modello senegalese minacciato da una regressione dinastica», Le Monde diplomatique/il mani-festo, maggio 2010.

(4) «L’affaire de la “valise”embarrasse la pré-sidence», Radio France internationale (Rfi), 29 ottobre 2009.

(5) Wal Fadjri, Dakar, 6 luglio 2010.(6) I partner tecnici e finanziari del Senegal

hanno creato un Comitato di concertazio-ne : Germania, Banca africana di sviluppo (Afdb), Banca mondiale, Canada, Unione europea, Spagna, Francia, Italia, Giappone. Programma delle Nazioni unite per lo svi-luppo (Undp), Fondo delle Nazioni unite per la popolazione (Unfpa), Stati uniti.

(7) Reazione alla pubblicazione, il 7 giugno 2010, del «Document de politique écono-

mique et sociale de troisième génération » (2011-2015) da parte del Governo del Sene-gal, Rfi, 10 giugno 2010.

(8) Ibid.(9) Franco Cfa: Benin, Burkina Faso, Came-

run, Congo, Costa d’avorio, Gabon, Guinea equatoriale, Guinea-Bissau,Mali, Niger, Repubblica centrafricana, Senegal,Ciad e Togo. Il franco comoriano è stato riallaccia-to all’euro come il franco Cfa.

(10) Kanal150.com, 18 giugno 2010.(11) Si legga Demba Moussa Dembélé, «Si

attende la fine del franco Cfa», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2010.

(12) Gruppo di ricerca ambiente e stampa (Grep), conferenza stampa, Dakar, 19 set-tembre 2010.

(13) Cfr. Sidy Diop, «Que faire pour que le Sénégal renoue avec le progrès ?», Pamba-zuka news, 2 gennaio 2011.

(14) La Casamance, che figura come il «grana-io» regionale, rivendica la sua indipendenza.

(Traduzione di Al. Ma.)

Annunciando la sua candidatura alle elezioni presiden-ziali del 26 febbraio, Youssou N’Dour ha aggiunto il suo nome ad una già lunga lista di oppositori al presidente Abdoulaye Wade. La vita politica senegalese assomiglia a un calderone di delusione e di rabbia sullo sfondo della crisi sociale. Ma il male di cui soffre il paese – che ha mancato il treno della crescita – va oltre il quadro delle fratture politiche.

di SANOu MBAYE *

* Economista e scrittore senegalese, autore di L’Afrique au secours de l’Afrique, L’Ate-lier, Ivry-sur-Seine, 2009.

daKaR, Senegal, gennaio 2012Manifestazione contro il presidente abdoulaye wade

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Contratti leonini con l’Unione europea

I giovani vogliono contare

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Le Monde diplomatique il manifesto febbraIo 2012

Dalla firma di un cessate il fuoco tra il Fronte Polisario e il governo marocchino, tutti i tentativi di soluzione diplomatica nel Sahara occidentale sono falliti. Sul terreno, la situazione degenera.

dal nostro inviato speciale OlIvIEr QuArANTE *

Wakkala è uno di quei quartieri che, spuntati fuori in questi ultimi due o tre anni, danno a Dakhla, all’estremo sud

del Sahara occidentale e ai confini con la Mau-ritania, l’aria di una città in piena espansione. Qui, come sull’insieme di questo vasto territorio annesso dal Marocco dal 1975, ma rivendica-to dal Fronte Polisario (si legga il box), è difficile spostarsi senza destare sospetti. Poliziotti del-la sicurezza nazionale ed elementi delle Forze armate reali sono onnipresenti. «Tutte queste forze di sicurezza, sono un disastro! Per un po-liziotto in divisa, ce ne sono dieci in borghese», protesta un residente straniero che, come mol-ti dei nostri interlocutori, desidera mantenere l’anonimato.

Un rapido giro in macchina per Wakkala per-mette di constatare che le tracce delle ultime violenze, scoppiate alla fine del mese di set-tembre 2011, sono già sparite. «La wilaya [di-visione amministrativa] si è affrettata a pulire tutto, a sgomberare tutto», racconta Sidi (1), un sahrawi sulla quarantina. Le autorità locali, che si conformano alla loro strategia di «normaliz-zazione», evocano in tutti i loro comunicati una città «tranquilla e serena». Ma questi scontri, assicura Sidi, sono ancora nella mente di tutti e in tutte le discussioni.

Quella domenica 25 settembre, al termine di una partita di calcio, «scoppiano alterchi fra tifosi delle due squadre – racconta il settima-nale marocchino TelQuel. Un giovane sahrawi sarebbe stato aggredito da alcuni abitanti ori-ginari del nord del paese (…) Giovani sahrawi corrono a cercare rinforzi nel centro della cit-tà. Salgono a decine a bordo di fuoristrada e si dirigono a tutta velocità verso il quartiere di Wakkala (2)». Mohamed, incontrato sul posto ai primi di dicembre, conferma questa versione e descrive una vera e propria battaglia.

«ho l’impressione che il marocco faccia di tutto per radicalizzarci»

«i marocchini erano assai numerosi, pro-babilmente diverse centinaia – confida, al

riparo da orecchie e sguardi indiscreti. Si sono avvicinati a noi. I poliziotti li lasciavano fare.» Dettagliatamente, disegna sul terreno il modo in cui si sono svolti gli scontri: «Era come una battaglia dei secoli scorsi, con le sciabole». Lui stesso non nasconde di possederne una e di essersene servito, «per proteggere [la sua] famiglia». Un’altra arma si rivela ancora più te-mibile: i 4x4, che non esitano ad avventarsi sul campo avverso. «È l’arma segreta dei sahrawi, per prendere alle spalle i marocchini!», pro-segue sorridendo. Sette persone rimarranno uccise, fra cui due poliziotti. Sidi, lui, pensa al suo vicino sulla trentina che, come molti altri, è stato arrestato nei giorni successivi solo perché possiede un 4x4. «Da allora, è ancora detenuto nella prigione di El-Ayun (3)».

Gli scontri hanno incendiato l’intera città, ma si sono concentrati a Wakkala e nei dintorni, su un vasto terreno vicino all’aeroporto. Questo quartiere è emblematico delle tensioni esacer-bate fra marocchini (i sahrawi parlano piuttosto di «marocchini del Nord») e sahrawi (i maroc-chini, come diversi sahrawi incontrati, dicono «gente originaria della regione», «sahariani», e anche «autoctoni»). L’editorialista di TelQuel, Karim Boukhari, definisce questo conflitto «bomba Sahara (4)».

In queste case vivono famiglie marocchine che provengono dalle bidonville. Sono arrivate agli inizi degli anni ’90, poco dopo il cessate il fuoco firmato dal Fronte Polisario, nel momento in cui si preparava il referendum sull’autodeterminazio-ne. Si trattava allora di assicurare il controllo del territorio e di gonfiare gli elenchi elettorali per pe-sare sul risultato dello scrutinio. Hanno ricevuto soldi, oltre al terreno e ai materiali per costruire

il pianoterra. «In qualche settimana, le bidonville erano sparite!», ricorda un europeo.

Questa politica clientelare spiega in parte le tensioni attuali. Un aiuto in denaro viene versato ai sahrawi «rallié» che lasciano i campi di rifu-giati installati da trent’anni nei pressi della città algerina di Tindouf per tornare nella «madrepa-tria», secondo la terminologia del potere maroc-chino. Ci parlano anche della «carta di promo-zione nazionale» concessa a numerosi sahrawi in cambio di «lavori di interesse generale» di ogni tipo. Per farla breve, il potere compra gli uni e gli altri. Tuttavia, in questo gioco meschino, le gelosie superano la pace sociale cercata.

L’Eldorado che migliaia di marocchini hanno trovato – e che continuano a venire a cercare – su queste terre, grazie alla pesca del polpo, alle in-dustrie per la lavorazione del pesce, all’industria conserviera delle sardine, e alle aziende orto-frutticole, come in quelle gigantesche serre che si vedono attorno a Dakhla, o ancora nei fosfati estratti a Bu Craa, crea a sua volta delle frattu-re in seno alla popolazione. Innanzitutto perché l’emigrazione economica talvolta si risolve in delusioni. Recentemente, alcuni stabilimenti fri-goriferi per la lavorazione del pesce hanno pro-ceduto a dei licenziamenti. Il problema? L’aper-tura delle acque del Sahara occidentale, note per essere assai pescose, alle enormi navi europee e russe è completamente inutile allo sviluppo del settore (5). Le migliaia di tonnellate pescate in

una sola giornata dalla maggior parte delle navi sfuggono totalmente all’industria locale. Le risor-se scaricate non vengono valorizzate: numerose imbarcazioni optano per la cattura di un tonnel-laggio massimo e per la trasformazione del loro pescato in… farina animale.

D’altra parte, l’installazione nel Sahara occi-dentale di decine di migliaia di marocchini pro-segue a marce forzate, dando luogo alla costru-zione di nuovi quartieri nei dintorni di El-Ayun o di Bujdur. Essa suscita forti tensioni con la comuni-tà sahrawi. Bashir racconta: «Me ne sono dovu-to andare in Mauritania per esercitare il mio me-stiere. Qui, c’è la gente originaria del posto [sic] e i marocchini venuti dal nord. E a possedere le

imprese sono i secondi.» Sidi si domanda: «Per-ché i sahrawi dovrebbero accontentarsi di esse-re della semplice manodopera, lavorando dodici ore al giorno per 2000 dirham [120 euro] al mese ? Ciò che vuole la gente della regione, è poter sfruttare le risorse locali. Perché un qualsiasi marocchino del Nord può lavorare con le grandi imbarcazioni, e un sahrawi no?» Conclude: «Ho l’impressione che il Marocco faccia di tutto per radicalizzarci. Non appena chiedi delle spiega-zioni, non appena reclami un diritto, ti trattano da separatista, da Polisario!».

Seicento chilometri a nord, a El-Ayun, il clima si è anche qui molto deteriorato in quest’ultimo anno. In questione, ancora: il superamento di questa famosa «linea gialla» descritta da Sidi.

Manifestare per protestare contro la propria emarginazione sociale ed economica fa passa-re dalla condizione di sahrawi «buono» a quella di reietto. N’habouha è entrata nella seconda categoria dalla scomparsa dei suoi due fratelli, il 25 dicembre 2005. Assieme a tredici dei loro compagni, avevano deciso di lasciare questo territorio dove, dopo aver preso parte a del-le manifestazioni sahrawi pacifiche, vivevano sotto una pressione costante e sotto minaccia di arresto. «È una strategia dello Stato maroc-chino per incitare i giovani sahrawi a emigrare verso il nord del paese – spiega Ghalia Jimmi, vice-presidente di una associazione sahrawi di militanti dei diritti umani. Se rifiutano, le autori-

tà fanno di tutto per spingerli a partire verso le isole Canarie. Cosa che avrebbero fatto in sei-cento fra il 2005 e il 2010. »

Così, il 10 ottobre 2010, quando comincia a circolare la notizia secondo cui era iniziato a for-marsi un accampamento di khaima (tende tra-dizionali nomadi) a una quindicina di chilometri a est di El-Ayun, a Gdeim Izik, in mezzo al de-serto, N’habuha, Khadija, Hadia, e altre donne del gruppo non hanno esitato a unirsi al movi-mento – il più grande condotto da sahrawi dalla «marcia verde», che segna l’inizio dell’annessio-ne da parte del Marocco. Per queste donne, la volontà di sapere cosa ne è stato dei loro fra-telli o dei loro figli si unisce a un impegno più

ampio per la dignità. Gdeim Izik sarà d’altronde soprannominato il «campo della dignità» e con-siderato da alcuni il vero punto di partenza della «primavera araba». Fra il 10 ottobre e l’8 novem-bre 2010, questa mobilitazione pacifica conterà quasi settemila khaima e riunirà circa ventimila persone. Con, sullo sfondo, l’emarginazione so-cioeconomica denunciata dai sahrawi.

Dopo alcuni giorni di entusiasmo, un impo-nente spiegamento di forze di sicurezza setac-cia il campo. Viene mantenuto un unico acces-so per meglio controllare chi entra e chi esce. Si organizza il black-out mediatico e umanitario. Il 24 ottobre, un ragazzo di 14 anni viene ucciso da soldati marocchini a un posto di blocco. E l’8 novembre, all’alba, viene dato l’assalto. «È sta-ta la confusione totale – ricorda Leila. I bambini urlavano. Noi siamo state cacciate via a colpi di manganello, sotto i gas lacrimogeni e gli idranti che gettavano acqua calda. Più tardi, di ritorno a El-Ayun, sono stata arrestata. Mi hanno dato un sacco di botte, interrogata, poi, dopo avermi obbligata a dire “Viva il re, viva il Marocco”, mi hanno liberata il martedì a fine giornata.»

odio e spirito di vendetta fra le due comunità

il bilancio ufficiale da parte marocchi-na riferisce di undici morti tra le forze dell’or-

dine e due morti sahrawi, cosa confermata dall’Associazione marocchina dei diritti umani. Stando a una fonte, centosessantotto persone sarebbero state arrestate il giorno della distru-zione del campo e nei giorni successivi. Sono state violentate, persino torturate, quindi libe-rate senza giudizio né capi di imputazione. La missione dell’Onu, relegata alla sorveglianza del cessate il fuoco, non ha potuto agire. In questi ultimi anni, alcuni membri del Consiglio di sicu-rezza, fra cui la Francia, rifiutano di estenderne il mandato a includere il «monitoraggio dei diritti umani». Ai primi di gennaio, ventidue militanti sahrawi arrestati verso l’8 novembre 2010 erano ancora detenuti nel carcere militare di Salé, pur essendo dei civili. Hanno interrotto dopo tren-totto giorni lo sciopero della fame iniziato il 31 ottobre 2011 per denunciare le loro condizioni di detenzione (la maggioranza è stata tortura-ta, secondo gli avvocati, parecchi sono stati violentati, e sedici sono in cella d’isolamento), dopo avere ricevuto dalle autorità marocchine la promessa che il loro processo si sarebbe te-nuto molto presto. Doveva svolgersi il 18 genna-io, ma è stato aggiornato.

«Dopo Gdeim Izik, le cose non saranno mai più come prima», ritiene N’habuha. È nel 1999 che, per la prima volta, dei civili marocchini prendo-no parte alla repressione contro i sahrawi. Il Co-mitato di coordinamento dei lavoratori sahrawi era stato appena creato, per iniziativa di alcuni dipendenti sahrawi della miniera di fosfati di Bu Craa. «Avevamo organizzato una manifestazio-ne, ma la polizia era intervenuta in maniera assai violenta – ricorda un minatore in pensione. I civili marocchini erano scesi da alcuni furgoni e ave-vano saccheggiato tutto, i negozi e le case dei sahrawi. Con Gdeim Izik, però, le cose hanno as-sunto di nuovo un altro rilievo.» Numerose testi-monianze raccontano infatti la manipolazione dei civili, dei giovani in particolare, e le atrocità e le violenze commesse da questi ultimi nel novem-bre 2010. «Da un anno, un odio e uno spirito di vendetta nuovi sono emersi fra le due comunità», prosegue la Jimmi, lei stessa «data per disper-sa» per quasi quattro anni. «La mia generazione è pacifica, indulgente. Abbiamo sempre scusato il popolo marocchino; ce l’abbiamo con lo stato. Per i giovani non è più così. Vedono che altrove la comunità internazionale interviene, ma non qui. Perdono fiducia e credono ormai nella violenza!»

(1) La maggior parte dei nomi è stata cambiata.

(2) Driss Bennani, «Quand Dakhla s’embrase», TelQuel, Ca-sablanca, 7 ottobre 2011.

(3) Si legga Gaël Lombart e Julie Pichot, «Paura e silenzio a El-Ayun», Le Monde diplomatique/il manifesto, gennaio 2006.

(4) Karim Boukhari, «La bombe Sahara», TelQuel, 2 ottobre 2011.

(5) Un accordo sulla pesca che comprende il Sahara occi-dentale è stato firmato fra il Marocco e l’Unione europea nel febbraio 2007. Esso prevede lo sbarco di una per-centuale del volume pescato e la concessione di licenze alle navi europee in cambio di una sovvenzione, che è salita a oltre 144 milioni di euro per i primi quattro anni. In un primo tempo, l’accordo è stato prorogato fino a febbraio 2012 malgrado l’opposizione di sette Stati membri. Ma il 14 dicembre 2011, il Parlamento europeo ha votato contro la sua proroga. I contrari lo giudicano illegale finché il conflitto non sarà risolto e finché non verrà dimostrato che la popolazione sahrawi ne trae un beneficio.

(Traduzione di O. S.)

Le Monde diplomatique il manifesto febbraIo 2012 11

la resistenza ostinata dei sahrawiUNA VITA QUOTIdIANA SOTTO TENSIONE

un territorio conteso

colonia spagnola dal 1884, il Sahara occidentale viene evacuato nel 1975 e il suo terri-torio diviso fra il Marocco e la Mauritania – che rinuncerà alle sue acquisizioni nel 1979. Cre-

ato nel 1973, il Fronte Polisario proclama l’indipendenza del territorio nel 1976 e crea la Republica araba sahrawi democratica (Rasd), riconosciuta dall’Organizzazione dell’unità africana (Oua). La guerra scoppia immediatamente fra Rabat e il Fronte Polisario. Decine di migliaia di Sahrawi fuggono i bombardamenti e trovano rifugio in Algeria (che appoggia il Polisario), in accampamen-ti della regione di Tindouf. Un cessate il fuoco viene firmato nel 1991: deve aprire la strada a un referendum sull’autodeterminazione.

Malgrado l’invio di una missione delle Nazioni unite, ancora sul posto, il referendum non si è mai tenuto (1). Eppure, il Consiglio di sicurezza, nella sua risoluzione 1783, adottata il 31 ottobre 2007, riafferma la «volontà di aiutare le parti ad arrivare a una soluzione politica giusta, du-revole, e reciprocamente accettabile che permetta l’autodeterminazione del popolo del Sahara occidentale». Il Fronte Polisario ritiene che debba essere organizzato un referendum ad opzioni multiple, compresa l’indipendenza, mentre il Marocco si batte a favore di un regime di autonomia negoziata e per un referendum confermativo ad opzione unica. Ad oggi, il Sahara occidentale è considerato dall’Onu come l’ultimo territorio non autonomo dell’Africa, la cui decolonizzazione non si è ancora conclusa.

O. Q.

(1) Si legga Khadija Finan, «L’inestricabile conflitto del Sahara occidentale», Le Monde diplomatique/il manifesto, gennaio 2006.(Traduzione di O. S.)

* Giornalista.

el-ayun, SahaRa occidentale, noveMbRe 2010donne sahrawi nei pressi di un campo di protesta successivamente sgomberato dall'esercito marocchino

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febbraIo 2012 Le Monde diplomatique il manifesto12

scienza dell’universo nel suo insieme, che tenta di descrivere il cosmo dall’istante iniziale fino all’eventuale in-stante finale, la cosmologia è una disciplina singolare. L’espe-

rienza della «creazione dell’Universo» non è evidentemente riprodu-cibile, e questo rende impraticabile l’usuale processo di deduzione e verifica attraverso l’osservazione reiterata di processi simili. Inoltre, l’osservatore fa parte del sistema che intende descrivere, il che è in-compatibile con la distanza necessaria per un’osservazione neutrale e obiettiva. Infine, le «condizioni iniziali», cioè lo stato del sistema a partire dal quale l’evoluzione è calcolata, sono assolutamente miste-riose in quanto non esiste, per definizione, né un prima o né un fuori dal «sistema-universo». Senza contare che le energie in gioco nei pri-mi instanti della storia cosmologica non sono rapportabili a quanto è stato testato sulla Terra e che, al contrario della prassi abituale, ad essere noto è lo stato «finale» dell’oggetto di studio – mentre ciò che è ricercato è il suo stato iniziale. Tuttavia, nonostante queste difficol-tà (e in parte grazie ad esse), la cosmologia è diventata una scienza, e anche una scienza di precisione. Il modello standard del Big Bang, cioè un universo in espansione da quasi quattordici miliardi di anni, oggi convince perché sostenuto da solidi elementi.

Sul piano dell’osservazione, l’idea di un universo in espansione si è imposta a metà del XX secolo per diverse eccellenti ragioni. Le galassie si allontano le une dalle altre, l’abbondanza degli elementi chimici nell’universo è in accordo con le predizioni della fisica nu-cleare in uno scenario di tipo Big Bang, e il contenuto del cosmo evolve in modo evidente con il tempo, cosa difficilmente spiegabile se questo fosse statico ed eterno. Infine, l’irraggiamento fossile, pri-ma vera luce dell’Universo, si comporta esattamente come previsto. Questo fondo diffuso di fotoni, irraggiamento proveniente da tutte le direzioni del cielo, scoperto nel 1965 e attualmente scrutato con una precisione ineguagliata dal satellite europeo Planck (1), testimonia del periodo d’intenso calore presente nell’Universo dopo il Big Bang, e conferma così il cuore del modello. Inoltre, conserva fini impronte della fisica dell’Universo ai suoi primordi: i primissimi istanti, lenta-mente, rivelano i loro segreti.

In parallelo a questi dati sperimentali, il modello del Big Bang si è dispiegato attraverso la strutturazione di un ampio quadro teorico: la relatività generale, che spiega la natura profonda dello spazio e del tempo. Mostra – ed è un’immensa rivoluzione – che lo spazio-tempo non è più il luogo nel quale i fenomeni si svolgono, ma che è lui stes-so un fenomeno. In altre parole, lo spazio-tempo diventa dinamico: l’espansione dell’Universo non è uno spostamento di materia nello

spazio, ma una dilatazione dello spazio stesso. È peraltro in un qua-dro di questo tipo che i buchi neri possono essere realmente compre-si. Quando una stella molto massiccia esplode in supernova, si crea nello spazio una zona di tale densità che niente può sfuggirne. Il buco nero presenta una struttura così complessa, che in esso lo spazio si trasforma in tempo, e il tempo in spazio (2). È, in qualche modo, lo spazio che scorre sulla singolarità centrale segnando la… fine del tempo! Spingendo la relatività al suo parossismo, i buchi neri condu-cono a fenomeni strani: la velocità di un corpo che cade sull’orizzon-te di un buco nero, ad esempio, sarebbe misurata come la più grande possibile (quella della luce) da un osservatore vicino, ma come la più piccola possibile (quindi zero) da un osservatore lontano.

Tuttavia il modello è imperfetto, e si scontra con tre importanti questioni.

in primo luogo, la maggior parte della massa dell’Universo è di natura sconosciuta. Peggio ancora, si può dimostrare che questa

«materia nera» non è costituita da particelle identificate nella fisi-ca delle alte energie. L’enigma è perciò doppio: cosmologico, perché si tratta della componente dominante dell’Universo; e corpuscolare, perché si tratta di scoprire nuove particelle non ancora repertoriate. Non ci sono molte soluzioni possibili. La più convincente consiste nel supporre una nuova simmetria fondamentale della natura (detta «supersimmetria»): una relazione tra le particelle che costituiscono la materia (quark, elettroni…) e quelle che veicolano le interazioni (ad esempio elettromagnetiche o nucleari). Da questa elegante ipotesi dovrebbe derivare l’esistenza di corpuscoli pesanti e stabili che po-trebbero costituire la materia nera dell’Universo, circa sessanta volte più abbondante della materia direttamente visibile. L’indagine, con-dotta in particolare grazie agli acceleratori di particelle – soprattutto il Large Hadron Collider (Lhc) del Centro europeo di ricerca nucleare (Cern) a Ginevra –, è oggi una delle principali preoccupazioni di fisi-ci e cosmologi. Per il momento, nessuna traccia di supersimmetria è stata scoperta all’Lhc. Al contrario, la versione «minimale» di questa teoria è stata addirittura essenzialmente esclusa.

