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LUGLIO 2017 | NUMERO 1 f i g u r f i g u r e della...

Date post: 08-Jun-2018
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F I G U R E F I G U R E della CREATIVITÀ immaginari e retoriche dell’età precaria LUGLIO 2017 | NUMERO 1
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f i g u r ef i g u r edella

CREATIVITÀ

immaginari e retoriche dell’età precaria

LUGLIO 2017 | NUMERO 1

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indice

Editoriale

Mondi

Retoriche della creativitàOgni idea di uomo nasce segnata da alcuni apriori. L’analisi dei discorsi – dichiarazioni ufficiali, leggi, inchieste, articoli, parole quotidiane – rivela una fusione delle sfere della necessità e del dovere, avvenuta attraverso una reto-rica della creatività partorita dalla logica neoliberista.

Storia della creativitàLa parola ‘creatività’ è introdotta in Italia nel secondo Novecento. La sua cen-tralità, acquisita da pochi anni, risponde alle esigenze di un sistema produt-tivo mutato: il concetto, tanto pervasivo quanto vago, porta avanti in campi molto distanti una proposta ideologica connotata ma mai esplicita.

Mito della creativitàI discorsi quotidiani, l’immaginario collettivo e l’orizzonte valoriale delle nostre società sono sorretti da una ragnatela simbolica fatta di filosofie di vita, ritualità, concetti-chiave e miti dietro cui si nasconde un’idea di uomo. Individuarne la trama significa scorgere l’orientamento ideologico di quello che oggi definiamo come il progresso.

riflessi

Il ribaltamento come matrice conoscitivaStudio di una figura in 2666 di Roberto BolañoIl ribaltamento è la figura che sembra meglio interpretare la complessità di 2666. Il romanzo è uno specchio deformante, che gioca – come in un quadro di Arcimboldi – sul disorientamento, attraverso il quale lasciar baluginare una verità.

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Editoriale

Non si sceglie il nome alla nascita, altri te ne affidano uno con cui sarai chia-mato, conosciuto e riconosciuto nel mondo. Quando si decide di formare un gruppo – qualsiasi gruppo che sia costituito da più di una persona – la prima problematica emerge insieme alla questione del nome da assumere. Solitamente la si accantona quasi subi-to; prima meglio capire chi si è: come si pensa, dove si vuole andare e perché e chi sono i buoni e i cattivi maestri

e un insieme di altri rovelli. Per una volta che il nome non cala arbitrario e vuoto, meglio approfittarne; meglio non sbagliare. Così sono trascorsi due anni di lavoro prima che questo progetto prendesse forma e nome, andando a identificare un gruppo di persone con in comu-ne sicuramente il percorso di studi di carattere umanistico, nonché una serie di tensioni più o meno sotterranee che quello stesso percorso ha lascia-

L’eterna cronacaRealtà e apparenza in 2666 di Roberto Bolaño2666 di Roberto Bolaño racconta – con uno stile profondamente radicato nella tradizione letteraria occidentale, e al tempo stesso in aperto contrasto con alcuni dei suoi momenti – il fondo oscuro e mostruoso della nostra civiltà.

Le vite potenzialidi Francesco Targhetta

L’occhio dell’alieno

Voci

La parola ai lavoratori 1Intervista a Marco Vezzaro

La parola ai lavoratori 2Intervista ad Andrea Nale

La parola ai lavoratori 3Intervista a Claudia Rualta

La parola all’imprenditoreIntervista a Valerio Franco

Il creativo come figura sociale della tarda modernitàTraduzione del saggio di Andreas Reckwitz

Testi citati

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è ecologica, è dolce, è rosa, è avvol-gente, è sicura, duttile, facile, arrogan-te; ricorda un quadro di Boccioni, fast and furiors, compone la realtà attorno a sé, evoca un razzo con testata ter-monucleare, una barca che solca il ver-

de, porta con sé gioia, conduce a te le donne, ti rende sicura, si integra nel paesaggio urbano, si connette col paesaggio mentale, è sempre in-terconnessa. La compe-tenza del lavoratore cre-ativo consiste nel saper lavorare l’immaginario: ciò ne fa un mestiere ti-pico del nostro tempo,

forse più stimolante – per chi ne sia portato – di molti altri.

