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Lo spettatore del futuro

Date post: 08-Mar-2016
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L'inserto al numero del 2012 di Partita Tripla, il giornalino dell'ITC Oberdan di Treviglio (BG). Lo spettatore del futuro si proietta nel 2020 per immaginare le misure e le nuove pratiche che saranno inventate per percorrere la strada della sostenibilità ambientale e dell'ecologia.
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Lo SPETTATORE del futuro R R i i t t o o r r n n o o a a l l b b e e l l P P a a e e s s e e ! ! Basta cementificazioni! Il governo vara un piano di riqualificazioni! Numero Unico Febbraio 2020 SPECIALE: Guida allorto in balcone SPECIALE: Gli orti sociali
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Lo SPETTATORE del futuro Pagina 1

Lo SPETTATORE del futuro

RRiittoorrnnoo aall bbeell PPaaeessee!! BBaassttaa cceemmeennttiiffiiccaazziioonnii!! IIll ggoovveerrnnoo vvaarraa uunn ppiiaannoo ddii rriiqquuaalliiffiiccaazziioonnii!!

Numero Unico Febbraio 2020

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Page 2: Lo spettatore del futuro

“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e

artistico della Nazione.”

Articolo 9 della Costituzione italiana

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INDICE

Ritorno al bel Paese, di Colombi e Baffi a pagina 4

SPECIALE: Ristoranti a Km zero, di Colombi a pagina 6

Stop alle importazioni di frutta esotica, di Colombi a pagina 7

Orto: il “fruttivendolo” in casa, di Baffi a pagina 9

Speciale: Guida all’Orto in balcone, di Baffi a pagina 10

Una lezione dalla storia, di Carolei a pagina 13

Non sprecare, si può! , di Colombi a pagina 14

Addio alla carne bovina, di Colombi a pagina 16

SPECIALE: Gli orti sociali , di Carolei a pagina 18

Una città ecosostenibile , di Colombi a pagina 19

Zero emissioni di CO2 , di Colombi e Baffi a pagina 21

La moltiplicazione dei pesci, di Baffi a pagina 23

Un pannello su ogni tetto, di Colombi a pagina 25

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Ritorno al bel Paese L’obiettivo del governo per i prossimi anni è stato fissato per decreto: zero consumo del territorio è la nuova parola d’ordine dell’industria edilizia. E arrivano anche i fondi europei.

Basta cementificare! È disastroso, come ci dimostrano ogni anno i morti in decine di calamità naturali; e anche inutile: per ogni italiano, secondo l’Istat, ci sono ormai più di 2,5 vani. Dopo decenni di battaglie di istituzioni ecologiste se n’è accorto anche il Governo. Approfittando della recente assegnazione di nuovi fondi europei, ha stabilito per decreto di realizzare un progetto di riqualificazione di immobili vecchi o dismessi, che dovrebbe sostenere l’industria edilizia, fornire un adeguato numero di edifici nuovi o rinnovati per impieghi industriali o abitativi, evitare nuove costruzioni indiscriminate e provvedere, in parte almeno, ai necessari lavori di consolidamento del territorio. Si tratta di questo. Lo Stato acquisterà gli immobili da riqualificare, utilizzando la maggior parte dei suddetti fondi, con costo dunque limitatissimo a carico del bilancio, e li cederà gratuitamente a imprese. Queste, a loro volta, si impegneranno a ristrutturarli, e a compiere le necessarie operazioni di riqualificazione del territorio sul quale si trovano ; in cambio ne

avranno la piena proprietà: potranno tenerli, venderli o affittarli, a seconda della loro convenienza. Sono anche previste procedure particolarmente rapide per i cambi di destinazione d’uso, indispensabili per rendere appetibili al mercato gli immobili in questione. È probabile che anche gli acquirenti ci guadagnino qualcosa; esperti del mercato ritengono che il costo di produzione di un metro quadro ad uso abitativo o d’ufficio risulterà di circa il 20% inferiore rispetto a quello di un edificio completamente nuovo, mentre per gli edifici destinati ad uso industriale la differenza si attesta intorno al 10%. Una parte almeno di tali differenze si rifletterà sui prezzi. Certamente ci guadagneremo tutti. Un po’ perché la costruzione di nuovi immobili, con i connessi problemi di impatto ambientale, rallenterà significativamente, un po’ perché, visti i costi ridotti, potrà diventare più facile, per coloro che ancora non hanno potuto farlo, diventare proprietari della casa di abitazione; parecchio infine perché si darà avvio, con la mobilitazione di capitali privati , a quell’ opera di

sistemazione del territorio che l’Italia aspetta da decenni. Lo Stato farà la sua parte: sono infatti previsti incentivi e contributi per le imprese che dovranno affrontare problemi particolarmente spinosi nel risanare il territorio e per le famiglie che vorranno acquistare la casa, pur essendo in condizioni economiche disagiate. Si darà dunque un ulteriore impulso alla realizzazione di quanto previsto dall’art. 42 della Costituzione, che prevede che la proprietà privata sia resa accessibile a tutti, ma, per una volta, senza scaricare costi insostenibili sull’ambiente nel quale tutti siamo costretti a vivere. Sembra l’uovo di Colombo. Funzionerà? Molto dipenderà dalla capacità della burocrazia di mantenere efficienza e imparzialità, senza opporre ostacoli e lungaggini eccessive, ma anche senza lasciarsi tentare dalle sirene di affaristi poco scrupolosi, che, come spesso è successo in questo paese, potrebbero tentare di ricavare guadagni illeciti. Noi ci impegniamo a vigilare e chiediamo ai nostri lettori di fare altrettanto. È un’occasione da non perdere.

Colombi Cristian, Baffi Marta

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LO SPECIALE a pagina seguente

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SPECIALE: Ristoranti a Km zero Avete mai sentito parlare di menu a km 0? Sono tutti i ristoranti che sono certificati per la preferenza nei menu di pietanze che contengono esclusivamente specialità delle campagne locali e prodotti di stagione. I ristoratori cioè si impegnano ad acquistare le materie prime da aziende agricole della zona seguendo la cosiddetta filiera corta e riducendo così la distanza tra produttore e consumatore. Scegliere i ristoranti che servono prodotti a chilometro zero conviene perché permette di spendere meno e mangiare meglio.

Vediamo come è possibile: La filiera corta (detta anche circuito di commercializzazione breve), prevede che il consumatore, in questo caso il ristoratore, acquisti i prodotti (olio, vino, formaggi, ortaggi, frutta, verdura ecc.) direttamente da chi li produce. In questo modo può servire delle pietanze genuine a un costo contenuto: nessun intermediario tra il produttore e il consumatore. I prodotti locali inoltre, non devono percorrere migliaia di chilometri per giungere sulle nostre tavole. Per farlo devono percorrere un breve tragitto, al

massimo qualche centinaio di chilometri, con la conseguente riduzione del costo del carburante per il trasporto. Sappiamo tutti infatti che un prodotto d’importazione (molti provengono da oltreoceano) costa molto di più di uno locale, tanto più che gli alimenti a lunga percorrenza hanno subito un’impennata dei prezzi a causa del parallelo aumento del prezzo del petrolio. Allo stesso modo, non dovendo percorrere distanze infinite, i prodotti possono viaggiare “più leggeri” riducendo così le spese per gli imballaggi.