In secondo luogo, tredici anni fa, osservazioni affidabili hanno di-mostrato che l’espansione dell’Universo è sempre più rapida (3). Ma come può accelerare, se la sola forza all’opera su grande scala, la gra-vitazione, è una forza attrattiva? La questione provoca un’attività teo-rica e di osservazione tanto più intensa, in quanto l’energia associata a questa accelerazione è due volte più intensa di quella della materia nera.

Infine, lo stesso Big Bang, in quanto istante originario, è fonda-mentalmente incomprensibile. Cosa può significare questo inizio

increato («Creazione nel tempo, e per questo un Creatore, e di conse-guenza Dio!»: le parole di Pio XII nel 1951 riproponevano il proble-ma) e matematicamente ambiguo? Rappresenta una predizione della relatività generale, quando invece questa teoria cessa di essere vali-da precisamente in quel momento, e per una ragione semplice: essa ignora le lezioni della meccanica quantistica, fisica del microcosmo che dimostra che su piccola scala tutto diventa discontinuo, che le particelle elementari sono dotate di ubiquità e che la visione deter-ministica (una causa comporta un effetto certo) deve essere sostituita

LA COSMOLOgIA, SCIENzA dELL’UNIVERSO, dISCIPLINA RIBELLE

Tre ipotesi per un Big BangA Ginevra, i ricercatori dell’Organizzazione europea per la ricerca nucleare inseguono la famosa «particella di Dio», come la chiama il Premio Nobel Léon Lederman. Il «bosone di Higgs», dal nome del fisico Peter Higgs, potrebbe permettere di spiegare le proprietà dell’Universo. La ricerca dell’infinitamente piccolo potrebbe trasformare la fisica per illuminarci sulla nascita del cosmo…

di AurélIEN BArrAu*

* Astrofisico presso il Laboratorio di fisica subatomica e di cosmologia (Cnrs), pro-fessore all’università Joseph Fourier e membro dell’Institut universitaire de France.

(1) Cfr. il sito www.planck.fr (2) Jean-Pierre Luminet, Le Destin de l’Univers, Gallimard, coll. «Folio essais», Pa-

rigi, 2010.(3) La scoperta ha ottenuto il premio Nobel per la fisica 2011.

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dalla concezione probabilistica (una causa comporta un effetto pro-babile).

Conciliare relatività generale e fisica quantica è un compito straor-dinariamente difficile, a cui le più grandi menti si dedicano da quasi un secolo. L’approccio più convincente, che non necessita di alcuna ipotesi rivoluzionaria, è certamente la gravitazione quantica ad anelli (4). Questi anelli formerebbero une fine struttura a rete che non si troverebbe nello spazio ma costituirebbe lo spazio stesso, formato da piccoli «atomi» elementari nei quali vivremmo.

Applicato all’Universo, il modello trasforma radicalmente la nostra visione cosmologica: il Big Bang, la singolarità primitiva, scompare e viene sostituito da un «grande rimbalzo». In altre parole, esistereb-

be un «prima del Big Bang», uno spazio in contrazione che sarebbe rimbalzato, nel momento in cui la sua densità divenne gigantesca, dando così origine all’espansione attualmente osservata. Questa te-oria rigorosa e matematicamente ben definita è tra le più potenzial-mente testabili, poiché il titanico rimbalzo potrebbe aver lasciato fini impronte rilevabili nell’irradiamento fossile.

Ma esiste un altro approccio, la teoria delle stringhe (5), che invi-ta a porre la questione vertiginosa dell’esistenza di universi multipli. Infatti, l’inflazione – l’aumento considerevole della «dimensione» dell’Universo nei suoi primi instanti – avrebbe creato non uno, ma un’infinità di universi-bolle, strutturati secondo leggi fisiche diffe-renti (dettate dalle stringhe), eventualmente molto diverse da quelle che reggono la nostra bolla. Una nuova ferita narcisistica, dopo quel-le inflitte da Nicola Copernico, Charles Darwin e Sigmund Freud all’idea che l’uomo si faceva del suo status di «eletto»: è il nostro stesso universo che cade dal piedestallo e si vede reinterpretato come un isolotto insignificante e casuale in questo vasto «pluriverso». Al-trove, mondi senza luce, mondi senza materia, mondi a dieci dimen-sioni…

ogni universo-bolla avrebbe il suo Big Bang, forse una propria dimensionalità. Alla fine, tutto o quasi diventerebbe

possibile. All’interno di questa struttura contenente universi multi-pli, noi ci troveremmo in uno di quelli favorevoli all’esistenza della complessità, e dunque della vita – infima particella in cui la fisica ha preso la forma strana e graziosa che conosciamo. Così come il nostro pianeta non è affatto rappresentativo dell’insieme del nostro universo, quest’ultimo non è certamente rappresentativo dell’insieme del multiverso. Non si tratta di una teoria, ma di una predizione di al-cune teorie, ed è in ciò che il modello è testabile nel senso usuale del termine, benché evidentemente molto teorico. Il reale sarebbe molte-plice assai più di quanto non tenda a pensarlo una tradizione fondata

sui miti dell’Uno e dell’Ordine. Il che del resto rinvia a una tradizione di pensiero parallela che dagli atomisti greci porterebbe fino a certi filosofi analitici passando per François Rabelais, Gottfried Wilhelm Leibniz, Lu-dwig Wittgenstein o Jacques Derrida.

Queste ipotesi non rinnegano affatto le esigenze di rigore della fisica usuale. Ma aprono, forse, nuove stra-de. Vivono sulle frontiere per dissolverle; ipotizzano la possibilità di una decostruzione. Il che, evidentemente, pone la questione delle nostre aspettative rispetto alla scienza della natura. È un approccio che invita a porre un’attenzione scrupolosa ai dettagli dimenticati dalla tradizione, ai punti di frizione, ai paradossi e alle apo-

rie. Impegna a decifrare la fisica come una costruzione, e a ricono-scerle il diritto di non essere la sola versione corretta del reale. Oggi è forse necessario liberare i possibili modi del nostro rapporto con il(i) reale(i). La straordinaria diversità del mondo richiede forse di preve-dere una nuova pluralità nei nostri modi di concepirla. La mancanza d’immaginazione ha sempre danneggiato la scienza più dell’eccesso di idee audaci.

«Resistere vuol dire creare», scriveva il filosofo Gilles Deleuze. È esattamente in questo modo che oggi si sviluppa (o dovrebbe svilup-parsi) la creazione scientifica: resistenza contro i preconcetti, contro il disinteresse politico per la ricerca fondamentale, contro la facilità del conformismo, contro il moltiplicarsi delle classificazioni tanto nocive quanto superficiali, contro l’assurda inflazione della buro-crazia, contro l’importazione sistematica dei dogmi liberisti anche là dove il loro fallimento è inevitabile, contro il precariato generaliz-zato che contribuisce a creare un sistema intellettualmente inibitore. Come sottolinea Carlo Rovelli (6), «è la ribellione delle generazioni precedenti contro visioni del mondo acquisite, i loro sforzi per pen-sare il nuovo, che hanno fatto il nostro mondo. La nostra visione del mondo, le nostre realtà, sono i loro sogni realizzati. Non c’è ragione di temere il futuro: possiamo continuare a ribellarci, a sognare altri mondi possibili, e a cercarli».

AurélIEN BArrAu

(4) Martin Bojowald, L’Univers en rebond. Avant le big-bang, Albin Michel, coll. «Bi-bliothèque sciences», Parigi, 2011.

(5) Steve S. Gubser, The Little Book of String Theory, Princeton University Press, 2010.

(6) Carlo Rovelli, Qu’est-ce que le temps? Qu’est-ce que l’espace?, Bernard Gilson éditeur, coll. «Réflexions», Bruxelles, 2006.

(Traduzione di G. P.)

LA COSMOLOgIA, SCIENzA dELL’UNIVERSO, dISCIPLINA RIBELLE

Tre ipotesi per un Big Bang

vaSSily KandinSKyPiccoli mondi IV e III, 1922

oRganizzazione euRoPea PeR la RiceRca nucleaRe (ceRn)

immagini di simulazioni e di esperimenti di collisione ad alta

energia di particelle elementari nel large hadron collider (lhc)

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la lezione di algebra è terminata e, come ogni quarto d’ora, suona un jingle ronzante. Esso annuncia ciò che tutti gli

allievi attendono: la pagina pubblicitaria. Il pri-mo spot mette in scena alcune famiglie piazzate davanti a una fila di case. La voce fuori campo proclama con orgoglio che «questo governo ha costruito tre milioni di abitazioni per i più pove-ri!» Poi, un’altra sequenza, degna di un film ad alto budget: alcuni delinquenti con facce da pa-tibolo brutalizzano un uomo incatenato. La voce riprende: «La protezione dei diritti dell’uomo è una priorità del governo federale.» Per i bambini del villaggio di Quetzalcoatl, a due ore a sud di Città del Messico, una nuova giornata di lezione è appena incominciata.

Siamo nel cuore dello stato di Morelos, dove, proprio un secolo fa, all’epoca della Rivolu-zione del 1910, i contadini guidati da Emiliano Zapata esigevano un’educazione gratuita e di qualità. Qui, come in numerosi villaggi messi-cani, i corsi sono dispensati attraverso una po-stazione televisiva collegata al satellite – da cui il nome di «tele-scuola».

Quando il provvisorio diventa la norma

con la sua anTenna parabolica sul tet-to, l’edificio si vede da lontano. All’interno,

le mura bianche delle due aule sono pressoché spoglie. Una mappa del Messico deformata a fianco di una piccola lavagna per cui il gesso sembra essere solo un vago ricordo. In mezzo alla stanza troneggia la televisione che, ogni quindici minuti, diffonde una lezione (seguita dalla sua pagina pubblicitaria). Diciotto colle-giali, su tre livelli, sono inquadrati da due profes-sori. Il ruolo di questi ultimi? «ripristinare il col-legamento» quando la televisione va in panne, cosa che, deplora Ricardo Ventura, direttore e professore del livello medio (l’equivalente del-le medie italiane – 12-13 anni), «succede tutti i giorni». E, infatti, dopo quaranta minuti di diffu-sione, il segnale del satellite si spegne: per oggi la scuola è terminata.

A partire dalla prima ora della sua visita, all’osservatore sorge qualche dubbio. Il primo livello ha seguito il corso, ma gli allievi non sem-brano attratti dalle smorfie della presentatrice che, dallo studio nella capitale, pretende di insegnare loro la geografia. Nel frattempo, gli allievi del terzo livello, raggruppato nella stessa classe, dormono o mordicchiano la loro penna. Prima che la loro lezione venga trasmessa, de-vono aspettare che finiscano quelle del primo e del secondo livello. Non un libro, non il minimo esercizio per mettere a profitto il tempo man-cante. Alcuni alzano lo sguardo verso lo scher-mo: uno di loro commenta che sono «le lezioni dell’anno scorso». Sì, ma senza il volume, che è stato abbassato perché il primo livello lavora…

Uno sguardo rapido alla televisione indica all’insegnante che la lezione del secondo livello sta per terminare e che potrà occuparsi degli allievi più grandi. Prepara i libri di storia, ma la giovane presentatrice annuncia, con musica e giochi di luce, che è il momento «tanto atte-so» della matematica. L’insegnante si scusa: «Ci inviano i programmi via internet, ma non ho potuto consultare la mia mail». Questa volta, gli allievi lavorano appena tre minuti: la ricezione

salta, tutti escono per la ricreazione. Il pro-fessore farà lezione senza la televisione? «No, ripasserà nel corso della settimana. È comun-que meglio che avere un supporto visuale per insegnare.»

Nelle scuole tradizionali, otto professori si suddividono le diverse materie. Nella «tele-scuola», ce n’è soltanto uno. In teoria, gli orari sono gli stessi (dalle 8 alle 13), ma, il giorno del-la nostra visita, alcuni problemi di connessione hanno ritardato l’ora di inizio delle lezioni alle 10. E, in tre ore, gli allievi non hanno progredi-to: alcuni hanno disegnato, altri hanno ascolta-to musica dai loro cellulari, mentre un piccolo gruppo ha pulito la scuola. I due professori ri-petevano che le lezioni sarebbero state ritra-smesse il giorno dopo e che allora avrebbero potuto ripassare tutto. L’indomani, la ricezio-ne satellitare non ha funzionato e i professori hanno improvvisato una passeggiata prima di rimandare tutti a casa.

Da almeno due decenni, questo modello, creato in Messico nel 1968, si è installato nel-la quasi totalità dei paesi americani. Etelvina Sandoval Flores, dottore presso l’Università pedagogica nazionale, ci spiega che «questa formula inizialmente era stata pensata come provvisoria, in attesa che venissero costruiti nuovi college. Ma si è perpetuata. Al punto che oggi uno studente su cinque è iscritto a una tele-scuola.» Con l’ascesa al potere del Parti-to di azione nazionale (Pan, destra liberista), il numero di tele-scuole è esploso: sotto la pre-sidenza di Vicente Fox (2000-2006) è aumen-tato del 117% ed è raddoppiato dopo l’elezione di Felipe Calderón nel 2006. Oggi, il 20% degli studenti del settore pubblico (ovvero un milione trecentomila ragazzini) studia davanti alla tele-visione, soprattutto nelle zone rurali e nelle pe-riferie delle città.

Se le tele-scuole registrano i peggiori risulta-ti dell’esame Enlace, una valutazione nazionale realizzata ogni anno in tutte le scuole pubbli-che e private del paese, esistono pochi studi che espongono le difficoltà che vi incontrano gli allievi. Secondo quello condotto nel 2000 dalla ricercatrice Annette Santos, dell’Istituto nazionale di valutazione dell’educazione, su cinquantanove tele-scuole, in ambienti socia-li differenti (1), la maggior parte degli allievi consegue appena un livello di comprensione di base in spagnolo e matematica. Risultati molto inferiori a quelli delle scuole tradiziona-li e tecniche. La ricercatrice constata che «la tele-scuola riproduce in maniera lampante le disuguaglianze sociali: gli allievi più poveri ottengono i risultati peggiori.» Per peggiorare le cose, le zone svantaggiate comportano un numero maggiore di classi multiple di «tele-scuole», ovvero con un solo insegnate per i differenti livelli. Il ministero dell’educazione riconosce senza ambiguità che questi istituti mancano di mezzi: all’epoca dell’ultima dia-gnostica che aveva stabilito, nel 2003, cinque-milacentoottanta di questi istituti, ossia il 30% circa, non disponevano di televisori: duemila non avevano… l’elettricità (2).

Queste carenze rimangono, ma il ministero assicura che presto apparterranno al passato: Maria Edite Bernaldez, del ministero dell’edu-cazione, afferma che «il presidente Calderón ha creato il programma “Capacità numeriche per tutti” che, in futuro, permetterà a tutte le tele-scuole di essere connesse a internet.» Tuttavia, è impossibile conoscere il budget destinato a questo nuovo programma, né il suo calendario di esecuzione. Il mandato di

Calderón terminerà comunque nel dicembre 2012. Ma, per Cristóbal Cobo Romaní, ricer-catore presso l’Istituto internet dell’università di Oxford, che ha condotto diversi studi sulle nuove tecnologie sull’educazione in Messico, «è assolutamente utopico pretendere che le tele-scuolepossano disporre così rapida-mente di internet. Il Messico avrà problemi di connessione ancora per lungo tempo. In Eu-ropa, noi ne abbiamo sempre nelle zone rurali, quando la connettività copre oltre il 65% del territorio.»

Risolvere i problemi strutturali costerebbe caro. Tra il 2001 e il 2008, la percentuale del Prodotto interno lordo (Pil) destinata all’educa-zione è passata dal 5,3% al 5% (3). Dal 2006, a titolo di comparazione, il bilancio della poli-zia è sestuplicato. In uno studio realizzato nel 2010 sulla situazione scolastica messicana, l’Organizzazione per la cooperazione e lo svi-luppo economico (Ocse) constata che la spe-sa per ciascun allievo si colloca ben al di sotto della media dei suoi paesi membri: 2.111 dollari (ovvero 1.625 euro) nella scuola primaria, con-tro il triplo (6.741 dollari), in media, all’interno dell’Ocse (4). Nella scuola secondaria, che in-clude la tele-scuola, il rapporto è di uno a quat-tro: 1.814 dollari per allievo in Messico, contro 7.598 in media nei paesi dell’Ocse.

Inoltre, l’organizzazione ha annotato la con-tribuzione richiesta ai genitori nel sistema pub-blico. Ad Amatlán, riconosce il direttore, «sono i genitori che pagano tutto, dalla carta igienica fino alla bolletta dell’elettricità. Non abbiamo scelta: non abbiamo nessun bilancio operati-vo.»

si tratta più di effetti speciali che di pedagogia

se l’amminisTrazione Calderón non è rimasta inattiva in ambito educativo, la sua

misura principale ha riguardato le famiglie che iscrivono i loro figli nel settore privato, vale a dire due milioni trecentomila allievi (contro gli oltre ventitre milioni di alunni scolarizzati nel pubblico). Il 15 febbraio 2011, il presidente ha annunciato che le mensilità saranno deducibili dalle tasse – una vecchia rivendicazione della Chiesa cattolica. L’universitario Octavio Rodrí-guez Araujo afferma che «è un regalo alla classe media, ma una nuova catastrofe per il paese, in cui le disuguaglianze sociali aumenteranno ul-teriormente.»

Per il resto, le iniziative del governo raggrup-pate sotto il nome di «Alleanza nazionale per la qualità dell’educazione» imitano la legge americana «No child left behind» (Nclb, «nes-sun bambino lasciato per strada», criticata dall’ex ministro dell’educazione Diane Ravitch, che tuttavia compare tra i suoi promotori (5). L’idea? Ricompensare con un bonus finanziario le scuole e i professori che ottengono i miglio-ri risultati all’esame Enlace. Sandoval afferma: «Insomma, ciò consiste nell’approfondire sem-pre di più le disuguaglianze esistenti: le scuo-le primarie e le tele-scuole situate in ambienti poveri avranno sempre meno mezzi, poiché in questo esame ottengono costantemente i peg-giori risultati.»

Per le autorità, i responsabili dell’attua-le situazione sono i professori. Gli specialisti dell’educazione, al contrario, denunciano la ne-gazione dei problemi che i docenti devono af-

frontare. Romanì dichiara che «non si può fare di tutta l’erba un fascio. Sul terreno, troviamo casi differenti, e spesso professori estrema-mente appassionati.»

È il caso della tele-scuola José-Vasconcelos, nella città di Nezahualcóyotl – «Neza», come viene soprannominata: la «testarda». L’edificio riflette la povertà evidente di questa città di un milione di abitanti situata a dodici stazioni di metropolitana dal centro storico di Città del Messico: soffitti che minacciano di crollare, mura decrepite e vetri rotti. L’istituto dispone di locali minuscoli per accogliere un centinaio di allievi. Il cortile è stato recentemente ridotto per costruire una mensa, realizzata in prefabbrica-to «grazie ai genitori che sono venuti a darci una mano», come spiega il direttore José Figueroa. Egli racconta che, quarantatre anni fa, appena uscito dalla Scuola normale, venne convocato a una riunione per creare le prime tele-scuole. Ricorda che «non avevamo più mezzi a Neza a quell’epoca, ma almeno i programmi, elaborati da alcuni professori dell’Università pedagogica nazionale, erano molto buoni». Oggi, gli otto professori dela scuola non utilizzano quasi mai la televisione. Fanno lezione come in una scuo-la tradizionale: «Certo, questo richiede prepa-razione, ma gli allievi non imparano nulla con la televisione. Questi programmi sono un’autenti-ca vergogna. Si tratta più di effetti speciali che di pedagogia.»

Come in tutte le tele-scuole, le lezioni dura-no solo mezza giornata. Allora, per migliorare il livello degli allievi, i professori organizzano atti-vità extrascolastiche. Senza alcun mezzo con-tributo, hanno scelto di colmare la ritirata dello stato... attraverso il volontariato. Ricorrendo alla poesia e al teatro, si impegnano a badare più a lungo ai bambini a scuola. Così, l’istituto ottiene buoni risultati all’esame Enlace.

Durante questo periodo, la priorità del go-verno resta la tecnologia. Impazzisce per tut-to ciò che può descrivere come «moderno», «innovatore» e… «a buon mercato». Mentre lo stato chiude a tutto spiano le scuole di forma-zione per gli insegnanti, l’Istituto latinoameri-cano della comunicazione educativa (Ilce), un organismo privato, che vende programmi per le tele-scuole, si appresta a proporre un meto-do numerico che si suppone possa migliorare le loro competenze. La sua direttrice Patricia Cabrera ci informa che «noi immaginiamo con-tenuti educativi che il professore potrà ricevere attraverso il suo cellulare o il suo iPad. Cerchia-mo anche di capire come diffondere questo materiale mediante Facebook e Twitter; questo è attualmente l’argomento dei nostri scambi con il ministero.»

Una soluzione tecnica per rimediare alle ca-renze del sistema educativo messicano: non è già stato tentato questo esperimento?

(1) Annette Santos, «Oportunidades educativas en telese-cundaria y factores que las condicionan», Revista lati-noamericana de estudios educativos, Centro de estu-dios educativos, Mexico, 2001.

(2) «Situación actual de la telesecundaria en México», Sub-secretaría de Educación Básica, 2003.

(3) Commissione economica per l’America latina e i Caraibi (Eclac) delle Nazioni unite, dicembre 2010.

(4) «Mejorar las escuelas: Estrategias para la acción en Mé-xico», Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), Parigi, 2010.

(5) Si legga Diane Ravitch, «Il voltafaccia di una ministra americana», Le Monde diplomatique/il manifesto, otto-bre 2010.

(Traduzione di Al. Ma.)

in messico fa scuola la tvMentre i cartelli della droga controllano intere regioni del paese, l’indebolimento dello stato messicano preoccupa anche Washington. Esso è osservabile anche nell’ambito dell’educazione, dove le strategie tecnofile di Città del Messico per «ridurre i costi» non sono sempre convincenti.

di ANNE vIGNA*

febbraIo 2012 Le Monde diplomatique il manifesto14INSEgNAMENTO SENzA INSEgNANTI

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* Giornalista.

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Le Monde diplomatique il manifesto febbraIo 2012 15

aprile 2010. La «troïka» composta dalla Commissione europea, dalla Banca centrale europea (Bce) e dal Fondo monetario interna-

zionale (Fmi) interviene nei processi di negoziazione collettiva in Grecia. Ottiene una riduzione dei salari di circa il 25% nel settore pubblico, nonché la riduzione del salario minimo. In giugno, lo stesso trio lancia una procedura speciale che impone al governo rumeno di «adottare una revisione del codice del lavoro e una legislazione sulla negoziazione collettiva che riduca il costo delle assunzioni e migliori la flessibilità dei salari (1)». Un anno più tardi, infine, la Commissione europea richiama il Belgio affinché riformi il sistema di indicizzazione dei salari, argomentando che «il co-sto unitario della manodopera [è] aumentato più velo-cemente rispetto ai paesi vicini (Francia, Germania, Paesi bassi) (2)».

Grecia, Romania, Belgio… Da qualche mese, Bru-xelles pone la crescita dei salari al centro della sua stra-tegia di risoluzione della crisi che attraversa l’Europa. Meglio: impone alle autorità nazionali di ottenerne la riduzione. Eppure, il trattato di Maastricht, entrato in vigore il 1° novembre 1993, stabiliva che «la Comuni-tà non darà né appoggio né sostegno alle attività degli stati membri in materia di remunerazione» (articolo 2.6), clausola riproposta nel trattato di Lisbona.