Dunque, perché la creatività e il lavoro creativo dovrebbero meritare una riflessione, se non vi si riscon-trano fenomeni di sfruttamento più marcati che in altre situazioni, e se non rappresentano altro che un nuovo tipo di impiego, spesso più intrigante rispetto ad altri mestieri? Proprio per-ché non si parla d’altro che di questo, di un lavoro. È necessario approfondi-re i concetti: il lavoratore creativo non è assunto per la propria propensione alla creatività. Egli, come ci spiega uno dei nostri intervistati, necessita di una competenza che «non è una qualità: è un mindset, un’attitudine mentale, che si può imparare, sviluppare, perdere o non trovare proprio, ma non è un “sono portato per questo, lo faccio”».

Nel discorso comune, invece, la

primo numero la creatività e il lavoro creativo. Economicamente, si tratta di un settore in espansione, forse l’unico che nel decennio di crisi ha attraver-sato momenti di crescita esponenzia-le. Alcune contraddizioni della nostra società vi trovano parti-colare evidenza: la pro-duzione di immaginario e di oggetti simbolici tende all’autonomia ri-spetto alla materialità della merce; l’aumento della disparità fra valo-re prodotto dal singolo dipendente, e sua retri-buzione; l’occultamen-to dei rapporti di forza dietro a forme morbide, che non ne intaccano tuttavia la sostanza.

Il lavoratore creativo, al di là della definizione particolarmente evocativa, è subordinato al pari di molti altri, for-se con un controllo lievemente mag-giore sul proprio tempo lavorativo, sottoposto a trattamento contrattuale spesso precario, o costretto alla partita IVA – come in molti altri settori – in-serito in una gerarchia produttiva più o meno rigida – meno che altrove. La sua mansione consiste nel dar forma, attraverso la propria sensibilità, a un determinato prodotto immateriale: deve divenire un prisma, rifrangere la realtà secondo le specifiche prove-nienti dal committente. Se la merce dice soltanto se stessa, egli deve pro-durre dei significati che si adattino a lei e al target di consumatori. Questa au-tomobile è veloce, questa automobile

non si parla d’altro che di questo, di un

lavoro

to affiorare. La prima è l’esigenza di una comunità, al contempo umana e pensante. Alla base sta il desiderio di non adattarsi a una parabola che de-clina la vita adulta come momento di separazione e ritiro nel privato; c’è inoltre la consapevolezza che il pensie-ro funzioni meglio quando inserito in un dialogo, nel momento in cui trovi confronto e scontro, un margine di resistenza che lo costringa a model-larsi o rafforzarsi. Il nostro ritrovarci è stato quindi un modo per dare con-tinuità a ciò che abbiamo imparato o stiamo imparando – più a livello di metodi che di contenuti – sbrigliando il momento formativo dalle aule uni-versitarie e portandolo nelle cucine e nei salotti (che poco hanno a che fare con i ben più rinomati salotti letterari del passato e tantomeno con le sera-te futuriste): un po’ come a dire, por-tandolo fuori da un confine spaziale e temporale, facendolo diventare una pratica di analisi di ciò che ci circonda, che sappia crescere insieme alle nostre domande. Proprio le domande rappresentano uno stimolo ulteriore alla formazione del nostro gruppo; in esse converge la sensazione che una qualsiasi serie di fenomeni politico-economico-sociali non possa rimanere irrelata; che anzi proprio questa frantumazione dei nes-si fra una realtà e l’altra contribuisca alla determinazione di un pulviscolo intellettuale favorevole al manteni-mento dello stato di cose. Per questo motivo abbiamo scelto un metodo di indagine che punti a integrare il fram-

