Date post: | 09-Mar-2016 |
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..............................................................................L’estate è finita 4
..................................................................La casa della memoria 5
......................................................................Nuove conoscenze 28
.....................................................................Ritratto di famiglia 46
............................................................Una giornata particolare 56
.........................................................Una notte al chiaro di luna 70
.....................................................................Una serata perfetta 97
............................................................L’incantesimo si è rotto 123
.............................................................................Nuove verità 143
..........................................................................L’estate è finita 172
........................................................................Verso il domani 189
L’estate è finita
di Rita Massaro
Progetto editoriale:Absolutely Free sasGrafica e impaginazione:Nicoletta AzzoliniFoto di copertina:Moreno Scorpioni
© Copyright, 2011
Absolutely Free Editorevia Roccaporena, 44 - 00191 RomaE-mail: [email protected]
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata,compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata
ISBN 978-88-97057-07-9
La casa della memoriaEd eccomi nuovamente qui. Chi l’avrebbe mai detto che
questo posto, che avevo odiato per tanto tempo, sarebbe divenuto
il mio rifugio? Saranno stati almeno cinque o forse sei anni che
non varcavo questo cancello.
I treni sporchi, gli ostelli più simili a delle caserme, le
lunghe camminate con zaino in spalla per le strade d’Europa.
Tutto era meglio che venire qui. Ma ora, stranamente, sento che
questo è l’unico posto che possa accogliermi, l’unico posto dove
ho voglia di venire a nascondermi.
Fuggire. A volte non è vigliaccheria. A volte è
sopravvivenza. E ho imparato, anche, che non serve allontanarsi
di molti chilometri, mettere miglia di distanza fra noi e il “nostro”
mondo. Ci sono tanti modi di fuggire. Uno di questi è fare un
percorso all’indietro, nei luoghi lontani e nascosti della memoria.
Si può fuggire nel passato, e può anche capitare di ritrovarsi.
Ho un legame con questa casa, ma fin’ora non lo sapevo.
Sto riflettendo su questo, mentre scarico le valigie
dall’auto e mi accingo a percorrere il vialetto pieno di erbacce.
Sto anche pensando che bisognerà ripulire un po’ il giardino.
Dovrei chiamare quel contadino che chiamava sempre mio padre,
ma forse lo ripulirò io, tanto per fare qualcosa. Ho una necessità
impellente di adoperare le mani, come se il flusso di energia, che
mi sento esplodere nel cervello, avesse bisogno di fuoriuscire da
qualche parte del mio corpo.
Ci sono momenti in cui vorrei che, con una siringa, mi
aspirassero tutti i pensieri. Questa frase non è mia, eppure, mai
come adesso sento che mi appartiene.
In effetti, questo è uno di quei momenti in cui preferirei
non pensare. È per questo che sono qui. Ma non credo ce la farò. I
pensieri, in verità, sono indipendenti da noi. Vengono e vanno
indifferenti al nostro volere o ai nostri desideri e si può fare poco
per fermarli.
Per esempio, mi sta tornando in mente, all’improvviso,
un’estate di dieci anni fa. Anche allora ero una che si poneva
troppe domande. Mi chiedevo se, nella vita, era meglio inseguire i
propri sogni o vivere con i piedi per terra. Io, per la mia natura
irrimediabilmente idealista e, probabilmente, anche per l’età, ero
portata a pensare che avrei scelto di essere me stessa e non quello
che la vita e soprattutto il mondo esterno mi imponevano di
diventare. Oggi, invece, la domanda che mi faccio è un’altra.
Veramente abbiamo una scelta o siamo tutti schiavi della
necessità?
A ogni modo, avevo diciassette anni e passavo la maggior
parte del mio tempo a leggere romanzi e riviste per adolescenti,
ascoltare i Duran Duran, i Queen, i Police e gli U2, scrivere i miei
pensieri su fogli vaganti, torturare i miei delicati capelli biondi
con permanenti, lacca e pinzoni con enormi fiocchi, organizzare
feste di compleanno in casa mia o dei miei compagni di scuola.
Tutto sommato, per me, l’adolescenza fu un periodo
sereno. I problemi c’erano, ma non erano mai insormontabili.
Ricordo che vivevo intensamente ogni attimo delle mie giornate.