Malgrado la questione dei salari fosse inizialmente esclusa dalle prerogative comunitarie, i vincoli imposti dall’Unione – dal controllo del deficit pubblico a quello del debito – miravano tuttavia in parte a garantire la «moderazione salariale». Ma si trattava di un control-lo effettuato a distanza, senza intervento diretto. Non è più così. E, secondo il presidente della Commissione europea, la recente evoluzione dell’azione di Bruxelles non è affatto episodica. «Quel che sta avvenendo oggi – afferma José Manuel Barroso – è una rivoluzione silenziosa, a piccoli passi, verso una governance eco-nomica più forte. Gli stati membri hanno accettato – e spero lo abbiano compreso appieno – di concedere alle istituzioni europee notevoli poteri in materia di sorve-glianza (3).»

I governi hanno deciso di coordinarsi per condurre, su scala europea, una politica comune di riduzione sa-lariale. Il «Patto Euro-plus», adottato nel marzo 2011, accelera la disarticolazione dei modelli di negoziazione collettiva. Oltre a limitare il debito e il deficit pubblico – impegni che spera di veder inseriti nella legislazione dei singoli paesi –, l’Unione europea ormai pretende di intromettersi nelle negoziazio-ni nazionali per imporre il suo concetto di disciplina salariale. Il «pacchetto sulla governance economica europea» («six-pack») vo-tato dal Parlamento europeo nell’ottobre 2011, abbina al patto – un semplice impegno politico tra stati – una serie di vincoli giuridici.

Il dispositivo, che contiene sei atti legislativi europei, è stato adottato d’urgenza e con molta discrezione. Pilotato dalla Direzio-ne generale per gli affari economici e finanziari (Dg Ecfin), dai mi-nistri dell’economia e dalla Bce, prevede un «quadro di controllo» che darà l’allarme in caso di «squilibrio macroeconomico» o «diva-rio di competitività» considerati eccessivi da Bruxelles. Nel caso in cui un paese non si conformi alle raccomandazioni, sarà passibile di sanzioni finanziarie. In materia di salari, l’indicatore scelto come punto di riferimento in questa architettura non ha niente di anodi-no: si è preferito il costo unitario di manodopera (Cumo) alla quota di ricchezza che spetta ai salari (4). Mentre il primo indicatore ri-

flette l’evoluzione delle remunerazioni rispetto al resto dell’Unio-ne, il secondo analizza la distribuzione della ricchezza tra lavoro (salari) e capitale (profitti). Il termine «competitività» non riesce a mascherare la natura del progetto: un’intensificarsi della concor-renza tra salariati europei, all’interno di un’Unione che, secondo i padri fondatori, avrebbe dovuto invece favorire la cooperazione dei suoi membri rispetto all’esterno…

Si impone ben presto un nuovo modello: la Germania, che le ri-forme di Gerhard Schröder hanno trasformata in esempio di mo-dernità (1998-2005). Il 30 marzo 2010, Christine Lagarde, allora ministro dell’economia francese, osservava: «La Germania ha compiuto un eccellente lavoro nel corso degli ultimi dieci anni, mi-gliorando la competitività e esercitando una forte pressione sul co-sto della manodopera (5).» Poco più tardi, Jean-Claude Trichet, al tempo governatore della Bce, ribadiva: «Le imprese tedesche han-no saputo adattarsi rapidamente alla globalizzazione. (…) Il fatto di essere molto attenti ai costi di produzione e di intraprendere ri-forme per rendere più flessibile l’economia può servire da esempio a tutti i suoi vicini (6).»

Tuttavia, se Schröder si è così rapidamente guadagnato il sopran-nome di «compagno dei padroni», è forse proprio perché la sua bat-taglia per la competitività si è conclusa con una sconfitta sociale. Senza contare che la strategia tedesca di disinflazione competitiva – crescita della competitività delle esportazioni tramite riduzione dei salari – costituisce un perfetto contro-esempio di cooperazione europea (7). Alla fine degli anni ’90, la Germania aveva giustifica-to questa politica con il deterioramento della bilancia commerciale e la perdita di efficacia dell’economia a seguito dell’unificazione; oggi, gli indicatori privilegiati dall’ortodossia in vigore hanno via libera. Ma a che prezzo… .

«Abbiamo creato uno dei migliori settori a basso salario in Eu-ropa», si inorgogliva, nel 2005, durante il Forum economico mon-diale di Davos, il socialista Gerhard Schröder. Dal 2003, le politi-

che di flessibilizzazione del mercato del lavoro (leggi Hartz) hanno notevolmente impoverito la Germania. Il lavoro temporaneo è diventato un settore a sé stante, alcuni sussidi di disoccupazione legati al reddito sono stati soppressi e sono comparsi i «mini-lavori» (lavori flessibili pagati 400 euro al mese). Nel 2011, il 40% dei lavoratori tedeschi era assunto con contratti precari e 6,5 milioni erano impiegati «a basso salario» (meno di 10 euro l’ora) (8). Anche gli accordi collettivi sono di-ventati fragilissimi. Fra tutti i paesi dell’Organizzazio-ne per la cooperazione e lo sviluppo economici (Ocse), la Germania è quello che, tra il 2000 e il 2009, ha visto crescere più lentamente i salari. In termini reali (cioè considerando l’inflazione), sono diminuiti del 4,5%, mentre crescevano dell’8,6% in Francia e del 22% in Finlandia (9).

Presentando la Germania come un modello per usci-re dalla crisi, molti omettono di precisare che Berlino riesce a vendere i suoi prodotti perché i partner glie-li comprano (10). Le esportazioni tedesche dipendo-no quindi dal consumo degli altri paesi della regione, essendo la Germania stessa tributaria del potere di acquisto delle popolazioni. O, in altre parole: i deficit commerciali degli uni condizionano le eccedenze de-gli altri. A tal punto che per Martin Wolf, economista britannico e editorialista del Financial Times, il rias-sorbimento dell’attuale crisi implica che, in questo campo, «la Germania diventi meno tedesca (11)». Ma gli oracoli di Bruxelles non demordono: le capitali eu-ropee sono invitate a imitare Berlino. Una prospettiva che costituisce il logico sbocco di una dinamica antica.

Negli anni ’80, il sistema monetario europeo (Sme) aveva imposto ai suoi membri una politica di ancorag-gio al deutsche mark e una sottomissione di fatto a una doppia ortodossia, monetaria e di bilancio, dettata dalle autorità monetarie tedesche. All’epoca, varie misure permettevano ancora agli stati di migliorare i loro costi relativi di produzione: svalutazione (lavorando sui tassi di cambio) e disinflazione competitiva (giocando su sa-lari, fiscalità, ecc.). All’inizio degli anni ’90, i criteri di aggiustamento strutturale imposti dal trattato di Maa-stricht hanno consacrato l’opzione di un coordinamen-to liberista delle politiche economiche, che dipende in sostanza dai rapporti di forza tra i grandi paesi.

Mentre la Francia reclama la moneta unica come garan-zia d’integrazione europea di una Germania nuovamente unificata, il cancelliere Helmut Kohl impone, in cambio, il modello tedesco di banca centrale e la sua ossessione antinflazionistica. Il deficit pubblico non dovrà superare il 3% del prodotto interno lordo (Pil), il debito pubblico il 60% del Pil e i governi dovranno puntare ad un «alto grado» di stabilità dei prezzi (cioè «un tasso d’inflazione che non superi di più di 1,5 punti il tasso medio dei tre stati membri che presentano i tassi d’inflazione più bassi»). A questo stadio, le remunerazioni non sono oggetto di alcun controllo diretto.

Nel 1999, la nascita dell’euro segna una svolta: la moneta uni-ca vieta agli stati qualsiasi svalutazione o altri giochi sui tassi di cambio per migliorare la competitività. Conseguenza: i salari di-

L’assenso di Berlino

MAN BASSA SUI SALARICon il pretesto della crisi, l’Unione europea cerca ormai di imporre agli stati membri la politica tedesca dei bassi salari – la stessa che alimenta il caos nella zona euro (leggere il presente articolo di Anne Dufresne). Contro questa offensiva, i sindacati europei stentano a trovare una strategia coordinata (leggere alle pagine 16 e 17). Colpiti, come tanti altri, dall’austerità e dal peggioramento delle condizioni di lavoro, gli agenti della

sicurezza aeroportuale francese hanno reagito con lo sciopero (leggere il reportage de Julien Brygo alle pagine 18 e 19). In questo contesto, risorgono antiche rivendicazioni: quella riformista di un salario massimo (leggere l’articolo di Sam Pizzigati alle pagine 1, 16 e 17); e quella (rivoluzionaria) di una società in cui chi produce ricchezza detenga il potere economico (leggere l’analisi di Bernard Friot alle pagine 18 e 19 in basso)

di ANNE dufrESNE*

dOSSIEr

* Sociologa, ricercatrice presso il Fonds national de la recherche scientifique (Fnrs) in Belgio. Autrice di Le salaire, un enjeu pour l’eurosyndicalisme. His-toire de la coordination des négociations collectives nationales, Presses univer-sitaires di Nancy, 2011.

(1) Lettera d’intenzione del governo della Romania al Fmi, 16 giugno 2010.(2) Commissione europea, «Evaluation du programme national de réforme et du

programme de stabilité 2011 de la Belgique», Bruxelles, 7 giugno 2011.(3) Discorso all’Istituto europeo di Firenze, 18 giugno 2010.(4) Leggere François Ruffin, «La sconfitta dei salari in Francia», Le Monde diplo-

matique/il manifesto, gennaio 2008.(5) «Lagarde au Conseil des ministres allemands», Le Figaro, Parigi, 30 marzo

2010.(6) «Les pays de la zone euro doivent faire des efforts», Le Figaro, 3 settembre

2010.(7) Leggere Till Van Treeck, «Vittoria di Pirro per l’economia tedesca», Le Monde

diplomatique/il manifesto, settembre 2010.(8) Per maggiori dettagli, leggere Bispinck Reinhard e Schulten Thorsten, Trade

Union Responses to Precarious Employment in Germany, Wsi-Diskussionspa-pier n° 178, dicembre 2011.

(9) Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), «Rapport mondial sur les sa-laires 2010/2011. Politiques salariales en temps de crise», Ginevra, novembre 2011.

(10) Circa il 60% delle esportazioni tedesche è destinato alla zona euro.(11) Martin Wolf, «A disastrous failure at the summit», The Financial Times,

Londra, 14 dicembre 2011.

continua a pagina 16

SOMMArIO dEl dOSSIEr

PAGINE 16 E 17

Stabilire un tetto massimo per i redditi, seguito dalla prima dell’articolo di sam Pizzigati – Per i sindacati, un difficile contrattacco, di A. d.

PAGINE 18 E 19

Dove sono finiti i soldi? di Julien Brygo – I contributi, uno strumento di trasformazione sociale, di Bernard Friot

RobeRto baRni Instabile, 2005

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Malgrado l’ampio spazio dato dal New York Times all’ap-pello di Adler, bisogna aspettare il primo conflitto mondiale perché la nozione di «salario massimo» conosca una tradu-zione legislativa. È infatti per finanziare lo sforzo bellico che i progressisti propongono di tassare nella misura del 100% i redditi superiori ai 100.000 dollari (cioè 2,2 milioni di dollari nel 2010).

Il gruppo che sostiene la misura, l’American Committee on War Finance, conta su duemila volontari disseminati in tut-to il paese. Pubblica nei giornali dei tagliandi staccabili che i lettori possono firmare, impegnandosi così a «operare per la promulgazione rapida di una legge» sulla limitazione dei redditi: una «coscrizione della ricchezza», secondo le paro-le del comitato. «Se lo stato ha il diritto di confiscare la vita di un uomo per soddisfare l’interesse generale, allora deve certamente poter requisire la ricchezza di alcuni per le stes-se ragioni», dichiara il suo presidente, l’avvocato Amos Pin-chot, davanti al Congresso, prima di sottolineare che il 2% degli americani detiene il 65% dell’insieme delle ricchezze del paese. «Gli Stati uniti, così come qualsiasi altro paese, non possono condurre una guerra che serva sia gli interessi dei plutocrati che quelli della democrazia. Se la guerra serve Dio, non può servire Mammona (2)», conclude. Pinchot e i suoi compagni progressisti non hanno vinto la battaglia, ma la loro campagna ha profondamente modificato la fiscalità nazionale: il tasso d’imposizione superiore sui redditi che su-perano il milione di dollari passa dal 7% nel 1914 al 77% nel 1918.

La «paura rossa» che segue la prima guerra mondiale (3) annienta le speranze di un’America più egualitaria. Tornata al potere, la destra fa di nuovo degli Stati uniti una nazione accogliente per i molto ricchi. Negli anni ’20 si assiste a un rapido processo di concentrazione della ricchezza. Al Con-gresso, democratici e repubblicani si battono per ottenere una riduzione delle tasse sugli alti redditi. Nel 1925, il tasso d’im-posizione massimo è del 25%.

aTene, ciTTà simbolo. Dal 16 al 19 maggio 2011, la Confederazione europea dei sindacati (Ces) (1) ha tenuto il suo pri-

mo congresso dall’inizio della crisi nel paese della zona euro più duramente colpito dall’austerità (2). Per i delegati presenti, la solidarietà con il popolo greco renderebbe necessaria una controffensiva coordinata a livello europeo: una spinta unita-ria capace di opporre una soluzione di ricambio all’armonizzazione dei salari «al ribasso» (legge-re l’articolo sopra).

«Hanno varcato il Rubicone. È urgente con-trattaccare i piani di austerità della Commissio-ne [europea]», ha dichiarato il presidente uscente dell’Unione generale dei lavoratori (Ugt), lo spa-gnolo Candido Mendez. Accertato che la regres-sione sociale è destinata a generalizzarsi, i dele-gati greci propongono che ci si appoggi al loro «laboratorio» per elaborare nuove strategie: «La medicina [i piani di austerità e la governance eco-nomica] si dimostra peggiore del male, osserva uno di loro. Bisogna battersi contro l’ortodossia della Banca centrale europea che attua una tera-pia d’urto e rompere con il dogma della competi-tività. Armonizzare i salari, si; ma verso l’alto!»

Sul polo opposto di questa Europa a due velo-cità, un rappresentante del sindacato tedesco dei servizi privati Ver-di assicura che «l’esportazione del modello tedesco aggrava la situazione». Per il suo omologo della confederazione Deutscher Gewerkschaftsbund (Dgb), non vi è dubbio che bisogna «agire anche in Germania, e non solo in Grecia». «I nostri vicini diventano nemici, gli fa eco un rappresentante polacco di Solidarnosc. Non possiamo andare avanti così (3).»

per i delegati, un argomento scottante e un terreno minato

se c’è un accordo sindacale sul fatto di ri-fiutare che in Europa si instauri un’austerità

salariale permanente e sul porre la questione sa-lariale al centro dell’eurosindacalismo, resta però una domanda: come fare? Tenuto conto della di-sparità tra le remunerazioni praticate nell’Unio-ne e dell’assenza di un salario minimo in alcuni paesi, la parola d’ordine più logica sembrerebbe essere: salario minimo europeo. Ma per i congres-sisti l’argomento è scottante e il terreno minato.

È nel maggio 2007, dietro le quinte del Con-gresso di Siviglia, che – la rivendicazione fa la sua comparsa alla Ces – con una certa discrezione. I sindacalisti tedeschi la inseriscono nella discus-

febbraIo 2012 Le Monde diplomatique il manifesto16

ventano l’ultima variabile di aggiustamen-to di cui dispongono per migliorare i costi relativi di produzione. Una situazione che vuol dire esercitare una pressione costante sul potere di acquisto dei lavoratori euro-pei. Nel corso di quel periodo, le politiche di negoziazione collettiva subiscono una trasformazione radicale e diventano pro-fondamente difensive. Sotto la pressione delle ristrutturazioni in corso e dell’aumen-to della disoccupazione di massa, molti sindacati europei (quelli tedeschi in testa) debbono rivedere al ribasso le loro rivendi-cazioni. Poiché si trovano a negoziare sotto la minaccia di un danno alla competitività nazionale, la loro priorità non è più l’au-mento dei salari, ma la conservazione del posto di lavoro.

Una lunga serie di accordi d’impresa che accettano aumenti del tempo di lavoro con-tro il mantenimento del posto di lavoro te-stimonia la tendenza, in tutta Europa, alla svalutazione della negoziazione per settori, come nel 2004 alla Siemens (Germania) o nel 2005 alla Bosch (Francia). L’allunga-mento del tempo di lavoro equivale a una riduzione del costo del lavoro. «La Confe-derazione europea dei sindacati (Ces) rite-neva che la moderazione salariale fosse un elemento necessario in un periodo di forte disoccupazione (dal 12 al 13% nell’Ue) – spiega Jean Lapeyre, all’epoca segretario generale dell’organizzazione. Si pensava di dover fare questo sforzo nell’interesse del posto di lavoro. (…). In seguito ci sia-mo sentiti traditi e ingannati dai datori di lavoro, perché la parte salariale ha con-tinuato a regredire senza alcun migliora-mento a livello di assunzioni (12).»

In questo contesto, è la natura stessa del salario ad essere in discussione. Fino ad al-lora oggetto di decisione politica per eccel-lenza, esso è ormai ridotto al rango di semplice fattore di pressione inflazionistica o di miglioramento della competitività. Il che signi-fica eliminare definitivamente la questione fondamentale della ri-distribuzione della ricchezza.

Così, a livello dell’Unione, gli attori economici che si appropria-no della questione ignorano volentieri il ruolo della sfera politica nella scelta delle opzioni economiche. Secondo loro, i partner so-ciali – chiamati alla «responsabilità» – non possono avere altra am-bizione che facilitare una necessaria riduzione del Cumo: «I part-ner sociali dovrebbero continuare a dar prova dello stesso senso di responsabilità e negoziare negli stati membri accordi salariali conformi ai principi generali definiti nei grandi orientamenti delle politiche economiche (13).»

Teoricamente escluso dal campo di competenza sociale di Bru-xelles, il salario si trova proiettato in quello delle politiche econo-miche comuni. Ma il peso macroeconomico dell’Unione non lascia altra prospettiva che il dumping salariale organizzato. Poiché nes-sun quadro di negoziazione collettiva europea né di armonizza-zione dall’alto è per il momento prevedibile nel quadro del diritto europeo, la negoziazione si può prevedere solo … al ribasso. Come se non si potesse immaginare un coordinamento delle negoziazioni salariali al rialzo.

A.d.

(12) Intervista all’autore.(13) Raccomandazione del Consiglio relativa ai grandi orientamenti delle politiche

economiche, 15 giugno 2001.(Traduzione di G. P.)

dOSSIEr

Stabilire

Salari minimi mensili

Salario minimoorario legale lordo al 1° gennaio 2011 in euro

Nessun salario minimo legale nazionale, ma accordi di settore,regionali o convenzioni collettive

Fonti: Eurostat; Fondazione Hans Böckler, dicembre 2011

Fonti: Eurostat; Fondazione Hans B

0

2

4

6

8

10

Francia9,00

Belgio8,58

Lussemburgo10,16

Germania

Danimarca

Svezia Finlandia

ItaliaSpagna3,89

Austria

Slovenia4,24

Ungheria1,61

Slovacchia1,82

Romania0,93Bulgaria0,71

Grecia4,28

Cipro

Malta3,84

Polonia1,85

Lituania1,40

Lettonia1,68

Estonia1,73

Rep.ceca1,82

Paesi bassi8,74

Portogallo2,92

Irlanda8,65

Regno unito6,91

Per i sindacati, Un salario minimo europeo creerebbe un solido argine contro l’armonizzazione al ribasso delle remunerazioni. E ostacolerebbe il dumping sociale all’interno dell’Unione. Tuttavia, l’idea non raccoglie il consenso unanime dei sindacati.

di ANNE dufrESNE

(1) La Confederazione europea dei sindacati (Ces) conta tra i suoi membri ottantaquattro confederazioni sindacali na-zionali di trentasei paesi e dodici federazioni professionali europee.

(2) Leggere Noëlle Burgi, «I greci nel tritacarne», Le Monde diplomatique/il manifesto, dicembre 2011.

(3) Le varie dichiarazioni sono state raccolte dall’autrice nel corso dei congressi di Siviglia (2007) e di Atene (2011).

L’assenso di Berlino

continua da pagina 15 continua dalla prima pagina

(2) The Public, New York, 28 settembre 1917. (3) Cioè gli anni 1919-1920, segnati da un forte sentimento anticomunista.

RobeRto baRni Instabile, 2005

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Ma la crisi del 1929, che porta l’economia sull’orlo del baratro, sposta nuovamente gli equilibri. Nel 1933, un quarto dei lavoratori americani è senza lavoro. Ricompare la rivendicazione di un tetto dei redditi. In Louisiana, Huey P. Long, giovane senatore in ascesa, lancia il movimento Condividiamo la nostra ricchezza, che si esten-derà in tutto il paese. Propone di stabilire un tetto di 1 milione di dollari per i redditi annui individuali – il che rappresenterebbe più di 15 milioni di dollari nel 2010 – e di 8 milioni di dollari per il pa-trimonio.

Nel giugno 1935, il presidente Franklin Roosevelt scandalizza l’America facoltosa annunciando la sua intenzione di «fare pagare i ricchi» per risolvere la crisi. Crea allora una tassa del 79% sui redditi superiori a 5 milioni di dollari (circa 78 milioni di dollari nel 2010). La decisione – e l’assassinio di Long nell’agosto 1935 – allontana per un po’ l’idea di un reddito massimo. Ma questa risorge nell’apri-le 1942. Roosevelt, inspirato da diversi sindacati, propone di creare un reddito massimo in tempo di guerra, fissato a 25.000 dollari per anno (circa 350.000 dollari nel 2010). Senza arrivare a tanto, nel 1944, il Congresso fissa il tasso d’imposizione dei redditi superiori a 200.000 dollari a un livello ineguagliato: il 94%.

i più ricchi avrebbero un interesse personale e diretto al benessere dei meno ricchi

Nel corso dei due decenni successivi – un periodo di grande prosperità per la classe media americana –, il tasso d’imposizio-ne superiore si aggira attorno al 90%, prima di scendere a meno del 70% durante la presidenza di Lyndon Johnson (novembre 1963-gennaio 1969). Con Ronald Reagan, il tasso si riduce an-cora, per arrivare al 50% nel 1981, poi al 28% nel 1988. Oggi, è al 35%. Ed è già troppo, secondo alcuni. Ma, fortunatamen-te per più ricchi, la maggior parte dei redditi da loro dichiarati proviene dai guadagni da capitale, dai profitti realizzati grazie all’acquisto e alla vendita di azioni, obbligazioni e altri attivi, i quali sono tassati solo nella misura del 15%. Una statistica ri-assume l’evoluzione: nel 2008, i quattrocento contribuenti più ricchi hanno intascato 270,5 milioni di dollari ciascuno e pa-gato il 18,1% d’imposte allo stato federale; nel 1955, avevano guadagnato 13,3 milioni di dollari (in dollari costanti, tenuto

conto dell’inflazione) e pagato il 51,2% di tasse.

Il dibattito si è spostato. Oggi, gli eredi di Adler, Pinchot e Long si focalizzano sulle imprese più che sugli individui. Secondo loro, i diversi livelli del potere (locale, statale, federale) dovrebbero uti-lizzare il fatto che le imprese private ricevono soldi pubblici – sotto forma di ordinazioni di stato, di sovvenzioni allo «sviluppo eco-nomico» o di vantaggi fiscali – per esigere da loro nuove politiche salariali. Neppure un dollaro proveniente dalle imposte dovrebbe finire nelle casse di imprese che pagano i loro dirigenti dieci, venti, se non cinquanta volte più dei salariati (4). «Oggi lo stato federale rifiuta di firmare contratti con imprese che hanno pratiche di re-clutamento razziste o sessiste. Lo stesso principio potrebbe essere invocato per rifiutare contratti a quelle che, con i salari esorbitanti dei loro dirigenti, aumentano le disuguaglianze economiche della nazione (5)», sostiene un rapporto dell’Institut for Policy Studies.

