Londra, agosto 2010
tre spettacoli: notizie, citazioni, immagini, racconto senza pretese
il tutto assemblato da Paolo M. Albani
Ogni tanto - e, tutto sommato, abbastanza spesso - ho l'occasione di passare una set-
timana o due a Londra e di assistere a qualche spettacolo teatrale. Il bello è che anche in agosto la stagione è comunque nel suo vivo; anzi, non si può forse neanche afferma-re che ci sia una stagione perché il teatro lí, è il caso di dirlo, è sempre di scena. L'ami-
co che mi ospita (ci conosciamo da sessantacinque anni!) si premura sempre di procura-re i biglietti o suggerendo lui direttamente o, come quest'estate, lasciandomi scegliere
tra una rosa di spettacoli. A giugno, una sua e.mail mi proponeva:
I seguenti cinque lavori di Shakespeare al Globe Theatre:
Merry wives of Windsor Anne Boleyn Henry VIII Henry IV first part Henry IV second part
E poi anche questi altri due all'old Vic:
As you like it The tempest
E anche - non c'è solo Shakespeare:
Danton`s death di George Büchner (Olivier Th) The Habit of Art di Alan Bennet (Lyttleton Th) Enron di Lucy Prebble (Coward Th) Educating Rita di Willy Russell (Trafalgar Studios)
La scelta non è stata immediata, e poi non ero al corrente dei particolari allestimenti. Però la Danton's death mi ha interessato subito perché di Büchner conoscevo solo il Woyzeck, sul quale ho anche lavorato in piú di una didattica della visione; e entrare in
contatto con il primo lavoro dell'autore, giovanissimo già per il Woyzeck ma piú ancora per questo Danton, era un dovere (e un piacere, naturalmente).
Al Globe non ero mai stato (anche se conosco bene e ho spesso frequentato il Globe di Proietti, a Roma); dunque, viste le tante proposte per quel luogo storico (ma in realtà
ricostruito da una dozzina d'anni), si trattava solo di scegliere. Dico la verità, gli Enrichi e la Bolena non mi attiravano molto perché avevo paura della lunga durata e della mia
sofferenza sulla dura panca senza schienale. E poi non li conosco bene tanto da potermi permettere l'edizione in inglese. Tutt'altro discorso, è ovvio, per le Merry Wives (anche se la panca sarebbe stata comunque dura). A Roma avrei voluto vedere i Gentiluomini
di Verona, ma sono stato trattenuto dal caldo: il caldo mi piace, ma l'interno del Globe di Villa Borghese diventa infocato e l'ultima volta che ci sono stato mancava poco mi
sentissi male. Ma questo pericolo a Londra non c'è, al contrario! basta provvedersi di un buon maglione e sperare che non piova...
E poi la Tempesta. Vista una volta, due, non so quante; fattane una didattica... perché no vederne ancora un'altra edizione?
il Tamigi e, sulla riva, a destra, il complesso degli edifici del National Theatre
L'Olivier Theatre, uno dei tre del complesso del National Theatre, è una meraviglia. La sala, che arriva a contenere mille e cento persone (e quella sera era piena) è strutturata del tutto ad amfiteatro con due livelli principali di notevole pendenza che assicurano vi-
suale perfetta da qualunque posizione e permettono all'attore di avere il contatto diretto con tutto il pubblico, con ogni spettatore.
L'altra meraviglia di questo teatro è il drum revolve che sarebbe troppo limitante (e ine-satto nella traduzione) intendere come tamburo rotante perché non consiste solo nel
meccanismo che fa rotare tutto il palco, non inusua-le, ma anche nel dispositivo che lo fa scendere e sa-
lire, e ribaltare (sarei portato a dire tamburo rivol-vente), consentendo in pochi secondi cambiamenti di scena favolosi e di straordinario effetto (vedi le
foto qui vicino e sotto). Il plafond di questo teatro è altissimo, e spesso la scena si avvale di tale altezza
distribuendo la recitazione a diversi livelli - non gra-tuitamente, ma come mezzo espressivo molto effi-cace (come proprio in Danton's death).