Colombi Cristian

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Stop alle importazioni di frutta esotica! È questo il nuovo piano in elaborazione dal governo per salvaguardare il territorio e ridurre l’inquinamento atmosferico dovuto all’importazione via aerea di frutta esotica.

Anche voi avete portato sulla tavola del vostro Natale qualche cibo esotico o fuori stagione che vi è costato un occhio della testa? Al di là dello spreco economico, avete mai pensato all'impatto ambientale di queste scelte? A fare un promemoria ci ha pensato la Coldiretti che ha presentato la lista nera dei consumi di Natale per contribuire ad orientarci verso stili di vita più sobri e responsabili. Per ogni chilogrammo di questa frutta, reso disponibile sul banco del fruttivendolo sotto casa nostra, sono stati immessi in atmosfera sette chili di gas serra tra monossido e biossido di carbonio. Allucinante. Secondo lo studio della Coldiretti, negli ultimi dieci anni si è assistito in Italia a una crescita esponenziale degli sbarchi di frutta straniera "contro" stagione come le more dal Messico (+6100 per cento), i mirtilli dall'Argentina (+560 per cento) o le ciliegie dal Cile (+122 per cento), i cui arrivi si concentrano proprio nel periodo di Natale.

Questa moda fa esplodere i prezzi dei cenoni, visto che i prezzi sono superiori ben oltre le dieci volte di quelli di mele, pere, kiwi, uva, arance e clementine made in Italy, e appare del tutto ingiustificata, perché si tratta spesso di prodotti poco gustosi e saporiti: sono stati infatti raccolti ad un grado di maturazione incompleto per poter resistere a viaggi di migliaia di chilometri. Per di più contribuisce non poco all’effetto serra: i prodotti sono trasportati su mezzi inquinanti che liberano nell'aria una grande quantità di gas. E' stato calcolato (sottolinea la Coldiretti) che un chilo di albicocche australiane viaggia per oltre sedicimila km, brucia 9,4 chili di petrolio e libera 29,3 chili di anidride carbonica; un chilo di ciliegie dal Cile per giungere sulle tavole italiane deve percorrere quasi 12mila chilometri con un consumo di 6,9 chili di petrolio e l'emissione di 21,6 chili di anidride carbonica, mentre un chilo di mirtilli dall'Argentina deve volare per più di 11mila chilometri con un consumo di 6,4 kg di petrolio che liberano

20,1 chili di anidride carbonica a causa del trasporto con mezzi aerei. La questione sta diventando così grave che il Governo sembra stia per prendere provvedimenti per limitare tali consumi. Ai sostenitori del libero mercato che non vedono come si possano imporre barriere doganali in deroga dagli accordi WTO, il sottosegretario on. Margherita Pratolini risponde che l’obbligo di rispettare gli accordi sulla riduzione dell’emissione di gas tossici e le direttive europee in materia di inquinamento ambientale permettono di limitare tali importazioni e di imporre tariffe doganali scoraggianti sulla frutta transoceanica. È già stata avviata, inoltre, una campagna di informazione e di educazione per orientare i consumatori verso la frutta di casa nostra. Il tempo delle more Lindberg sta per finire?

Colombi Cristian

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I DATI: LA TOP TEN DEI CIBI CHE INQUINANO

PRODOTTO PROVENIENZA KM PERCORSI KG DI CO2 EMESSI X OGNI KG KG DI PETROLIO

Albicocche Australia 16.015 29.3 9.4

Ciliegie Cile 11.970 21.6 6.9

Pesche Cile 11.970 21.6 6.9

Mirtilli Argentina 11.180 20.1 6.4

Anguria Brasile 9.175 16.5 5.3

Albicocche Sud Africa 8.600 15.6 5

More Messico 8.319 15 4.8

Asparagi Perù 7.018 12.6 4

Meloni Guadalupe 5.440 9.8 3.1

Fagiolini Egitto 2.130 3.8 1.2

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Orto: il “fruttivendolo” in casa E' la moda del momento, sull'onda lunga del cibo bio: è l'orto fai da te

Fare un orto sotto casa, o

addirittura sul davanzale di

casa, è l’ultima moda per i

residenti in città; un modo per

riappropriarsi dello spazio

urbano, rendendolo un po’

meno grigio e un po’ più verde.

Tutto nasce negli Stati Uniti. La

crisi di alcune città industriali,

Detroit in testa, ha liberato

spazi che pian piano si sono

riempiti di colture domestiche;

prima praticate a titolo

personale da alcuni cittadini e

poi da associazioni e vere e

proprie imprese. L’ex città

dell’auto ha oggi circa il 40% del

suo territorio urbano dedicato a

colture di vario tipo, per lo più

orticole. Da lì poi la cosa si è

diffusa in tutto il mondo

occidentale; ad esempio nella

capitale britannica già oggi il

28% delle famiglie coltivano

ortaggi nel proprio giardino.

In Italia si è calcolato che nel

2006 il 37% dei connazionali

over 15 era impegnato almeno

saltuariamente nella

coltivazione di un orto.

Percentuale che in quattordici

anni è già salita al 55 %. E si

moltiplicano iniziative di

associazioni e di enti pubblici,

comuni in testa, rivolte a

diffondere l’agricivismo, come

lo ha chiamato il dr. Richard

Ingersoll diversi anni fa. In

effetti, oltre agli evidenti

vantaggi economici, le colture

urbane migliorano l’ambiente,

sia con l’assorbimento di

anidride carbonica (due metri

quadri di orto producono

l’ossigeno necessario a un

essere umano), sia con la

riduzione dell’inquinamento da

trasporto.

Gli orti insomma offrono molti

vantaggi a chi li coltiva e alle

famiglie; e chi li coltiva spesso

scopre che questi vantaggi si

estendono anche all’ambiente e

alla comunità locale.

Coltivare un orto dà l’occasione

di godersi uno spazio verde

appartato dalla tensione della

vita quotidiana, permette di

fare regolarmente esercizio

fisico, occupa la mente, fornisce

una grande sensazione di

benessere, la consapevolezza

dello spazio, relax.

Anche i bambini traggono

vantaggio dal trascorrere il

tempo con la famiglia nell’orto;

oltre a evitare la dannosa

dipendenza totale dalla

televisione, sviluppano infatti

conoscenze sulla provenienza

dei cibi in un’epoca in cui

diventa sempre più importante

muoversi e mangiar bene; in un

orto si può imparare

divertendosi.

Al tempo stesso, i prodotti

coltivati contribuiscono a una

dieta sana ed equilibrata, se si

coltiva biologico, si possono

anche ridurre erbicidi e

fertilizzanti introdotti

nell’organismo.

Non credete che esageri!

Nell’orto domestico si possono

coltivare molte più cose che la

solita insalata e i diffusissimi

pomodorini; potreste restare

sorpresi dall’elenco di piante

che possiamo farci in casa,

riducendo spese e

inquinamento.

Basilico, prezzemolo, carote,

lattuga, aglio, rosmarino,

cipolle, ravanelli, porri, sedano,

piselli, radicchio, salvia,

pomodori, ce li possiamo

procurare tutti con un po’ di

cura e di attenzione, riducendo

la spesa dal fruttivendolo e

migliorando sapori e salubrità

della nostra cucina. Quasi

nessuna di queste piante

richiede cure e attenzioni

particolari e tutte in genere

prosperano anche nei climi

dell’Italia settentrionale. Basta

avere un po’ d’attenzione, se si

vive in zone fredde o troppo

ventose, e riparare i germogli o

con coperture di plastica, o

legarli a tutori, che gli

impediscano di essere sbalzati

dal vento.