Lo scolpo ultimo? Un vero salario massimo, indicizzato sul sala-rio minimo, che assumerebbe la forma di una fiscalità fortemente progressiva, così come aveva proposto Adler un secolo fa. Il mas-simo sarebbe definito come un multiplo del minimo e ogni reddito superiore a dieci o venticinque volte questo minimo sarebbe colpito da un’imposta del 100%. La disposizione incoraggerebbe e alimen-terebbe quasi immediatamente una forma di economia solidale: per la prima volta, i più ricchi avrebbero un interesse personale e diretto al benessere dei meno ricchi.

Prima del movimento Occupare Wall Street, una simile prospet-tiva non era che una fantasia politica. Ora non più. Segno dei tem-pi: due eminenti universitari americani, uno giurista a Yale e l’altro economista a Berkeley, hanno pubblicato sul New York Times una convincente perorazione a sostegno di una riforma fiscale che limiti il reddito medio dell’1% degli americani più ricchi a trentasei volte il reddito mediano (6). Oggi il salario minimo è considerato un dato

sociale acquisito. Perché non il salario massimo?

SAM PIZZIGATI

(4) I grandi manager americani guadagnano attualmente trecentoventicinque vol-te più del salario settimanale medio. (5) «Executive excess 2007: The staggering social cost of U.S. business lea-dership. 14th annual CEO compensation survey», Institute for Policy Studies, Washington, DC, 29 agosto 2007.(6) Ian Ayres e Aaron Edlin, «Don’t tax the rich. Tax inequality itself», The New York Times, 18 dicembre 2011.

(Traduzione di G. P.)

sione: «Mentre venti paesi su ventisette hanno già un salario minimo universale fissato dallo stato, la grande economia tedesca ne è priva! Paragonarci ai vicini ci aiuta nella nostra campagna nazionale verso un salario minimo interprofessionale (4).» Da quando il Regno unito, nel 1999, ha adottato il dispositivo, la Germania è infatti rimasta il solo membro dell’Unione che non dispone di un riferi-mento concreto in grado di offrire un supporto po-litico alla contrattazione collettiva sui bassi salari: negli altri sei paesi esistono dei minimi contrattua-li per i vari settori d’attività.

«come fissare uno stesso obiettivo per tutti questi paesi dotati di sistemi salariali diversi?»

i briTannici e i francesi – fieri del loro vec-chio buon salario minimo interprofessionale di

crescita, lo Smic – sono, come i sindacalisti del Dgb, sostenitori di un salario minimo europeo. A fine congresso, Jean-Christophe Le Duigou, allora membro dell’ufficio della Confederazio-ne generale del lavoro (Cgt), manifestava la sua delusione perché nessuno sembrava intenzionato ad accelerare sulla questione: «Sul principio è da tanto che si discute! Ma è molto difficile arrivare a concretizzare la rivendicazione.» Marcel Gri-gnard, segretario generale aggiunto della Confe-derazione francese democratica del lavoro (Cfdt), si chiede: «Come può la Ces fissare uno stesso obiettivo per tutti i paesi dell’Ue, dotati di sistemi salariali diversi?»

Fin dal 1997, le frange radicali di molte orga-nizzazioni sindacali avevano studiato diverse re-gole di salario minimo per gruppi di paesi dallo sviluppo economico paragonabile (5). Nel 2005, una rete di ricercatori vicini ai sindacati (6) ha cercato di definire una regola europea di salario minimo rapportato al salario medio nazionale: il 50% a breve termine, poi il 60%. Visto che attual-mente i salari minimi legali sono compresi tra il 30% e il 48% del salario medio – il che corrispon-de rispettivamente a 1,82 euro nella Repubblica ceca e a 9 euro in Francia (vedere il grafico) –, la proposta consentirebbe un aumento relativo nell’insieme dei paesi. Ma, sul piano tecnico, il dibattito non ha fatto progressi.

Agli occhi dei delegati della Ces, la questione non riguarda tanto l’idea di un salario minimo

quanto l’autonomia degli interlocutori socia-li nella contrattazione salariale. «Non abbiamo mai chiesto uno Smic fissato dallo stato in tutti i paesi europei!», precisava un rappresentante del-la Cfdt al Congresso di Atene nel 2011. I sosteni-tori di un sistema di salario minimo in Europa si scontrano infatti con i sindacati dei paesi in cui la remunerazione minima è fissata per settore, tramite convenzioni collettive negoziate. È il caso in particolare degli stati scandinavi e dell’Italia. «Non desideriamo l’intervento dello stato, spie-ga un rappresentante svedese di Tjänstemännens Centralorganisation (Tco). Nel nostro paese, il 90% dei lavoratori è coperto da una convenzio-ne collettiva. Non abbiamo bisogno di un salario minimo legale interprofessionale.» Dal canto suo, il rappresentante italiano ritiene che «esso non ri-solva il problema dei bassi salari» : «Non voglia-mo perdere la nostra parte di autonomia.»

Il caso tedesco illustra bene la problematica e la sua evoluzione. Nella culla del capitalismo renano, l’idea di un salario minimo legale è sempre stata problematica, perché la Costituzione prevede il primato dell’autonomia della negoziazione colletti-va. Lascia alle organizzazioni settoriali il compito di aprire dei tavoli di confronto in ogni settore e in ogni regione. Tuttavia, di fronte allo scarso nume-ro di imprese che hanno concluso una convenzione collettiva, all’aumento dei settori che praticano una politica di bassi salari (7) e alle pressioni crescenti sui diritti sociali, il sistema sembra sempre meno capace di fissare norme minimali (8).

permettere alla polonia o alla romania di bloccare i piani di austerità

di conseguenza i sindacati Nahrung-genuss-gaststätten (Ngg, alimentazione e

settore alberghiero e ristorazione) e Ver-di (ser-vizi privati) conducono, dal 2006, una campagna per un salario minimo universale garantito per legge. Oggi, rivendicano un importo di 8,50 euro l’ora. In alcuni settori sono previsti anche salari minimi specifici (sempre superiori a questo im-porto). La campagna mette in evidenza la natura politica della questione salariale e tenta di com-pensare il fragile potere organizzativo di Ver-di con la mobilitazione dell’opinione pubblica. La cancelliera Angela Merkel, a lungo ostile al prin-cipio stesso di un salario minimo, con l’approssi-marsi delle elezioni si mostra favorevole. Ha già affermato di voler estendere i salari minimi di

settore già negoziati, ma non si è ancora espressa chiaramente sull’istituzione di un minimo inter-professionale, e ancora meno sul suo importo.

In ogni caso, e anche se la Germania aderisse all’idea, resta ancora molta strada da percorrere. Un responsabile della Federazione europea dei metalmeccanici sosteneva che «alla Francia non si richiede di esportare il suo modello di gran-de paese» e che la rivendicazione era «prematu-ra e inopportuna». Il fronte del rifiuto teme una spirale che spinga al ribasso i salari, perché «se una soglia di non regressione può essere fissa-ta a livello legislativo (il 50% del salario medio nazionale, ad esempio), non può esserlo a livel-lo della contrattazione, libera per definizione», spiega Walter Cerfeda, ex segretario confederale della Ces. «Non vedo come un salario minimo, al di sotto del quale nessun salariato può essere re-munerato, possa costituire un rischio per i nordi-ci!, ribatte Bernard Thibault, segretario generale della Cgt. In compenso, vedo che la Romania o la Polonia non hanno un riferimento europeo da utilizzare per contrastare i piani di austerità sa-lariale che vengono loro imposti.»

L’impossibilità di accordarsi su questo tema testimonia del lavoro che resta da compiere per arrivare, su scala transnazionale, a una comune dinamica rivendicativa. È allora forse nelle stra-tegie di coordinamento delle contrattazioni sala-riali esistenti che si cela la possibilità, per il mo-vimento sindacale europeo, di suscitare una più ampia mobilitazione (9).

A. d.

(4) Intervista a un responsabile del sindacato tedesco Deutscher gewerkschaftsbund (Dgb), 25 maggio 2007.

(5) Pierre Bourdieu, Claude Debons, Detlef Hensche e Bur-kart Lutz (sotto la direzione di), Les Perspectives de la protestation, Syllepse, Parigi, 1998 (1997).

(6) Costituita da ricercatori tedeschi, svizzeri e francesi, la rete punta alla promozione sindacale di «tesi per una poli-tica europea dei salari minimi» e ha pubblicato un’opera coordinata da Thorsten Schulten, Reinhard Bispinck e Claus Schäfer, Minimum Wages in Europe, European tra-de union institute (Etui), Bruxelles, 2006.

(7) Ad esempio, la paga oraria di un parrucchiere in Sassonia e di un fioraio in Turingia è di 3,06 euro e di 4,54 euro lordi. Cfr. «Tarifspiegel: unterste Tarife nach Branchen», Wsi Tarifarchiv 2011, www.boeckler.de

(8) L’attuale sistema garantisce un salario minimo, spesso molto basso, in alcuni settori e unicamente ai salariati coperti da una convenzione collettiva, cioè il 62% dei lavoratori.

(9) Cfr., Le salaire, un enjeu pour l’eurosyndicalisme. Histoi-re de la coordination des négociations collectives, Presses universitaires de Nancy, 2011.

(Traduzione di G. P.)

Le Monde diplomatique il manifesto febbraIo 2012 17dOSSIEr

un tetto massimo per i redditi

combattività efficace

L’esplosione delle rivoluzioni arabe è stata accompagnata da molti scioperi.

Egitto. Il salario minimo datava dal… 1964; ammontava a 35 sterline egiziane. Nel 2011, il governo lo ha fissato a 700 sterline egiziane (89 euro nel gennaio 2012), una misura applicata prima al settore pubblico, poi a quello privato. I movimenti sindacali rivendicavano 1.200 sterline egiziane. Nel 2008, il salario medio era di 567 sterline egiziane per gli uomini e 444 per le donne. Segno dei tempi, lo scorso 28 dicembre il governo ha pubblicato una legge che fissa un tetto massimo per i salari della funzione pubblica: trentacinque volte il salario minimo.

Algeria. Nel 2011, per pacificare e disarmare la protesta, il salario minimo è stato portato da 15.000 a 18.000 dinari (180 euro).

Tunisia. Il 1° maggio 2011, il salario minimo è passato da 272 a 286 dinari (145 euro).

Marocco. Il governo ha deciso di aumentare del 15% il salario minimo: +10% a luglio del 2011 (arrivando a 2.230 dirham, cioè 200 euro), +5% a luglio del 2012.

Anche in Asia…

Cina. Dopo le contestazioni sociali avvenute nell’estate 2010 nella regione industriale di Shenzhen, si moltiplicano gli annunci di aumenti salariali. Il dodicesimo Piano quinquennale (2011-2015) prevede un aumento del salario minimo del 13% l’anno, dopo un aumento medio del 14% nel 2010 – i minimi essendo fissati a livello della provincia. Tuttavia, malgrado proteste sempre più frequenti, molti lavoratori sono pagati sotto il minimo legale e, spesso, le ore di straordinario non sono retribuite. Il salario medio dei lavoratori urbani è invece aumentato del 12,4% nel 2010 e del 14,3% nel 2011. Nel 2010 ammontava a 3.030 yuan (370 euro). Raggiunge i 5.510 yuan a Shanghai e i 2.311 yuan nella provincia di Heilongjiang. (Fonte: China Statistical Year Book, 2011.)

Giappone. Per la prima volta da quattro anni, il salario medio dei lavoratori giapponesi impiegati a tempo pieno è leggermente aumentato (+0,5%) arrivando a 317.092 yen (3.144 euro) nel 2010. Nel 2009, era diminuito del 3,8%, in particolare a causa della riduzione degli straordinari.

India. Il salario minimo dipende dal governo, dagli stati, dai distretti e dalle qualifiche. A New Delhi, va dai 93,77 euro al mese (per i salariati non qualificati) ai 124,21 euro (per i diplomati). Nel 2011, su scala nazionale è aumentato del 15% per raggiungere le 115 rupie (1,77 euro) al giorno.

un difficile contrattacco

RobeRto baRni Atto muto, 2005SC

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febbraIo 2012 Le Monde diplomatique il manifesto18 dOSSIEr

Nel dicembre 2011, gli agenti privati della sicurezza degli aeroporti francesi hanno scioperato undici giorni contro uno degli effetti più comuni dell’esternalizzazione dei servizi pubblici: la pressione al ribasso sui salari.

di JulIEN BrYGO *

venerdì 23 dicembre 2011, decine di agenti di sicurezza, in sciopero da una set-timana per ottenere 200 euro di aumento

mensile, si concedono una sosta al McDonald’s di Roissy - Charles-de-Gaulle. Due piani sopra, dietro i metal detector del secondo aeroporto eu-ropeo, trecento poliziotti della compagnia repub-blicana di sicurezza (Crs) e cento militari, assistiti dai non scioperanti, palpano, frugano e ispezio-nano gli ottantamila passeggeri attesi in questa vigilia di Natale. Una situazione inedita a Roissy, con la polizia in veste di «crumiro», come denun-cia il più importante sindacato dei vigili urbani (1). Ma anche straordinaria, con i poliziotti che si ritrovano a fare gesti che erano di loro competen-za fino al 1996, prima che lo stato delegasse que-sto compito al privato.

Bisogna dire, spiega Le Figaro del 18 dicem-bre, che «il 2011 è stato pesante per i francesi» e che il presidente Nicolas Sarkozy «non [pote-va] accettare» che fossero «presi in ostaggio nel momento di andare in vacanza con i figli». Così, molti giornalisti sono accorsi per tendere i micro-foni ai viaggiatori sull’orlo di una crisi di nervi. «Nonostante tutto, l’opinione pubblica si è schie-rata dalla nostra parte quando hanno mandato le forze dell’’ordine», ritiene Sébastien, operatore della sicurezza a 1.582 euro lordi (1.350 euro net-ti) al mese, con orari variabili. Tiene a precisare che la parola d’ordine salariale è solo la locomo-tiva di un lungo treno di rivendicazioni: «condi-zioni di lavoro», «riconoscimento da parte dello stato», «fine della precarietà e dei controlli poli-zieschi» (2). Dalla parte opposta dell’aeroporto, sindacati (3) e padronato negoziano in presenza di un mediatore inviato dall’Eliseo, mentre è as-sente chi dà gli ordini, l’Aéroports de Paris (Adp).

Si tratta di una società anonima, con il 52% di ca-pitali pubblici, che organizza la concorrenza tra subappaltanti, ma rifiuta di assumere le proprie responsabilità nello scontro.

Davanti al cancello automatico, circondata da furgoni di polizia, addestratori con i cani poli-ziotto e telecamere di videosorveglianza, Sophie Krzysztofik, 37 anni, racconta la storia del suo percorso a Roissy: «Qui, abbiamo ripreso il lavo-ro della polizia fin dal 1994 (4). Io sono arrivata nel 1997. All’epoca, ci chiamavamo Protectas. Poi la società ha acquisito un sacco di piccole aziende, a Roissy e nel mondo, e ha cambiato nome: ora si chiama Securitas. Nel 1997, il mio mirabolante salario ammontava a 7.000 franchi lordi [1.067 euro] per duecentouno ore. A secon-da delle gare d’appalto, siamo diventati Sgsa, poi Sifa, poi Penauille, poi Derichebourg.» Nel 2009, Derichebourg perde la gara d’appalto e l’80% dei suoi agenti si ritrova sotto l’insegna di Securitas. «Domani, forse, sarà un’altra società. Dal mo-mento che sono una delle più anziane, ho uno dei salari più alti dell’azienda: 1.650 euro netti.»

Durante la protesta, Securitas e tutte le altre società del settore hanno sostenuto che i loro mar-gini sono «troppo modesti» per aumentare i salari del 15%. «È una richiesta irragionevole», accu-sa Patrick Thouverez, presidente del Sindacato padronale delle imprese per la sicurezza aerea e aeroportuale (Sesa) e dirigente di Icts France. Eppure, la salute economica di questi mastodonti della sicurezza privata è vistosa (5). Per Securi-tas, ad esempio, uno dei leader mondiali del set-tore (295.000 salariati), il 2010 è stato «un’altra buona annata», come si vede dal rapporto annua-le del gruppo: le azioni sono aumentate del 12%. Ma il Sesa non demorde: i margini sono troppo bassi per aumentare i salari.

«ogni tre anni, si ricomincia da zero: salari, premi, condizioni di lavoro… »

Quella maTTina, accanto a Sophie, Syl-via, diciassette anni di anzianità, preferisce

parlare del suo «ragazzino che si ammala», delle «rappresaglie della Ddh al telefono», dei «plan-ning presentati solo sette giorni prima» o del tempo che le ci vuole ogni notte per «fare [i] ses-santa chilometri per venire nel bunker di Roissy». Ricorda i «passeggeri-mistero» inviati da Adp

per verificare la qualità del loro lavoro, i «pas-seggeri che possono rappresentare un rischio», o quelle «maledette bottiglie d’acqua» la cui proi-bizione va costantemente ripetuta. «C’è anche il famoso Sbam – il “S’il vous plaît – Bon voyage – Au revoir – Merci” [Pbag ] – [il “Per favore - Buon viaggio –Arrivederci - Grazie”] –, e poi il controllo multiplo: quello di chi dà gli ordini, quello delle società, quello della polizia e quello che si esercita tra colleghi. Siamo sorvegliati e ci sorvegliamo a vicenda.»

In fondo, Sylvia parla della contraddizione rap-presentata dal fatto di compiere una missione te-oricamente fondamentale – «impedire l’introdu-zione a bordo delle aeronavi di qualsiasi persona o elemento materiale che possa compromettere la sicurezza dei voli», secondo la terminologia della convenzione collettiva del settore (6) –, ma senza alcun riconoscimento né salariale né statu-tario. Rapidità, performance, valutazione, sorve-glianza esterna e interna: la routine, dietro i metal detector. «Non ci sentiamo ausiliari della polizia, spiega. Facciamo formazione ogni tre mesi, tutti abbiamo diplomi professionali mentre gli agenti di polizia non vengono formati come noi all’in-dividuazione di oggetti pericolosi. Il problema è che tutti noi abbiamo un falso Cdi [contratto a tempo indeterminato]. Ogni tre anni, si riparte da zero: salario, premi, condizioni di lavoro. Al-meno, negli Stati uniti, chi fa il nostro mestiere viene rispettato!»

Perché Sylvia e i suoi colleghi hanno tutti lo stesso riferimento: gli Stati uniti. Nel 2000, un rapporto del ministero americano delle finanze rimetteva in discussione la privatizzazione della sicurezza aeroportuale: «Quando più compagnie garantiscono il controllo della sicurezza di un aeroporto, la responsabilità è frammentata, e questo nuoce all’uniformità dei controlli (…). La concorrenza, che spinge le società di sicurezza a

presentare l’offerta più bassa per l’effettuazione dei controlli, provoca una pressione al ribasso sul salario del personale di sicurezza, il che ren-de molto difficile attirare e trattenere gli elemen-ti migliori (7).» In poche parole, privatizzare un compito fondamentale induce meccanicamente una «pressione sui salari», incompatibile con il compito in questione. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, il governo passa all’azione: il controllo dei passeggeri è parzialmente trasferito al settore pubblico. Cinquantamila agenti fede-rali vengono reclutati dalla Trasportation Secu-rity Administration (Tsa), creata appositamente. Benché, nel 2005, la valutazione del ministero americano venga citata nel rapporto parlamentare del ministro dei trasporti Thierry Mariani, nulla cambia nelle attività francesi.

Socializzare la ricchezza, rivendicazione utopistica? Al contrario, progetto realistico: già ora, spesso senza saperlo, socializziamo buona parte del salario grazie ai contributi sociali.

di BErNArd frIOT *

chi conTrolla i mezzi di produzione? Cosa producia-mo e sulla base di quale definizione del valore? Domande decisive, ma assenti dal dibattito pubblico. Porle, quando

l’austerità piega la schiena dei salariati, sembra quasi un lusso. Ep-pure, il salario contiene una potenzialità che va al di là della busta paga. Rappresenta uno strumento di trasformazione sociale e di emancipazione, la cui forza è celata da due idee preconcette.

La prima suggerisce l’idea che il salario servirebbe a soddisfare i bisogni dei lavoratori, come dimostra l’espressione «prezzo della forza lavoro». La seconda lo presenta come la contropartita della produttività del lavoratore, e quindi come il prezzo del prodotto del suo lavoro. Così, di volta in volta, o contemporaneamente, il sala-rio viene definito come prezzo del lavoro e come «reddito del lavo-ratore». In breve, il mezzo di sostentamento e la ricompensa della fatica. Entrambe le versioni finiscono per fare del salario un «po-tere d’acquisto». Per la prima è evidente: il salario permetterebbe di comprare di che continuare a lavorare. Ma è vero anche per la seconda: se il salario remunera il prodotto del lavoro, colui che lo percepisce «ha quanto gli spetta». Non ha altri diritti sul suo lavoro se non quello di trarne un reddito. Il salario offrirebbe quindi un potere di acquisto rapportato al lavoro fornito.

Definire i produttori per il guadagno che traggono dal loro «capi-tale umano», e non per la capacità di decidere del valore economico (leggere «Parole-chiave»), e di conseguenza di cosa sarà prodotto, da chi e come: questa è la rappresentazione che tenta d’imporre il capitalismo. Nell’attuale sistema, infatti, il valore si misura con il tempo di lavoro – è il «valore lavoro». Per superare questo concetto, disponiamo di uno strumento già potente, nato dalle conquiste so-ciali: i contributi, che costituiscono una delle due dimensioni eman-cipatrici del salario (1).

Occorre precisare che stiamo parlando del salario totale, da non confondere con il salario netto – quello che figura in fondo alla bu-sta paga – né con il salario lordo, che costituisce solo una parte del salario totale. Infatti, se il «lordo» aggiunge al «netto» i contributi detti «del lavoratore», esso ignora i contributi del «datore di lavo-ro», due volte più elevati (leggere «Parole-chiave»). Quando una personalità politica parla dei contributi come di una tassazione del reddito o di un prelievo, o quando la rappresentante del padronato denuncia gli «oneri sociali» che appesantiscono il «costo del lavoro », essi mettono in discussione una componente del salario. Ma bloc-care, o anche solo ridurre il tasso di contribuzione, come raccoman-dano i riformatori di destra e di sinistra, vuol dire togliere al salario il suo contenuto di prospettiva per il futuro.

Perché il contributo sociale offre una definizione anticapitalisti-ca del valore. Versarlo vuol dire molto semplicemente attribuire un valore economico a delle non-merci, quali le prestazioni sanitarie, l’istruzione dei ragazzi, l’attività dei pensionati. Finanziare così il salario a vita dei pensionati, il salario del personale sanitario, il sa-lario percepito dai malati o dai disoccupati, così come il lavoro non commerciale dei genitori, sovverte il mercato del lavoro e la valuta-zione dei beni sulla base del loro tempo di produzione.

Da dove vengono i contributi sociali? In origine, per buona parte, sono stati il prodotto di iniziative padronali che tendevano a evitare

l’aumento dei salari diretti, come gli assegni famigliari che, fino agli anni ’50, sono stati il cuore della previdenza sociale. Ma si sono rivelati strumento di emancipazione man mano che si consolidava, dopo la seconda guerra mondiale, la legislazione sul salario sotto la spinta del movimento operaio.

prelievo sulla ricchezza, versato non appena prodotta, il contributo non deriva da un’accumulazione e non genera alcun

profitto. Prima della sua invenzione, un qualsiasi problema sanita-rio obbligava il lavoratore e la sua famiglia a chiedere prestiti o ad alimentare la rendita degli azionisti delle compagnie di assicura-zione. Prelevando il valore aggiunto (leggere «Parole-chiave») per finanziare la sanità o la vecchiaia, il contributo sociale mette in evi-denza l’inutilità del credito e della proprietà lucrativa. Al contrario dell’imposta sul reddito, delle tasse sugli utili, o di un’assicurazione di previdenza per garantirsi un reddito differito, costituisce un sa-lario socializzato. Questa differenza fondamentale fa del contributo una leva di trasformazione sociale: uno strumento che permette ai salariati di conquistare potere sull’economia.