Le immagini che inserisco rendono solo in maniera limitata la struttura della sala dell'O-
livier, purtroppo. Intanto questa,
ma la seconda rende meglio l'idea complessiva:
La terza immagine sono riuscito a estrarla da un video in cui parla il direttore del teatro:
Nel video, Nick Hytner dice, con semplicità e in maniera assai incisiva, che l'amfiteatro, - nonostante l'esistenza di teatri d'altro impianto e nei quali si sono rappresentati lavori
di eccelsa levatura come, ad esempio, i classici inglesi - l'amfiteatro rimane il paradigma del teatro pubblico. Se si vogliono raccontare storie, esplorare mondi che includano il
pubblico, se si vuole che il pubblico partecipi all'esperienza e non sia solo osservatore,
allora l'amfiteatro è il posto meraviglioso ed eccitante dove trovarsi. E tutti i grandi ca-polavori degli ultimi quattrocento anni - e naturalmente i classici greci - nell'amfiteatro
rivelano di sé cose che altrimenti non sarebbero venute fuori, perché qui il pubblico è una parte visibile, tangibile dell'esperienza. (mia traduzione ad sensum)
Letto qualcosa sulla Danton's death, sfogliato il testo - proprio quello ridotto per la rap-presentazione, stampato e distribuito all'inizio della produzione tra giugno e luglio 2010
- ho fatto un giro per vedere recensioni e commenti. Intanto, la locandina:
Danton’s Death
by Georg Büchner adapted by Howard Brenton
National Theatre
Directed by Michael Grandage Designer - Christopher Oram
Lighting Designer - Paule Constable Music and Sound - Adam Cork
Cast: David Beames - Gen. Billon
Max Bennett - Hérault-Seychelles
Stefano Braschi - Citizen
Kirsty Bushell - Julie
Jason Cheater - Citizen
Judith Coke - Duplay
Emmanuella Cole - Citizen
Ilan Goodman - Lyonnais
Taylor James - Citizen
Michael Jenn - Herman
Phillip Joseph - Barrere
Barnaby Kay (as Camille Desmoulins) - Camille
Gwilym Lee - Lacroix
Elliot Levey - as Robespierre
Eleanor Matsuura - Marion
Elizabeth Nestor - Elizabeth
Alec Newman - as Saint-Just
Chu Omambala - Collot d;Herbois
Rebecca O’Mara - Lucile
Rebecca Scroggs - Eleonore
David Smith - David Smith
Toby Stephens - Danton
Jonathan Warde - Citizen
Ashley Zhangazha - Legendre
L'immagine precedente spero renda conto, almeno un po', dell'ideazione cromatica
dell'intero spettacolo che viaggia sempre sui toni del marrone rossastro e gioca con sa-pienti fasci di luce.
Nel sito "Permanent Revolution" trovo, tra l'altro: certamente non è un lavoro facile da portare avanti; di certo fu scritto piú per la lettura che per la rappresentazione. Tuttavia
Howard Brenton e il regista Michael Grandage hanno ridotto il testo in modo da poterlo rappresentare in meno di due ore senza intervallo, e questo permette di lasciar crescere
la tensione senza interruzione. Sono andato a vedere lo spettacolo con molta curiosità e con qualche prevenzione. Sulla
scena non amo le dichiarazioni esplicite del pensiero politico - né d'altra natura - e quel poco che avevo letto mi faceva pensare, a ragione, a frequenti momenti di espressione
verbale diretta del pensiero dei rivoluzionari, a denunce, accuse, giudizi... Altra cosa è il Woyzeck! Sono comunque andato con molta curiosità sia perché il testo, in ogni caso, è di Büchner, dunque di tutto rispetto; sia perché volevo conoscere la riduzione, l'allesti-
mento, l'ambientazione nello specifico teatro.
Dalla platea, non un fiato. L'azione prendeva, cattu-rava nonostante la recitazione quasi sempre sopra
le righe, gridata e monotona. Quello che avvinceva (me, intendo, ma di certo anche il resto del pubbli-co) era l'agogica della regia per cui i quadri si suc-
cedevano l'uno quasi dentro l'altro con cambi di scena minimi (minimi oggetti di scenografia) fatti a
vista e con frequenti richieste di spostamento dello sguardo dello spettatore perché spesso l'azione si trasferiva su di un ballatoio metri e metri piú in alto
del piano scenico. In tali casi, immobilità degli attori non impegnati nel momento e, su di loro, illumina-
zione leggerissima, non buio. Tutti i giochi di luce (fasci di raggi provenienti dal ballatoio, dalle fine-stre, variazioni d'intensità, monocromia) molto im-
pressivi e densi di significato drammaturgico.
Evidentemente una stretta e intelligente collabora-zione tra regia, scenografia e progetto luci; e que-sto è di sicuro il gran pregio dello spettacolo. Gra-
tuite e di cattivo gusto, al contrario, le esecuzioni finali con una realistica ghigliottina e con il gioco di
prestigio che faceva vedere quattro teste rotolar giú una dopo l'altra.