Baffi Marta

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SPECIALE: Guida all’orto in balcone La cosa fondamentale per avere un orto in balcone è la luce; tutti gli ortaggi hanno bisogno di luce. Le posizioni migliori sono quelle esposte a sud-est o sud-ovest, mentre le peggiori sono quelle esposte a nord. Il terreno necessario per gli ortaggi è il comunemente chiamato “terriccio universale”, ossia un insieme di sabbia, sassi, argilla (parte inorganica) e humus (parte organica). Essenziale è anche la

disponibilità di acqua, per annaffiare i prodotti. L’acqua di irrigazione deve essere a temperatura ambiente, e deve essere data regolarmente, ma senza esagerare. Uno degli errori più comuni in cui cadono i neofiti dell’orticultura è quello di pensare che dare continuamente acqua sia il modo migliore per far crescere piantine sane e saporite. Procuratevi dunque paletta, guanti da lavoro, rastrello,

zappetta, cesoie e annaffiatoio (di qualcuno di questi si può anche fare a meno); un po’ di semi o di bulbi, e via all’avventura. Scoprirete in fretta che, oltre tutto, coltivare un orto è molto divertente e fa bene a tutti. A voi, alla città, al pianeta. Buon lavoro.

Baffi Marta

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Una lezione dalla storia La produzione di amianto ormai appartiene al passato ma dai danni che ha provocato il suo uso possiamo trarne una lezione C’è qualcuno che si ricorda dell’amianto? Pochi crediamo, eppure, trent’anni fa il suo uso sconsiderato ha provocato una delle più grandi tragedie “ecologiche” della storia italiana. L’amianto è un materiale molto resistente al calore comprendente una struttura fibrosa che lo rende adatto per produrre indumenti e tessuti da arredamento a prova di fuoco; mescolato con il cemento permette di ottenere coperture edilizie molto resistenti e di grande capacità di isolamento; tanto che la sua produzione e il suo uso si diffusero enormemente. C’era tuttavia un problema. Le polveri di amianto respirate, provocano l'asbestosi, nonché tumori delle pleure, ovvero il mesotelioma pleurico e dei bronchi, e il carcinoma polmonare. Esemplare è la vicenda dell’ Eternit a Casale. Lì si produceva un noto prodotto per l’edilizia, un composto di cemento e di amianto, che diventò il materiale edilizio più impiegato nella copertura di tetti. Durante la lavorazione tutti respiravano polveri di amianto e tali polveri si diffondevano nell’aria respirata più tardi da tutti i cittadini. Risultato: il numero dei tumori e delle malattie respiratorie a Casale è stato

molto più alto che in tutti gli altri paesi d’Italia, dove l’amianto si usava solo come materiale edilizio. Non è che altrove si scherzasse: dai dati in nostro possesso risulta che le zone con mortalità più elevata sono state la provincia di Gorizia (Monfalcone) e Trieste nel nord est, gran parte della Liguria, Genova e soprattutto La Spezia e la provincia di Alessandria nel nord ovest, Massa Carrara e Livorno al centro, Taranto al sud. Sono quasi tutte zone costiere con cantieri navali e porti. L'unica provincia non costiera è quella di Alessandria, la cui presenza si giustifica perché Casale Monferrato è nel suo territorio. Oltre ai costi in vite umane, la vicenda dell’amianto ha comportato anche esborsi non indifferenti di denaro pubblico. La legge 257 del 1992, che ha stabilito termini e procedure per la dismissione delle attività inerenti l’estrazione e la lavorazione dell’amianto, ha anche fissato indennizzi e benefici pensionistici per i lavoratori esposti all’amianto. Sono state presentate diecine di migliaia di domande; nella sola Liguria 71000; tenendo conto che un prepensionamento per amianto è costato in media 250000 euro allo Stato, l’esborso non è stato certo

modesto. I costi più grandi, però, si sono avuti per bonificare il territorio dall’amianto. Si sono dovuti bonificare con procedure speciali siti industriali, edifici pubblici e privati, residui e scarti di lavorazione. Dal 1995, anno in cui il lavoro sostanzialmente cominciò, a oggi sono stati spesi alcuni miliardi di euro, e non abbiamo ancora finito.

Ha un lieto fine questa storia? Non credo sia possibile: troppe tragedie e sofferenze ha sparso nel nostro paese. Potremmo però avere imparato una cosa, se saremo capaci di ricordarcene: la tecnologia non dà solo vantaggi e alcuni beni, e in primis l’ambiente, sono troppo preziosi per metterli a rischio per superficiale sconsideratezza. Ce ne ricorderemo?

Carolei Giulia

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Non sprecare, si può Gli sprechi di cibo sono solo un triste ricordo del passato? Il 2011 è stato un anno decisivo per l’inversione della tendenza Quanti di noi sono sufficientemente accorti nel fare la spesa? Chi consulta con attenzione la data di scadenza dei cibi, e calcola esattamente la quantità sufficiente per nutrire la propria famiglia? Chi conserva per il giorno dopo, o magari congela, quanto avanzato? Pochi, a giudicare dai dati che emergono da un'indagine condotta dall' Associazione difesa consumatori. Ogni italiano butta, ogni anno, 27 chili di cibo ancora buono nel secchio della spazzatura, per un totale di 585 euro di spreco per ogni famiglia. Secondo lo studio, nelle discariche finiscono ogni giorno 4 mila tonnellate di alimenti freschi tra latte, uova, formaggi e yogurt (39%), pane e pasta (15%), carne (18%), frutta e verdura (12%). A questi sprechi "casalinghi si aggiungono gli avanzi delle mense aziendali, ospedaliere e scolastiche, dei buffet dei grandi alberghi o dei villaggi turistici 'all inclusive'. Si legge, infatti, nel libro di T. Stuart (Sprechi, B. Mondadori) «I negozi e i ristoranti italiani hanno a disposizione l'88 per cento di cibo in più rispetto al fabbisogno alimentare della popolazione. Si tratta di un surplus di 1700 Kcal al giorno: alcune di queste calorie in eccesso sono consumate da soggetti che mangiano più di quanto occorra al loro

organismo, ma la maggior parte viene sprecata sotto forma di pane non mangiato, cibo avanzato nei piatti e sacchi di immondizia pieni di prodotti dei supermercati. L'Italia dispone di una quantità di cibo 3,3 volte superiore a quella effettivamente necessaria». Secondo i dati contenuti nel Libro Nero dello spreco alimentare in Italia ogni anno, prima che il cibo giunga sulle nostre tavole, se ne perde una quantità che potrebbe soddisfare i fabbisogni alimentari di circa 44 milioni di abitanti e che corrisponde al 3% del nostro Pil. Con una popolazione mondiale in continua crescita ( nonché con 79 milioni di individui che, solamente all’interno dell’UE, vivono ancora al di sotto della soglia della povertà ), sprecare le risorse alimentari è un fatto assolutamente intollerabile. Inoltre al costo dello spreco in sé si aggiunge quello derivante dall’enorme quantità di rifiuti da smaltire che, nelle regioni italiane che conferiscono gran parte dei rifiuti urbani nelle discariche, provoca gravissimi problemi di inquinamento da percolato. Questo è quanto si leggeva in un articolo del Sole 24 ore del 27 dicembre 2010. Nel periodo natalizio, infatti, gli sprechi alimentari aumentavano e diventavano fatto di cronaca. La

