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L’oro di Napoli - Aspen Institute Italia · piena di soldi e di benessere. ... che poggia su due...

Date post: 17-Feb-2019
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304 16. L’oro di Napoli la sorpresa di goethe «Vedi Napoli e poi muori». L’antico detto ha stregato visita- tori illustri, come Goethe, che arrivò qui alla fine di febbraio del 1787 e trovò una città piena di allegria, di libertà, di vita: «Il re va a caccia e la regina è in attesa del lieto evento, meglio di così non potrebbe andare», scrisse nel suo diario di viaggio. Venendo da Roma, di fronte a quella città incantevole il fran- cofortese lanciò un paragone fatale: «Confrontata con questa grande apertura di cielo, la capitale del mondo nella bassura del Tevere appare come un vecchio convento in posizione sfavore- vole». E invece Napoli, larga, aperta, magnifica, distesa come un anfiteatro sul suo golfo, col Vesuvio fumante sullo sfondo e le isole che brillavano come stelle senza tempo tutto intorno, era la città dei sogni, del mito, dell’antico sempiterno. Goethe aveva trentott’anni, era nel pieno delle sue forze e ne fu conquistato. Vagò per giorni fra le piazze e le strade di quella che il suo tempo considerava la più bella metropoli del Medi- terraneo, la più grande città marittima dell’Europa. Andò su e già lungo la riviera di Chiaia, che allora era il nuovo quartiere chic della città, godendosi la luna piena a Mergellina, sognando sugli scogli della Gaiola, beandosi nella sensazione di infiniti spazi e cieli aperti. A Roma tutto è estremamente serio, scrisse
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16.

L’oro di Napoli

la sorpresa di goethe

«Vedi Napoli e poi muori». L’antico detto ha stregato visita-tori illustri, come Goethe, che arrivò qui alla fine di febbraio del 1787 e trovò una città piena di allegria, di libertà, di vita: «Il re va a caccia e la regina è in attesa del lieto evento, meglio di così non potrebbe andare», scrisse nel suo diario di viaggio. Venendo da Roma, di fronte a quella città incantevole il fran-cofortese lanciò un paragone fatale: «Confrontata con questa grande apertura di cielo, la capitale del mondo nella bassura del Tevere appare come un vecchio convento in posizione sfavore-vole». E invece Napoli, larga, aperta, magnifica, distesa come un anfiteatro sul suo golfo, col Vesuvio fumante sullo sfondo e le isole che brillavano come stelle senza tempo tutto intorno, era la città dei sogni, del mito, dell’antico sempiterno.

Goethe aveva trentott’anni, era nel pieno delle sue forze e ne fu conquistato. Vagò per giorni fra le piazze e le strade di quella che il suo tempo considerava la più bella metropoli del Medi-terraneo, la più grande città marittima dell’Europa. Andò su e già lungo la riviera di Chiaia, che allora era il nuovo quartiere chic della città, godendosi la luna piena a Mergellina, sognando sugli scogli della Gaiola, beandosi nella sensazione di infiniti spazi e cieli aperti. A Roma tutto è estremamente serio, scrisse

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nel diario il 5 marzo, mentre qui tutto è improntato ad allegria e buon umore. La conferma la trovava non solo nelle facce dei na-poletani, nel loro modo di essere, ma anche nelle facciate delle oltre quattrocento chiese della città, tutte dipinte da cima a fon-do, e negli affreschi all’interno, nel pulpito che si trasformava nella galleria di un teatro. Tutto sembrava incantarlo, il clima, la grazia dei napoletani, la loro gioia di vivere, l’allegria naturale, la festosa semplicità dei costumi. «I napoletani inghirlandano la loro vita quotidiana come gli antichi romani facevano con gli affreschi delle loro case», commentò.