Avevo la sensazione di vivere una parte irripetibile della mia
esistenza e, quindi, cercavo di imprimere nella mia memoria il
maggior numero di ricordi possibile. Ci sono persone che
riempiono il proprio conto in banca di denaro, per paura di
rimanere a secco. Altri riempiono i propri cassetti di gioielli o i
propri armadi di vestiti. Io cercavo di riempire vorticosamente la
mia vita di momenti bellissimi, come se avessi saputo che un
giorno o l’altro avrei avuto bisogno di riaprire il cassetto dei
ricordi e volevo essere certa di trovarlo pieno.
Oltre l’età, anche il periodo storico mi aiutava. Io, che
sono sempre stata particolarmente sensibile agli umori della gente,
mi sentivo addosso l’euforia di quegli anni. Credo che chiunque
abbia vissuto la sua adolescenza negli anni Ottanta ricordi la
spensieratezza, la fiducia, l’ottimismo che si respirava nell’aria.
Parole come crisi, disoccupazione, inquinamento, licenziamento,
fallimento, cambiamenti climatici, desertificazione, disastro
ambientale non facevano parte del vocabolario comune. Persino la
guerra fredda pareva un male necessario per i film di James Bond!
Al massimo, fra i più “alternativi”, facevano capolino,
ogni tanto, la fame nel mondo e il neonato buco nell’ozono.
È anche vero che in tutta quell’ostentazione di benessere
c’era qualcosa di esagerato e mistificante, che, forse, avrebbe
dovuto aprirci gli occhi su quello che sarebbe venuto dopo, ma chi
ci pensava allora? Eravamo talmente occupati a divertirci, che non
rimaneva molto tempo per pensare. In ogni caso, così come in
quegli anni tutto era facile e sicuro e, ovunque, si respirava quella
certa aria rassicurante, oggi, a soli dieci anni di distanza, tutto è
difficile, precario, insicuro. Ma non voglio parlare di questo, ora.
C’è una grande opera di pulizia da fare anche all’interno
della casa. Polvere e ragnatele hanno preso il sopravvento
ovunque. Saranno un paio d’anni che i miei non vengono, neppure
in estate, e quindi nessuno ha più pulito. C’è anche odore di
chiuso e persino le tracce dell’ultimo capodanno che mio fratello
Nicola ha organizzato qui con i suoi amici. Lui, con la scusa che
era il più piccolo, si è sempre risparmiato. Ricordo le litigate che
ci facevamo perché non voleva mai aiutare in casa. Mia nonna
diceva che eravamo “lagnusi”. Lei, a ottant’anni suonati, era
ancora una matrona, dura e forte come una roccia. Mi ero sempre
chiesta dove prendesse tutta quell’energia che, poi, elargiva a
piene mani a tutta la famiglia. “Voi non avete fatto la guerra”, ci
diceva e ci guardava quasi con disgusto, come se fossimo stati
tutti robetta che si poteva spezzare con un grissino. E aveva
ragione.
Mentre mio nonno era in guerra, aveva allevato, da sola,
quattro figli, pur avendo dovuto lasciare la casa e tutte le sue cose
per sfollare in un paese delle Madonie. Faceva la ricamatrice da
quando era bambina, poi era diventata sarta. Dopo che il nonno
era tornato, avevano avuto altri due figli, di cui l’ultima affetta da
un grave ritardo mentale. Insieme avevano lavorato, comprato una
casa, fatto studiare tutti i figli e pagato le cure e l’assistenza di cui
aveva bisogno mia zia. Ancora oggi, che ha raggiunto i
novant’anni, quasi tutta la famiglia, per qualsiasi problema, si
rivolge a lei. L’anno scorso, quando zia Caterina, la sorella
maggiore di mia madre, voleva separarsi dal marito, riuscì a farla
desistere. “Tu ci devi dare l’illusione che è iddu ca cumanna”, le
diceva, “però ha fari chiddu ca rici tu. Na fimmina bona sapi comi
teniri l’omo in pugnu”.
Cara nonna, non ci sono più le donne di una volta, e
neppure gli uomini. Oggi tutti vogliamo fare quello che ci passa
per la testa, ma nessuno ha la spina dorsale per farlo veramente e
diamo sempre la colpa agli altri quando non ci riusciamo. Ci
vogliamo sentire liberi di fare le nostre scelte, ma poi dobbiamo
andare da uno psicologo per capire cosa veramente vogliamo.
Parliamo molto di più di quanto non facevate voi, ma non ci
capiamo. Dovremmo essere più felici, ma non lo siamo. A volte,
le vorrei dire tutto questo, ma poi rinuncio, perché so che non
capirebbe.