cosa è cominciata a cambiare a partire dal 2011, anno in cui l’organizzazione “Last Minute Market” (LMM), creata dal Andrea Segré, professore di Agraria presso l’Università di Bologna, ha organizzato un pranzo in piazza per sensibilizzare l’opinione pubblica italiana sullo scandalo degli sprechi alimentari. Nel menù c’erano prodotti invenduti della filiera agro-alimentare, ma poca carne, proprio per sprecare meno acqua possibile. Per produrre una bistecca di 300 grammi di manzo, infatti, occorrono 4.650 litri d’acqua, per 1 chilo di soia 2.300 litri, per 1 chilo di patate invece solo 160 litri. Successivamente la stessa organizzazione ha promosso la proclamazione del 2014 "Anno europeo contro gli sprechi alimentari", quale strumento di informazione e promozione per sensibilizzare i cittadini europei e richiamare l'attenzione dei governi nazionali su questo tema decisivo per le sorti del pianeta. Nello stesso periodo, con una risoluzione non legislativa, proposta dall’italiano Salvatore Caronna, il Parlamento europeo ha chiesto misure urgenti per dimezzare entro il 2025 gli sprechi alimentari. Nel marzo 2012 il Parlamento ha approvato una serie di provvedimenti che

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prevedevano: a) la promozione di una campagna di sensibilizzazione, a livello europeo e nazionale, per informare il pubblico su come evitare lo spreco alimentare; b) l’introduzione dell’ etichettatura con doppia scadenza, quella commerciale, che indica fino a quando il cibo può essere venduto, e quella per il consumo che indica fino a quando può essere consumato; c) l’introduzione obbligatoria di imballaggi per alimenti offerti in varie misure e progettati per conservare al meglio gli alimenti. d) una modifica in tutti i paesi europei delle norme sugli appalti pubblici per la ristorazione (responsabili secondo la Commissione del 14% degli sprechi) che prevede l’assegnazione degli appalti alle società di catering che utilizzino

prodotti locali e ridistribuiscano ai bisognosi derrate alimentari ancora commestibili oppure le conferiscano a titolo gratuito alle banche alimentari; e) l’obbligo di vendita a prezzi scontati dei cibi prossimi alla scadenza. Da allora è cambiato qualcosa? Gli articoli allarmistici dei giornali appaiono puntualmente ad ogni festività; tuttavia un’indagine della Coldiretti pubblicata nel gennaio 2020 mette in evidenza il successo della campagna informativa promossa in Italia soprattutto dall’organizzazione LMM e, in alcuni periodi, anche dal governo. Il cibo che finisce in pattumiera si è ridotto notevolmente in questi 8 anni che ci separano dal 2012: da 27 Kg annui a 16, grazie soprattutto alla doppia

etichettatura e alle numerose forme di assegnazione degli alimenti prossimi alla scadenza. Ancora di più si è ridotto lo spreco nella fase della distribuzione, con l’offerta a prezzi ridotti di frutta e verdura scartata perché danneggiata, e, in ultima istanza, con il conferimento delle rimanenze di cibarie varie alle banche alimentari. Possiamo ottimisticamente sperare che entro il 2025 si raggiungerà l’obiettivo della riduzione del 50% degli sprechi e sognare un futuro in cui ogni molecola di cibo prodotto finisca nella pancia di un affamato.

Colombi Cristian

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Pagina 16 Lo SPETTATORE del futuro

Addio alla carne bovina Sorprendente risultato di indagini di mercato. Da domani meno inquinamento, più prospettive future Certo, i Suv sono inquinanti, ma

sapete cos’altro lo è? Le flatulenze delle mucche! Sì, il metano contenuto nelle flatulenze delle mucche contribuisce per il 5% all’inquinamento globale dato dai gas, dato che il metano è 22 volte più potente nel trattenere il calore nell’atmosfera rispetto all’anidride carbonica. Per ogni litro di latte prodotto, infatti, vengono emessi dalle mucche 35 litri di gas metano. Alcuni scienziati inglesi hanno calcolato che ogni mucca, ruminando ed eruttando, durante una giornata produce 500 litri di metano; contribuendo così all’aumento dell’emissione dei gas serra e al surriscaldamento globale. Per fortuna sembra che i gusti degli italiani stiano cambiando. Saranno i prezzi crescenti, sarà una più diffusa consapevolezza che l’eccesso di carne rossa può essere gravemente nocivo alla salute, saranno infine gli effetti di iniziative di educazione alimentare in corso da anni, il consumo di carne bovina sta decrescendo a ritmi vertiginosi, sostituito da quello di altri alimenti quali ortaggi, uova, formaggi, pesce e carne ovina, pesce da mare coltura, che inquinano di meno e consentono di far fronte, in termini di terreni disponibili, all’aumento della popolazione

mondiale, che ormai si aggira intorno ai 9 miliardi. Secondo i risultati di una recente indagine pubblicati dall’Unione consumatori, il consumo di carne bovina che copriva il 65% del fabbisogno di proteine animali ancora nel 2014, oggi è sceso al 34%, e la tendenza alla riduzione si accentua con gli anni. Ciò farà bene al portafoglio e al colesterolo, ma il vantaggio principale che ne deriva è la fine dello sproporzionato consumo di acqua destinato all’agricoltura e l’avvio alla risoluzione del problema della disponibilità di acqua, che è stato uno dei maggiori incubi del mondo negli anni intorno al Duemila. Spieghiamo

meglio. Molti di noi non sanno che il 70% dell'acqua utilizzata sul pianeta veniva (in alcuni contesti lo è ancora) consumato dalla zootecnia e dall'agricoltura (i cui prodotti servono per la maggior parte a nutrire gli animali d'allevamento). Quasi la metà dell'acqua consumata negli Stati Uniti è ancora destinata alle coltivazioni di alimenti per il bestiame. Gli allevamenti consumano una quantità d'acqua molto maggiore di quella necessaria per coltivare soia, cereali, o verdure per il consumo diretto umano. Dobbiamo sommare, infatti, l'acqua impiegata nelle

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Lo SPETTATORE del futuro Pagina 17

coltivazioni, che avvengono in gran parte su terre irrigate, l'acqua necessaria ad abbeverare gli animali e l'acqua per pulire le stalle. Una vacca da latte beve 200 litri di acqua al giorno, 50 litri un bovino o un cavallo, 20 litri un maiale e circa 10 una pecora. L'acqua richiesta per produrre vari tipi di cibo vegetale e foraggio varia dai 500 ai 2000 litri per chilo di raccolto prodotto. Il bestiame utilizza in modo diretto solo l'1,3% dell'acqua usata in totale in

agricoltura; tuttavia, se si prende in considerazione anche l'acqua richiesta per la coltivazione dei cereali e del foraggio per uso animale, la quantità d'acqua richiesta è enormemente più elevata. Il settimanale Newsweek ha calcolato che per produrre soli cinque chili di carne bovina serve tanta acqua quanta ne consuma una famiglia media in un anno. Cinque kg di carne non bastano a coprire il consumo di una settimana, per la stessa famiglia!