mento in una ragnatela di fenomeni, la quale ingabbia spesso un’ideologia precisa, un modo di determinare la vita e l’uomo. Se osservando aspetti e retoriche del contemporaneo balugina il senso di una costellazione a sorreg-gere il caos, l’istinto o l’atto di volontà che ne consegue è quello di indagarlo. Non tanto per smascherare ciò che è più o meno ovvio – l’epoca senza ideologie si culla beata nell’ideologia neoliberista – quanto per lasciar vede-re le giunture di un corpo che ci vien presentato come slegato e inerme. A partire da qui si ragioni, assieme o au-tonomamente. Arriviamo quindi al nome: Figure. Il termine si lega alla retorica, identifi-ca un luogo di aggregazione e con-densazione di senso. In alcune figure (come la sinestesia o la metafora) ciò che normalmente è irrelato viene con-giunto; in altre (si pensi all’ossimoro o all’antitesi) si avvicinano al bruciare della contraddizione termini o concet-ti antitetici; ancora la figura gioca con i suoni delle parole, ne annida l’una nell’altra. In generale la figuralità ac-cende un testo o un discorso, incide la memoria richiamando l’icasticità di un’immagine: rimane e permane. Identifica un’attenzione alla lingua e all’immaginario che in essa si conden-sa. Interpreta la lingua infine nei ter-mini di una complessità e ambiguità non sempre districabili, mobilitando l’esigenza di una dialettica e di uno sforzo non pacificabile del pensiero.

Abbiamo scelto come tema del

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in cambio dell’accesso alla miniera dei desideri, alla mercificazione dell’im-maginario, al controllo sulla propria vita anche interiore; dall’altra, c’è la possibilità, solo teorica o al massimo esperita in ristretti gruppi, di un rap-porto con se stessi che non sfugga il confronto con gli altri, con la collet-tività, la durezza delle mediazioni, il conflitto, la costruzione, infine l’opera artistica come forza contraddittoria e la riflessione sull’arte. Ancora una volta, non è l’espressione creativa ad essere qui criticata, quanto la sua fun-zione all’interno del contesto neolibe-rista: che è di sublimazione delle ansie collettive, dell’assenza di senso, delle tensioni all’autenticità, ma in un’ot-tica riprodotta in serie, preformata e rigidamente orientata – dunque, in di-rezione di un sempre più stretto con-trollo sociale.

Sebbene il primo numero della rivista sia scritto quasi interamente dai membri della redazione, la nostra speranza è di poter dialogare con il più ampio numero di persone, collettivi, soggetti politici. La rivista è dunque disponibile a ospitare con-tributi di soggetti esterni, ma soprattutto a divenire spazio di discussione delle letture proposte con chiunque dimostri interesse.

Il nostro intento è quello di mantenere un doppio piano: da una parte, la rivista elettronica sarà rapidamente accessibile a chiunque sia interessato, indipendente-mente dalla distanza geografica; dall’al-

tra, ci sembra necessario un confronto di persona con i possibili interlocutori sul territorio nel quale operiamo. Per questo, ci proponiamo di organizzare una serie di presentazioni per dare conto del lavoro fatto e favorire la discussione: più sarà cri-tica, più servirà. Viviamo nel nordest ma ci muoviamo e abbiamo letti per ospitare chi, passando di qui, abbia voglia di fare due chiacchere.

Per contattarci, criticarci, proporre idee e collaborazioni:

[email protected]

oliberismo. Attraverso il concetto di creatività passa una certa idea – cui, per inciso, non sem-pre lo stesso lavoratore creativo sembra crede-re: quella di definire se stessi soltanto attraver-so l’espressione creativa dell’interiorità, senza mediazioni, all’interno di spazi appositamente predisposti dal mercato, nel modo più semplice possibile. Tutti vogliono essere creativi, tutti pos-sono in pratica esserlo (il lavoro creativo sareb-

be dunque la messa a valore di tenden-ze più generali). Internet non solo è saturo in questo senso, ma la sua ten-denza è quella di lavorare a riprodurre il brodo di coltura della creatività, pro-ponendo sempre nuove tecnologie per facilitare e ampliare l’espressione del soggetto e dei suoi desideri, e nuovi stimoli in questa direzione. Una serie di miti ne orienta la sensibilità, passan-do dai campi più diversi.