Ecco la recensione di Michael Billington, del Guardian:
Questa, nella storia del National, è la terza produzione del capolavoro di Büchner del 1835, scritto a soli 21 anni. Ma anche se Michael Grandage, al suo debutto al National, dimostra sicura padronanza del palcoscenico, si sente la mancanza della forza epica del-
la produzione di Peter Gill del 1982. Come Gill, Grandage usa una traduzione di Howard Brenton: la variante è che Brenton ha eliminato importanti scene di massa per darci una
commedia da camera di un paio d'ore.
Il valore del Büchner originale sta nel fatto che esso offre un ritratto della società. Cen-trando l'osservazione sul 1794, l'anno del terrore della rivoluzione francese, il lavoro si
basa sull'idea che "l'individuo non è altro che spuma sull'onda" e collega l'anarchia sulle
strade con la diffusa sete politica di sangue. Escludendo le masse, questa versione im-poverisce la tessitura drammatica e trasforma il lavoro in uno studio di caratteri; uno
studio in cui il sensuale Danton, ossessionato dalla morte, stranamente passivo, con-fronta un Robespierre represso e pavido, che agisce senza rimorsi. Questa è una parte essenziale del lavoro di Büchner, ma concentrare l'attenzione esclusivamente su questo
elemento significa perdere di vista un aspetto piú generale, e cioè che costoro sono an-che marionette della storia.
Anche se diluita, questa produzione presenta alcuni punti di raffinata psicologia, e la sua principale rivelazione è che Robespierre è una figura tragica. Impersonato in modo ec-
cellente da Elliot Levey, egli diventa un uomo che nasconde il fallimento della sua vita privata sotto una maschera di pubblica veemenza. Invece del solito fanatico dagli occhi
d'acciaio, Levey ci regala un uomo che istintivamente si ritrae quando Danton lo tocca, che è cosciente della propria solitudine e si persuade di essere alla guida di una rivolu-zione morale, oltre che sociale. Quando egli grida “il vizio va punito, la virtú deve regna-
re con il terrore” egli crea una maschera per la sua insicurezza.
Danton è il ruolo piú fortemente scenico e Toby Stephen lo riempie del suo carisma por-tando in evidenza la contraddizione fondamentale del personaggio, che cerca di sfidare
la morte e allo stesso tempo di arrendersi ad essa. Un momento egli arringa nel tribuna-le rivoluzionario, il momento successivo sostiene che la vita è un peso. Stephens sotto-linea anche la personale responsabilità di Danton nel massacro del settembre 1792. Ma
mentre Stephens impersona in modo magistrale l'aspetto antieroico di Danton, nell'uo-mo che Carlyle chiamò il "Titano della Rivoluzione" c'è una perversa grandeur che in
qualche misura a Stephens sfugge. Da ammirare anche il modo in cui il Saint Just di Alec Newman emerge come il vero a-
gente del Terrore. L'allestimento scenico di Christopher Oram, a due livelli, con i lunghi finestroni perpendicolari, richiama l'aspetto minaccioso degli spazi pubblici dei tribunali.
E sia le luci di Paule Constable, sia il sound di Adam Corck contribuiscono a creare l'a-spettativa di un finale tragico. Ma il punto fondamentale è che il dramma di Büchner vuole sottolineare il "terribile fatalismo della storia", mentre questa produzione, perfet-
tamente rispettabile, è piú incentrata sul confronto di temperamenti opposti.
Delle mie impressioni negative ho trovato un parallelo in alcuni commenti trovati in rete
e che riporto qui direttamente, commenti che, peraltro, in alcuni punti sono in completo disaccordo con le mie impressioni:
Le pose e la recitazione continuamente strillata di tutto il cast sono state molto irritanti. Non il livello che ci si aspetta dal National. - Penso che se questo fosse stato un nuovo
lavoro mai avrebbe potuto vedere la luce del giorno. - Ho riso rumorosamente alla sce-na della ghigliottina. Anche se ho pensato che si trattasse di un trucco ingegnoso, io mi
aspetto di piú dal teatro, specie dal National. - Non avrei dovuto ridere. – Avrei dovuto aver rispetto per quella gente. – Avrei dovuto commuovermi.