Facendo un calcolo basato sulla quantità di proteine prodotte si ottiene un rapporto molto sbilanciato a sfavore degli allevamenti: per un chilo di proteine animali occorre un volume d'acqua 15 volte maggiore di quello necessario alla produzione della stessa quantità di proteine vegetali. Insomma meno carne bovina

significa un pianeta migliore e

soprattutto meno sete e siccità.

Colombi Cristian

Lo SPECIALE a pagina seguente

Page 18: Lo spettatore del futuro

Pagina 18 Lo SPETTATORE del futuro

SPECIALE: Gli orti sociali Piccoli appezzamenti di terreno altrimenti inutili affidati a chi vuole crearsi un orto proprio tra anonimi edifici, strade pluricorsia, mastodontici centri commerciali. Un nuovo polmone verde per le metropoli industrializzate. Già da alcuni anni le

Amministrazioni Comunali di

varie città offrono ai cittadini

che vivono in condominio, la

possibilità di coltivare

esclusivamente per uso

familiare un piccolo

appezzamento di terra. Il

servizio, denominato "orti

sociali", mira a favorire la

riscoperta di un rapporto

diretto con la natura, oltre a

promuovere un tipo di

coltivazione che fa bene

all’ambiente e alla salute. Gli

assegnatari degli orti sociali

devono impegnarsi infatti ad

utilizzare tecniche di

coltivazione biologica che

valorizzino la fertilità del suolo

con la rotazione delle colture e

a non impiegare concimi

chimici, ma prodotti di

compostaggio. Le assegnazioni

avvengono tramite una

graduatoria nella quale l’ordine

di precedenza è determinato

sulla base dell’appartenenza a

una categoria “socialmente

svantaggiata”, come portatori

di handicap, pensionati con

pensione minima, altri

pensionati, disoccupati,

cassaintegrati/casalinghe,

extracomunitari, studenti, altri

richiedenti non appartenenti

alle suddette categorie. Il

Comune si impegna ad eseguire

negli orti sociali alcune attività

come aratura, fresatura iniziale

e recinzione dell'area; scavo di

pozzi artesiani per l'irrigazione;

installazione di prefabbricati

per il ricovero degli attrezzi e di

bacheche per gli avvisi;

piantumazione di siepi ed alberi

per l'equilibrio biologico. E’

facile capire i benefici effetti di

queste iniziative sull’ambiente e

sulla socialità. L’orto sociale può

costituire infatti, un’alternativa

su piccola scala alla grande

agricoltura intensiva, basata su

ritmi di coltivazione innaturali,

sull’ampio utilizzo di pesticidi,

fitofarmaci, fertilizzanti,

strumenti atti a conseguire il

massimo rendimento per ettaro

in termini di produzione, merce

e quindi guadagno. In questo

caso è del tutto assente la

ricerca del profitto, per cui la

cura dell’orto avviene con

metodi tradizionali rispettosi

dell’ambiente. Un ulteriore

valore degli orti urbani è quello

di costituire un punto di

incontro per la comunità, un

impegno fruttuoso per gli

anziani che, piuttosto che

rinchiudersi in casa a fissare la

TV, escono nei giardini e nei

cortili, parlano fra loro, si

confrontano sui prodotti che

coltivano, regalano al vicino il

pomodoro più succoso del loro

orto, mettono la loro frutta a

disposizione dei ragazzi del

quartiere per educarli a

preferire prodotti naturali alle

merendine confezionate piene

di conservanti e coloranti. Oggi

la coltivazione orticola in

città,ha assunto le dimensioni di

un fenomeno sociale di grande

portata le cui origini risalgono

a Michelle Obama ed al

suo orto alla Casa Bianca. Allora

per la prima volta fu rivelato

l’orto quale status symbol di

un’élite culturale che tiene alla

salute del suo corpo, vuole

sapere cosa mangia, ed è

sensibile alle tematiche

ambientali e sociali connesse

all’agricoltura ed al diritto al

cibo. Adesso una tale élite si sta

diffondendo in tutto

l’Occidente, anche fuori dalla

classe dirigente, e tutti ne

traiamo vantaggi.

Carolei Giulia

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Una città ecosostenibile Abbiamo tratto insegnamento dal nord Europa. Ora

anche in Italia sempre più edifici ecosostenibili. Da parecchi anni le città nord europee si sono messe in gioco politicamente realizzando edifici, strade ed interi quartieri ecosostenibili in ogni loro parte. Ciò significa utilizzo del fotovoltaico e delle nuove tecnologie per lo smaltimento dei rifiuti, così come prestare attenzione alla luce e alla ventilazione naturali, alla coibentazione, alla presenza di piste ciclopedonali, allo spazio e al verde pubblici. Spiccano Stoccolma, Amsterdam, Friburgo, Copenhagen, Vienna e Barcellona. A Milano, così come nel resto d’Italia, erano presenti solo alcuni edifici adeguati alle moderne esigenze ecologiche; è sempre mancato l’impegno e il coraggio politico, così come la consapevolezza dei cittadini. A partire dal 2015, anno dell’ Esposizione Universale dal titolo Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita all’interno dell’Expo Milano, la consapevolezza che per salvare il pianeta era necessario partire dalle città, dalle quali derivano le maggiori quantità di polveri tossiche; che non ci si poteva più tirare indietro dalla sfida ambientale. Un autorevole modello sono state le opere realizzate dal maggiore esponente della tendenza alla sostenibilità nelle costruzioni, l’architetto parigino Edouard François, paladino dell’housing sociale ed autore

nel 2004 della celeberrima Tower Flower, una costruzione con trenta alloggi sociali che sorge in uno dei quartieri più eleganti di Parigi, le cui mura esterne spariscono nella giungla della vegetazione presente sui balconi. Anche il complesso di alloggi sociali “Eden Bio”, nel cuore di Parigi, e quello di Louviers, in Normandia, interamente realizzato con mattoni bio e legno di castagno sono progetti di François: si ha quasi l’impressione che la natura abbia il preciso obbligo di nascondere la struttura dell’edificio, rendendolo così decisamente più leggero. Dello stesso architetto anche la Torre Vegetale di Nantes. In Italia il progetto forse più noto è quello, curato da Stefano Boeri, conosciuto come Bosco verticale: si tratta di una torre di 27 piani con un totale di 1500 alberi distribuiti per tutti i balconi. L’idea è quella di “un’architettura biologica ad alta densità di abitanti e di alberi” che, attraverso lo schermo vegetale costituito dal verde, assorbe le polveri sottili, crea un adeguato microclima, filtra la luce solare. Il Bosco Verticale, costruito nel capoluogo lombardo, fa parte di un piano di più ampio respiro chiamato BIoMilano: si tratta di sei progetti che mirano a far convergere le energie economiche e territoriali

necessarie per raggiungere un nuovo equilibrio tra sfera urbana, naturale e rurale, donando ad una delle città più inquinate al mondo l’occasione di diventare Metropoli della Biodiversità. Negli ultimi anni l'attenzione di privati, tecnici e imprenditori verso le costruzioni in legno anche prefabbricate, è cresciuta sensibilmente, malgrado siano ancora molti in Italia a credere che solo il calcestruzzo sia sinonimo di resistenza, durata e solidità. Il legno è sinonimo di leggerezza e flessibilità, caratteristica quest'ultima che garantisce un'ottima resistenza sismica: in particolare un edificio in legno di sette piani rimane in piedi ed è perfettamente agibile dopo un terremoto del 7° grado della scala Richter. Al fiorire di costruzioni in legno contribuì il via libera, dato nel decreto “Salva Italia” del 6 dicembre 2011, alla costruzione di edifici in legno con più di quattro piani con l'esenzione del nullaosta. Adesso Milano ha l’ambizione di diventare la città verde del 2021. Per raggiungere gli standard richiesti per l’assegnazione del titolo, ma soprattutto per dare alla città una veste gradita ai suoi cittadini e rispettosa dell’ambiente e magari per far quadrare i conti dell’amministrazione, Milano ha