Alla fine del Settecento, Napoli, l’antica colonia greca fon-data nell’viii secolo avanti Cristo dai cumani, la città millenaria dove si continuò a parlare greco anche quando venne conqui-stata dai romani, e dove il patrimonio dell’antico si riversò nella capitale del regno dei normanni, godeva ancora della benedizio-ne originaria. Era infatti l’immagine celebrata dai poeti romani, da Plinio e da Strabone, che riaffiorava nella mente di Goethe, l’immagine della Campania felix con le sue terre felici e beate, opera prediletta della natura, il clima vivificante, l’aria salubre, i campi fertili, la dovizia d’acqua. Napoli continuava a essere la capitale di quella terra benedetta dagli antichi e così bramosa di aprire il suo seno ai traffici commerciali per dare una mano all’uomo, da avanzare le sue braccia fin dentro il mare. L’eco dei classici in Goethe faceva risuonare un intero sistema di ac-cordi e corrispondenze morali: «Tutto induce a credere che una terra felice come questa, dove ogni elementare bisogno si trova copiosamente soddisfatto, produca anche gente di indole felice, capace d’aspettare flemmaticamente dall’indomani ciò che le ha portato oggi, e di vivere, quindi, senza pensieri». Risultato? Uno stato quasi paradisiaco: «Appagamento istantaneo, mode-rato godimento, lieta sopportazione di effimeri mali».

Fu questa l’idea edenica che spinse Goethe a interrogarsi sull’operosità triste dei suoi connazionali, sul genio malinco-nico e severo dei popoli del Nord, pressati da un clima incle-mente a fare scorte per l’indomani, in attesa di tempi sempre peggiori e costretti quindi ad accumulare, conservare, proteg-gersi per contrastare una natura ostile. Tema chiave per capire

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non solo il divario Nord-Sud che iniziava a delinearsi con la rivoluzione industriale, ma le risorse autoctone cui paradossal-mente può attingere l’epoca postindustriale. A Napoli, dunque, niente lavoro, niente malinconia operosa. Qui si poteva vivere spensierati, immersi in un’apertura di cielo infinita e circondati da una natura sublime. Montesquieu, che era arrivato qui cin-quant’anni prima, nel 1728, all’epoca del vicereame austriaco, quando per conto degli Asburgo regnava il conte di Harrach, mise fra le cause della demografia in crescita esponenziale la miseria e la pigrizia dei napoletani: «Vivono di un po’ di elemosina, di un po’ di minestra, di pane e di carne che distri-buiscono i ricchissimi conventi della città. La gente viene dalle campagne, vive dapprima di elemosina, e poi continua a vivere così, o campa in altro modo miserabile». Goethe, invece, che arrivò a Napoli capitale del nuovo regno fondato nel 1734 da Carlo di Borbone, con un sovrano regnante di trentasei anni, alias Ferdinando iv, rimase talmente estasiato da quella plebe apparentemente inoperosa che ritornato in città a fine maggio, dopo aver finito il suo giro in Sicilia, s’industriò di dimostrare come l’infingardaggine dei napoletani celasse invece una forma di attività peculiare e ben più astuta, capace di approfittare, con infinite variazioni, dei tempi morti e di ogni occasione di godi-mento: «Più mi guardavo intorno, più attentamente osservavo, e meno riuscivo a trovare autentici fannulloni, nel popolino minuto come nel medio ceto, sia al mattino sia per la maggior parte del giorno, giovani o vecchi, uomini o donne che fosse-ro». Le classi basse, quantunque malvestite e cenciose, erano ai suoi occhi le più industriose. «Non lavorano semplicemente per vivere, ma piuttosto per godere, e anche quando lavorano vogliono vivere in allegria». «È per questo che le fabbriche scar-seggiano», concluse Goethe, «e l’istruzione lascia a desiderare, e non esiste un pittore napoletano che sia un caposcuola mentre i preti si adagiano nell’ozio e i nobili sprofondano nello sfarzo e nella dissipazione». In questo senso, il primo teste a carico sarà per lui la leggendaria Teresa Filangieri, sorella del grande illuminista autore della Scienza della legislazione e moglie del sessantenne principe Ravaschieri di Satriano, la quale, di fronte

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al forestiero francofortese, si divertì a tormentare i molti preti, ospiti come lui al loro desco sulla riviera di Chiaia. Così, insom-ma, anche in fatto di lavoro e industriosità Napoli, per Goethe, continuava a parlare la lingua del mito, dell’origine del mondo, degli albori della civiltà: «Questa specie umana è armata di uno spirito sempre sveglio, e sa guardare alle cose con occhio libero e giusto. L’antica Atella sorgeva nei dintorni di Napoli e, come l’amatissimo Pulcinella non resiste dal dare spettacolo, così la massa dei più umili continua a essere partecipe di quella gaiezza».