Anche quell’estate, non ero per niente contenta di venire
qui. Trovavo la campagna noiosa e desolante e mi importava
veramente poco dei sacrifici che aveva fatto la mia famiglia per
realizzare quella casa.
In quel periodo era scoppiata la moda della villeggiatura
e, dal momento che costruire dal nulla non costava troppo e non
necessitava di una licenza edilizia, tanto prima o poi sarebbe
arrivata la sanatoria, si costruiva abusivamente praticamente
ovunque, senza ritegno, rispetto e tanto meno estetica. File di
baracche di cemento sorgevano dall’oggi al domani in riva al
mare, ma anche in montagna o in collina, seppure meno gettonate,
non mancavano le seconde case a distruggere senza pietà paesaggi
bellissimi.
La legalità era considerata un hobby che pochi potevano
permettersi, per certi versi, anche stupido e inutile. Se ne parlavi,
e ti andava bene, venivi etichettato come idealista. Quando
crescerai ti renderai conto che nella vita queste cose contano poco.
Era sottinteso che contavano i soldi e bisogna riconoscere che,
finché ci furono, si stava abbastanza bene. Quando cominciarono
a scarseggiare iniziarono anche i problemi e fu in quel momento
che qualcuno si accorse che si erano persi di vista i valori più
importanti e bisognava recuperarli. Secondo me era già troppo
tardi.
Fatto sta che anche quell’anno mi dovetti rassegnare e la
prima notte che ci dormii, rifeci un sogno che facevo spesso.
Camminavo, reggendo con le mani un vassoio che conteneva dei
bicchieri di cristallo, molto preziosi. Cercavo di stare molto
attenta, perché avevo paura di romperli. A un certo punto
inciampavo, ma mi svegliavo sempre prima di sapere se i
bicchieri si erano rotti o se ero riuscita a salvarli. Anche quella
volta mi svegliai, in preda all’angoscia, chiedendomi cosa fossero
mai quei bicchieri che avevo tanta paura di rompere.
E rieccomi nella mia stanza, nel mio mondo, in quelle
quattro mura che ti segnano una vita. Anche adesso la prima cosa
che faccio è aprire le persiane e uscire sul terrazzo. Quante volte
ho visto l’alba da quassù. La sensazione visiva del sole che usciva
dall’acqua facendo strani colori nel cielo era straordinaria. Ma, da
queste parti, probabilmente si è tanto abituati ai colori forti che,
spesso, non se ne apprezza la bellezza fino in fondo, almeno fino
a quando non si è costretti ad andare via.
La cosa che mi dava maggior piacere erano i suoni della
campagna che si sveglia, che mi facevano pensare alla vita che si
sveglia. Non era soltanto la natura, ma anche i contadini che si
alzavano presto per andare a lavorare la terra. Mi sembrava, nella
mia visione romantica e adolescenziale delle cose, che uomini e
animali si fossero dati appuntamento a una data ora e iniziassero a
suonare tutti insieme, come in una grande orchestra. La bellezza è
armonia, pensavo, e io, in quel momento, per il solo fatto di essere
lì a guardare ed ascoltare quello spettacolo, mi sentivo parte del
tutto. Probabilmente se fossi stata io a dovermi alzare alle cinque
del mattino per andare a lavorare la terra, l’avrei pensata
diversamente.
Amavo la mia terra e mi sentivo legata a essa in modo
quasi viscerale. Con il tempo, questo sentimento si è trasformato
in amore-odio, proprio come tutti quei sentimenti troppo forti che
finiscono per procurarci molto dolore, per cui, se adesso mi fosse
data la possibilità di andarmene, so che farei la valigia domani
mattina per poi vivere di nostalgia altrove, il giorno dopo.
Tornando a quell’estate, la campagna mi annoiava
profondamente, perché come tutti quelli che avevano la mia età,
ero alla disperata ricerca di emozioni e sensazioni forti.
Nonostante ciò, c’erano due ottimi motivi che mi rendevano quei
mesi estivi sopportabili, si chiamavano Marta e Valerio. Con i figli
della nostra vicina eravamo cresciuti insieme ed eravamo
diventati un trio quasi inseparabile.