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approfondito e sviluppato 6 temi di urbanizzazione sostenibile, facendo convergere su di essi l’attenzione non solo di cittadini e amministratori, ma anche di finanziatori e finanziamenti che mettano in moto il mercato del lavoro e delle soluzioni per il risparmio energetico. Innanzi tutto la gestione dei traffici dentro e verso il centro storico, dove si può circolare solo con furgoni elettrici, oppure avvalersi dei “container taxis”, naturalmente elettrici. Per i collegamenti cittadini invece si è agito su due fronti. Da una parte l’implementazione di una rete di metrò leggero che sarà pronta nel 2021, dall’altra l’aumento delle stazioni per il bike sharing e dei chilometri di piste ciclabili all’interno del tessuto urbano. Infatti se ciascun automobilista sostituisse 2,5 Km di percorso in auto con un tragitto in bicicletta, le emissioni nocive dovute ai trasporti scenderebbero del 25%, come ha dimostrato l’esempio di Copenhagen nei primi anni del 21° secolo. Attualmente la popolazione delle città, circa la metà del totale, è responsabile

per l’80% dell’effetto serra, che, anche se notevolmente ridotto, è pur sempre presente e causa di inconvenienti ambientali. Così si è elaborato un programma specifico che, dopo aver contribuito a ridurre le emissioni del 40%, si propone di abbatterle dell’80% entro il 2050. La città punta infatti in maniera massiccia sull’uso delle fonti rinnovabili e, dato che risparmio energetico ed economico vanno di pari passo, offrirà a più di 600 imprese l’opportunità di competere ma anche di crescere professionalmente attraverso il confronto, nel nuovo mercato verde. Altra iniziativa importante è la conservazione del suo patrimonio verde attraverso tre stadi: il 22% dell’area urbana è destinata ad “aree di conservazione del paesaggio”; l’8% costituisce invece una vera e propria riserva naturale per la conservazione di habitat e specie animali e vegetali; infine c’è l’area destinata ai parchi. Inoltre giocheranno un ruolo i classici finanziamenti all’edilizia sostenibile e al risparmio energetico domestico, ma anche, come sottolinea il motto

“growth with foresight”, promuovendo uno sviluppo intelligente che premi la riconversione ed il miglioramento di aree urbane esistenti, senza il bisogno di nuove “espansioni”. Nel frattempo un progetto specifico sta provvedendo all’”isolamento acustico” delle tangenziali che attraversano la città. Dall’acqua al suolo, dalla materia riciclata (materie prime seconde) alle fonti energetiche in loco, le risorse della città vengono conservate attraverso un management intelligente e di lunga visione, che prevede una collaborazione tra il comune e gli attori economici. La collaborazione con l’iniziativa si prevede possa favorire oltre 1500 aziende, tra cui 600 specificamente operanti nel settore della ecosostenibilità. Per cui verrebbe completamente rovesciata l’antica obiezione degli anti ecologisti: lo sviluppo economico non solo è conservato, ma è persino incrementato dalla salvaguardia dell’ambiente.

Colombi Cristian

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Zero emissioni di CO2: un obiettivo a portata di mano Italia sempre più verde. Continua la positiva tendenza alla riduzione delle

emissioni. Grazie al crescente numero di auto elettriche. E le città respirano.

Le domeniche senza auto, le “zone C”, le isole pedonali nei centri storici delle città, i ticket di ingresso qualcuno li ricorda forse con una punta di nostalgia, perché certamente hanno costituito un’ottima occasione per fare delle passeggiate, a piedi o in bicicletta, in piena tranquillità, nei nostri artistici centri storici. Per buona parte della popolazione, tuttavia, comportavano sicuramente dei disagi non indifferenti, come dimostrano le mai placate polemiche che le decisioni dei sindaci in tal senso hanno scatenato dappertutto; legittimate anche dagli scarsi risultati ottenuti in termini di riduzioni della CO2. Oggi invece si circola senza problemi anche nei centri storici e le emissioni inquinanti calano regolarmente. L’artefice di questo miracolo è lei, l’auto elettrica, la cui diffusione, secondo i dati pubblicati dalla Commissione trasporti del Parlamento, ha superato i 3.000.000 di esemplari. Il nostro paese si è mosso nella direzione della incentivazione all’acquisto di auto elettriche già a partire dal 2011, sotto la spinta della necessità di rientrare nei parametri di emissione di CO2 previsti da ripetuti accordi internazionali, a partire da quello di Kyoto dell’11 dicembre 1997. Il processo si è avviato quando, nell’estate del 2011, il Parlamento ha approvato un provvedimento

che delineava un sistema di incentivi da 60 milioni dal 2012 al 2015. Erano previsti vantaggi fino a 5000 € per chi acquistava un’auto elettrica per il 2012; 3000 nel 2013; 2000 nel 2014 e 1000 nel 2015. Un sistema decrescente che aveva lo scopo di stimolare una crescita immediata della diffusione di auto elettriche. A questi si sono aggiunti anche parcheggi gratuiti per i possessori di auto elettriche e prestiti a basso tasso d’interesse nel momento dell’acquisto; si capisce quindi come l’acquisto sia diventato particolarmente allettante. Furono previsti incentivi anche per infrastrutture di ricarica delle auto elettriche: agevolazioni per i distributori che ammodernassero gli impianti. Fino al 2011 la diffusione di queste auto totalmente pulite era scarsa a

causa soprattutto dei pochi modelli disponibili, dell’elevato costo, delle difficoltà di ricarica e della limitata autonomia, cose che le rendevano svantaggiose per il consumatore rispetto ai modelli a combustibili fossili. I costi sono diventati più accessibili con gli incentivi e i risparmi che l’opzione elettrica consente, e che Sorgenia ha calcolato in 720 euro di benzina in meno l’anno e in 1.050 kg di anidride carbonica in meno emessa (su un’auto a benzina di media cilindrata). Grazie agli incentivi (fino al 2015) varati dall’Autorità per l’Energia per la costruzione di 1000 stazioni sull’intero territorio nazionale, si è anche sciolto l’altro nodo irrisolto, quello della ricarica. Il problema della limitata autonomia e della breve durata delle batterie agli ioni di litio è stato risolto grazie