Che cosa c’è di male, dunque? Il di-scorso dominante ci rivela come oggi possibile la coincidenza fra necessità e desiderio, fra lavoro ed espressione artistica: il sogno di ciascuno. Tuttavia, scavando in fondo alla cosa, l’alterna-tiva è netta: da una parte c’è la propo-sta del mercato, del neoliberismo, che concede al soggetto la realizzazione nell’espressione del sé, all’interno di nicchie sempre più definite e normate,

creatività ha a che fare con un tipo umano innovativo, 2.0, flessibile (mentalmente), artista o artistoide, folle, ispirato, demiurgico e istrioni-co: tali caratteristiche lo identificano, lo distinguono dagli altri individui – hanno un portato antropologico, o addirittura ontologico. Egli è il cre-ativo, una delle proposte umane vin-centi di questa alba di XXI secolo: si deve (per lavorare) e assieme si vuole (per autodefinirsi) essere creativi. È proprio questa identificazione coatta fra due campi completamente diversi (necessità e desiderio) a determinare l’ambiguità e l’oscillazione del termi-ne, che risulta così difficile da defini-re. Abbiamo cercato di chiarire questa confusione, rendendoci conto sempre più che riflettere sulla creatività signifi-ca assumere un punto di vista privile-giato su alcuni dei processi ideologici dell’era della fine delle ideologie, il ne-

Franco Bolelli alla rassegna culturale sulla creatività TedX nel 2012: «ho sempre scelto di fare il freelance, il ronin, il Maverick, il

cavallo selvaggio, quello completamente fuori dagli schemi»

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Mondi

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Retoriche della creatività

Il giallo, simbolo del sole, da sem-pre si identifica con creatività, vitalità, fertilità. Positività. Nelle scienze esoteriche chi preferisce il giallo tende al cambiamento e alla ricerca del nuovo. In Marineria indicava “Pericolo a Bordo”, cioè la presenza della Peste. Nell’antica Grecia era invece il colore dei paz-zi, che si dovevano vestire di giallo per essere riconosciuti. Similitudi-ni alla nostra realtà che ci sembra-no sempre calzanti. Gruppo Facebook I Creativi.

Il principio stesso della creatività è di vedere le opportunità là dove non ci sono, a priori, è ciò che chiamiamo visione. La creatività consiste semplicemente nell’unire dei punti che nessun altro aveva visto prima. Steve Jobs diceva giu-stamente «La creatività è semplice-mente stabilire delle connessioni fra le cose».15 cose che i creativi fanno di-

versamente dagli altri, in Lifestyle, Darling.it

Più che una dote del carattere, la creatività rappresenta, quindi, una “forma mentis”, un modo di rap-portarsi alla realtà, di concepire e vivere la vita. Tale “habitus” men-tale, attraverso un’opportuna for-mazione, può essere appreso ed incrementato da ogni individuo, gruppo e organizzazione. Creatività, questa sconosciuta. Su-blimen.com.

la creatività è la capacità di realiz-zare qualcosa di nuovo, di sorpren-dente, di mai visto prima, destina-to ad incidere, in misura maggiore o minore, su quanto avverrà in futuro. Essa nasce dalla capacità di essere metadisciplinari, ov-vero di sapere fare riferimento, direttamente o indirettamente, a competenze specialistiche diverse da quelle che si possiedono pie-

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cui «l’azienda contemporanea può di-ventare un centro creativo se riesce a pensarsi come una zona di interscam-bio e contaminazione culturale». E a Pavia è stato attivato già nel 2005 un corso di Humanistic Managment che «si propone di avviare lo studente ad una modalità di interpretare l’azienda alternativa al tradizionale Scientific Management, fondata sulla centralità dei saperi umanistici nella costruzione di nuovi modelli organizzativi ispirati alle logiche del Management 2.0» i cui tratti essenziali sono «combinazione tra razionalità ed emotività, equilibrio fra morale individuale ed etica col-lettiva, metadisciplinarietà». Quindi anche la dismissione di una gestione aziendale basata sull’ «organizzazione burocratica, con una forte enfasi su standardizzazione, specializzazione, gerarchia, conformismo e controllo» a favore di un modello basato su oriz-zontalità, dialogo e cooperazione tra diversità.