Questa è stata una produzione terribile di una terribile versione di un magnifico lavoro. La direzione è stata a dir poco fiacca; la maggior parte del cast è stata scelta in modo
sbagliato e di gran lunga troppo giovane per i ruoli assegnati; Stephens non ha avuto sufficiente controllo, non è stato sensuale ma lascivo, non oppresso ma oppressivo, spruzzando un'orgia di esagerata recitazione che non contribuiva affatto alla chiarezza;
Levey, la sola nota del tutto falsa nell'originale Habit of Art [l'altro lavoro in scena nel complesso del National] è stato un campione di pretenziosa, esagerata e presuntuosa
"recitazione". Non sono state due serate da ricordare. Dovrebbero essere molto, molto
migliori.
L'allestimento scenografico è stato privo di suggestione [be', non direi proprio] e non ta-le da sostenere o arricchire la pièce. Le esecuzioni con la ghigliottina, peraltro sono sta-
te realizzate alla perfezione.
Credo che il National sia una istituzione magnifica e che il suo lavoro sia di grande im-portanza. After the Dance, attualmente in scena in contemporanea con Danton's Death,
è una vera delizia sotto ogni aspetto. Ma quando il National fa un passo falso, non dob-biamo aver paura di dirlo.
Qualche sera dopo siamo andati a vedere The Tempest.
La tempesta si dava all'Old Vic in alternanza con As You Like It. L'Old Vic è un teatro del primo Ottocento che ha una sua storia e ha ospitato registi e attori di fama non indiffe-rente. L'immagine di sinistra è un'incisione antica; l'altra l'ho ripresa io stesso prima di
entrare.
Dalle non poche immagini della storia dell'Old Vic mi piace riportare quella di un giovane Alec Guinnes, in un Amleto che avrei voluto vedere, e quella del famoso attore inglese John Gielgud. Di quest'ultimo ho la fortuna di possedere due piccole registrazioni tra le
quali la famosa "we are such a stuff dreams are made on" di cui, in genere non si ricor-da l'immediato seguito: "and our little life is rounded with a sleep".
La rappresentazione che ho visto mi ha fat-to rimpiangere non solo John Gielgud ma
anche il nostro bravissimo Tino Carraro con la direzione di Strehler. L'allestimento
dell'Old Vic è stato un tentativo di creare modalità nuove ma oramai già stereotipate e, spero, prossime a cadere in disuso. Gra-
tuiti personaggi in abiti comuni o in divise tipo ammiraglio, uno dei quali a un certo
punto si fuma una mezza sigaretta; mesco-lanza di accenti inglesi e americani intesa -
stando alle recensioni - come qualcosa di voluto e ricercato; voci spesso evanescenti e
quasi inaudibili... il monologo di Prospero, sprecato e disperso in diversi punti del palco. L'effetto complessivo era di una mancanza totale di logica drammaturgica ed estetica,
come se al regista o agli attori ogni tanto fosse venuto in mente: fàmolo strano! Ora, chiedendo scusa per questo sfogo, riporto locandina, recensioni e commenti.
Riporto integralmente la presentazione dell'Evening Standard: Un evento teatrale significativo
Evening Standard [on The Bridge Project 2009]
La primavera scorsa The Bridge Project ha aper-to la sua prima stagione con un complesso no-tevole di attori inglesi e americani. La compa-
gnia, elogiata dalla critica, guidata dal regista Sam Mendes vincitore dell’Oliver and Academy
Award, si era impegnata in un tour mondiale. E aveva dato spettacoli a teatri esauriti in città di tutto il mondo, incluse New York, Singapore,
Madrid, Auckland, Recklinghausen, Epidauro e qui, all’Old Vic.
Il secondo anno del Bridge Project promette un’altra parata di grandi attori americani e inglesi e l’accoppiamento inaspettato di due famosi classici di Shakespeare, As You Like
It e The Tempest.
The Bridge Project apre con la commedia pastorale As You Like It: una storia, piena di spirito e arguzia, di fratelli avidi di potere, di ragazze travestite da uomo, di innamorati
in esilio e di buffoneria, che unisce risate di cuore e momenti di magia. The Tempest costituisce la seconda parte del programma: un racconto affascinante di
naufragi e magia, di amori perduti e ritrovati. Questa commedia sentimentale di libertà, amicizia, pentimento e perdono è da molti considerata l’ultimo dramma di Shakespeare.
Sam Mendes è stato il fondatore e per dieci anni il direttore artistico del Donmar Ware-house e ha fatto regie teatrali alla RSC, al National Theatre, nonché nel West End e a
Broadway. I suoi lavori cinematografici includono American Beauty, Road to Perdition e recentemente Away We Go.