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all’invenzione da parte dell’Ibm, delle batterie ad aria. Nelle vecchie batterie al litio l'elettrodo positivo contiene ossidi di metallo, mentre le celle "litio-aria" sfruttano il carbonio, un elemento in grado di reagire con l'ossigeno per generare corrente elettrica e fornire una densità energetica fino a 1.000 volte superiore a quella degli accumulatori convenzionali, oltre ad avere una durata almeno doppia. Insomma oggi in termini di prestazioni e di comodità di uso le auto elettriche non hanno più nulla da invidiare alle loro sorelle a combustibili fossili e sembrano destinate a relegarle nei magazzini della storia. Intanto non c’è confronto sul piano dell’inquinamento, anche perché le batterie di nuovo tipo, una volta esaurite, si possono riciclare e ricaricare infinitamente, senza creare una massa di pesanti metalli inquinanti (come avviene per il piombo o il cadmio). E per un futuro ormai abbastanza

prossimo, ci saranno le batterie solari ed eoliche, che renderanno definitivamente e completamente “verde” la nostra auto. Inoltre, il sistema del plug in permette di ricaricare la batteria collegandola con una comune presa della corrente nel proprio garage, riducendo enormemente il problema dell’ancora limitato numero di colonnine presenti nelle nostre città ed eliminando le fastidiose code ai distributori durante i viaggi verso i luoghi di vacanza. E come non apprezzare la riduzione dei consumi e il miglioramento delle prestazioni? Parlando in termini di Kw/km (chilovattora al chilometro), mentre una normale auto impiega circa 5 litri di benzina per 100Km, consumando quindi circa 0,51Kw/km; le auto elettriche possono vantare un consumo di Kw/km che varia dai 0,11 ai 0,23. Altri numeri che potremo riportare sono quelli riguardanti l'accelerazione: si provi ad

immaginare che un'auto elettrica è in grado di andare da 0 a 100km/h in soli 3,9 secondi. Il propulsore dell'auto elettrica sviluppa la coppia massima quasi istantaneamente e l'accelerazione mantiene un andamento perfettamente costante, ciò comporta che il motore di un’auto elettrica raggiunge un’efficienza del 90% mentre i più sofisticati motori a combustione interna non raggiungono 70%. Più velocità, meno inquinamento, zero rumore. A dire poco fantastico! Sembra quasi di stare in un film di fantascienza. Qualcuno può ancora non desiderare di guidare un'auto veloce e silenziosissima, il cui unico rumore è un leggero ronzio e il suono delle ruote sull'asfalto? Specie se poi può passeggiare tranquillo per le strade della sua città senza essere oppresso dai rumori e soffocato dai gas di scarico.

Colombi Cristian, Baffi Marta

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La moltiplicazione dei pesci Mangiare più pesce pescando di meno. Ecco come.

Una nuova realtà economica che rispetta l’ambiente. Il miracolo più ecologico narrato dai Vangeli è senza dubbio la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Se sapessimo riprodurlo avremmo la possibilità di fornire cibo in quantità adeguata a tutti gli esseri umani, senza sottoporre l’ambiente a uno sfruttamento eccessivo. Insomma la manna nel deserto associata al paese di Bengodi. Sembra però che moltiplicare i pesci, oggi, non sia solo un sogno, ma una possibilità e un dovere. Ce lo testimoniano le numerose installazioni di mare cultura che si moltiplicano lunghe le nostre coste. Che le risorse ittiche nel Mediterraneo fossero sovrasfruttate e in grave sofferenza era noto da tempo agli esperti del settore: tanto ai biologi della pesca, quanto ai politici di Bruxelles, quanto agli stessi pescatori, se è vero, come è vero, che nelle reti c’era sempre meno pesce e sempre più scatole di polistirolo, buste di plastica e grumi di catrame. Tuttavia quando nel 2006 la Commissione Europea, per tutelare il patrimonio ittico, approvò il Regolamento sulla Pesca nel Mediterraneo n. 1967/2006 (modificato e aggiornato nel 2012), in Italia non fu approntato alcun piano di gestione della pesca, non furono introdotte regole e limitazioni in grado di ridurre il depauperamento delle risorse

ittiche, ma furono mantenute le consuete strategie assistenzialistiche nei confronti del settore pesca, obiettivamente indebolito dai minori introiti. E così, di deroga in deroga, di rinvio in rinvio, il 1 giugno 2010, la Commissione Europea impose l’applicazione del Regolamento Comunitario sulla pesca del 2006. I suoi punti di maggior rilievo sono: - La maglia delle reti da

traino passa dalla forma romboidale da 40 mm alla forma quadrata con lato da 40 mm (la superficie della maglia raddoppia e la rete diviene più selettiva);

- È vietato l’uso di reti da traino entro una distanza di 1,5 miglia nautiche dalla costa; le reti da romboidali devono passare a quadrangolari, il che ha reso non utilizzabili molte imbarcazioni fin lì usate; obbligo per i pescatori di tenere un giornale di bordo informatizzato che andrà però compilato quattro ore prima di entrare in porto;

- È vietato l’uso di draghe tirate da natanti e draghe idrauliche entro una distanza di 0,3 miglia nautiche dalla costa;

- Gli organismi marini sottotaglia non possono essere venduti, tenuti a bordo, trasbordati, sbarcati, trasferiti, immagazzinati,

venduti, esposti o messi in vendita;

- Gli Stati membri debbono adottare Piani di Gestione per le attività di pesca condotte con reti da traino, sciabiche da natante, sciabiche da spiaggia, reti da circuizione e draghe all’interno delle loro acque territoriali.

Più che naturale che divampasse la rivolta di consumatori e pescatori: il rischio era la scomparsa di vongole, telline e bianchetti, pescati nel mar Mediterraneo, dalle tavole italiane con importanti ripercussioni economiche per il settore ittico e della ristorazione, oltre che, secondo le stime, la riduzione del 50% del pescato e la perdita di numerosi posti di lavoro. Quale la soluzione? Ottenere deroghe dall’Unione Europea, col risultato di aggravare ancor di più il progressivo depauperamento del Mediterraneo, allontanando così di qualche anno la crisi? Alcuni giovani si sono resi conto che la soluzione poteva essere trovata soltanto nella creatività! Ed ecco nascere le prime attività di mitilicoltura, molluschicoltura, marecoltura, acquacoltura, di conservazione, trasformazione e distribuzione dei prodotti ittici e affini. L’impianto di marecoltura è di solito situato in mare aperto a 2 km dalla costa, esposto a

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correnti e mareggiate, in una zona di fondale misto, con profondità di 40 metri, per cui è un habitat perfetto per la crescita di pesce sano e dalle carni sode e prive di grassi in accumulo. Le specie principalmente coltivate sono quelle più ricercate dai consumatori: branzino, orata, spigola, ombrina bocca d’oro. Le gabbie di allevamento di branzini ed orate sono collocate in mare, dove il pesce è allevato nel massimo rispetto ambientale, per preservare al meglio le condizioni di vita naturale. Viene fornita un’ alimentazione che soddisfi i bisogni fisiologici dei pesci, i mangimi sono a base di farine di pesce ad elevato contenuto di acidi grassi polinsaturi ad alta digeribilità, e di farine di cereali non modificati geneticamente