In forte consonanza con tutto ciò a settembre 2016 è stato presentato il piano nazionale, chiamato industria 4.0, che attraverso azioni orizzonta-li della governance - e non verticali di governo - vuole favorire le azien-de che, dotate di una forte attitudine all’investimento tecnologico e allo svi-luppo di idee e brevetti, puntano all’in-novazione. Questo piano nazionale prevede il 30% di agevolazioni fiscali per start-up e PMI innovative (piccole e medie imprese). È interessante che al suo interno sia esplicitata la volontà di finanziare la ricerca universitaria e ri-modellare la scuola con l’idea che non si possa prescindere dalla formazione

di risorse umane dotate delle compe-tenze richieste dal mercato del lavoro nell’industria 4.0.

Il Mattino (di Napoli) ha pubblicato un dossier, a dicembre 2016, dal tito-lo significativo di Italia 4.0, avanguardia delle eccellenze. Sono presentate le prime 40 PMI italiane, tutte caratterizzate da innovazione, creatività e qualità del prodotto. Oppure, sfogliando la rivi-sta L’imprenditore, si può osservare la centralità dell’innovazione, intesa però prima di tutto come atteggiamento mentale e culturale: «L’Innovazione è un concetto a 360 gradi, abilitante e inclusivo, che parte dell’analisi storica del passato per arrivare alla costruzio-ne di una prospettiva» in cui «si incro-ciano l’innovazione e la creatività». Dalle occasioni di dibattito create da Confidustria emerge come per supe-rare la crisi e vincere la competizione serva un’innovazione basata su creati-vità e competenze. Per Confindustria il made in Italy è connotato da crea-tività, unicità e qualità del prodotto. Dopotutto l’Expo, nella concezione di Matteo Renzi e del suo entourage politico e industriale – primo tra tutti Farinetti di Eataly - era basato proprio su queste coordinate. Lo riconobbero diverse personalità politiche straniere. Così per il presidente francese Hollan-de: «Expo Milano 2015 è straordinaria sotto ogni profilo: per la qualità, per la creatività e per aver saputo unire cen-tinaia di Paesi del mondo»; ma anche per il premier israeliano Netanyahu «L’Expo di Milano è l’esempio della creatività italiana […] Chi si guadagna il futuro è colui che innova e l’Italia ha sempre fatto moltissimo sotto questo

namente. Per questo, la creatività richiede un ambiente sociale e cul-turale che possa alimentare le sue varie forme di espressione ponen-do in connessione fra loro i depo-sitari di saperi diversi.Le parole chiave dello humanistic management: creatività. Marco-minghetti.com

La creatività è ormai entrata nel di-scorso comune: è argomento di dibat-tito pubblico, tema di molti libri, pa-rola ricorrente del giornalismo, ricetta per il successo, obiettivo della scuola, strumento per la competizione econo-mica e via alla felicità.

Il termine può apparire fumoso e buffo se usato per indicare una serie di professioni, eppure è al centro di mol-te indagini sul mondo lavorativo e di proposte di rinnovamento della scuo-la. L’appartenere alla classe creativa non è solo questione del lavoro che si svolge, ma anche di un modo di stare al mondo, di un’impostazione cultura-le, di una percezione del rapporto con gli altri. Gli studi sul lavoro creativo nelle città europee, infatti, si fondano su tre indici: tecnologia, talento, tolle-ranza. Siamo ben oltre i classici criteri con cui si indaga la sfera dell’impiego e dell’impresa; ciò si spiega perché il la-voratore creativo può diventare il mo-tore della ricchezza economica solo in un contesto altamente tecnologizzato, basato sul merito, e costituito da rap-porti umani orizzontali e informali, incentrati sulla convivenza pacifica, in grado di mescolare in modo fertile le diversità psicologiche, caratteriali, ma anche culturali in senso più ampio.