Ashlie Atkinson
Jenni Barber
Michelle Beck
Edward Bennett
Christian Camargo
Stephen Dillane
Alvin Epstein
Richard Hansell
Ron Cephas Jones
Aaron Krohn
Jonathan Lincoln Fried
Anthony O'Donnell
Juliet Rylance
Thomas Sadoski
Michael Thomas
Ross Waiton
Musicians - Stephen Bentley-Klein
Shane Shanahan
Set Designer - Tom Piper
Costume Designer - Catherine Zuber
Lighting - Paul Pyant
Sound - Simon Baker
Music - Mark Bennett
Music Director - Stephen Bentley-Klein
Choreography - Josh Prince
Casting - Maggie Lunn & Nancy Piccione
Director - Sam Mendes
Come si vede, non si fa cenno del particolare allestimento e tutto l'interesse sembra
centrarsi sul fatto che si tratta di un world tour e sull'alternanza delle rappresentazioni delle due commedie.
Su The Stage il 24 giugno 2010 Gerald Berkowitz scrive (le sottolineature sono mie):
The Tempest in questa edizione dell’anglo-americano The Bridge Project è, come l’As You Like It che l’accompagna, piacevolmente priva di interpretazioni o forzature della
regia, ma il prezzo di questo sollievo è una certa inconsistenza e mancanza di energia. Va a merito del regista Sam Mendes e del suo cast il fatto che non distorcano il pensiero
di Shakespeare, ma non fanno nemmeno molto per esaltare la visione dell’autore.
Su una scena essenzialmente nuda marcata quasi solo da un cerchio magico, il Prospero di Stephen Dillane che mormora trasognato e distratto sembra esausto dopo i dodici anni passati sull’isola. Pare che debba pescare nelle sue ultime riserve di energia per
compiere la sua ultima magia, e sembra incapace di mostrare almeno un po’ di emozio-ne, sia di piacere per l’amore di Miranda e Ferdinando, sia di ira contro Calibano o i suoi
antichi nemici.
Intanto l’Ariele di Christian Camargo, dopo un primo rabbioso slancio per reclamare la sua libertà, appare sempre annoiato e distratto, come se stesse facendo la sua giornata di fatica in attesa della fine del turno.
Un personaggio per il quale ci sarebbe davvero bisogno di un'interpretazione chiara è
Calibano, ma Ron Cephas Jones non fa di lui né un mostro né una vittima oppressa dal colonialismo di Prospero, e l'attore si limita a trascinarsi durante lo spettacolo lasciando davvero un'impressione quasi nulla [mentre a me è sembrato l'unico personaggio intel-
ligentemente realizzato].
Juliet Rylance e Edward Bennet sono abbastanza attraenti nelle parti degli innamorati, anche se nessuno dei due si rivela capace di dare una caratterizzazione che vada oltre il generico; i cortigiani sono anonimi quanto e piú del solito, e nonostante gli onesti sforzi
di Thomas Sadoski e Anthony O'Donnell, Stefano e Trinculo restano i clowns meno di-vertenti mai visti.
Quanto afferma Philip Fisher in The British Theatre Guide all'inizio della sua recensione fotografa bene la mia sensazione complessiva:
La regia di Sam Mendes è costruita su una serie di quadri a volte spettacolari che non giunge necessariamente a rendere il tutto piú grande delle parti.
L'interprete maschile per una parte
scritta per donna, o viceversa, non solo non mi scandalizza piú di tanto
ma, spesso, mi incuriosisce molto e va benissimo. La questione qui è che la parte di Ariel (che naturalmente
non è né uomo né donna) è interpre-tata da un uomo che non mostra mi-
nimamente il carattere di spirito d'a-ria del personaggio; non riesce a dir-ci nulla, è uno strano fantoccio che
svilisce la creazione straordinaria di Shakespeare, contribuisce ad annullare l'atmosfera
incantata che dovrebbe sempre essere presente - leggera ma presente - anche nei mo-menti piú duri, o piú profondi, o comici della commedia. E dico contribuisce perché già
tutto congiura ad appesantire e a rendere noiosa l'intera rappresentazione. Non sono un laudator temporis acti, anzi! né sospiro sempre per Rina Morelli e Paolo Stoppa, ma se possibile,
date uno sguardo all'Ariel di Giulia Lazzarini nell'allestimento di Strehler.
E - ultimo commento negativo - a questo si ag-giunge una Miranda che ha piú del doppio dell'e-tà del personaggio... Dunque, una giovane don-
na di una trentina d'anni; ma questo cosa ha a che fare con Miranda?