Per capirlo, basta immaginare di estendere il sistema del contri-buto al finanziamento dell’investimento e dei salari diretti. Come? Creando, sul modello del contributo sociale, un «contributo econo-mico» versato a una cassa d’investimento e un «contributo salario» versato a una cassa di salario.

Socializziamo già più del 40% del salario totale attraverso i con-tributi sociali e la Contribuzione sociale generalizzata (Csg). Sulla base del «già esistente», si può ipotizzare la socializzazione dell’in-tegralità del salario, inclusa la sua componente diretta, attraverso un contributo che si sostituirebbe al salario pagato dal datore di la-voro e garantirebbe la sicurezza del salario a vita. La nuova forma di contributo coprirebbe tutto ciò che lo è già attualmente con il

I contributi, uno strumento di trasformazione sociale

CON gLI AgENTI dI ROISSY

«dove sono finiti i soldi?»

* Sociologo. Autore di L’Enjeu du salaire, La Dispute, Parigi, in libreria l’8 marzo.

* Giornalista.

(1) L’altro è la qualificazione, un asse sviluppato in L’Enjeu du salaire.

(1) Unité Sgp Police - Force ouvrière (Fo), comunicato del 20 dicembre 2011.

(2) Leggere Marc Endeweld, «Negli ingranaggi di un grande aeroporto», Le Monde diplomatique/il manifesto novem-bre 2009.

(3) Confederazione francese dei lavoratori cristiani (Cftc), Unione nazionale dei sindacati autonomi (Unsa), Con-federazione generale dal lavoro (Cgt), Solidali, unitari e democratici (Sud) e Forze operaie (Fo).

(4) In una zona sperimentale creata a Roissy due anni prima della legge di privatizzazione.

(5) L’americano Brink’s, 71.000 salariati nel mondo, 209 milioni di dollari di utili nel 2010; l’israeliano Icts e la sua filiale Europe, che impiega 12.000 salariati in venti-cinque paesi, o il francese Alyzia, una filiale di Aéroports de Paris (Adp) che impiega 1.200 persone tra Roissy, Le Bourget e Orly.

(6) Allegato VIII della convenzione collettiva delle imprese per la prevenzione e la sicurezza, 31 luglio 2002.

(7) «Aviation security: Long-standing problems impair air-port screeners’ performance» («Sicurezza aerea. Vecchi problemi riducono le prestazioni del personale aeropor-tuale»), Unites States General Accounting Office (Gao), Washington, DC, giugno 2000.

RobeRto baRni Instabile, 2005

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salario diretto degli impiegati del settore privato e dei funzionari, con le indennità giornaliere per sanità, maternità, disoccupazione, invalidità, incidenti sul lavoro e malattie professionali, con le pen-sioni e le prestazioni dell’assistenza sociale. L’insieme rappresenta circa la metà del prodotto interno lordo (Pil). Bisognerebbe quindi, a termine, prevedere una contribuzione a questo livello.

Da quel momento, non ci sarebbero più padroni che pagano i «loro» salariati, ma direzioni d’impresa che versano un contributo e reclutano salariati che non dovranno pagare. È poco dire che il rapporto di forze tra gli uni e gli altri risulterebbe nettamente rie-quilibrato. Così come il contributo sociale non è nato in un giorno e il suo tasso è aumentato in diverse decine di anni, anche la nuova formula dovrebbe essere realizzata per gradi. Così le imprese po-trebbero verificare la positività del contribuire invece che pagare salari, le casse organizzarsi prima dell’estensione del dispositivo a tutta la popolazione, gli effetti negativi o indotti essere valutati e corretti.

secondo aspeTTo, il contributo economico. In questo inizio del XXI secolo, l’equivalente del 20% del Pil francese è

assegnato all’investimento, il che è ampiamente insufficiente. Se, ad esempio, pensassimo di portare questo tasso al 30%, si potrebbe prevedere che le imprese conservino il 15% del loro valore aggiun-to per auto-finanziarsi e che un contributo progressivamente portato al 15% vada alle casse d’investimento. Un tale contributo che finan-ziasse l’investimento, senza rimborso né tasso d’interesse, permette-rebbe un tirocinio del nuovo dispositivo da parte sia dei suoi gestori (amministratori eletti dai salariati, poiché si tratterebbe di una parte socializzata del salario) che dei suoi beneficiari: i responsabili delle imprese avrebbero tutto il tempo di confrontare, visto che li verifi-cherebbero entrambi, l’interesse rispettivo di un contributo in per-centuale del valore aggiunto e di un prestito rimborsabile.

Quanto al 20% del Pil restante, esso servirà a finanziare, attra-

verso un contributo sociale, la parte dei consumi gratuiti che non dipendono né dal salario, né dall’investimento – una scuola o un ospedale, ad esempio, devono pagare spese di funzionamento come l’energia elettrica, l’acquisto di materiale, ecc. L’estensione della gratuità all’alloggio, al trasporto, alla cultura (la lista non è esausti-va) aumenterà la parte del Pil che andrà a questa quota socializzata del salario. È per questo, del resto, che sarebbero sufficienti remu-nerazioni dirette comprese tra 1.500 e 6.000 euro, versate dalla cas-sa di salario.

In questa configurazione, l’imposta scompare. Il suo guaio sta nel fatto che essa ridistribuisce, e in certo senso legittima, i redditi della proprietà e i salari legati al mercato del lavoro che costitui-scono la sua base imponibile. Indispensabile dispositivo di ridistri-buzione, in un sistema che vede una parte della ricchezza stornata, al momento stesso della sua produzione, verso i profitti a scapito dei salari, l’imposta presenterebbe una minore utilità se la maggior parte del Pil fosse socializzata.

In prospettiva, assegnare la totalità della ricchezza prodotta alla contribuzione, e dunque al salario socializzato, costituirebbe un atto politico fondamentale: la definizione del valore, la sua produ-zione, la sua proprietà d’uso e la sua destinazione spetterebbero ai salariati, cioè al popolo sovrano. La prospettiva insita nel salario, è quindi la possibilità di uscire dal capitalismo. Non di spostare il cursore della ripartizione del valore aggiunto a favore del salario e a scapito del capitale, ma di fare uscire il valore dalla costrizione del tempo di lavoro, di fare a meno dei capitalisti e del mercato del lavoro, di assegnare tutto il valore aggiunto al salario, inclusa la quota destinata all’investimento. Perché, in fondo, per lavorare non c’è bisogno né di datori di lavoro, né di finanziatori, né di azionisti.

BErNArd frIOT(Traduzione di G. P.)

Nella pratica, gli agenti di sicurezza sono invi-tati a fare fatturato e accelerare le cadenze, con mezzi sempre più scarsi. «La priorità è che i voli partano in orario, non che la sicurezza sia garan-tita. Il cliente è re e l’interesse delle compagnie aeree prevale su tutto il resto, testimonia Sophie. Se non avessi il dovere di riservatezza, vi direi come ci si può muovere per far saltare un aereo. È veramente molto semplice… E questo soprat-tutto per la rapidità con la quale ci chiedono di fare passare la gente. Bisogna lavorare in fret-ta.» Risultato, l’assenteismo dilaga e il turnover è molto alto: «Attorno al 20%», secondo il deputato socialista Daniel Goldberg, coautore di un rap-porto parlamentare sull’argomento pubblicato tre giorni prima dell’inizio dello sciopero (8).

«guadagno molto meno di un dirigente del cac 40, se è questo che vuole sapere!»

la delega del servizio pubblico per la si-curezza aeroportuale al privato, inizialmen-

te sperimentale, è stata generalizzata dal gover-no di Alain Juppé, nel febbraio del 1996 (9). Il settore – la cui evoluzione è direttamente col-legata al grande sviluppo del traffico aereo in-ternazionale (10) – ha visto il suo costo globale aumentare del 586% dal 1999 al 2011, passando da 98,7 a 678 milioni di euro. Un aumento pari, nel campo della sicurezza privata, solo a quello della lotta contro il terrorismo (11). La «logica del costo più basso è veramente l’unica che con-ti, come riconosciuto da tutti gli attori», confer-merà Goldberg. Quasi il 60% del settore è nelle mani dei rami francesi di multinazionali della sicurezza privata, come Icts (100 milioni di euro di giro d’affari annuale per i servizi aeropor-tuali), Brink’s e Securitas France (80 milioni di euro) o ancora Alyzia, filiale di Adp (40 milio-

ni di euro). I loro utili continuano ad aumentare mentre i salari degli agenti stagnano.

Nel 2001, secondo uno studio di Force ouvriè-re (Fo), il salario medio di un agente della società Icts era del 33,11% superiore allo Smic. Dieci anni più tardi, eccede solo del 16,43%. «E non basta: abbiamo dovuto lottare per ottenere un qualche premio», precisa Frédéric Penven, operatore di Se-curitas, il quale ricorda che «nel 2002, uno sciope-ro di dodici giorni ci ha permesso di ottenere un premio equivalente a un mese di salario lordo». Quello del dicembre 2011 si è concluso, dopo undi-ci giorni, con un accordo, firmato dai sindacati in ordine sparso, che prevede un aumento di 500 euro del premio annuale di performance, la garanzia che il 100% del personale verrà ripreso in caso di trasferimento di mercato e poche altre briciole (12). «Come vuole continuare a fare sciopero, quando si sono già persi dieci giorni di salario, nel pieno delle feste di fine anno, e con i poliziotti e gli impie-gati stranieri del gruppo che hanno reso invisibile la nostra protesta?», sbotta Sébastien, irritato, il giorno della firma del protocollo d’intesa.

Ogni anno, le società scelte da Adp si vedo-no consegnare il 90% di uno stanziamento (452 milioni di euro nel 2011) proveniente dalla tassa aeroportuale, votata in Parlamento e prelevata su ogni biglietto di aereo. «In Francia, questa tas-sa è tra le più alte d’Europa, mentre gli agenti di sicurezza sono tra i meno ben pagati», denuncia Fo. Nel 2001, ammontava a 2,73 euro; nel 2011, è arrivata a 11,50 euro. «La tassa è stata moltipli-cata per cinque mentre i nostri salari base sono rimasti fermi. Allora, dove sono finiti questi sol-di?», si chiede Sophie.

Piccolo calcolo. 200 euro di aumento mensile per i diecimila agenti attualmente in servizio sa-rebbero, oneri sociali compresi, circa 48 milioni di euro l’anno. Nel 2010, in un aeroporto francese sono partiti o arrivati 120,6 milioni di passeggeri.

Basterebbe quindi aumentare la tassa aeroportua-le di 40 centesimi di euro per garantire agli agenti di sicurezza l’aumento richiesto. Eppure…

All’idea di tassare di più i viaggiatori, Thou-verez diventa cianotico: «Siamo in un mercato concorrenziale, bisogna restare concorrenziali!» Certo, riconosce che ci sono «reali problemi ri-guardo alle condizioni di lavoro di questo giova-ne mestiere», ma «non c’è assolutamente un pro-blema di salario». Dichiara la cifra di 1.634 euro netti per un giovane agente, il che è perlomeno fantasioso visti i salari degli impiegati. «Chiedere il 15% di aumento, veramente, non è ragionevo-le», ripete. E il suo, di salario, è «ragionevole»? «Francamente, sono confronti che mi fanno or-rore! Guadagno molto meno di un dirigente del CaC40, se è questo che vuole sapere!»

«noi, remuneriamo prestatori d’opera in funzione di diversi criteri, ed è tutto»

QuanTo ad adp, Claude Kupfer, ex pre-fetto e attuale direttore della sicurezza, dopo

aver preteso che due addette alla comunicazione rileggessero le sue dichiarazioni, accetta di ri-spondere sull’assenza del gruppo alle contratta-zioni di dicembre. «È un conflitto tra datori di lavori e loro salariati. Adp non deve intervenire in quanto queste negoziazioni non la riguardano. Noi remuneriamo prestatori d’opera in funzione di diversi criteri, ed è tutto!»

L’ex funzionario del ministero dell’interno am-mette tuttavia che la sicurezza aeroportuale è una missione «di capitale importanza», e che i redditi delle società subappaltatrici provengono diret-tamente da una parte della tassa aeroportuale. Ma, a suo dire, «Adp non trae alcun beneficio da questa tassa». Nel 2010, la società, che ha un giro d’affari di 2,74 miliardi di euro, ha visto gli introi-ti aumentare dell’11,3%, nonostante un traffico quasi identico a quello del 2009. Il suo utile am-monta a 300 milioni di euro. «Non so come altro dirlo, ma noi non abbiamo niente a che fare con questo!» Che degli agenti privatizzati rimproveri-no a chi impartisce gli ordini di spingere i prezzi verso il basso e di essere responsabile del loro in-giusto trattamento salariale, gli sembra quindi del tutto «fuori luogo». Eppure, le autorità americane parlavano di «segmentazione delle responsabili-tà», di «pressione al ribasso sui salari»…

JulIEN BrYGO

(8) Rapporto informativo sulla sicurezza aerea e aeroportuale depositato all’Assemblea nazionale il 13 dicembre 2011.

(9) Legge n. 96-151 del 26 febbraio 1996 relativa ai trasporti.(10) Secondo l’Organizzazione dell’aviazione civile inter-

nazionale (Oaci), dal 1986 al 2009, il numero dei passeg-geri nel mondo è passato di 960 milioni a 2,27 miliardi.

(11) Dal 1999 al 2008, il costo della sicurezza in materia di lotta al terrorismo è passato da 414,4 milioni di euro a 2,01 miliardi di euro, con un aumento del 386%.

(12) Aumento del buono pasto (indennità di mensa) di 1,60 euro, cioè 5,10 euro.

(Traduzione di G. P.)

parole-chiaveSALARIO TOTALE. Salario netto aumentato dell’insieme dei

contributi, sia del lavoratore che del datore di lavoro. I contributi corrispondono a più dell’83% del salario netto, se quest’ultimo è superiore a 1,6 volte il salario minimo: 100 euro di salario netto raddoppiano con 73 euro di contributi e 10 euro di Contribuzione sociale generalizzata (Csg), imposta destinata alla Previdenza sociale.

VALORE ECONOMICO. Non tutti i beni e servizi prodotti si equivalgono, non in relazione al valore intrinseco, ma perché i rapporti sociali operano una selezione che valorizza monetariamente alcune modalità di produzione. Così il genitore che alleva un figlio produce una ricchezza alla quale il capitalismo non attribuisce alcun valore economico, al contrario del manager che elabora un «piano sociale».

VALORE AGGIUNTO: Il nuovo valore economico in corso di realizzazione. Il nuovo valore aggiunto creato nell’anno è il Prodotto interno lordo (Pil). Quando si sottrae dal prezzo di un prodotto il costo dei consumi intermedi (energia, materie prime) e l’ammortamento delle macchine, si ottiene il valore aggiunto, che viene suddiviso tra profitto e salario.

educazione popolareReseau salariat è un’associazione di educazione popolare destinata a promuovere il salario e le possibilità che esso apre. Opera attraverso conferenze e cicli di formazione, così come attraverso l’ideazione e

la diffusione di supporti pedagogici. Il suo sito: www.reseau-salariat.info

Contatto: [email protected]

cause e conseguenze

«Modello» tedescoIl miglioramento della competitività degli esportatori tedeschi è indicato sempre più spesso come la causa strutturale delle recenti difficoltà della zona euro. Nell’ultimo decennio il costo del lavoro in Germania è crollato, creando seri problemi alla crescita dei suoi concorrenti e alle potenzialità delle loro finanze pubbliche. Peggio ancora, i paesi in crisi non hanno potuto sfruttare le esportazioni per compensare la debolezza della domanda interna, perché le loro industrie non potevano contare su una forte domanda interna tedesca. (…) La politica di deflazione salariale [che riduce i salari per aumentare la competitività degli esportatori tedeschi] non ha solo ridotto drasticamente il consumo, rimasto più di un punto indietro rispetto al resto della zona euro nel periodo da 1995 a 2001. Ha anche aumentato le disuguaglianze di reddito con una velocità mai vista, nemmeno durante lo choc del dopo riunificazione (…). A livello europeo, questo ha creato le condizioni di un marasma economico prolungato, perché sempre più gli altri paesi membri vedono in un’ulteriore indurimento della politica di deflazione dei salari la soluzione alla loro mancanza di competitività.

(Fonte: Organizzazione internazionale del lavoro, «Global employment trends 2012:

Preventing a deeper jobs crisis», Ginevra, 24 gennaio 2012.)

Funzionari impoveritiDifferenza tra il salario di un ausiliario di puericultura (secondo livello della categoria C) e il salario minimo interprofessionale di crescita (Smic) nel 1986: 14,72%. Differenza al 1° gennaio 2012: 0,033%. Differenza tra il salario di un controllore delle imposte (primo livello del primo grado della categoria B) e lo Smic nel 1986: 23,92%. Differenza al 1° gennaio 2012: 2,65%. Differenza tra il salario di un professore abilitato (primo livello del primo grado della categoria A) e lo Smic nel 1986: 63,13%. Differenza al 1° gennaio 2012: 15,59%.

(Fonte: Confederazione generale del lavoro, Flash n. 314, 23 agosto 2006; Sindacato

del ministero dell’interno – Confederazione francese democratica del lavoro.)

Famiglie molto riccheNel 2007, le famiglie francesi più ricche – che rappresentano lo 0,01% della popolazione totale – hanno guadagnato 687.682 euro (quasi 48 Smic), di cui il 51% in salario.

(Fonte: Direzione generale delle finanze pubbliche, Istituto nazionale di statistica

e studi economici).RobeRto baRni Atto muto, 2005

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Anonymous, dall’umorismo CYBERATTIVISMO, UNA NUOVA ARMA

di fElIX STAldEr *

si molTiplicano gli effica-ci attacchi informatici condotti in nome della libertà di espres-

sione e della giustizia sociale sotto la sigla di «Anonymous». Gli ultimi bersagli in ordine di tempo: il sito di ArcelorMittal, in Belgio, all’inizio di gennaio, per protestare contro la chiu-sura di due altiforni; il sito del gabinet-to di intelligence privata Stratfor, a cui sono state rubate decine di migliaia di dati personali; il ministero della difesa siriano, nell’agosto 2011, e, prima di questo, nel giugno, il sito della polizia spagnola, dopo l’arresto in quel paese di tre persone sospettate di essere membri di Anonymous.

Chi si nasconde dietro questa ma-schera? Hackers d’elite, adolescenti ignoranti, pericolosi cyber terrori-sti, semplici trolls («perturbatori») dall’umorismo adolescenziale? Nes-suna di queste definizioni è falsa, poi-ché ognuna di esse rende conto di una

sfaccettatura del fenomeno. Tuttavia nessuna coglie l’essenziale: Anony-mous non è uno, ma multiplo; non si tratta di un gruppo né di una rete, ma di un collettivo, o, più precisamente, di collettivi che si appoggiano gli uni agli altri.

a suo modo – esTremo –, Anonymous è emblematico dei

movimenti di contestazione che si estendono, dal 2011, sia nel mondo arabo che in Europa e negli Stati uni-ti. L’abisso che separa i movimenti dai sistemi politici che contestano si manifesta in forme organizzative ra-dicalmente contrapposte. Da un lato, strutture gerarchizzate, con dirigenti autorizzati a parlare a nome di tut-ti attraverso procedure di delega del potere, ma la cui legittimità è indebo-lita dalla corruzione, dal favoritismo, dall’aggiramento delle istituzioni. Dall’altro lato, collettivi deliberata-

mente sprovvisti di capi, che rifiuta-no il principio della rappresentanza a vantaggio della partecipazione diretta di ciascuno a progetti concreti. La loro diversità fa sì che le decisioni si pren-dano attraverso l’aggregazione rapida dei partecipanti su un argomento pre-ciso, piuttosto che in base all’emergere di una maggioranza ufficiale. L’esta-blishment politico giudica queste for-me di organizzazione incomprensibi-li ed esprime il suo stupore di fronte all’assenza di rivendicazioni concrete che potrebbe ritrasmettere.

Questi collettivi temporanei, che si potrebbero descrivere come degli «sciami», swarms in inglese (1) – sono composti da individui indipendenti che utilizzano strumenti e regole sem-plici per organizzarsi orizzontalmen-te. Come sottolinea il fondatore del Partito pirata svedese Rick Falkvinge, «essendo tutti volontari (…), l’unico modo di dirigere consiste nel conqui-stare l’adesione di altri (2)». Così, la forza del collettivo deriva dal numero di persone che raggruppa e dalla visi-bilità che dà ai suoi diversi e indipen-denti progetti.

Un collettivo nasce sempre nello stesso modo: un appello alla mobilita-zione con, a riguardo, alcune risorse

di NAvId HASSANPOur *

dal gennaio 2011, il pianeta segue lo svolgersi della rivo-luzione egiziana, per interposto schermo. La sollevazione è stata trasmessa in diretta, come se telecamere, tweets

(messaggi su Twitter) e pagine Facebook avessero captato un thriller politico che mette in scena milioni di attori. Questi ultimi, a bandiere spiegate, hanno organizzato raduni destinati ad allertare i media e, attraverso la loro intermediazione, la «comunità inter-nazionale». C’è da stupirsi del fatto che Wael Ghonim, giovane dirigente di Google imprigionato per un breve periodo durante le manifestazioni, ne abbia tratto la seguente morale: «Se volete li-berare una società, dovete solo darle l’accesso a internet (1)»? Gli avvenimenti egiziani offrono un terreno di studio unico per verifi-care la validità di tale massima. Infatti, una decisione di Hosni Mu-barak, allora al potere, ha costituito un esperimento a grandezza naturale per misurare il peso politico dei media sociali.

Il mattino del 28 gennaio 2011, le autorità del paese decisero l’interruzione totale delle comunicazioni internet e delle reti di te-lefonia mobile. A partire da quel preciso istante, la mobilitazione è autenticamente decollata. Piazza Tahrir rimase piena di gente, ma anche altre città, come Alessandria e Suez, conobbero a loro volta l’intensificazione delle manifestazioni. Al Cairo, la nostra analisi dei distinti luoghi di raduno durante i diciotto giorni di sol-levazione evidenzia un accrescimento pronunciato e improvviso della loro diffusione spaziale (2): da un unico luogo, il 25, 26 e 27 gennaio 2011 (piazza Tahrir), si è passati il 28 gennaio a otto punti di concentramento. In quella data, al calare della notte, la moltiplicazione di focolai di protesta rese più difficile il compito delle forze dell’ordine (3). Verso le 19, l’esercito venne chiamato in rinforzo, ma si rifiutò di intervenire. Qualche giorno più tardi, il regime di Mubarak, vecchio di trent’anni, crollò.

L’argomento secondo cui le reti sociali giocano un ruolo di in-citamento alla rivolta si fonda su un presupposto: le mobilitazio-ni dipendono dalla disponibilità di informazioni capaci di svelare una verità fino ad allora dissimulata. I media on line partecipano dunque a questa presa di coscienza della popolazione. Nel caso egiziano, essi avrebbero messo in luce l’ampiezza dell’oppres-sione, portando persone finalmente informate a passare all’azio-ne. Tuttavia, le comunicazioni davvero sediziose il più delle volte restano invisibili. Quando non è così, l’elite al potere generalmen-te le individua e le vieta immediatamente. D’altronde, l’informa-zione «rivoluzionaria» non è sempre affidabile. Sono per esempio le false voci relative alla morte brutale di uno studente di 19 anni

che hanno dato fuoco alle polveri della «rivoluzione di velluto» di Praga (4). Ugualmente, la caduta del muro di Berlino è dovuta – almeno in parte – a una dichiarazione ingannevole al momento di una conferenza stampa che, diffusa sulle onde della televisione della Germania orientale, incitava la popolazione a muoversi ver-so Berlino ovest (5).