In Italia il progetto di ricerca Italy in the Creativity age ha operato una se-

lezione tra i lavori, definendo quelli creativi nelle seguenti categorie: «im-prenditori, dirigenti pubblici e privati, managers, ricercatori, professionisti (avvocati, commercialisti, architetti, ingegneri, medici, etc.), professioni tecniche ed artistiche ad elevata spe-cializzazione».

Abbiamo quindi una lista di lavori creativi che ci permette di capire me-glio l’importanza della creatività. Ciò che più conta è che non si tratta solo di un nuovo modo di rapportarsi al la-voro, ma di una più ampia idea della vita. In sintesi, «una società che si al-lontana sempre più dall’idea di creati-vo come genio individuale» si descrive «come organismo in cui la creatività è obiettivo e, insieme, condizione di so-pravvivenza». In altre parole, l’intera società ha la tendenza a rappresentarsi come creativa; cioè a rappresentare se stessa, le proprie esigenze, le soluzioni adottate per affrontare i problemi e il proprio orizzonte di senso in termini creativi. Questa affermazione potrà sembrare eccessiva, o almeno precipi-tosa. Eppure, se si sfogliano i manuali di gestione aziendale, si può osservare come venga suggerito - per destreg-giarsi nelle sfide poste dal mercato - di introdurre, rispetto alle tre voci classiche di ristrutturazione, taglio dei costi e qualità un quarto fattore: la creatività. Ecco ad esempio che nella postfazione a Le nuove frontiere della cul-tura d’impresa. Manifesto dello Humanistic management, Marco Minghetti (profes-sore universitario e scrittore) discute con Johanssonn (scrittore esperto di business e innovazione) la tesi per

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realtà si cita un po’ di tutto.

Le obiezioni colpiscono il cuore del problema. La parola creatività è un termine ombrello, quasi un enorme contenitore per cose tra loro diverse eppure affini. Se pazientemente si sfo-gliano alcuni quotidiani (e l’area poli-tico-economica a cui appartengono non è indifferente), si può osservare come il termine creatività sia sempre usato assieme ad altre parole:, innova-zione, talento, originalità, competenze (skills), rischio, fiducia nel futuro, vi-sionarietà, made in italy, novità, com-petitività, qualità, libertà, realizzazio-ne. Prende così vita un rumore di fondo, ossia un’area se-mantica che genera un ronzio continuo di cui è difficile co-gliere il significato preciso, ma di cui si percepisce la forza ipnotica.

Queste parole sono utilizzate in combinazione tra di loro e ne escono risemantizzate, cariche di significati inconsueti solo fino a qualche decen-nio fa. In questo modo, mettendo al centro di una struttura discorsiva la creatività, è possibile lessicalizzare un’impostazione mentale, un giro di idee, dando loro un corpo linguistico. In sintesi si grammaticalizza una visio-ne del mondo e un modo di vivere, un ethos; cioè si dà forma e si fa diventare realtà qualcosa che è ancora magmati-co e informe rendendolo dicibile.

Capiamo così come la creatività sia propriamente un concetto. In quanto

tale travalica l’attività lavorativa e coin-volge l’uomo nella sua totalità. Secon-do la retorica della creatività l’essere creativi non consiste nello svolgere un certo tipo di lavoro, ma nell’avere un ethos, cioè un modo di intendere la vita, per cui diventa riversare nel la-voro energie che lo eccedono e coin-volgono la vita nella sua interezza. Si realizza un’osmosi tra le diverse sfere dell’esistenza che permette di liberare forze inedite capaci di far vincere la sfida economica, ma anche di ricon-durre tali energie dal lavoro alla vita che vede migliorate le proprie strut-ture: i modi di pensare se stessi, di

stare al mondo e di relazionarsi agli altri. La creatività, nella concettualizzazione della retorica che stiamo osservando, diviene un modo per realizzarsi economi-camente, psicolo-gicamente e social-

mente mentre si rispetta la libertà di ogni individuo nella sua singolarità: la creatività è un’idea di uomo. Vediamo-ne un esempio.