sopravvivenza dell’atellana

Non stupitevi, perciò, se appena sbarcate a Napoli salite su un taxi e ritrovate l’ultima incarnazione dell’antica atellana, la commedia farsesca affidata all’improvvisazione, con personag-gi fissi e maschere antropomorfe, un genere popolare nato nel iv secolo avanti Cristo e destinato a glorioso avvenire. Il tassista napoletano non è un accattone, non è un miserabile, non è nem-meno disperato. È un artista, un filosofo, spesso un poeta. Di-sattiverà il tassametro e a fine corsa, fingendo di averlo dimen-ticato, vi dirà «fate voi», affidandosi al vostro buon cuore. E se, in base ai precedenti, voi gli offrirete 15 euro, lui ve ne chiederà 17, per il supplemento festivo. Ma oggi è sabato, obietterete: «A Napoli è sempre festa», replicherà lui con sorriso disarmante. Guai se, però, porgendogli un attimo dopo un biglietto da 20, vi aspetterete il resto. Vi verrà in mente l’insofferenza di illustri viaggiatori: il parigino Alfred de Musset, sbarcato qui nel 1843, riuscì a malapena a sbarazzarsi dei quindici facchini che si dimenavano come diavoli per portargli i bagagli: alla fine dovette pagare loro il doppio del dovuto: «Mai sospettato un sì forte desiderio di imbrogliare il prossimo», scrisse l’am-burghese Felix Mendelssohn Bartholdy, alle prese nel 1831 con analoga situazione durante la sua visita a Napoli, dalla quale nacque «il lavoro più gaio che abbia mai composto», e cioè la Quarta sinfonia. In mancanza di moneta, sappiate insomma che

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il resto a Napoli è un concetto aleatorio. Non darlo, o mettersi in condizione di non poterlo dare, non è una provocazione, ma un’abitudine di vita.

In compenso, però, lo stesso tassista, che prima d’essere un accattone è un filosofo, un cantastorie, di sicuro un artista, vi ripagherà con una perfetta consapevolezza dei privilegi e delle storture della sua città. «Noi facciamo un lavoro di strada per mancanza di alternative. A Roma si lavora in un altro modo: se una pianta deve crescere non la fanno crescere. Solo i beni cul-turali qui potrebbero muovere milioni di turisti, ma intanto il termovalorizzatore non lo vogliono fare, la spazzatura venduta all’estero porta soldi, mentre a noi Napoli ci resta sporca. Non la vedo giusta. Agli albori dell’unità d’Italia, questa città era piena di soldi e di benessere. Qui venivano le marchigiane a fare le cameriere. Poi siamo andati in miseria, i soldi sono an-dati tutti a nord, i meridionali se ne sono emigrati, e qui siamo rimasti solo noi, i terroni».

da unica capitale d’italia a prefettura

Così, il tassista napoletano vi mostrerà con orgoglio gli an-tichi palazzi lungo la riviera di Chiaia, Ravaschieri di Satriano, Caracciolo di San Teodoro, Ruffo della Scaletta, villa Pignatel-li, fino al palazzo Mirelli di Teora, costruito nel Seicento dal duca di Caivano su disegno di Cosimo Fanzago, col portale che poggia su due colonne del tempio di Serapide di Pozzuoli, e il giardino interno dove leggenda vuole sia sepolto il cuore del conte di Shaftesbury, il moralista inglese confutatore di Hobbes e teorico dell’entusiasmo, che visse qui per più di un anno e morì nel 1713. Mai luogo fu più indovinato. Più avanti, passato palazzo Donn’Anna, una propaggine tufacea sulla riva del mare costruito sempre nel Seicento per la viceregina Anna di Carafa e da allora incompiuto, e dove Raffaele La Capria da giovane si produceva nei suoi tuffi olimpionici, vi mostrerà il nuovo «splendore» edilizio, moderno. Risalendo verso Posilli-po vedrete un’architettura aggressiva, similrazionalista, spesso

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inaffidabile, perché a Napoli, spiega l’architetto Alberto Sifola di San Martino, «l’aristocrazia ha preferito lasciare i palazzi nel centro storico, o quello che di quei palazzi rimaneva, dopo esserseli venduti poco per volta, tant’è che ormai non esistono quasi più famiglie proprietarie del palazzo avito da cielo a terra, come accadeva un tempo. Tutt’al più vivono ancora rintanate in qualche mezzanino o piano nobile miracolosamente sottratto ai creditori. La maggior parte, invece, si sono trasferiti in massa a Posillipo, in condomini vista mare costruiti però come case di periferia, con rifiniture scadenti, marmi da macellerie, tappa-relle che cascano a pezzi».