Una cosa che mi divertiva moltissimo era paragonare le
persone a degli oggetti o a degli animali. Talvolta mi venivano in
mente anche entità astratte come un numero, una parola o una
figura geometrica. Quando vedevo Marta e Valerio non potevo
fare a meno di pensare a due alberi. Lui era una quercia grande,
maestosa e, pur essendo giovane, resistente e con le radici ben
piantate nel terreno. Marta, invece, era un albero più piccolo e
colorato, forse un mandorlo in fiore, ma ben piantato nella terra,
come l’albero Valerio. Io, che ero l’indecisione fatta persona e
avevo sempre dubbi su tutti e tutto, invidiavo da sempre la loro
sicurezza e le loro inequivocabili certezze.
Tutto sommato, però, non si può dire che non mi piacessi.
Ero una che voleva sempre capire di più e, in fondo, trovavo
giusto farsi delle domande. Quando pensavo a me, vedevo un
arcobaleno colorato, sospeso fra terra e cielo, sempre proteso
verso il mondo delle mie fantasie e, al tempo stesso, sempre
pronto a tornare alla realtà. Alla fine, era come avere a
disposizione uno di quegli album di disegni che ci regalavano da
bambini. Io lo coloravo a mio piacimento.
Per me Valerio era sempre stato come un fratello
maggiore. Ma qualcosa era cambiato dopo che avevo compiuto il
mio tredicesimo compleanno. Valerio ne aveva sedici e io avevo
notato in lui un mutamento, che è difficile notare nelle persone
che ci stanno vicine e che, tuttavia, in lui era straordinario. Lo
vedevo dal modo in cui mi guardava e con cui, certe volte, mi
sfiorava, quasi per caso. All’inizio ero infastidita da quelle sue
nuove, strane e improvvise attenzioni. Più di una volta glielo feci
capire, poi arrivai a dirglielo apertamente.
Preferivo stare con Marta, e io e lei, a poco a poco,
tendemmo a escluderlo. Vivevamo nel nostro mondo fatto di
sogni, in cui Valerio, così reale e concreto, era un intruso. Noi
volevamo un ideale, non un ragazzo vero, e lui disturbava le
nostre fantasie. Lui, però, non si arrese mai. Con i suoi modi
pratici e sicuri, ci imponeva la sua presenza, prendendoci in giro e
distruggendo tutti i nostri castelli in aria con quel suo terribile
sorrisetto ironico. E, a onor del vero, devo ammettere che non era
facile escluderlo, perché sapeva anche come rendersi adorabile.
Continuò a insistere con quelle sue invadenti
manifestazioni d’affetto nei miei riguardi. Iniziai a ritrovarmi le
sue mani dappertutto, la sua presenza ovunque. Cominciò una
specie di lotta ideale ma anche fisica fra me e lui, durante la quale
arrivai persino a schiaffeggiarlo e a fargli male, ma era tutto
inutile. Lui non se la prendeva e mi rispondeva con una carezza o
con un bacio. Alla fine, quello che era iniziato come uno scontro
finì per diventare uno strano gioco che ci portava inevitabilmente
verso la naturale scoperta dei nostri corpi e del loro potere.
Generalmente si accontentava di tenermi abbracciata,
accarezzarmi quasi ovunque, baciarmi in continuazione le mani o
i capelli, ma una volta mi ritrovai la sua bocca troppo vicina alla
mia, sentendo quasi il suo respiro confondersi con il mio. Quando
capii le sue intenzioni lo respinsi istintivamente, ebbi una specie
di senso di repulsione; capii che, in quel momento, per me quel
gioco stava andando troppo oltre e che mi faceva un po’ senso
pensare di condividere quelle mie prime esperienze con Valerio.
Così, ignorando il potenziale negativo delle mie parole,
gli dissi semplicemente che dovevamo tornare a comportarci
come ciò che eravamo, cioè due affettuosi amici di lunga data, e
che volevo conoscere altri ragazzi. Valerio, ovviamente, ci rimase
male ma rispettò il mio desiderio, anche se non smise più di
guardarmi in quello strano modo e io non smisi più di sentirmi in
imbarazzo quando lui lo faceva. Nonostante ciò, continuai a
parlargli sinceramente di tutto, come se quella breve parentesi non
fosse mai esistita.