Per divertirsi, o per trovare sostegno a tutti i miei commenti negativi, basta girare un
po' in rete dove ci sono parole ben piú dure delle mie, e piú circostanziate. Non posso fare a meno di inserire ancora questo ben elaborato - e durissimo - commento:
Stephen Dillane, che interpreta Prospero, è stato francamente criticato dalla stampa per la sua mancanza di intensità in As You Like It, ma - nella Tempesta - è riuscito a miglio-
rare di qualche punto a questo riguardo, solo però fino a circa una mezz'ora prima della fine, quando decide di introdurre un po' di varietà nella sua prestazione piuttosto scial-
ba, mettendosi a giocare con il livello della voce:
We. Are. Such. Things. As. Dreams. Are. Made On. And.
Our. Little. Life. Is. Rounded. Off. With. A. Sleep
E questo dà l'impressione che nell'ultimo atto il tecnico del suono, nella sua piccola ca-bina, si metta a pasticciare con la manopola girandola a destra e a sinistra e poi ancora
a destra, per evitare di addormentarsi per sovraccarico di discorsi ipnotici.
L'ho preso dal sito:
http://notthewestendwhingers.blogspot.com/
andate a vedere cos'altro dice!
Farei, però, anche qualche critica al critico. Non sono stato in grado, alla rappresenta-zione, di capire bene le parole di Prospero, e quindi può darsi che Mendes abbia utilizza-
to una vulgata in cui invece di such stuff si trovi such things. Ma quell'Off da dove è scappato fuori? L'edizione oxoniana riporta esattamente: We are such stuff dreams are
made on and our little life is rounded with a sleep. In italiano, naturalmente, ci sono pa-recchie versioni. Io, anche se con qualche dubbio residuo, preferisco quella che dice: Noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni e la nostra piccola vita è avvolta
nel sonno.
Pochi giorni dopo ci siamo rifatti ampiamente con The Merry Wives of Windsor.
L'intera serata dedicata al Globe è stata piena di sorprese e godibilissima. Siamo arrivati
alquanto prima delle sette (l'orario dello spettacolo era 7.30 pm) e la sala (ma si può di-re la sala per il Globe?) apriva alle sette in punto. Sul lungotamigi, di fronte al cancello
del teatro, mi sorbivo una coca mentre con l'amico che mi accompagnava cercavamo di ricordare quale fosse la data dell'ultima ricostruzione, dopo gli incendi e le chiusure del Seicento (nel 1644 fu fatto chiudere su pressione dei Puritani!). L'attuale Globe è del
1997, dunque giovanissimo.
Quest'immagine mostra parte della struttura del Globe, ma non ne può rendere l'atmo-
sfera festosa e allegra di quando c'è il pubblico per una rappresentazione. Intanto posso dire che le zone che circondano l'edificio propriamente del teatro, fanno pensare a tutt'altro: un ampio bar (dove anche si mangia), un mercatino, un bazar... Un'allegra
confusione di persone, di tanta gente che, in attesa dell'ora di ingresso, beve, chiacchie-ra, compra qualcosa... Si munisce di cuscini e di schienali, molto necessari.
Queste immagini, dànno un po' l'idea? Giriamo per un po', curiosiamo, ci muniamo di
schienali (benedetti!). Alle sette entriamo, io con la mia coca ancora non finita nascosta in un tascone perché non so se è permesso portarla dentro: in un teatro, io non vorrei
davvero bottiglie e bottigliette. Entriamo, troviamo il nostro posto, comodo, installiamo gli schienali e facciamo un po' di pratica per abituarci. Ma vanno bene. Intanto lo spazio si riempie, sia nei posti a sedere dei diversi ordini, sia per i posti in piedi in platea. La
platea è interrotta da una passerella, e il pubblico sta tra i posti a sedere e la passerella, ma anche tra questa e il palco vero e proprio. Tanta gente. I posti a sedere sono tutti
occupati, la gente in platea è fitta fitta. L'altoparlante avverte di non fare foto durante lo spettacolo - ma prima è permesso, e ne approfitto. Però la foto seguente non è mia:
La preoccupazione per la coca è inutile: molti entrano con bottiglie e bottigliette, e altro. Mentre una cosa del genere in un teatro normale sarebbe stata inammissibile, qui è in linea con il contesto: partecipazione di popolo, aspettativa, allegria... E per chi sta in
platea, in piedi, ammassato, un piccolo conforto va previsto. Le dimensioni sono diver-se, l'occasione è proprio tutt'altra, ma mi vien fatto di pensare al Palio di Siena. Di sicu-
ro il pubblico, per allegro e variegato che sia, è molto disciplinato; e tuttavia mi pare di vivere per un momento al tempo del Globe originale, quando si entrava in platea pa-gando un penny che veniva raccolto in una scatoletta, e pagando ulteriormente per ac-
cedere alle gallerie. Anche oggi, credo, il pubblico della platea paga qualcosa di quasi simbolico, forse una o due sterline (no, mi sono informato: cinque). Tanto che alcuni ar-
rivano parecchio dopo l'inizio, entrano (in platea), stanno un quarto d'ora, venti minuti e poi riescono. Tutto questo, con mia sorpresa, non dà nessun fastidio. E' come fosse po-co piú di una rappresentazione di strada, dove si passa, si guarda per un po', poi si va
via.