Di tutto questo il nostro tassista consapevole non se ne cura molto. Lui in testa ha un’altra idea. Pur non avendo letto Terro-ni di Pino Aprile (sottotitolo Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali, Piemme), ha una coscienza intuitiva del declino, della decadenza, del semplice svantaggio comparativo accumulato da Napoli in centocin-quant’anni di storia unitaria. Saprà forse che Napoli nel 1860 aveva lo stesso numero di abitanti (449 mila) di Torino e Milano messe insieme; saprà che all’epoca le differenze di reddito tra Nord e Sud non erano drammatiche, che l’arrivo di Garibaldi e dell’esercito sabaudo svuotò in pochi mesi «l’unica capitale d’Italia», come la definì Stendhal che la scoprì quarant’anni dopo Goethe, e cioè la capitale di una vasto regno senza strade, famosa per la sua corte fastosa, la burocrazia pletorica, l’eser-cito, le industrie e soprattutto per essere l’emporio di tutte le regioni meridionali; e che l’«invasione» dei piemontesi significò condannare quella capitale a diventare da un giorno all’altro la sede di una semplice prefettura del neonato Regno d’Italia.

Fu questa metamorfosi traumatica, preparata male e gestita peggio, a segnare la lenta agonia di Napoli sulle rive del Tirre-no, come avvertiva già Francesco Saverio Nitti a fine Ottocento. E infatti, quella che oggi sembra una sterile rivendicazione neo-borbonica, una sorta di isterismo opposto e contrario a quello dei secessionisti leghisti, fautori della Padania, divenne un secolo fa uno dei pilastri dell’azione riformatrice del governo Zanardelli. «A Napoli la popolazione aumenta e i consumi di-

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minuiscono. Torino, che quarant’anni or sono era meno ricca di Napoli, ora è fiorente; Milano, che era una città di secondo or-dine, è ora il centro della vita italiana», scriveva infatti Nitti nel famoso saggio nel 1903 (Napoli e la questione meridionale, fonte di ispirazione degli Aprile e dei Tremonti che oggi denunciano il costo enorme pagato in termini di capitale umano). Il bilancio era scoraggiante: «Napoli ha poco più che il commercio di Sa-vona, assai meno dell’industria di Como; ha pochi capitali e in poche mani; per la via ordinaria nessuna via di salvezza si pre-senta per essa; il decadimento continuo appare come una ne-cessità. Napoli dunque è tutta un dramma umano». Implacabile nell’attribuire all’unificazione gran parte delle responsabilità di quel dramma, il meridionalista di Melfi, fondatore nel 1894 del-la «Riforma sociale», giornalista, saggista, sociologo, deputato, ministro dell’Agricoltura, dell’industria e del commercio alla vigilia della grande guerra, e presidente del Consiglio subito dopo (1919-1920), costretto all’esilio per l’avvento del fascismo, fondava la sua diagnosi su una serie di dati di fatto. A Napoli si concentravano relazioni industriali e internazionali, ma era diventata la più grande città di consumo d’Italia, scriveva Nitti, perché da un giorno all’altro si trovò di fronte un bivio: diven-tare un grande centro industriale o decadere.