In periodo di agitazione, l’esagerazione e la mancanza di infor-mazione possono quindi rivelarsi più efficaci del resoconto mi-nuzioso degli abusi del potere. Se i media sociali favoriscono la mobilitazione politica, non è dunque perché favoriscono l’emer-gere della verità. La propaganda centralizzata di stato è talvolta considerata come un «oppio del popolo». Più sottilmente, i nuovi media sociali possono parimenti scoraggiare l’assunzione col-lettiva del rischio. La visibilità del controllo e della sorveglianza che il potere esercita sugli individui contribuisce al mantenimen-to dell’ordine. Così, lo status quo non deriva necessariamente da una coercizione effettiva, ma dalla certezza che essa esiste. Quando questo sentire comune scompare, la popolazione è in grado di elaborare una concezione del rischio indipendente da quella dello stato.

all’inTerno di un gruppo composto da una maggioranza che si oppone all’assunzione di rischi e una minoranza radi-

cale, un maggiore scambio di informazioni – anche non censura-te – in seno alla maggioranza non intensifica necessariamente la mobilitazione. In compenso, l’interruzione dei mezzi di comunica-zione abituali spezza l’unità dei gruppi di cittadini che si oppon-gono all’assunzione di rischi. Si formano nuovi legami, che danno maggiore peso ai radicali, offrendo loro nuove possibilità per or-ganizzare le persone mobilitate e per decentralizzare le manife-stazioni, il che complica il lavoro delle forze dell’ordine.

Al Cairo, questo 28 gennaio, il blocco dei mezzi di comunica-zione da parte del regime ha costretto gli egiziani a trovare nuove modalità di propagare, raccogliere e forse anche produrre infor-mazione. Un esempio: le persone che si preoccupavano per i loro congiunti non hanno potuto fare altro che uscire per tentare di ottenere notizie. Ciò facendo, hanno ingrossato i ranghi della folle nelle strade. Al momento degli scontri che imperversavano in città, numerosi centri locali – piazze pubbliche, edifici strate-gici, moschee – si sono trasformati in altrettanti punti di incontro. Il 28 gennaio 2011, il blog The Lede, ospitato dal sito del quoti-diano statunitense The New York Times, riferiva da Alessandria: «È chiaro che il dispiegamento di polizia in Egitto non è più in grado di controllare la folla. “Ci sono manifestazioni in troppi luo-ghi diversi”, dice Peter Bouckaert, direttore per le emergenze di Human rights watch, che questo venerdì osservava la battaglia nelle strade di Alessandria.» I giorni seguenti, malgrado l’inde-bolimento del regime e l’aumento della folla in piazza Tahrir, il ri-

pristino delle reti di comunicazione non conduceva a una nuova estensione delle mobilitazioni. Si può quindi affermare che la loro interruzione contribuisce alla spiegazione di questo fenomeno: il governo egiziano si era privato di un mezzo efficace di inti-midazione, la possibilità di suggerire che una reazione violenta avrebbe risposto alla mobilitazione. Le informazioni relative alla possibilità di una tale repressione non potevano proliferare sulle reti sociali e dissuadere i manifestanti.

Il 28 gennaio la perturbazione delle comunicazioni internet e della telefonia mobile avrebbe quindi esacerbato l’agitazione po-polare in tre differenti forme. Essa ha permesso la mobilitazio-ne di cittadini che, fino a quel momento, non seguivano in modo particolare gli avvenimenti o non se ne preoccupavano eccessi-vamente. Ha inoltre rafforzato i contatti «in carne e ossa» a favore dell’occupazione dello spazio pubblico. Infine, ha condotto alla decentralizzazione dei luoghi della ribellione, mediante tattiche comunicative ibride, generando una situazione più difficile da controllare di quanto lo fosse la sola adunata di piazza Tahrir.

Un simile processo sembra essere stato posto in essere a Da-masco il 3 giugno 2011. Dopo diverse settimane di repressione violenta, il governo siriano ha deciso di utilizzare la stessa tattica del regime di Mubarak. Venerdì 3 giugno, internet è stata tagliata per ventiquattro ore in tutto il paese, con l’obiettivo di impedi-re una mobilitazione di massa. Un corrispondente dell’agenzia Associated press (che si trovava a Beirut, in Libano) notava che «le manifestazioni di venerdì sembravano essere le più importan-ti delle dieci settimane di sollevazione. Le persone si raggrup-pavano in gran numero in città e villaggi che precedentemente non avevano conosciuto una tale partecipazione. Manifestanti si sono radunati in numerose periferie di Damasco oltre che nel quartiere centrale del Midan (6), dove si erano tenute le manife-stazioni di queste ultime settimane (7).» Proliferazione dei raduni e loro dispersione spaziale: lo stesso scenario del caso egiziano.

Bisogna dunque concludere che la censura di Twitter è più ri-voluzionaria di Twitter?

(1) Intervista sulla Cnn, 11 febbraio 2011.

(2) «Media disruption exacerbates revolutionary unrest: Evidence from Mubarak’s natural experiment », presentato durante l’incontro della Associazione ameri-cana di scienze politiche (Apsa), nel 2011.

(3) The Lede, 11 febbraio 2011, http://thelede.blogs.nytimes.com

(4) The NewYork Times, 18 novembre 2009.

(5) TheWashington Post, 1 novembre 2009.

(6) Midan significa «piazza» in arabo.

(7) «Syria troops kill 34 during massive protest», Associated press, 3 giugno 2011.

(Traduzione di Al. Ma.)

Rivolta egiziana, con o senza twitter

Buio totale: il 18 gennaio, una miriade di siti internet statunitensi, tra cui l’enciclopedia libera Wikipedia, ha abbassato le saracinesche per protestare contro lo Stop online piracy act (Sopa). Con la scusa della lotta contro il file sharing, questo progetto di legge voluto dall’industria culturale rende possibile un’ampia censura della rete. Il giorno dopo, il Federal bureau of investigation (Fbi) bloccava il sito di downloading Megaupload, scatenando una risposta del collettivo Anonymous: i siti della Casa bianca, del ministero americano della giustizia e di Universal music sono stati colpiti. Da New York al Cairo passando per Tunisi, dalle reti virtuali alla strada, è emersa una nuova cultura della contestazione. Coloro che l’hanno forgiata scoprono contemporaneamente l’estensione e i limiti del loro potere.

* Dottorando in scienze politiche all'università di Yale (New Haven, Stati uniti).

* Insegnante all’Università delle arti di Zu-rigo e ricercatore presso l’Istituto di nuove tecnologie culturali di Vienna.

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Una rete di collettivi

(1) Si legga Francis Pisani, «La “netwar”, nuo-va dottrina militare per un nemico diffuso», Le Monde diplomatique/il manifesto, giugno 2002.

(2) Rick Falkvinge, «Swarmwise:What is a swarm?», 8 gennaio 2001, http://falkvinge.net

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Non è quindi un caso se, durante l’in-verno del 2008, alcuni internauti hanno adottato questa identità per attaccare la Chiesa di Scientology. La guerra era stata dichiarata da alcuni hacker una decina di anni prima; essi rivelarono frodi e manipolazioni, mentre la Chie-sa di Scientology mobilitava mezzi considerevoli per fare sparire le infor-mazioni imbarazzanti e distruggere la reputazione delle persone che la criti-cavano. Gli Anonymous se ne occupa-rono quando la setta tentò di impedire la circolazione di un video propaganda in cui Tom Cruise, alto dirigente della chiesa, sembrava mentalmente squili-brato. In risposta all’inevitabile raffica di processi, un video falsamente serio di Anonymous annunciò la prossima distruzione della setta. Ne seguì, sui diversi forum, un periodo di virulente

polemiche, alla fine del quale venne elaborata una specifica combinazione promessa-strumento-accordo.

Al di là delle iniziative on line, ven-ne organizzata una giornata mondiale di azione. Il 18 febbraio ebbero luogo alcune manifestazioni in novanta città in America del nord, Europa, Australia e Nuova Zelanda. Per sfuggire alle rap-presaglie della setta, un buon numero di manifestanti portava l’ormai celebre maschera di Guy Fawkes, ribelle catto-lico inglese del XVI secolo, imitando così gli eroi di V per Vendetta, il fumet-to di Alan Moore e David Lloyd, la cui storia di svolge in un mondo totalitario. Per la prima volta, alcuni membri di Anonymous si incontrarono fisicamen-te, stabilendo la saldatura con i militan-ti più tradizionali.

QuesTe manifesTazioni fu-rono il principale obiettivo politico

degli Anonymous nei due anni succes-sivi. Poi, nel settembre 2010, si formò un collettivo attorno alla campagna Operation payback. Questa iniziò con un attacco contro Airplex software, società indiana incaricata di prenderse-la con il sito di file sharing The pirate bay. La campagna si estese ai siti della Motion picture association of Ameri-ca (Mpaa) e degli organismi che ac-clamano il controllo di internet, con il pretesto di lottare contro il file sharing. Grido di battaglia: «Loro parlano di pi-rateria, noi parliamo di libertà!»

Nel corso delle azioni, l’identità po-litica degli Anonymous si è precisata: i loro mezzi tecnici e le loro strategie si sono affinate. Nel dicembre 2010, quando a WikiLeaks venne impedi-to di ricevere donazioni dopo avere pubblicato alcuni documenti diploma-tici (6), Operation payback riemerse e attaccò i siti di Master card, Visa, Paypal e Bank of America. Nel genna-io 2011, gli Anonymous intervennero in modo molto organizzato in Tunisia, dove attaccarono alcuni siti governa-tivi. I blogger tunisini provarono la sensazione di poter contare sulla soli-darietà internazionale.

Durante il 2011, i collettivi Ano-nymous si sono moltiplicati e hanno lanciato innumerevoli appelli. Talvolta si trattava di internauti desiderosi di attirare l’attenzione su se stessi o di trarre vantaggio dai mezzi mediatici. Ma altri collettivi hanno federato un

gran numero di persone. Il 23 agosto 2011, gli Anonymous hanno diffuso un video che esortava a occupare Wall street, riprendendo così un’idea difesa da alcune settimane dai canadesi di Adbusters.

L’oltraggio e l’audacia degli Ano-nymous permettono loro di adottare slogan come «La pirateria è libertà» – così forti che nessun attore politico tradizionale oserebbe farvi ricorso senza temere di perdere la sua credi-bilità. Con un effetto galvanizzante radicale su energie latenti annoiate dalle mobilitazioni classiche. Tuttavia, quale che sia la sua forza, la sponta-neità su vasta scala può misurarsi con le istituzioni esistenti solo attraverso modalità distruttive. Questa forma di organizzazione non ha per obiettivo la costruzione di istituzioni alternative. Collabora alla formazione di un oriz-zonte comune della contestazione che faciliterà forse l’azione futura. Ha già squarciato mura che sembravano in-distruttibili. Altri contestatori trasfor-meranno queste falle in aperture.

fElIX STAldEr

(3) Clay Shirky, Here Comes Everybody: The Power of Organizing Without Organizations, Penguin press, New York, 2008.

(4) Brian Holmes, «swarmachine», 21 luglio 2007, http://brianholmes.wordpress.com

(5) Gabrielle Coleman, «La science dissèque Anonymous», Owni.fr, 12 dicembre 2011. Un geek è un appassionato di informatica.

(6) Philippe Rivière, «Morte all’inviato», Le Monde diplomatique/il manifesto, gennaio 2011.

(Traduzione di Al. Ma.)

di SMAÏN lAACHEr e CédrIC TErZI *

le rivolTe arabe hanno fatto emergere nei media la fi-gura del cyberattivista che documenta le condizioni di vita della popolazione e il sentimento di ingiustizia che esse ge-

nerano. Provenienti da ambienti urbani e agiati, spesso sprovvisti di esperienza militante, questi giovani individui di età compresa tra i 20 e i 30 anni rivendicano nella loro maggioranza il carattere apolitico del loro impegno. Ma la repressione li ha uniti. Il blogger tunisino Hamadi Kaloutcha (1), sottolinea che «all’epoca di Ben Ali eravamo cento o duecento cyber dissidenti. Soli contro tutti. La polizia del Net faceva di tutto per screditarci. Alla fine, questa minaccia ci ha molto aiutati: ci ha obbligati a dare prova di una se-rietà rigorosa.» Se i cyberattivisti sono uniti da alcuni elementi co-muni, la loro identità dipende molto dal quadro nazionale. In Ma-rocco, i più noti sono ingegneri o giornalisti. All’opposto, in Tunisia essi appartengono piuttosto al mondo dell’arte e della cultura.

I commenti che celebrano la «rivoluzione Facebook» in Tunisia non sono di nessun aiuto per comprendere come i blogger tuni-sini siano passati dall’entusiasmo al disincanto. Manichaeus (2) riassume così il loro attuale stato d’animo: «Sono in lutto.» Nella rete avevano compreso che il regime era loro insopportabile e che potevano criticarlo pubblicamente. Tutti coloro che abbiamo incontrato citano il ruolo precursore di Tunezine, sito di opposi-zione lanciato nel 2001 dall’economista Zouhair Yahyaoui, il pri-mo «martire cyberattivista» (3). Entrare nell’universo di internet era, per loro, vivere l’esperienza di una presa di distanza critica rispetto al sistema e, più profondamente, verso la società tuni-sina. Numerosi blogger, animati da ambizioni letterarie, hanno

raccontato la vita quotidiana, i grattacapi e le sofferenze dei loro compatrioti. Ciò non li ha messi al riparo dalla censura, dalle inti-midazioni poliziesche e, per alcuni d loro, dall’imprigionamento. Come Fatma Arabicca, il cui arresto, nel 2009, ha suscitato una mobilitazione nazionale e internazionale che ha permesso la sua liberazione (4).

Da allora, hanno continuato a opporsi ad «Ammar 404» (il personaggio immaginario che diffonde l’«errore 404», che indi-ca agli utilizzatori di internet che una pagina Web non esiste), schernendolo senza tregua. La loro lotta ha tuttavia assunto una nuova dimensione nella primavera del 2010, quando la censura ha colpito l’insieme degli utilizzatori di Facebook. Una petizio-ne on line ha raccolto oltre diecimila firme. Alcuni cyber attivisti hanno allora preso la decisione, inconcepibile all’epoca, di chie-dere ufficialmente l’autorizzazione per manifestare il 22 maggio contro la censura. Interpellati dalla polizia, hanno rinunciato, ma hanno invitato tutti i cittadini a recarsi nella principale avenue di Tunisi indossando una t-shirt bianca. Yassine Ayari (5), uno dei promotori di questa mobilitazione, la presenta come «una svolta».

TuTTi racconTano con emozione come, nel dicembre 2010, hanno ricevuto e diffuso le immagini dei poliziotti che

sparavano su giovani manifestanti. Si sono sentiti allora portatori di uno straordinario slancio di solidarietà nazionale che li ha spinti nelle strade e tenuti svegli per notti intere, dietro i loro computer, per diffondere le immagini delle manifestazioni e delle violenze poliziesche.

Retrospettivamente, questa prova collettiva appare come il momento unificante di una comunità che si è immediatamente disgregata. Se la fuga di Zine El-Abidine Ben Ali è stata celebrata in un grande impeto di unità nazionale, essa ha anche marcato il ritorno delle divisioni. Privati della figura del nemico, i cyber at-tivisti sono diventati concorrenti politici. Le relazioni sono state

minate dalle loro rivalità, dal sospetto, dalla diffamazione: A Tuni-sian Girl (6), una dei blogger più mediatizzati nei paesi occiden-tali, ci confida che «i nemici non sono chiari: non si sa più chi è nemico di chi. Ecco: ora siamo divisi. Alcuni blogger si sostengo-no, altri no.»

Anche Hamadi Kaloutcha è disilluso: «Dopo il 14 gennaio 2011, internet è diventato un vociferare generale in mezzo al quale non riusciamo più a pensare. Ci è difficile farci ascoltare nel pieno di lotte di fazione.» Va detto che le reti sociali hanno accolto una pletora di nuovi iscritti, tra cui numerosi oppositori dell’ultima ora, che diffondono false informazioni e manipolano video e fo-tografie. Il risultato è un’indescrivibile cacofonia.

L’entusiasmo dei commentatori ha occultato l’esperienza dei cyberattivisti tunisini. Il loro disorientamento meriterebbe tuttavia di essere ascoltato, anche se sconfessa le certezze largamente condivise che si sono imposte all’estero. Non è certo che i gover-ni, i media e i ricercatori occidentali che hanno elevato i blogger a portavoce legittimi del popolo tunisino di fronte all’opinione pub-blica abbiano reso un grande servizio all’unità delle forze pro-gressiste.

(1) Si tratta di uno pseudonimo. http://fr-fr.facebook.com/Kaloutcha.Hamadi

(2) Questo blogger della prima ora ha interrotto la sua attività su internet nel di-cembre 2010, affermando che le reti sociali avevano esaurito il loro ruolo.

(3) Torturato in prigione nel 2002, Zouhair Yahyaoui è sceso in sciopero della fame e ha beneficiato della libertà condizionale alla fine del 2003. È deceduto a causa di una crisi cardiaca il 13 marzo 2005, all’età di 37 anni.

(4) Questi avvenimenti hanno fatto sì che Fatma Arabicca venisse considerata dai cyberattivisti tunisini come una delle loro figure di punta, pur non essen-do la più mediatizzata all’estero.

(5) http://mel7it3.blogspot.com

(6) http://atunisiangirl.blogspot.com

(Traduzione di Al. Ma.)

Le Monde diplomatique il manifesto febbraIo 2012 21

adolescenziale all’azione politicaPER LA CONTESTAzIONE

per un’azione immediata. Clay Shirky, specialista di media sociali, ha identi-ficato tre elementi indispensabili per l’apparizione di questo tipo di coope-razione flessibile: una promessa, uno strumento, un accordo (3). La promes-sa risiede nell’appello, che deve essere interessante per un determinato nu-mero di attivisti e la cui proposta deve apparire realizzabile. Può trattarsi, per esempio, di attaccare questo o quel sito governativo in risposta alla cen-sura. Gli strumenti disponibili on line, come il famoso software Low Orbit Ion Cannon (Loic), chiamato così in riferi-mento a Guerre stellari, permettono di coordinare le pratiche disperse dei vo-lontari. L’accordo verte sulle condizio-ni che ciascuno accetta entrando nello spazio collettivo dell’azione.

Nel corso del tempo, le tre dimen-sioni possono evolvere e il collettivo crescere, cambiare orientamento, di-sgregarsi. Per non sparire con la stessa velocità con cui è apparso, è neces-sario – come scrive il critico d’arte e saggista Brian Holmes (4) – un quarto elemento, un orizzonte comune che «permetta ai membri dispersi di una rete di riconoscersi reciprocamen-te come viventi nello stesso universo immaginario di riferimento». Qui in-terviene la famosa maschera di Ano-nymous. Identità aperta, riassunta in qualche slogan abbastanza generale, alcuni elementi grafici e riferimenti culturali condivisi: ognuno può ri-vendicarli. Ma ciò ha senso solo se si condivide lo stesso spirito, lo stesso humour, le stesse convinzioni antiau-toritarie e la medesima fede nella li-bertà d’espressione.

Il presidente francese Nicolas Sar-kozy aveva un bell’invocare, al mo-mento dell’e-G8 del maggio 2011, un «Internet civilizzato», gli angoli oscuri in cui tutto è possibile conti-nuano a esistere. Il sito 4chan.org, forum creato nel 2003, semplice da un punto di vista tecnico e molto apprezzato dagli internauti, è em-blematico di tali pratiche: vi si pos-sono postare testi e immagini senza iscriversi, essendo i messaggi firmati «Anonymous». Il suo forum più fre-quentato, /b/, in materia di contenuti non obbedisce ad alcuna regola. Il sito non memorizza i post: i messag-gi che non suscitano alcuna risposta sono retrocessi in fondo alla lista pri-ma di essere cancellati, il che succe-de generalmente nell’arco di qualche minuto. Niente viene archiviato. La

sola memoria che vale è quella degli internauti. Una logica che ha i suoi vantaggi e i suoi inconvenienti: tutto ciò che è difficile da conservare e che non si ripete, sparisce.

Per non cadere nell’oblio, molti di questi messaggi prendono ogni gior-no la forma di appelli all’azione – per esempio, un invito a vandalizzare una determinata pagina dell’enciclopedia on line Wikipedia. Se l’idea seduce un numero sufficiente di internauti, un piccolo sciame si abbatte sul bersaglio. Per semplice piacere. La ripetizione e l’impegno hanno creato una cultura in cui spariscono le individualità e le

origini, una tradizione di «sfottimento ben coordinata», secondo l’espressio-ne di un hacker intervistato da Ga-brielle Coleman, antropologa della cultura geek (5).

In cinque anni, questi internauti sono diventati degli Anonymous, ter-mine generico e avatar per un’identità collettiva. La loro abitudine all’oltrag-gio indotta dall’anonimato va di pari passo con una profonda diffidenza verso ogni tipo di autorità che tenti di regolamentare la parola su internet, con pretesti considerati assolutamente ipocriti, come la lotta contro la porno-grafia infantile.

Maghreb, i blogger sono stanchi

* Sociologi, membri del Centro di studi sui movimenti sociali (Centro nazio-nale della ricerca scientifica [Cnrs] – Scuola di alti studi in scienze sociali [Ehess]).

il caiRo, egitto, febbRaio 2011 la protesta corre sul web

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Un effetto galvanizzante

Page 22: lemondedip

amore

PercHé io NoN sPero Più di riTorNAre Anna correale Palomar, 2011, 10 euro

Nato dall’urgenza del dolore e dalla veri-ficabilità della guarigione, il romanzo Perché io non spero più di ritornare trae il titolo da una singolare convergenza di citazioni: quella di un noto verso di Eliot, che la protagonista continua a ripetersi nel tentativo costante-mente frustrato di metabolizzare il lutto della madre, e l’eco stilnovista della ballata cavalcantiana Perch’io non spero di tornare giammai, manifesto in versi di una condizione di intima soffe-renza e diffrazione dell’io di icastica intensità. Così, il romanzo, scandito come un diario, attraverso la registra-zione attenta e diacronica di gesti ed emozioni, racconta l’amore platonico ma salvifico di una donna per il suo enigmatico vicino, un amore che occupa i pensieri e le giornate della protagonista, salvandola dalla dispe-razione per la morte della madre e rivelando la natura clinica e patologica che muove pas-sioni e trasporti amorosi. Questa natura del sentimento, che richiama alla mente Critique e Clinique di Deleuze, è quella che, nostro malgrado, muta l’amore in ossessione, spin-gendoci a mettere in gioco anche un dolore primario. La protagonista, dunque, giorno per giorno prova a esorcizzare la perdita at-traverso una strategia alternativa che suggeri-sce anche al lettore, cioè prova ad «affondare sotto la materia solida delle cose, delle gior-nate di marcia, delle aspettative, della fatica di non essere sola». In questa prospettiva, la fuga nell’esperienza di devozione sentimen-tale, apparentemente astratta, per lo scono-sciuto vicino (che si chiama, però, come lo stesso compagno della protagonista) è tesa a risemantizzare l’universo emotivo sconvolto dalla morte, dando un senso e una direzione alla cieca fuga dalla disperazione. D’altron-de, tutti – per dirla con la Duras – fuggiamo

perché la sola avventura è quella prevista dalla madre. In effetti, il romanzo rivela, dietro l’antichissima tensione dialettica tra amore e morte, altri motivi di contraddizione insiti nel vissuto di ciascun individuo, come, ad esempio, il fatto di essere figli e genitori al tempo stesso, giovani e vecchi a seconda del momento e dell’esperienza che si vive, in un’articolata continuità di emozioni ed asso-ciazioni da cui scaturisce, paradossalmente, la nostra ricchezza e il nostro esilio, la con-discendente resa alla solitudine e l’egoistica ricerca dell’altro e dell’altrove.