(OGM<0,9%). Inoltre, l'importante integrazione di cibo naturale proveniente dal mare fornisce al prodotto finito il gusto autentico e naturale. La somministrazione di mangime, erogato con “cannoncini” mobili alloggiati su motobarche, è effettuata sempre secondo il foto-periodo naturale e in generali le condizioni di vita nei nostri allevamenti ci permettono di mantenere situazioni igieniche ottimali. Le densità medio-basse di pesce in gabbie fino a 2600 metri cubi di capacità, consentono ai pesci di muoversi liberamente e costantemente, con una migliore assimilazione del cibo ed utilizzazione dell’energia. In questo modo, viene preservata non solo la qualità del pesce, ma risulta

limitata anche l’insorgenza di malattie. Il moltiplicarsi di questo tipo di impianti lungo tutte le coste italiane ha risolto i problemi dei consumatori, che non volevano rinunciare a un cibo gustoso e dietetico, quelli dei ristoranti specializzati in prodotti ittici, e quelli dei pescatori, molti dei quali hanno potuto “riciclarsi” in queste colture, guadagnandoci in maggiore sicurezza sia dal punto di vista della loro incolumità fisica sia da quello puramente economico: allevando i pesci e assicurandone la riproduzione, la quantità di pescato si può mantenere costante o addirittura aumentare. Ma soprattutto ci ha guadagnato il Mediterraneo. Che ringrazia.

Baffi Marta

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Un pannello su ogni tetto Progetto “Un pannello su ogni tetto” promosso a pieni voti! L’Italia raggiunge l’obiettivo 20-20-20 prefissato dall’UE superandolo

Con il referendum del 2011 gli italiani hanno manifestato la forte volontà di bocciare la costruzione di centrali nucleari, con le quali il vigente piano energetico prevedeva di coprire una parte significativa del nostro fabbisogno e di limitare la dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili, sempre più cari e meno abbondanti. Preso atto di ciò, e visto che una totale dipendenza dal petrolio e dal gas naturale non è né economicamente, né politicamente sostenibile, - basta ricordare l’obbligo sancito dalla Direttiva Europea (il c.d. pacchetto clima-energia) di raggiungere entro il 2020 il 20% di energia da fonti rinnovabili, oltre alla riduzione del 20% delle emissioni, non restava che incentivare l’uso e la produzione da tali fonti. A partire dal 2010 in Italia, grazie alle energie rinnovabili - solare, eolica, geotermica, biomasse -sono stati prodotti 30 miliardi di kWh. Tali quantità sono facilmente incrementabili, considerando che l’Italia si trova nella zona meridionale dell’Europa e che le sue coste si sviluppano per 7458 Km, e che dunque è un paese ricco di sole e fortemente ventilato. Sono queste le nostre risorse naturali e sono esse quelle che noi dobbiamo utilizzare. Concentrare gli sforzi sull’energia solare è più promettente dal punto di vista

politico e ambientale. Infatti l’energia eolica, per altro sperimentata con successo in molte parti d’Europa e d’Italia, incontra ancora notevoli resistenze. Le torri eoliche hanno un’altezza che varia tra i sessanta e i cento metri ed eliche lunghe sino a trenta metri; vanno costruite in punti particolari del territorio, come i crinali montuosi o lungo le coste, dove la ventilazione è maggiore, ma esse hanno un pesante impatto sul paesaggio. Gli iper-tecnologici mulini a vento, che dovrebbero produrre energia elettrica alternativa, non inquinante, rinnovabile ed economica, costano moltissimo (da 1 a 2 miliardi delle vecchie lire ognuno, pagati da tutti noi sotto forma di incentivi a fondo perduto e finanziamenti facilitati), non avvantaggiano l'economia italiana, perché sono prodotti per lo più da grandi società del Nord Europa. Ulteriori svantaggi derivano dal rumore, dal gravissimo disturbo per gli uccelli migratori e per altri animali, e soprattutto da un gravissimo "inquinamento estetico". Inoltre un’analisi accurata delle potenzialità produttive delle varie fonti energetiche rinnovabili in l’Italia conduce alla conclusione che tra esse il solare fotovoltaico possiede il maggiore potenziale accessibile. Ai sensi dell’attuale normativa,

nel nostro paese lo stimolo principale a realizzare impianti fotovoltaici è attualmente rappresentato dagli incentivi ventennali del Conto Energia. Questo programma, lanciato nel 2005 e riconfermato con opportune modifiche nel 2007, prevede il riconoscimento di un valore monetario per la produzione da parte di privati di energia elettrica da fonte solare. In particolare, ciascun kWh prodotto viene premiato con una tariffa stabilita sulla base dell'impatto architettonico e delle dimensioni dell'impianto, tariffa che può variare da 35 a 47 centesimi di euro. A partire da questa data, grazie anche agli incentivi statali che arrivano a coprire fino al 50% del costo, gli impianti fotovoltaici si erano moltiplicati nel nostro paese, non in maniera sufficiente, però, da soddisfare gli obblighi previsti dalla citata Direttiva Europea e da compensare il venir meno delle migliaia di MW che sarebbero stati prodotti dalle centrali nucleari. Nel 2011, la grave crisi economica e finanziaria che portò la disoccupazione a livelli impressionanti (8,3%), fornì un secondo motivo per introdurre una nuova normativa che incentivasse la produzione di energia elettrica con il sistema fotovoltaico per produrre un effetto complessivo di stimolo che ciò sull’intero sistema

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economico nazionale. La normativa fu poi approvata nel 2012, e fece concentrare soprattutto gli sforzi sul settore fotovoltaico, ma non impedì il sostegno e l’incentivo anche per altre fonti. In particolare, tale misura si ispira alle iniziative già assunte da alcuni Enti locali, i quali stipulano accordi con società erogatrici di energia elettrica, in base ai quali le società in questione installano su case private pannelli solari, accollandosi il costo, ma godendo degli incentivi statali attualmente in vigore fino alla concorrenza del 50% di detto costo. Il rimanente investimento viene ammortizzato con il ricavato

dell’energia prodotta, che è di proprietà della società erogatrice. Il privato che ha concesso la superficie per l’installazione dei pannelli ottiene uno sconto del 50% del costo dell’energia elettrica consumata. Alla fine di un periodo di 20 anni (abbondantemente sufficiente per ammortizzare i costi di installazione e per rimunerare il capitale investito dalla società energetica) il privato diventa proprietario a tutti gli effetti dei pannelli e dell’energia da essi prodotta. Dai 730 MWp di energia prodotta tramite i fotovoltaici del 2009 si è passati a 4000 MWp del 2019 sorpassando anche la Germania (che

deteneva il primato) e raggiungendo, superandolo anche, il limite del 20% del totale dell’energia prodotta previsto dall’Unione Europea per quest’anno. Si può quindi dire che il progetto “Un pannello su ogni tetto” da noi ampiamente auspicato, sia stato un vero successo, che ha portato l’Italia a raggiungere un grande obiettivo mettendo assieme tanti piccoli sforzi compiuti da ognuno di noi e contribuendo a renderla un paese aperto alle innovazioni utili per assicurare un futuro migliore ai nostri giovani sia in termini ambientali, sia in quelli economici.

Colombi Cristian

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Coordinatore

Maria Grazia Lanzafame

Redazione

Colombi Cristian

Baffi Marta

Carolei Giulia

Stile e Grafica a cura di Colombi Cristian

© 2012, I.T.C.S. Guglielmo Oberdan – Treviglio (BG)

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