Ignazio Visco, governatore di Ban-kitalia, in un articolo dal titolo Perché con la cultura si può mangiare tenta di rovesciare il noto luogo comune. Nel-la sua visione delle cose la ricchezza dell’Occidente sarebbe dovuta a un dinamismo sociale ed economico basato su: bisogno di creare, propen-sione a esplorare, ricerca di valori più appaganti, desiderio di affrontare nuove sfide e avere successo. Questo dinamismo, per Visco, è stato frenato

prende così vita un rumore di fondo,

ossia un’area semantica che ge-nera un ronzio continuo di cui è difficile cogliere il significato preciso,

ma di cui si percepisce la forza ipnotica

aspetto».È in generale tutta la retorica del

lavoro a essere attraversata dal concet-to di creatività. I discorsi che ruota-no attorno a Confartigianato sono incardinati su: creatività, innovazio-ne, made in Italy, coraggio, qualità. Il libro di Marina Puricelli Il futuro nella mani. Viaggio nell’Italia dei giovani arti-giani è dedicato all’artigianato in Italia, e anche in questo caso appaiono i termini innovazione, coraggio, saper fare, creatività. Questo rumore di fon-do che riempie ogni discorso sul lavo-ro è riscontrabile anche in altri ambiti: la scuola ne è un esempio palese. È allora forse significativo che il libro sopra citato sia stato molto apprezza-to da Salvatore Giuliano, un dirigente scolastico consigliere di Stefania Gian-nini, ovvero la ministra dell’istruzione per la riforma della Buona scuola renzia-na. O che la presentazione di questa riforma sia centrata su competenze, merito, innovazione. Un suo decreto prevede l’avviamento di atelier creativi e laboratori per le competenze, ossia luoghi in cui sviluppare creatività e in-novazione.

Non si tratta del complotto di una casta di burattinai. Piuttosto si av-vertono delle somiglianze di famiglia tra la retorica politica, la grammatica dell’impresa e il sentire comune del la-voratore. Ciò è dovuto al nuovo ruolo ricoperto dalla creatività nella nostra società. E non solo italiana; perfino il colosso Google deve parte del suo successo alla predisposizione di un ambiente di lavoro informale, fatto di rapporti umani orizzontali dove i suoi ingegneri sentono di far parte di

una comunità umana in cui il 20% del tempo di lavoro è gestito autonoma-mente dal lavoratore. Colpisce che la metà dei progetti lanciati sul mercato da Google derivi proprio dal lavoro prodotto in questo 20% di “tempo li-bero”. E in modo simile, l’esperto di management Gary Hamel discute nel suo blog il passaggio epocale dal mo-dello taylorista a quello presente che ne ribalta i pilastri:

Internet ha determinato l’esplo-sione di nuove forme di vita orga-nizzativa – in cui il coordinamento si ottiene senza centralizzazione, il potere è il prodotto della capa-cità di contribuzione invece che del ruolo occupato, dove la cono-scenza condivisa da molti trionfa sull’autoritarismo di pochi, nuovi punti di vista sono valorizzati in-vece che soffocati, le comunità si formano spontaneamente intorno a specifici interessi, le opportu-nità di innovazione travalicano la ferrea distinzione fra vocazioni professionali e hobby personali, i titoli formali contano meno della capacità di fornire valore aggiun-to, le performance sono valutate dai tuoi pari grado e l’influenza viene dalla abilità a diffondere in-formazioni invece che dal tenerle nascoste

Gli esempi potrebbero continuare ancora per molto, ma a questo punto pare più opportuno accogliere almeno due possibili obiezioni. La prima: que-sta idea di creatività pare poco defini-ta, anzi così generica da essere onni-comprensiva, un modo per dire tanto senza affermare nulla.

La seconda: gli esempi citati ten-dono al caotico e mancano di rigore, si sta parlando di creatività mentre in

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me la sfera della necessità e dei doveri con quella dei desideri.