Nel Regno delle Due Sicilie c’erano tutte le condizioni per trasformarsi. Lì era stata costruita la ferrovia più moderna d’Italia, era nata un’industria meccanica di precisione, un’in-dustria tessile promettente, nelle valli del Liri e dell’Irno. All’Esposizione universale di Parigi del 1856 il Regno di Na-poli risultava essere non solo il più esteso d’Italia, ma il più industrializzato, terzo in Europa dopo Inghilterra e Francia. A Pietrarsa, nel 1840, e cioè ben quarantaquattro anni prima della Breda, era stata inaugurata la fabbrica metalmeccanica di motrici a vapore per uso navale, rinomata in tutta Europa, che lo zar Nicola i prese a modello per i cantieri di Kronstadt. In Calabria, a Mongiana, nell’attuale deserto boscoso delle Serre, smantellato e abbandonato subito dopo l’arrivo dei piemontesi, sorgeva un complesso siderurgico all’avanguardia, che fornì le catene per i ponti sul Garigliano e sul Calore e che fino al 1860

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era stato il maggior produttore di ghisa e semilavorati. Quanto al tessile, a Salerno il cotonificio von Willer impiegava 1425 operai, la filanda di Piedimonte 2159, quando in Lombardia la filatura Ponti non raggiungeva i 414 addetti. E riguardo alla flotta, quella delle Due Sicilie era la quarta del mondo, con 9800 bastimenti, di cui un centinaio a vapore, 40 cantieri navali di prim’ordine, come i Filona al Ponte di Viglieno, da cui nel 1818 uscì il primo vascello a vapore del Mediterraneo, o Castel-lammare di Stabia, che con 1800 addetti era il primo cantiere navale del Mediterraneo. Inoltre, per guidare la politica econo-mica del regno, i «retrivi» Borboni nel 1851 avevano istituito la Commissione statistica generale, affiancandola alle giunte provinciali e circondariali e a un istituto di Incoraggiamento per l’iniziativa privata. Risultato: da quando, nel 1734, Carlo di Borbone era arrivato sul trono, la popolazione a Napoli era triplicata. E nel 1861 la bilancia commerciale era in attivo per 35 milioni di ducati.

Per questo, anche se il popolo viveva in modo quasi pri-mitivo e l’economia risentiva della chiusura mercantilistica e del protezionismo, c’erano tutte le condizioni per trasformarsi. Ossessionato dal pareggio di bilancio, lo stato delle Due Sicilie era l’unico che godesse una situazione di prosperità finanziaria, con una rendita pubblica fra le più alte d’Europa, quotata alla borsa di Parigi al 105-106 per cento del suo valore nominale, mentre la piemontese, con lo stesso valore demaniale, stentava a tenersi sul 70 per cento, come ricorda ora Luigi De Rosa (La provincia subordinata, Laterza). E poi Napoli aveva beni dema-niali superiori a tutti quelli degli altri stati della penisola messi insieme; aveva un’enorme quantità di moneta metallica, pari a una somma due volte superiore a quella degli altri stati della pe-nisola, senza parlare delle imposte fondiarie bassissime e quelle sulla ricchezza mobiliare e sulla circolazione quasi inesistenti.

Come si spiega, allora, il passaggio da una condizione di relativo vantaggio a una situazione negativa? Il fatto è che per trasformare il regno del Sud e metterlo in grado di produrre di più, come auspicava lo stesso Cavour, che sognava di fare di Na-poli una grande città industriale, sviluppando l’agricoltura nelle

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altre province, ci sarebbe stato bisogno di una politica econo-mica opposta a quella perseguita dal nuovo Regno d’Italia: tra Sud e Nord c’era un conflitto d’interessi inevitabile che gli stessi meridionali non vollero vedere, per patriottismo o incoscienza. A Nitti, quarant’anni dopo, bastò leggere i resoconti parlamen-tari della xii legislatura per scoprire come ai vari De Sanctis, agli Spaventa, ai Settembrini «chiedere parea grave offesa alla dignità nazionale», mentre liguri e piemontesi passavano all’in-casso. Così, anziché lavorare alla «rinnovazione» di Napoli, si scelse una strada opposta: il nuovo Regno d’Italia applicò al Sud il sistema fiscale piemontese, concepito per un’agricoltura progredita, ricca di infrastrutture, e in questo modo finì per creare un regime tributario esiziale, che contribuì a prosciugare il risparmio e favorì il drenaggio di capitali, attivato per altro dalla vendita dei beni demaniali, mentre la corruzione, fomen-tata dagli stessi governi, dilagava, e Napoli e le antiche province meridionali, prive di un’opinione pubblica esperta della vita industriale e moderna, si avviavano a diventare una colonia interna di consumo.