Alle sette e mezzo entrano i musicanti, in costume, con strumenti d'epoca; intrattengo-
no il pubblico per un po' e creano la necessaria concentrazione perché si dia inizio allo spettacolo vero e proprio. Salgono sulla passerella, e solo dopo un po' andranno in una
zona sopraelevata del palco dove rimarranno per accompagnare l'azione. Dunque musi-ca, e musica dal vivo; musica dal vivo e strumenti d'epoca; e musiche elisabettiane molte delle quali riconoscibili (es. Greensleeves).
La presenza della musica in presa di-
retta mi rallegra molto, mi dà perfet-tamente l'idea che stiamo rivivendo qualcosa del lontano passato e che
cosí di quel passato possiamo riuscire a conoscere qualcosa, almeno una co-
sa bella. Noto anche che non ci sono luci che illuminino il palco. E' ancora giorno e la luce naturale durerà alme-
no un'altra ora. Man mano che la luce naturale svanisce, si accende un piaz-
zato bianco leggero e non si avverte soluzione di continuità. Bello saperle
fare, certe cose!
Sulla passerella c'è ancora altro da di-re perché la sua zona centrale è ba-
sculante, si ribalta, cioè, con grande sorpresa degli spettatori che non se lo aspettava-no, e rivela un piccolo giardino (vai a vedere la foto con le due dame, piú avanti).
Non passa molto tempo e la scena si anima di personaggi, dei loro costumi, delle loro
voci. Continui momenti di ilarità cui io mi associo per simpatia anche quando non riesco a decifrare la battuta. Mi piacerebbe comprendere tutto esattamente, ma non importa, davvero non importa.
Mi accorgo che mi sono messo a
parlare e che non ho ancora presentato neanche uno strac-cio di locandina. Vado in rete
per trovarla, e naturalmente mi soffermo su questo e su quel si-
to, seguo questo o quel link, passo da un argomento a un al-tre... ma è bello, perché è un
momento in cui si allargano le conoscenze e non ci si limita a
quello strettamente basterebbe per il lavoro che si vuole fare. Guaio, però, che passano le o-
re!
Qui appresso, dunque, la locan-dina dello spettacolo (spettacolo che è una ripresa dell'edizione del 2008). Ci sarebbe da fermarsi su molti degli interpre-
ti, che sono tutti di elevatissima qualità, che sanno giocare bene (non vuole essere un anglicismo), e sull'équipe dei creatori; ma pazienza, non si può fare tutto quanto si vor-
rebbe.
Tuttavia, mi piace mostrare le immagi-
ni, almeno, delle due signore concupite - con duplice scopo - da Falstaff: brave, vive e vivaci, ricche nel movimento e
nell'espressione, un piacere grande guardarle.
Nella foto accanto si può notare il giar-dinetto sorto per incanto dalla passerel-
la ribaltata.
E poi, naturalmente, Falstaff stesso comicissimo sia quando entra nella ce-
sta che poi sarà gettata nel Tamigi, sia - soprattutto - quando ne esce. Però l'unica im-
magine che sono riuscito a trovare è questa (ver-so la fine dello spettacolo):
In alcuni siti, la, soprattutto in questo allestimen-to, è paragonata alle attuali sit-comedies, sia in-tendendola come precursore, sia sottolineando la
particolare regia che porta, appunto e per alcuni, a questa considerazione. Ma non è tanto quello
che accade - che pure è rilevante - quanto come tutto il lavoro è stato creato (e intendo sia Sha-kespeare, sia Luscombe), con eleganza anche nei
momenti piú triviali (ritrarre con arte la volgarità, è tutt'altro che volgare), con eleganza nell'intrec-
cio delle linee di sviluppo, con eleganza nella re-citazione di tutti.