Quell’anno, come sempre, la prima persona che avevo
cercato era Marta. Ci sentivamo spesso al telefono e ci vedevamo
qualche volta, anche in inverno, ma durante l’estate diventavamo
quasi una cosa sola. A volte, mentre parlava, la osservavo,
guardavo i suoi riccioli neri sempre scomposti, il volto pieno di
lentiggini, gli occhi piccoli e intelligenti. Aveva gli occhi più
mobili che avessi mai visto, non stavano mai fermi o fissi su
qualcosa, come invece facevano spesso i miei. Sembrava che
fosse sempre attenta e vigile su tutto e, talvolta, dava
l’impressione di voler penetrare nei segreti più nascosti di quelli
che capitavano sotto quello sguardo indagatore.
Sapevo che lei non si piaceva fisicamente, si lamentava
della sua mancanza di forme, del suo viso irregolare, della sua
pelle piena di macchie e dei suoi occhi troppo piccoli; io, invece,
la trovavo bellissima, di una bellezza inusuale, non comune e,
proprio per questo, particolare rispetto alla norma, ma lei non mi
credeva e mi rispondeva che non ero obiettiva, perché le volevo
bene. Su questo aveva ragione, era la mia migliore amica, anzi
una sorella, e mi sembrava impossibile pensare che non sarebbe
stato così per sempre.
Quante volte abbiamo percorso, a piedi, questo vialetto
che porta dalla mia casa alla sua. Lo ripercorro, pensando a noi e a
quei giorni. Il loro giardino è ordinato e pulito, l’orto coltivato, gli
alberi potati. Tutto come sempre. So che loro vengono qui ogni
estate, proprio come allora. La madre ci viene spesso anche
durante l’inverno, per pulire.
La signora Antonia, pur non vedendola da molto tempo,
me la ricordo perfettamente, sempre serena e sorridente. Il padre
dei miei amici, invece, non lo avevo conosciuto. Sapevo che era
morto molti anni prima, poco dopo il loro ritorno dalla Germania.
Era lì che i loro genitori si erano conosciuti e poi sposati.
Lavoravano nella stessa fabbrica e la signora Antonia raccontava
sempre, sorridendo con nostalgia, come il suo futuro marito
l’avesse aspettata all’uscita, per quasi un mese, prima di avere il
coraggio di rivolgerle la parola. Altri tempi!
Fu qualche anno dopo la nascita di Marta che erano stati
costretti a tornare, perché era morta la madre della signora
Antonia e il padre era troppo anziano per vivere da solo. Gli altri
fratelli erano sparsi per il mondo, in luoghi ancora più lontani. E
così, suo marito trovò lavoro in un cantiere quaggiù e decisero di
rimanere. Probabilmente, era stata anche la nostalgia di casa a
farli propendere per questa soluzione. Purtroppo, però, poco dopo
il padre di Marta e Valerio era morto, cadendo da un’impalcatura.
Marta era troppo piccola per ricordarselo, ma Valerio ne
aveva sofferto atrocemente e, da allora, aveva sviluppato quella
rabbia e quell’odio profondo nei confronti delle ingiustizie e di
certe categorie di persone. Le chiamava i padroni, i capitalisti, le
sanguisughe. Diceva sempre che quello di suo padre era stato un
omicidio, perché gli imprenditori sapevano bene che,
risparmiando sulle misure di sicurezza, mettevano a rischio la vita
degli operai, ma poco gliene importava e questi stessi, pur
sapendolo, non fiatavano per paura di perdere il posto di lavoro.
La signora, pur avendo ricevuto una pensione a seguito
della disgrazia, per integrare le modeste entrate della famiglia,
faceva assistenza agli anziani per mezza giornata, mentre
nell’altra mezza si occupava della casa, del padre e dei ragazzi.
Marta e Valerio erano cresciuti con la consapevolezza di
doversi occupare di loro stessi e di dover fare conto solo sulle
proprie capacità per cavarsela nella vita, pur se la presenza della
madre non era mai mancata ed era per loro una sorgente
inesauribile di forza ed energia.
Ricordo ancora il piacere che mi procurava vederla
cucinare. Il suo modo agile ma allo stesso tempo calmo e paziente
di tagliare, pulire, spellare, mescolare, rosolare, impastare… Non
so perché, mi dava una strana sensazione di benessere. Io non
avevo ricevuto quell’educazione che vedeva la donna come
l’angelo del focolare, ma vederla cucinare in quel modo aveva il
potere di rilassarmi e rassicurarmi.