terronismo e mistificazione

Per invertire la rotta, cent’anni fa il liberale Nitti, dunque, puntò sull’industrializzazione a tappe forzate, attraverso un si-stema di leggi speciali e di esenzioni fiscali decennali. C’era già un porto, e corsi d’acqua affluenti che potevano fornire «forza motrice» necessaria, manodopera in abbondanza. Nitti, per-ciò, sognava anche di trasformare Napoli in un porto franco; voleva farne una zona doganale che irradiasse i commerci in tutto il Mediterraneo. Era convinto che le precondizioni per la «rinnovazione» di Napoli e delle province meridionali fossero la sicurezza degli ordinamenti amministrativi, che doveva ser-vire a «incorporare la corona di spine dei comuni limitrofi nel comune di Napoli». Per quei tempi di invenzione e di sviluppo della grande impresa, l’industrializzazione era il massimo del progresso, lo strumento fondamentale per la metamorfosi di

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masse di accattoni in lavoratori. Nulla si poteva prevedere, osserva retrospettivamente il sociologo Domenico De Masi, profeta dell’ozio e delle sue virtù nell’economia postindustria-le, circa il danno in termini di ambiente, i costi in fatto di stravolgimento del tessuto sociale, che avrebbero provocato i grandi insediamenti industriali come l’impianto siderurgico sulla spiaggia virgiliana di Bagnoli, impianti a forte intensità di capitale e scarsa capacità di proliferazione dell’indotto. Come che sia, le idee del meridionalista Nitti vennero in parte recepite dalla commissione per l’incremento industriale di Napoli isti-tuita da Zanardelli, che accolse l’ammodernamento del porto, della ferrovia, puntò sull’istruzione tecnica, sugli incentivi e le esenzioni, avviò lo snellimento delle dogane e lo sfruttamento delle acque del Volturno per produrre energia, ma resistette al progetto di trasformare Napoli in zona franca e al riassetto amministrativo dei comuni circostanti. L’anno seguente, fu lo stesso Nitti a redigere di suo pugno la legge speciale «per il risorgimento economico di Napoli», che fra mille decurtazioni e peripezie diede vita all’ente Volturno e all’Ilva di Bagnoli, il più grande impianto siderurgico in Italia, inaugurato nel 1909.

Sappiamo com’è andata a finire. Alla fase gloriosa di indu-strializzazione d’inizio Novecento seguì la cesura della grande guerra e poi il fascismo, quindi la crisi del ’29 e il salvataggio delle grandi imprese con l’Iri. Vennero poi gli anni della secon-da guerra e nel dopoguerra gli anni del boom, con la crescita tumultuosa e l’industrializzazione del Mezzogiorno, che avven-ne ai ritmi attuali della Cina e durò fino alla crisi petrolifera degli anni settanta. Quella stagione fu seguita poi dal tracollo industriale e dall’inizio del disarmo, con la chiusura dell’Ilva, la deindustrializzazione che ha continuato a mietere vittime, nonostante l’illusione del rinascimento napoletano lanciato dal sindaco Antonio Bassolino, mentre la camorra, come un cancro incontrollabile, riempiva di metastasi la città e il suo territorio, disseminando ovunque una scia di rabbia, scoramento, rasse-gnazione, quando non sublime indifferenza.

Oggi, dunque, è un giornalista pugliese con la sindrome di Masaniello, e l’aggravante del risentimento per l’incancrenirsi

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dello stato di inferiorità, a riproporre il vecchio schema di Nitti sulla responsabilità dell’unificazione nel mancato sviluppo del Sud. «Una parte dell’Italia, in pieno sviluppo, fu condannata a regredire e depredata dall’altra, che col bottino finanziò la propria crescita e prese un vantaggio, poi difeso con ogni mez-zo, incluse le leggi», accusa infatti Pino Aprile. La questione meridionale, ai suoi occhi, non precede l’Unità, ma ne è la con-seguenza, «sorge» dalla nascita dell’Italia unita e l’accompagna, essendo il motore dell’economia del Nord. «L’impoverimento del Sud per arricchire il Nord fu la ragione stessa dell’Unità d’Italia», insiste il radicale Aprile. E tutto in lui converge verso il rancore retroattivo: l’invasione del Regno delle Due Sicilie, abbandonato a se stesso dal gioco delle potenze internazio-nali, il sequestro delle casse dello stato, floride e in pareggio, il saccheggio dell’economia meridionale, con la perdita da un giorno all’altro delle commesse pubbliche, il loro trasferimento al Nord o la chiusura forzata, e come conseguenza il fallimento e la miseria sociale, aggravata dalle vessazioni del nuovo regi-me fiscale, per non parlare della guerra al brigantaggio, che provocò una repressione senza pari, ma senza alcuno sforzo di comprensione nei confronti delle popolazioni conquistate.