Infine, una curiosità: la protagonista, che è l’evidente alter-ego dell’autrice, rifugia-

tasi nell’amore (e nella scrittura dell’amore) per curare il dolore, cerca tra i libri le risposte ai suoi interrogativi esistenziali – il ro-manzo offre, pagina dopo pagina, un esplicito repertorio di inferenze – e ricorre anche all’irrazionale e magico uso divinatorio del testo. La donna, infatti, dichiara con in-vidiabile sincerità di aprire a caso le pagine dei libri che legge, cer-candovi all’interno soluzioni al suo male, una pratica apparente-

mente insensata che, invece, pratichiamo in tanti, in silenzio, col timore e la vergogna di passare per stupidi e creduloni. Un modo sca-ramantico e divertente per sondare i desideri e le aspettative, mescolando l’intero destino umano all’intimità del limite, alla vertigine dell’impossibile.

cLAUdio FiNeLLi

coraggio

MeMorie di UN’iNFAMiA Lydia cacho Fandango, 2011, 16,50 euro

«Metti che dico a Lesly Portamene una di 4 anni, e lei mi dice: Se la sono già scopata, io lo vedo se l’hanno già scopata vedo se è il caso di metterglielo dentro o no. Tu lo sai che è il mio vizio, no? È una stronzata ma non so resistere, e lo so che è un reato e che è proibi-

to però è talmente facile, una bambina picco-la non ha difese, la convinci in un amen e la prendi». Lydia Cacho ha cominciato da qui, dalle immagini di una confessione strappata da una telecamera nascosta a Jean Succar Kuri, imprenditore pedo-filo coinvolto nel trafficking di bambine e adolescenti all’interno di una rete internazionale e coper-to da importanti esponenti politici e uomini d’affari probabilmente, anche loro, implicati nel traffico. Un’inchiesta che ha portato la giornalista messicana prima alla pubblicazione di Los Demonios del Eden (2005), dove racconta il traffico delle bambine, gli stupri, il mercato del sesso all’interno di una rete con «molteplici connessioni internazionali», frutto di una vasta e capillare raccolta di do-cumentazione e di materiale pedopornogra-fico, con video e foto, in cui la scrittrice non ha paura di fare nomi e cognomi dei respon-sabili; e poi a Memorie di un’infamia (2011) dove racconta anche la sua storia, il suo in-cubo personale. Accusata di diffamazione e calunnia, a causa del primo libro, dagli stessi responsabili del trafficking, Lydia Cacho non sapeva di aver messo il dito su una piaga che coinvolgeva non solo l’imprenditore Succar ma un intero entourage politico fatto di lega-mi e clientelismi, che l’avrebbe portata quasi a morire per mano della polizia giudiziaria corrotta. Arrestata, sequestrata, torturata, portata in un carcere fuori la sua giurisdizio-ne, Lydia è viva per miracolo, e dopo essere stata coinvolta in processi senza fine, riceve ancora oggi minacce di morte. Ed è per que-sto che è importante parlare di lei, perché oltre al suo coraggio è viva anche «grazie alla mobilitazione dell’opinione pubblica e all’ap-poggio di colleghi e colleghe del mondo del giornalismo e, più in generale, di quello dei mezzi di comunicazione», come spiega lei stessa, perché se il suo caso non fosse diventato pubblico e se il suo arresto non fosse balzato ai

mass media al momento del suo prelievo co-atto, il suo corpo sarebbe stato probabilmente ritrovato in mare senza vita. Un esempio di giornalismo militante che acquista i suo po-tere «quando dà voce a chi è stato costretto a tacere dalla forza schiacciante della vio-lenza», uno dei motivi per cui Lydia Cacho, insieme a Roberto Saviano, ha ricevuto pochi giorni fa l’Olof Palme Prize 2012, il premio svedese destinato a chi lotta per la libertà, per la «instancabile, altruista e spesso solitaria batta-glia per i loro ideali e per i diritti umani».

LUisA BeTTi

devozione

iL LiBro di MUsH Antonia Arslan skira editore, 15 euro Questo bel racconto di Antonia Arslan si

ispira a un fatto realmente accaduto in terra di Armenia, un evento ben noto agli armeni e che ora raggiunge e si svela al lettore italia-no. La storia si svolge nel 1915. Il genocidio è appena iniziato. Siamo a Mush, città armena oggi in Turchia. Sullo sfondo le case violate, le famiglie sterminate. Il nemico uccide, di-strugge e avanza lasciando dietro di sé una scia di sangue, cenere e morte. Quattro adulti e un bambino si ritrovano, unici sopravvis-suti, fra le rovine della città. Paiono fantasmi che vagano tra i morti ma non hanno tempo per la disperazione, per il pianto: l’istinto di sopravvivenza li spinge a cercare riparo e salvezza. Raggiungono il monastero le cui fiamme la notte precedente illuminavano la valle. Sono saliti fin lassù come in pel-legrinaggio, aggrappandosi alla montagna nell’oscurità della notte per sfuggire alla sol-

dataglia turca. Vi troveranno silenzio e cenere. Solo le galline sono rima-ste vive e una chioccia ostinata cova ancora il suo uovo. Eppure qualcosa luccica in fondo al pagliaio. Arslan scioglie l’enigma: si tratta del «teso-ro del monastero di Surp Arakelots, il famoso Msho Charantir, il “Libro dei Sermoni” di Mush, il manoscrit-to miniato antichissimo che è il più grande del mondo, pensano gli arme-ni, alto circa un metro e largo mezzo;

comunque pesa quasi ventotto chili, tutti lo ripetono con orgogliosa ammirazione; e tutti nella vallata credono che abbia poteri tau-maturgici. Lo portano l’abate e due monaci solennemente agli ammalati, in un profluvio di aromi d’incenso».

Il manoscritto non può essere abbandona-to. Gli armeni, popolo del libro, non possono lasciarlo lì, anche a costo del rischio della vita. Conoscono la cura e la dedizione che i mona-ci riservavano al prezioso manoscritto, e ora è il loro turno: «Il Libro ci salverà. Dobbiamo portarlo con noi», esclama Kohar, una delle protagoniste della storia. Bisogna decidere in fretta. È un volume imponente, pesante: come fare? La decisione è presa, lo divideranno a metà, lo caricheranno sulla schiena e lo porte-ranno in salvo. Sarà il loro talismano. Sembra di vederli in fila dirigersi verso i confini orien-tali dell’Armenia. Col pesante fardello, come muli carichi, i superstiti del grande massacro si inerpicano oltrepassando monti e valli. Non

tutto filerà liscio. Una parte del ma-noscritto raggiungerà presto la sal-vezza, mentre per l’altra si dovran-no attendere i capricci del destino.

Oggi – e siamo infine nella realtà del nostro tempo – il volume è con-servato nel Matenadaran, il Museo dei Manoscritti di Yerevan, capitale della Repubblica d’Armenia.

soNyA orFALiAN

«sono passati più di trentacinque anni – scrive l’editore Sandro Teti – da quando mio padre Ni-

cola pubblicò Masse armate ed esercito regolare. Era il giugno del 1975. Erano trascorsi meno di due mesi dalla liberazione di Saigon, l’odierna Ho Chi Minh. Da quel giorno il corso della Storia ha subito una brusca cesura». Da quel giorno anche la storia della sinistra nel vecchio continente cominciò a denunciare i primi sinto-mi dell’eurocentrismo che la rese incapace di cogliere quegli straordinari risultati e la condannò al declino con l’epilogo del crollo della superpotenza che aveva supportato l’epopea vittoriosa dell’esercito vietcong. Negli anni del riflusso, caratterizzati dal cosiddetto edonismo reaganiano, il messaggio forte e catartico che quell’evento aveva generato tra i giovani degli anni ‘70 si spense inesorabilmente.

Tommaso De Lorenzis, nella postfazione di questo libro, citando Umberto Eco, ci ricorda che «la partita della libertà non si gioca dove un messaggio viene pro-dotto, bensì dove lo si riceve». La sinistra europea in generale e quella italiana in particolare, non furono in grado di sviluppare il messaggio di liberazione che ci venne servito su un piatto d’argento, avvitandosi nelle

consuete pratiche di giudizio acritico e formale sul-la coerenza scientifica del processo vietnamita senza riuscire a cavarne alcun tipo di insegnamento: si aprì così il percorso infame che portò alla svolta della Bo-lognina. Finì, inesorabilmente, la pratica del messag-gio porta a porta che dal secondo dopoguerra e per un trentennio fu caratterizzato da l’Unità e dal suo quotidiano articolo di fondo che, dalla produzione alla ricezione, rimane-va pressoché uguale a se stesso e signi-ficava «la linea del partito». Man mano l’identità del partito stesso cominciò ad essere «interpretata», il messaggio perse univocità sia dove veniva prodotto che dove lo si riceveva, il ricettore ne rima-se spiazzato, incapace di elaborarlo e lo fece sparire. L’effetto rimozione prese il sopravvento e dimenticammo la ragione sociale delle nostre battaglie.

Aver rieditato Masse armate ed esercito popolare non appare quindi un’operazione anacronistica, anzi rap-presenta un momento di riflessione sul-

le sconfitte degli ultimi vent’anni in rapporto all’eser-cizio di memoria sulla vittoria dell’esercito vietcong, la vittoria del «piccolo numero contro il grande nu-mero» come scrive lo stesso comandante Giap, la vit-toria delle zappe, delle canne di bambù agitate contro bombe al napalm e charlie iperarmati. Giap stesso è un inno alla «vittoria impossibile», lui che ha messo in fila e abbattuto, uno a uno, l’esercito giapponese alleato dei nazisti, i colonialisti francesi con l’epilogo a Dien Ben Phu e i noti «esportatori di democrazia» nordamericani. Ma il pensiero di Giap è anche un ri-chiamo al marxismo più genuino nell’organizzazio-ne militare delle masse, nell’armamento del popolo. Molti anni fa un mio amico cubano mi confessò:

«noi siamo liberi perché siamo armati, non nel senso dell’esercito, o meglio, non solo. Siamo armati nelle case, nei quartieri, nel-le scuole e sui posti di lavoro». Non sarà un caso se quella rivoluzione dura da oltre mezzo secolo. Giap ce lo scrive in maniera eloquente, Giap che, nella prefazione al libro di Luciano Canfora, diventa Spartaco, la cui tattica «tenne per tre anni in scacco il più potente esercito del mondo allora conosciu-to». Masse armate ed esercito popolare è la dimostrazione che la lotta all’imperialismo

ed alla sua sofisticata teoria neocoloniale non è una pratica morta con il ventesimo secolo ma è più che mai l’obiettivo di li-bertà dei popoli soggiogati.

eNZo di BrANgo

febbraIo 2012 Le Monde diplomatique il manifesto

RECENSIONI E SEGNALAZIONI

22

vietcong

Zappe contro il napalm

Masse arMate ed esercito regolareVo Nguyen giap Sandro Teti Editore 2011

Latinoamerica e tutti i sud del mondo n. 117/2011, 13 euro

Quando i chicago boys di Milton friedman decisero di sperimentare sul campo le loro audaci e ignobili teorie neoliberali trovarono nell’America latina degli anni ’70 il terreno fertile per la pratica. dittature feroci, Cile e Argentina su tutte, sostenute dal cosiddetto Washington consensus diedero via libera ai

primi tentativi di politiche economiche ultraliberiste di fine secolo scorso e paesi più piccoli e poveri, con i loro governi proni ai diktat dell’impero, si lasciarono saccheggiare dello loro materie prime da multinazionali protette dalla politica e dalle armi di eserciti interni ed esterni, legali o mercenari, coordinati dalla Cia e da quell’oscuro e terribile personaggio che fu Henry Kissinger. Oggi spira una nuova aria nel continente rebelde e la nascita della Celac, (Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños) ne è l’ennesima dimostrazione. Un organismo che vede seduti, fianco a fianco, paesi storicamente affrancati dalla servitù a stelle e strisce come Cuba e Venezuela, con paesi già organicamente inseriti nell’ambito dell’Alba (Alleanza

bolivariana per le Americhe), fino a paesi dai governi conservatori come la Colombia e il Cile, il cui presidente, l’ultraliberista Sebastian Piñera, è addirittura stato eletto alla presidenza del nuovo organismo. gianni Minà, sull’ultimo numero

della rivista Latinoamerica in libreria in questi giorni, ci traccia un resoconto aggiornato di come, a differenza dei paesi del cosiddetto occidente progredito (Italia su tutti), i paesi al di qua del Texas stiano rispondendo con meno affanno alla crisi mondiale in atto i cui effetti, al di là dell'Atlantico, sono decisamente più contenuti per via delle sagge scelte di allontanamento praticate da molti paesi dalle «cattive compagnie» dell’fmi e della Banca mondiale. Al di qua dell’Atlantico, invece, stiamo vivendo sulla nostra pelle una crisi senza precedenti culminata (e probabilmente non siamo ancora all’atto finale) con le varie manovre del governo Monti che hanno tagliato pensioni, redditi e diritti. Scorrendo le pagine di Latinoamerica ci corre l’obbligo di segnalare ancora: articoli su Cuba, sulla trita questione dei dissidenti troppo spesso osannati sulla stampa europea e poi dimenticati quando si scopre che rappresentano l’ennesima fabbricazione mediatica yankie, una interessante ricostruzione della narcoguerra in Messico che negli ultimi anni, coincidenti con la presidenza Calderon, ha causato un numero di morti pari a quelli della guerra in Iraq e lo struggente saluto a un compagno che ci ha lasciato, storica penna dell’Unità e profondo conoscitore di Cuba, come Saverio Tutino.

e.d.B.

ha

sta

riv

ista

i Tunisini hanno appena festeggiato (in tono minore) il primo anniversario della rivoluzione che ha cacciato Ben

Ali il 14 gennaio 2011, ma nel paese permangono forti ten-sioni e, se l’avanzata democratica è innegabile, le incertezze sono tante in particolare per quan-to riguarda l’indipendenza dei media pubblici. Quel giorno, come molti altri giorni, numerosi giovani residenti nella capitale si sono dati ap-puntamento su Facebook per manifestare in cen-tro. Infatti, blogger e cibernauti non hanno mai smesso di comunicare tra loro e con il resto del mondo e la voce del web – che tanta parte ha avu-to nella fine del regime – continua a farsi sentire quotidianamente. Quella voce che dal 17 dicem-bre 2010 e durante le tre settimane di sommosse, è stata fonte di notizie per il mondo intero ed è ormai nota ovunque, ci viene ora restituita dalla pub-blicazione del «diario» (l’originale in francese

è apparso nel giugno 2011) della ventisettenne Leena Ben Mhemi, la blogger Tunisian Girl, che ha ricevuto il premio per il miglior blog del 2011, organizzato dalla radio tele-

visione tedesca Deutsche Welle. La giovane tunisina, traduttrice e docente di linguistica presso l’Università di Tunisi traccia uno spac-cato vivace degli eventi e dell’entusiasmante avventura vissuta delle forze inarrestabili che hanno stravolto il paese e permesso a tutti i tunisini, e in particolare alle donne, di essere protagonisti .

Fra le altre coraggiose testimonianze del-la Primavera araba spicca anche quella del giornalista egiziano, giovane anche lui ma di enorme esperienza, Mohamed Shoair che, ne I giorni di Piazza Tahrir (l’originale in arabo

è apparso nel maggio 2011), tratteg-gia la quotidiana cronaca della feroce repressione ma anche della cosiddetta «rivoluzione che ride», perché – dice – «gli egiziani sono abituati a ironizzare su tutto». Come Leena Ben Mhenni, documenta scontri, manipolazioni e fatti vari che senza di loro non sareb-

bero mai venuti a galla, dando conto di quelle forme di protesta contro la censura e per la libera espressione, to-talmente inedite che, dopo diciotto giorni, hanno portato alla caduta di Mubarak. Con gli amici ha creato il blog 25 gennaio, perché «l’Egitto del dopo 25 gennaio non è più quella di prima. La rivoluzione ha originato uno stato cre-ativo e artistico sorprendente Non è forse la rivoluzione dell’immaginario contro la povertà dell’immaginazio-ne?», scrive ancora Shoair che tuttavia non s’illude «Solo ora è cominciata la rivoluzione e abbiamo bisogno di tan-to tempo per completarla».

Due instant book quindi, testimonianze in prima perso-na di intellettuali «scomodi» che hanno saputo mobilitare i giovani per un appuntamento straordinario con la storia e che confermano che la Rivoluzione araba è nata sui social network e quando non era possibile collegarsi a internet, è proseguita attraverso i telefoni cellulari, assicurando una copertura mediatica quasi completa sempre più amplificata dalle reti sociali. Si tratta di preziosi documenti sulle nuove strategie consentite dalla tecnologia che hanno cambiato i modi di fare ma anche di pensare di tutti. Le sfide collettive senza leadership del cyberattivismo hanno creato modelli innovativi in cui, quale che sia l’evoluzione della situa-zione nei vari paesi arabi, dobbiamo avere fiducia: «Sono una blogger e lo resterò», erano state le prime parole di Leena Ben Mhenni che così conclude: «Dobbiamo tornare davanti ai nostri computer. Lo dico ancora una volta: la missione di un blogger non ha fine». Perché l’indipenden-za intellettuale è il nostro bene prezioso.

MArie-José HoyeT

primavera araba

Blogger in trincea

tUNisiaN girlleena Ben Mhenni Edizioni Alegre, 2011, 5 euro

i giorNi di PiaZZa taHirMohamed shoair Poiesis editrice, 2011, 14 euro

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Tre libri, tre sguardi sui rom e sinti residenti in Italia: a Torino, a Firenze, a Roma. Il volume Una storia da raccontare, a cura di Gabriele Guccione

e Carla Osella, riassume il lavoro dell’associazione Ai-zos con i rom del Piemonte. Il cammino di Aizos (As-sociazione italiana zingari oggi) comincia 40 anni fa quando, seduti intorno al fuoco con l’immancabile taz-za di caffè in mano, alcuni sinti chiedono a Carla Osella «Perché non facciamo un’associazione, un sindacato per difendere i nostri diritti?». Dopo averci pensato a lungo, Carla accetta e da allora quello diventa l’im-pegno della sua vita. Un impegno senza riserve, sulle orme del Cristo delle origini, capace di sedersi insieme agli ultimi senza chiedere nulla in cambio. Aizos nasce nel 1971, da un gruppo misto di sinti e gagè (i non zin-gari): 431 famiglie provenienti da tutto il Piemonte. Da allora – spiega in un’intervista Osella – le condizioni di vita di rom e sinti sono cambiate. Il nomadismo è quasi scomparso. Sul territorio italiano solo il 10% delle co-munità è attualmente nomade. A spostarsi sono ancora i kal-derash e i camminanti, gli altri si sono fermati, hanno «perso le ruote». Un cambiamento che – dice ancora la volontaria – spesso le istituzioni preferisco-no non cogliere. Come rileva la scrittrice Mariapia Bonanate in apertura del volume, la lunga storia del «popolo che segue il sole» che non ha mai di-chiarato guerra a nessuno, è finita «sotto una monta-gna di semplificazioni che ne hanno esaltato gli aspetti scomodi e fastidiosi e cancellato quelli importanti e gloriosi». Un popolo invisibile che, per la scrittrice, ha gli occhi ancora infanti-li di Carmen, la zingara conosciuta a un semaforo che diventerà un’amica. L’igno-ranza delle straordinarie risorse della cultura romanì – dice in un’altra intervi-sta la studiosa Marcella Delle Donne – «è la prima causa dell’ostilità nei confronti dei rom da parte della nostra società. E il pregiudizio è talmente radicato che è stato elevato a categoria metafisica».

Per Adem Bejzak, autore insieme a Kristin Jenkins del volume Un nomadi-smo forzato, raccontare è una «forma di lotta». Nato a Pristina nel 1957, Adem è un attivista rom impegnato da anni nella difesa dei diritti umani del suo popolo. Dal ’93 lavora come meccanico a Firenze, dove l’ha raggiunto la sua famiglia, in fuga dalla guerra in Ko-sovo. I racconti di Adem e dei suoi parenti nascono nel campo dell’Olmatello, a Firenze, dove tutti hanno vis-suto prima che il comune assegnasse loro una casa, nel 2006. Sullo sfondo, la guerra «umanitaria», le bom-be della Nato, «la devastazione provocata dall’Uck

(Esercito di liberazione nazio-

nale del Kosovo) in seguito ai 78 giorni di bombar-damenti, la disperata fuga verso l’Italia attraverso il mare Adriatico, nel ’99». Poi, una volta arrivati a Fi-renze, lo shock di trovarsi a vivere fra i topi nei cam-pi Fiorentini e sotto il peso dei pregiudizi. Ma Adem

non si lascia schiacciare. In una foto del libro, lo vediamo mentre partecipa a una manifestazione contro la guerra, ad Aviano, nel 1999: «Il popolo

rom vuole vivere insieme senza oppressione», recita il suo cartello. In un’altra istantanea, partecipa alla giornata della memoria, per ricordare «l’olocausto degli zingari» nei campi di concentramento nazisti. In altre pagine, Adem mo-stra con orgoglio a Jenkins (ricercatrice che ora vive a Bristol) la sua casa di pri-

ma, e qualche libro scampa-to al disastro. Alle pareti della sua abi-

tazione, c’è una foto del maresciallo Tito e una di Che Guevara. Prima, racconta Aden, i rom vivevano in pace e con dignità. Poi, «la guerra ha portato povertà, razzismo, xenofobia e noma-dismo». Oggi, nell’ex-Jugoslavia sono stati creati

nuovi stati «e i rom storici rimasti lì non hanno avuto nessun riconoscimento». Il nomadismo dei rom – dice in sintesi il libro – molto spesso è di natura forzata: come quello di Adem, «che nasce dalla guerra».