Forse era perché mi mancava in famiglia qualcuno che
conoscesse e applicasse quell’arte con amore. Mia madre andava
sempre di fretta, odiava cucinare e lo faceva in modo nevrotico. A
casa mia si mangiava per vivere, non c’era il gusto di stare a
tavola e, il più delle volte, quando ancora eravamo seduti, i piatti
sparivano dalla nostra vista insieme all’ultimo boccone e,
magicamente, li vedevamo già lavati e poggiati sul piano a
scolare. Quante volte ho pensato che, da adulta, non sarei mai
stata come mia madre, e quante volte, oggi, inconsapevolmente,
mi ritrovo a fare le stesse cose.
Quel primo giorno, come ormai da tradizione, andai a
casa loro di buon mattino. Quando arrivavo, infatti, andavo
sempre a salutare tutta la famiglia. Come al solito, la madre era
uscita presto perché, tranne un paio di settimane, lavorava anche
nei mesi estivi. Trovai Valerio e suo nonno in giardino. Marta,
invece, non si era ancora alzata, perché la sera si addormentava
sempre molto tardi e la mattina faticava ad alzarsi. Diceva che era
un animale notturno, ma suo fratello le ribatteva che aveva
soltanto l’orologio biologico spostato in avanti e che avrebbe
dovuto porci rimedio prima che fosse arrivato il momento di
andare a lavorare.
Dopo che ci fummo salutati, Valerio tornò a fare quello
che stava facendo e che faceva sempre quando si trovava in
campagna. Aiutava suo nonno con le piante e, soprattutto, con gli
alberi del frutteto. Entrambi erano molto legati alla terra e
adoravano stare lì in mezzo, sporchi e sudati, a misurare i
progressi di quei piccoli frutti che loro avevano contribuito a far
crescere. E quando li mangiavano e li offrivano a tutti, non
facevano che decantarne il sapore speciale e la genuinità.
Mentre pensavo a tutto questo, quasi senza rendermene
conto, mi ero messa a osservare Valerio. Guardandolo
analiticamente, non si poteva dire che fosse bello. Aveva i
lineamenti marcati, il naso troppo pronunciato, gli occhi piuttosto
piccoli e non era neanche molto alto. Ma guardandolo nel
complesso, risultava un tipico ragazzo mediterraneo, scuro di
carnagione e di capelli, dagli occhi profondi e dalla bocca carnosa
e con un fisico asciutto, nonostante le spalle larghe.
La caratteristica principale del suo carattere era la
semplicità che, talvolta, risultava disarmante, ma non scadeva mai
nella volgarità o nella rozzezza. Era diretto in quasi tutti i suoi
comportamenti e odiava i preamboli e i giri di parole.
Quel giorno ero arrivata da non molto tempo quando mi
disse che doveva parlarmi. E così uscimmo a fare una passeggiata.
Quella mattina non riuscivo a smettere di guardarlo. Mi accorsi
che aveva qualcosa di strano, di diverso dal solito. Era stato via
per un anno, a causa del militare. Forse, se non fosse mancato
dalla mia vista per tutto questo tempo non avrei notato quel
cambiamento. L’estate precedente senza di lui era stata strana, in
un certo senso vuota. La sua presenza ingombrante, qualche volta
fastidiosa, perché impediva alla mia mente di volare via, come
avrebbe voluto, per riportarmi prepotentemente alla realtà, era
venuta a mancare. Avevo sentito dentro come un filo sottile che
era stato reciso e quella rottura faceva un po’ male.
Ora era lì, con la solita maglietta sudata, che camminava
al mio fianco come aveva fatto tante altre volte, ma sentivo che
non era più lo stesso. C’era qualcosa in lui, forse nello sguardo,
che lo faceva sembrare più adulto. Un’ombra di tristezza, come di
chi ha perduto qualcosa, ma anche una nuova e intensa
passionalità animavano quegli occhi scuri.
«Chiara» – iniziò, come chi sta per fare un discorso che si
era da tempo preparato, ma poi si fermò e mi guardò dritto negli
occhi. Non dimenticherò mai quello sguardo. Mi aveva detto
tutto, senza proferire parola. Una comunicazione così intensa,
diretta e spontanea mi accese una specie di fuoco dentro. Nessuno
mi aveva mai guardata così e, fin’ora, nessuno l’ha più fatto. A
volte mi chiedo perché la maggior parte di noi ha quasi sempre
così tanta paura di esprimere i propri sentimenti, come se si
vergognasse di quella che considera una grande debolezza.
Valerio non era così, perché il suo modo di guardare, di
parlare, di muoversi, persino lo scatto nervoso delle mani che
esprimeva il suo stato d’ansia, tutto il suo essere non era fatto per