Eppure, introiettata oggi persino dai tassisti, la denuncia di Aprile, che muove sulle tracce di Nitti, ma senza più sperare nel suo slancio progettuale, lascia molti lettori perplessi. «Terroni è un coagulo antiunitario che accontenta tutti, neoborbonici, neopapalini, fautori della decrescita, quelli che sognano un Sud neoborbonico agrario, composto di agiate campagne con-tro la città, fondato sul legame con la terra più forte di quello con l’industria», dice per esempio il direttore del «Corriere del Mezzogiorno», Marco De Marco. «Il pamphlet di Aprile smuove il ventre molle della nazione, e piace al Nord perché propugna un’Italia prerisorgimentale, cosa che va benissimo ai leghisti che vogliono liberarsi del Sud; e piace al Sud perché fomenta l’orgoglio del meridionalismo neoborbonico, anche a costo di finire in un vicolo cieco». Insistere sull’antico primato perduto, sulle eccellenze storiche delle Due Sicile, per il riscatto dell’orgoglio sudista in chiave antisecessione e antileghista, non

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sembra molto produttivo. «A cosa serve ricordare l’industrializ-zazione dei Borboni, la creazione della ferrovia, i cantieri nava-li, l’amministrazione oculata se poi, da vent’anni a questa parte, l’unica idea riformatrice per il Sud è quella leghista del federa-lismo fiscale, mentre i meridionali e i meridionalisti non sono riusciti ad andare oltre la richiesta di più soldi dallo stato?».

Aprile ragiona di pancia, ma parla di fatti realmente acca-duti e cita studi seri, come quelli del direttore dell’istituto di Studi sulle società del Mediterraneo al Cnr, Paolo Malanima, per dimostrare come, in realtà, nel 1860 l’economia del Sud fosse più florida di quella del Nord. In effetti, però, le cose non stanno proprio in questi termini, e a spiegare come l’operazio-ne di Aprile sia un po’ capziosa è lo stesso Malanima, che ha lavorato sulla revisione delle serie storiche della contabilità del pil, sostenuta da Stefano Fenoaltea e Giovanni Federico della Banca d’Italia. «Nel Mezzogiorno vivevano 9 milioni e mezzo di abitanti: ora, se dividiamo il prodotto interno per il numero degli abitanti, è vero che nell’agricoltura risulta essere di poco superiore rispetto a quello del Nord, che invece aveva poco più di 16 milioni di abitanti, mentre l’industria aveva un piccolo vantaggio per il Nord. Ma nel 1860 l’industrializzazione non era iniziata nemmeno al Nord, perciò, insistere sull’unificazione come causa del mancato sviluppo o addirittura sulla volontà di oppressione del Sud da parte del Nord, come fa Aprile, non sembra corretto. Lo stato unitario conteneva molte popolazioni con tante differenze, ma senza un grande divario economico; solo che il Nord aveva un vantaggio geografico che il Sud non aveva, per il semplice fatto che la rivoluzione industriale era iniziata in Gran Bretagna, in Francia, in Belgio, in Germania e non a Tunisi. Sicché, il divario Nord-Sud fu effetto della moderna crescita industriale, che iniziò nel 1880 e finì per aumentare in qualche decennio di quindici volte il reddito medio degli italiani. Il Nord acquisì una struttura industriale, mentre il Sud, costretto in nome del liberismo a competere con produttori più efficienti, perse quella che aveva. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento la differenza nel prodotto pro capite del paese è di circa il 7 per cento; alla vigilia della grande

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http://www.marsilioeditori.it/component/marsilio/libro/3170919-il-sole-sorge-a-sud


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