Nel campo di via Salone, uno dei più grandi e po-polosi di Roma, si svolge invece la ricerca di Nicola Valentino, I ghetti per i rom (postfazione di Carlo De Angelis). Uno «spazio di parola condiviso» che pren-de il nome di «cantiere di socioanalisi narrativa» e che evidenzia, attraverso i racconti dei residenti e degli operatori, i dispositivi istituzionali che organizzano la vita sociale del campo e le relazioni di potere all’inter-no. Meccanismi che presentano, fatte le debite differ-renze, «una stringente

analogia con il ghetto per gli ebrei voluto nel 1500 dalla Repubblica di Venezia». Allora come oggi, ai rom è imposto uno spazio sorvegliato, secondo lo-giche securitarie dettate dal pregiudizio etnico. Il testo unico per la gestione dei campi rom dell’area romana, messo a punto dal Prefetto nella sua veste di Commissario per l’emergenza nomadi, impone regole ferree, e sanzioni pesanti per chi sgarra. Per entrare, bisogna farsi identificare: tutti gli abitanti, compresi i bambini, devono esibire una tessera mu-nita di fotografia e dati anagrafici: «Queste tessere sono come un tatuaggio», dice un residente. Una situazione difficile anche per gli operatori – come quelli della cooperativa Ermes, che ha partecipato alla ricerca – impotenti di fronte al ripetersi dei con-trolli, ai trasferimenti forzati, allo snaturamento del loro ruolo: «La Polizia municipale si è presentata il lunedì mattina all’alba, bussando alle case e in-timando ai residenti di abbandonarle – raccontano – Sembrava un’operazione militare in grande stile». Difficile svolgere un lavoro sociale se il dispositivo vigente nel campo è quello del controllo. Un conflit-to simile – dice Valentino – ha portato alla chiusura dei manicomi tra gli anni ’60 e ’70: a un certo pun-to, Franco Basaglia afferma con chiarezza che nel manicomio – istituzione che genera sofferenza e malattia – non è possibile svolgere alcuna attività curativa e perciò la sofferenza psi-chica potrà essere curata solo fuori dal ma-nicomio. Nel ghetto, invece, i rom sentono che la propria vita è completamente in ba-lia dell’istituzione, e che non hanno certez-ze per il futuro. «Il lavoro sociale – afferma nella postfazione Carlo De Angelis, presidente per il Lazio del Coordinamento comunità di ac-coglienza, – proprio perché centrato sulla relazione tra persone, stimola il cambiamento e non può certo essere ingabbiato in un sistema di sospensione del tempo, sospensione dei diritti, in un non luogo in cui non esistono e non sono date possibilità di cam-biamento, vie di fuga e d’uscita». Di fronte all’in-voluzione autoritaria delle politiche capitoline e alle chiusure istituzionali, la scommessa da giocare – dice allora De Angelis – è probabilmente quella di costruire in tempi brevi «una nuova rappresentanza credibile per il popolo rom».

gerALdiNA coLoTTi

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RECENSIONI E SEGNALAZIONI

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Il libro Le ragazze di Asmara, basato su interviste a eritree arrivate a Roma negli anni ‘60/70 per lavorare come domestiche, vuole mettere in luce il rapporto di continuità tra bianchi e neri nel passato coloniale e nell’oggi. Infatti, quello che l’autrice definisce «capitale culturale postcoloniale» (Bourdieu), formatosi nel fascismo coloniale, viene rifunzionalizzato dalle immigrate in Italia:

la risorsa di capacità domestiche acquisite viene usata per vivere e, nello stesso tempo, diventa forma di resistenza quotidiana, nel quadro di una presunta affinità con l’Italia, quasi una «seconda patria»: «Le ragazze di Asmara sono brave, intelligenti, pulite: questo sapevano!».

Nonostante le difficoltà all’arrivo, le intervistate, per rafforzare la loro autostima, preferiscono così porre l’accento sulla familiarità con la società e la cultura italiana, come per attenuare lo scontro tra il reale e l’immaginato nella loro adolescenza «in virtù dell’acculturazione coloniale cui erano state esposte». Haddas ritiene infatti che l’esperienza precedente con italiani in Eritrea sia indispensabile per il proprio progetto di migrazione. Ma le datrici di lavoro più che riconoscere tali competenze, le utilizzano come occasione ulteriore di sfruttamento. Perciò zufan, sia pure con ironia, esprime frustrazione nel racconto ininterrotto di mansioni giornaliere, in una compressione del tempo libero. Le eritree, arrivate a Roma, si confrontano inoltre con una generale discriminazione contro i neri che ancora oggi li colloca nei livelli più bassi del sistema socioeconomico europeo. La prospettiva postcoloniale invita a riflettere sulla connessione fra eredità del colonialismo e processi contemporanei di migrazione del lavoro su scala globale. E il caso di queste lavoratrici rivela proprio come genere classe e razza debbano essere considerate alla luce delle dinamiche che hanno plasmato le differenze all’interno del discorso coloniale. Così – sottolinea Marchetti – dietro la «normale routine» del lavoro domestico «hanno luogo quotidianamente» rappresentazioni e comportamenti razzisti. cLoTiLde BArBArULLi

Nomadi, come spesso si definiscono, i lavoratori dell’Alta Velocità, vengono per lo più dal Sud, spostandosi sulla scia delle grandi opere, e, a differenza degli anni cinquanta nel Nord, incontrano realtà industriali in declino, pertanto si trovano senza una realtà politicizzata, senza un tramite con la società locale, da cui sono

emarginati come gli immigrati in realtà poco presenti. La figurazione del titolo comprende sia questa divisione, sia l’Alta velocità che mette sottosopra un territorio. Cresciuta nel Mugello, con «il grigio del cemento» che si mescolava sempre più al verde,

dalla diga di Bilancino alla variante di valico, l’autrice, in una ricerca articolata in varie fasi, fin dal 2001 ha scelto, attraverso interviste, racconti, questionari e foto, di interrogarsi su quale umanità, al di là dei danni all’ambiente, lavori nelle grandi opere. Se il movimento No-Tav è ormai radicato, nessuno però parla di questi minatori, tra infortuni e alcol, tra sfruttamento e solitudine: specializzati, trascorrono molte ore in tunnel sotterranei della montagna, «invisibili come le falde», abitando in situazioni di degrado, a differenza degli impiegati e dirigenti con aria condizionata e frigoriferi. Mentre i calabresi di Putilia Policastro tuttavia rivendicano diritti e cercano intrecci con la gente del luogo, altri, come i lucani di Lauria, non sono sindacalizzati, e, forse vittime di caporalato o dipendenti da raccomandazioni, si autoemarginano senza porre problemi. Indagini della magistratura e fascicoli processuali spesso archiviati scandiscono il processo dell’Alta Velocità tosco-emiliana: una tale ricerca, attraversata da passione e rigore, certo non cambia la situazione, ma rivela il mondo sommerso degli attori di queste imprese, ed è infatti dedicata a Pietro Mirabelli – che ci teneva a raccontare la propria vita – morto poi nella galleria del San gottardo. Si prospetta così un «libro aperto» perché, fra danni al territorio e infortuni sul lavoro, in un oggi segnato da cemento, sfruttamento e inganno della crescita, tali storie non hanno fine e non vanno «abbandonate».

cLo. BAr.

le ragaZZe di asMara. laVoro doMestico e MigraZioNe PostcoloNiale, sabrina Marchetti Ediesse 2011, 12 euro

UN NoMadisMo forZato adem Bejzak, Kristin Jenkins Archeoares, 2011, 10 euro [email protected]

i gHetti Per i roMNicola Valentino (a cura di), Sensibili alle foglie, 2011, 16 euro [email protected]

rom in italia

il popolo che non segue più il sole

dicKeNs evergreeNÈ Londra la meta perfetta per il 2012: si celebra lì il bicentenario dello scrittore Charles dickens, nato a Portsmouth il 7 febbraio del 1812. Così la città inglese gli dedica una serie di mostre disseminate in diverse location, accogliendo il visitatore – adulto e bambino – nella stessa atmosfera vittoriana che si

respira in ogni pagina dickensiana. Ecco allora la rassegna presso il Museum of London dove si viene catapultati nella fanciullezza del grande romanziere e per la prima volta si potranno ammirare i manoscritti di David Copperfield (il libro che più amò e in cui molti hanno letto brani autobiografici) e di Casa Desolata, oltre che provare a mettersi nei suoi panni sedendosi alla sua scrivania. Alla British Library invece ampio spazio al soprannaturale e al sogno in salsa dickensiana: l’esplorazione di quei mondi paralleli è possibile fino al 4 marzo. da non dimenticare la casa dello scrittore, divenuta museo: è in doughty Street, conserva lettere, fotografie di famiglia, ritratti, gli arredi e soprattutto è qui che nacque Oliver Twist. Ma attenzione: quella residenza dove ci si immerge nella Londra fumosa del XIX secolo chiuderà i battenti in aprile e resterà serrata fino a dicembre, per una ristrutturazione capillare. Non è piaciuta a molti questa notizia e le polemiche sono fioccate: proprio durante il bicentenario dalla nascita di dickens deve sparire dal percorso «tema»? Nella risivitazione londinese non mancano però gli omaggi del grande schermo: per i cinefili c’è anche il David Copperfield del 1913 (informazioni www.bfi.org.uk).

iN NoMe di ANderseNIl premio H. C. Andersen-Baia delle favole, giunto alla sua 45ma edizione,

celebre concorso letterario internazionale per fiabe inedite, quest’anno si apre anche agli scrittori stranieri, ammettendo

componimenti in cinese, arabo, inglese,

francese, spagnola. La scadenza per inviare la propria

«prova» è il 31 marzo (bando sul sito www.andersenpremio.it) mentre l’assegnazione avverrà il 9 giugno al festival omonimo. Testimonial del 2012 è il giornalista Paolo Rumiz, celebre per i suoi reportage dal mondo. Le sezioni sono confermate nella suddivisione già consueta: fiaba scritta da bambini della scuola materna (dai tre ai cinque anni, in gruppo), da alunni delle elementari (sei-dieci anni), ragazzi (11-16 anni) e adulti. In giuria ci sarà lo scrittore Roberto Piumini. L’anno scorso sono state circa 1.400 le favole in gara per il premio intitolato allo scrittore danese che soggiornò a Sestri Levante.

LA PriMA voLTA NoN di scordA MAiUna serie di racconti (otto) di altrettanti autori per ragazzi – da Melvin Burgess a Anne fine – per narrare in maniera divertente, smaliziata, drammatica oppure dolente la prima volta in cui un adolescente fa sesso (si spera con un coetaneo). Per Rizzoli, La prima volta, fascia d’età dai quattordici anni in su, presso 12,90 euro, un libro che s’insinua nei reconditi pensieri dei ragazzi e ragazze pronti per la passione anche fisica. fra goffaggini legate all’età, sogni proibiti, delusioni per amori improbabili, vanno in onda le paure e le speranze di una intera generazione. Planetaria e globalizzata.

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MUgello sottosoPra. tUte araNcioNi Nei caNtieri delle graNdi oPere simona Baldanzi Ediesse, 10 euro

UNa storia da raccoNtaregabriele guccione e carla osella Aizo, 2011, s.i.p. [email protected]

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RoMa, Maggio 2009 Manifestazione del 1° maggio a Roma. Rom in corteo

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febbraIo 2012 Le Monde diplomatique il manifesto24

Il manifesto della contestazioneCINQUANT’ANNI fA NASCEVA LA CONTROCULTURA USA

porT huron, a un’ora di strada a nord di Detroit, giu-gno 1962. Gli Students for a

democratic society (Sds) tengono la loro prima convention. Il gruppo ra-dicale giocherà un ruolo fondamentale nel movimento di contestazione degli anni ’60: lotta al razzismo, protesta contro la guerra del Vietnam e, più in generale, rottura del consenso alla guerra fredda da parte della gioventù. Tale corpetto ideologico paralizza-va gli animi e condannava la sinistra americana, i sindacati, le Chiese e le università a vivere nel timore delle purghe anticomuniste orchestrate dal senatore Joseph McCarthy. Al mo-mento della convention, Sds pubblicò un manifesto dal titolo abbastanza ma-gniloquente: la «Dichiarazione di Port Huron» (1).

Redatta da Tom Hayden, uno stu-dente dell’università del Michigan, la dichiarazione mostra una presa di co-scienza generazionale particolarmen-te tardiva, intrisa da considerazioni apocalittiche (si legga la finestra). Nel 1962, i disastri del conflitto Est-Ovest non erano infatti una novità. Erano passati quattordici anni da quando il presidente Harry Truman aveva decre-tato la militarizzazione dell’economia americana; dodici anni da quando gli istruttori del Pentagono erano sbarca-ti in Indocina; otto anni da quando il tallone imperiale aveva schiacciato le speranze di riforma in Guatemala. Nel 1961, il presidente Dwight Eisenho-wer lasciava la Casa bianca lanciando questo avvertimento rimasto celebre: «Dobbiamo fare attenzione all’acqui-sizione di una influenza illegittima, che sia voluta o no, da parte del com-plesso militare-industriale. Il rischio di vedere un potere usurpato crescere in dimensioni disastrose esiste e per-sisterà. (…) Dobbiamo anche stare attenti al rischio (…) che le politiche pubbliche diventino prigioniere di un’elite scientifica e tecnologica (2).»

All’università di Berkeley, in Cali-fornia, il ghiaccio della guerra fredda comincia a sciogliersi nel 1956: per pro-testare contro l’obbligo di partecipazio-ne alle sedute di addestramento milita-re nel campus, alcuni studenti iniziano uno sciopero della fame. Il conflitto dura fino al 1962, quando un voto del consiglio di amministrazione dell’uni-versità dà ragione ai ribelli. Joe Paff, ex studente in scienze politiche, si ricorda del clima avvilente che regnava a Ber-keley al momento della svolta degli anni ’60: «Era la grande epoca della classe media, con pantaloni color kaki, cinture dalla grossa fibbia e camicie con il colletto abbottonato stile Oxford. Era come un’uniforme. Gli ufficiali di riserva incaricati del nostro addestra-mento obbligavano tutti gli studenti di sesso maschile a portare la divisa mili-tare una volta la settimana. (…) Come per rincarare ulteriormente il conser-vatorismo, l’università aveva deciso che gli studenti non dovevano discutere di argomenti non collegati alla vita del campus e che fosse necessario proteg-gerli contro gli “agitatori esterni”».

Nel maggio 1961, Malcolm X venne invitato a tenere una conferenza. Rac-conta Paff: «La direzione dell’univer-sità rifiutò, spiegando che Malcolm X rischiava di convertire gli studenti all’islam. All’ultimo minuto, abbiamo potuto farlo venire lo stesso, ma senza il minimo annuncio pubblico e in una piccola sala di centosessanta posti.

L’atmosfera era elettrica. Malcolm X era l’oratore più straordinario che io abbia mai ascoltato. Ha cambia-to le nostre vite per sempre. Quando gli ponevate una domanda, lui la ri-peteva guardandovi negli occhi, poi vi rispondeva. Molto rapidamente, la gente ha avuto paura di porgli do-mande idiote. I neri erano seduti tutti insieme, non ci hanno degnato di uno sguardo quando hanno lasciato la sala. Un mese dopo, la metà di loro ripetevano a memoria il discorso di Malcolm.»

Le proposte contenute nella «Di-chiarazione di Port Huron» matura-rono dopo diversi anni nella sinistra americana. Ma, nella valanga di testi pubblicati all’epoca, la «Dichiarazio-ne» è quella che descrive con maggior forza l’ansia di una gioventù piccolo borghese decisa a sottrarsi al confor-mismo mortifero degli anni ’50. Un conformismo che, per esempio, spin-geva i professori ad adottare mille precauzioni per non essere tacciati di comunismo.

Il manifesto esprime la paura della solitudine e dell’alienazione. Al di là delle sue professioni di fede progressi-ste, il suo argomento centrale è l’affer-mazione individuale, il desiderio di re-alizzare se stessi – un tema allora molto in voga, come dimostra il successo dei libri dello psicoterapeuta anarchico Paul Goodman, uno degli inventori della terapia della Gestalt. Growing Up Absurd, una delle sue opere più popo-lari tra la gioventù contestataria da una parte all’altra dell’Atlantico (3), ha in-dubbiamente ispirato i militanti di Sds.

Il capitolo intitolato «La società da-vanti a noi» mette in scena un gruppo di studenti che si dà come missione quella di rivelare la disperazione na-scosta sotto la paga confortevole del lavoratore, il vuoto esistenziale che presiede al lavaggio della sua auto-mobile ed alla scelta della sua resi-denza secondaria. Anche i sindacati sarebbero presi nella gabbia dell’apa-tia generale: i loro dirigenti, non avendo letto I manoscritti del 1844 di Marx, si mostrerebbero incapaci di identificare le varianti dell’alienazio-

ne, cosa che Sds si propone di fare.

La «Dichiarazione di Port Huron» tuttavia sbriga la questione economi-ca in qualche paragrafo. Gli autori nel preambolo affermano che «numerosi di noi attendono comodamente la loro pensione». Ne segue una descrizione dell’America come una nazione di be-nestanti , umiliata da pochi poveri che vivacchiano ai suoi margini. Una rap-presentazione che oggi rientrerebbe nel campo dell’utopia.

L’ottimismo che essa emana indica che i suoi autori, a dispetto delle loro note preliminari sulla fine dell’età dell’oro statunitense, non hanno colto il carattere volatile del capitalismo.

Su questo punto, la loro assenza di lucidità era largamente condivisa da-gli economisti dell’epoca. Sette anni dopo le profezie di Port Huron, la clas-se operaia americana – almeno la sua componente bianca più fortunata – ar-riva al suo picco storico di prosperità. Il livello massimo di gratificazione consentito dal sistema capitalista in termini salariali si riflette nelle grosse automobili dalle decorazioni baroc-che, la seconda vettura per la moglie che non lavora, gli elettrodomestici che riempiono la casa, la pensione, la copertura sanitaria e l’assicurazione sociale Medicare per le persone anzia-ne. Poi, a partire dagli anni ’70, questo paese di Bengodi, riforma dopo rifor-ma, comincia a sgretolarsi…

nella «dichiarazione di Port Hu-ron», il capitolo sulla «alternativa

all’impotenza» fa appello all’elite degli studenti emancipati, strategicamente posizionata nell’insieme del territorio in mezzo a un oceano di materiali-smo e rassegnazione. Come cambiare le cose? «Dai licei e dalle università, attraverso tutto il paese, una sinistra attiva può risvegliare i suoi alleati» – ma chi siano esattamente questi «alle-ati», gli autori non lo precisano. Essa «deve dare forma ai sentimenti di im-potenza e di indifferenza, affinché le

persone possano prendere coscienza delle radici sociali ed economiche dei loro problemi personali. (…) L’acces-so al potere politico passerà attraver-so un’autentica cooperazione sul pia-no locale, nazionale e internazionale tra la nuova sinistra dei giovani e una comunità di alleati in corso di eman-cipazione».

A cinquant’anni di distanza, si può sorridere dell’affermazione ingenua secondo la quale non vi sarebbe nulla di più facile del «dominio dell’ato-mo» e di costruire migliaia di reattori nucleari per meglio fornire al popolo energia abbondante e a buon mercato. Neanche la convinzione che il muro di Berlino e la guerra costituissero dei fenomeni eterni appare di grande chiaroveggenza. Quanto all’«indu-strializzazione del mondo», gli autori la consideravano come un segno di «nobiltà». Gli Stati uniti, dicono, do-vrebbero condividere generosamente la loro tecnologia.

A dispetto di queste manifestazioni di candore, va misurato l’impatto del-la «Dichiarazione di Port Huron» sui veterani della sinistra statunitense. Michael Harrington e Irving Howe, due scrittori progressisti membri del gruppo degli «intellettuali di New York» (4), si opposero agli autori del manifesto, affermando che la loro cri-tica della guerra fredda sottostimasse la minaccia sovietica, Questo conflitto sarà duraturo: da un lato, gli abili so-stenitori della superiorità del modello americano; dall’altro, una generazione in piena effervescenza che, alla fine degli anni ’60, vedrà negli Stati uniti una forza imperiale nefasta quanto l’Unione sovietica.

Il movimento Sds scoppia nel 1969, ma la sua memoria attraversa i decen-ni, grazie ai suoi ex responsabili che

«le nostre coscienze scosse» estratti della dichiarazione di port huron

«apparTeniamo a questa generazione, cresciuta in un relativo confort e oggi iscritta all’università, che guarda con inquietudine il

mondo che ha ricevuto in eredità. Quando eravamo bambini, gli Stati uniti erano il paese più prospero e più potente del mondo: il solo a disporre della bomba atomica, quello che aveva meno sofferto la guerra moderna, un architetto delle Nazioni unite che, pensavamo, doveva estendere l’in-fluenza occidentale sull’intero pianeta. (…)

Poi, crescendo, il nostro confort è stato perturbato da avvenimenti troppo sconcertanti per essere ignorati. La persecuzione insidiosa e de-gradante dell’uomo da parte dell’uomo, denunciata nel Sud dalla lotta contro la bigotteria razzista, ha condotto la maggior parte di noi a uscire dal silenzio per entrare in azione. Il soffocante regno della guerra fredda, simboleggiato dalla bomba atomica, ci ha fatto prendere coscienza del fatto che noi stessi, i nostri amici e milioni di “altre persone” astratte, che conosciamo bene perché esposte come noi a un pericolo comune, po-tremmo morire in qualsiasi momento. (…)

Nella misura in cui queste e altre realtà ci investivano, scuotevano le nostre coscienze e diventavano problemi che ci riguardavano, abbia-mo cominciato ad aprire gli occhi sugli allarmanti paradossi della nostra America. (…)

La nostra azione è guidata dalla consapevolezza che noi potremmo essere l’ultima generazione a godere della vita. Ma siamo una mino-ranza: la grande maggioranza del nostro popolo considera gli equilibri effimeri della nostra società e del nostro mondo come un meccanismo eterno e infallibile.»

(Traduzione di Al. Ma.)

Lotta contro il razzismo, contro il clima ideologico della guerra fredda e contro la società dei consumi: all’inizio degli anni ’60, negli Stati uniti si moltiplicarono i gruppi radicali. Il movimento Students for a democratic society conobbe un successo inatteso. Il suo manifesto, pubbli-cato mezzo secolo fa, si è imposto come documento di riferimento della controcultura americana.

di AlEXANdEr COCKBurN *

* Codirettore del sito di informazione alternati-va CounterPunch (www.counterpunch.org)

Patty gRu Janis Joplin

hanno sempre accuratamente veglia-to alla loro storiografia, a rischio di esagerare il proprio ruolo. A questo riguardo, movimenti come quello del-le Black panthers hanno avuto meno fortuna; imprigionati o assassinati dalla polizia, i suoi dirigenti non han-no potuto registrare le loro lotte sui li-bri di storia. D’altronde, la carriera di Hayden ha indubbiamente contribuito al riconoscimento retrospettivo di Sds: nel 1964, l’autore della «dichiarazione di Port Huron» militava nei quartieri poveri di Newark (New Jersey); qual-che anno dopo, partì per Hanoi con sua moglie, l’attrice Jane Fonda, prima di approdare al Partito democratico e di farsi eleggere al Parlamento califor-niano…

Nel corso degli ultimi sei mesi, il movimento Occupy Wall Street (Ows) ha disseminato i suoi accam-pamenti attraverso tutto il paese, da New York a Oakland, fino alla brutale dispersione da parte della polizia.

Cinquant’anni dopo il raduno di Port Huron, non si può non restare colpiti dall’assenza di continuità in-tellettuale e organizzativa tra que-sti due episodi che segnano la storia sociale americana. Le idee politiche di Sds si ispiravano ai primi scritti di Marx, ma anche a pensatori come Frantz Fanon, Paulo Freire e Gun-nar Myrdal. Nulla di tutto questo per Ows, senza dubbio perché il suo emergere è intimamente legato alla perdita di potenza relativa degli Stati uniti ed al declino della sinistra tra-dizionale. Mentre gli studenti di Port Huron si pensavano degli esploratori nelle vaste tenebre dall’autosoddi-sfazione americana, gli occupanti di Wall Street si considerano i rappre-sentanti del 99% della popolazione. Ieri, l’1% era l’avanguardia, oggi è il potere da combattere.

(1) Riferimento implicito alla Dichiarazione di indipendenza degli Stati uniti.

(2) John F. Kennedy, al momento della sua entrata in carica, tre giorni dopo, riprese immediatamente l’eredità storica del suo predecessore. Il «complesso militare-indu-striale» non andava pertanto incontro alla sua sparizione, al contrario. Kennedy si pre-occupò di recuperare il «ritardo americano» nell’ambito dei missili balistici – ritardo immaginario, poiché l’Unione sovietica nel 1960 ne possedeva soltanto quattro.

(3) Pubblicato nel 1960, Growing Up Absurd (La gioventù assurda, Einaudi, 1964) di-venne rapidamente un best-seller negli Stati uniti, prima di conoscere un certo successo in diversi paesi europei (Germania, Italia). In compenso, è inedito in Francia.

(4) Gruppo di intellettuali nato a metà del XX secolo che associava marxismo e critica dell’Unione sovietica.

(Traduzione di Al. Ma.)

Mancanza di continuità