Ho trovato anche un accenno al musical tratto
dalla commedia, di cui però non so nulla. I musical, a mio avviso, concedono troppo alle
mode del momento, sia nella musica, sia nel can-to, sia in genere in tutto l'allestimento. Per que-sto non sono di mio gusto. I capolavori d'altri
tempi, o vengono riportati con la classe di questa messa in scena, o - perché no? - pos-
Directed by Christopher Luscombe
Designed by Janet Bird
Composed by Nigel Hess
Cast
Nathan Amzi Simple
Gareth Armstrong Evans
William Belchambers Slender
Christopher Benjamin Falstaff
Philip Bird Dr Caius
Ceri-Lyn Cissone Anne Page
Barnaby Edwards Rugby
Serena Evans Mistress Page
Peter Gale Shallow
Michael Garner Page
Gregory Gudgeon Nym
Andrew Havill Ford
Gerard McCarthy Fenton
Jonty Stephens Host
Sue Wallace Mistress Quickly
Paul Woodson Pistol
Sarah Woodward Mistress Ford
Musicians: William Lyons, Paul Bevan, Robin
Jeffrey, Sharon Lindo, Neil Rowland
Running time: 2 h 45 min including an interval
sono venire trasformati, elaborati diversamente, frammentati e quant'altro. Se questo è
fatto davvero con arte, perché no. Se è fatto come per The Tempest di Sam Mendes, facciamone a meno. Si veda invece il Falstaff di Verdi, e se ne apprezzi la sublime ele-
ganza (almeno per regie consapevoli). Sto per concludere. Aggiungo solo un estratto delle recensioni, tutte positive, mi sem-
bra.
Una commedia che scalda davvero il cuore, piena da scoppiare di belle risate (The Ti-mes)
Il "Globe" ha un successo tra le mani (The Guardian)
Davvero divertente. Deliziosamente fantasiosa (The Independent) Christopher Benjamin è un Falstaff perfetto (Daily Mail)
La messa in scena firmata da Christopher Luscombe della piú leggera commedia di Sha-
kespeare ha ritmo, finezza, magnifici costumi elisabettiani e gags esilaranti (Sunday)
Il successo della stagione che lascia davvero soddisfatti. Christopher Luscombe dirige una produzione solare, divertente e davvero sentita, con l'eccellente scenografia di Ja-net Bird (Daily Telgraph)
La regia di Christopher Luscombe trabocca di umanità, ingegnosità e fascino irresistibile,
e vanta un Falstaff magnifico in Cristopher Benjamin. Serena Evans e Sarah Woodward costituiscono un duo tra i piú divertenti mai visti sulla scena. Non semplice teatro, ma il teatro al suo massimo (Sunday Telegraph)
Scintillante. Christopher Benjamin ci dà una prestazione magistrale. Andrew Havill è un
Ford eccellente. Il "Globe" al suo massimo (The Sunday Times) Il migliore e il piú immediato lavoro che io abbia mai visto al "Globe". Allegria scatenata
(Evening Standard)
Una settimana di teatro, con la scoperta del bellissimo Olivier e delle caratteristiche po-sitive dell'ideazione e della strutturazione di quella particolare messa in scena del Dan-ton's Death, sia pure con la grande sofferenza per la recitazione; con una Tempest da
dimenticare, ma proprio per questo interessante e che fa parte della mia avventura tea-trale della settimana di Ferragosto; con la stupenda, geniale, indimenticabile messa in
scena delle Merry Wives. Sono pronto per la stagione romana.
L'ultima considerazione è che la cultura del teatro che si vive in Inghilterra, c'è poco da
fare, non si ritrova neanche nelle altre capitali che di cultura in genere ne hanno da vendere. Se a Roma durante l'estate tutti i teatri sono chiusi, se ne può anche dare la colpa al clima caldo (però, a onor del vero, il Globe di Roma funziona, e bene); ma Pari-
gi e Berlino non hanno scuse, da questo punto di vista. A Parigi come a Berlino nei miei recenti viaggi estivi ho avuto difficoltà a reperire qualcosa in scena; a Londra tantissima
offerta, di classico e di leggero, in genere di notevole qualità, e teatri colmi, tutto sold-out.
Con un ultimo sguardo al Globe, esco anche io di scena. Paolo M. Albani [email protected]
_______________________________________________________________________ le traduzioni di recensione e commenti per Danton's Death sono di Corrado de Novellis le traduzioni per The Tempest e per le Merry Wives sono di Roberto Bannella