Le somiglianze di famiglia che abbiamo registrato tra i discorsi delle varie parti hanno, tuttavia, anche qual-cosa di inquietante. Il sentore che si tratti di un ronzio ipnotico capace di incanalare le giuste esigenze espresse dagli individui in un flusso che da que-sti non è più controllato e che ne vani-fica il reale potenziale di cambiamento sociale. Come se qualcosa di genuino venisse snaturato. C’è da chiedersi se sia la sfera del desiderio ad aver rider-minato quella del dovere, o se sia stata piuttosto la seconda ad aver trovato il modo di mettere al lavoro e riorien-tare le prospettive della prima, acco-gliendone alcune istanze. Colpisce che proprio coloro che hanno riformato al ribasso il welfare europeo siano così ben disposti verso la creatività; Visco né è un esempio. Pare quasi che siano stati in grado di elaborare una via di-scorsiva per produrre la suggestione di un paradiso in terra dove ciò che vo-gliamo coincide con ciò che dobbiamo fare. Ma si tratta, è bene dirlo, di un paradiso figlio delle teorie economiche neoliberiste. Come porre in evidenza i pericoli celati in questo ronzio?

Innanzitutto si può mostrare la ca-rica standardizzante della retorica sulla creatività. I nostri desideri vengono ri-orientati in base alle esigenze del mer-cato, il nostro immaginario plasmato a sua immagine, il nostro inconscio ne viene colonizzato. Non sono esa-gerazioni, lo abbiamo già visto: cre-atività non è un modo di lavorare, è un ethos, una visione del mondo: è

un’idea di uomo. A dirlo sono i crea-tivi; ma talento, tolleranza, tecnologia non sono altro che l’importazione di idee oltre oceano, sviluppate da Ri-chard Florida nel 2003 e prontamente accolte dai politici europei. Riuscire a datare la nascita di questa grammatica neoliberista ci permette di svelarne il carattere di costruzione culturale, di elaborazione artificiale presto natura-lizzata ed entrata nel nostro lessico. Il che equivale a mettere in discussione il carattere genuino di alcuni desideri [si veda l’articolo Storia della crea-tività]. Al di sotto delle apparenze si scorge il volto della standardizzazione, fino a un certo punto nessuno avrebbe parlato e pensato nei modi che sono stati mostrati; successivamente diviene perfettamente normale farlo e tutta la vita viene intesa secondo i principi fondanti della creatività. Ciò accade proprio perché le aree metropolitane del mondo dotate del maggior po-tenziale economico, narrano il loro successo riferendosi concettualmente alla sfera della creatività. Quindi tale discorso è persuasivo ed universale perché prodotto da un modello eco-nomicamente forte.

In secondo luogo è necessario mo-strare i pilastri su cui si fonda l’idea di uomo veicolata da tali strutture eco-nomiche. Talento, tolleranza, tecnolo-gia non sono i fondamenti dell’uomo creativo, sono solo tre termini edulco-ranti utilizzati per sintetizzare una se-rie di parametri statistici: dal livello di istruzione, numero di brevetti, livello tecnologico, al numero di stranieri o omosessuali presenti in una città. Ma allora cosa significano talento, tolle-

dal welfare perché i suoi strumenti di sostegno economico tendono a cullare le masse, tuttavia la crisi ha imposto la ricerca di nuovi stimoli attraverso pratiche politiche di inclusione sociale e non più di redistribuzione della ric-chezza. Infatti, la crisi sarebbe detta-ta anche da un ritardo tecnologico e culturale dell’Italia, per cui le stesse imprese avrebbero delle forti diffi-coltà a reperire competenze adeguate nel mercato del lavoro, soprattutto nell’utilizzo di nuove tecnologie. Ne consegue che «sempre più importanti saranno l’esercizio del pensiero critico, l’attitudine a risolvere i problemi, la creatività, la disponibilità positiva nei confronti dell’innovazione, la capacità di comunicare in modo efficace, l’a-pertura alla collaborazione». Ciò per-metterebbe un’incredibile consonanza di intenti tra tutte le sfere sociali. Quin-di, necessitiamo di una classe dirigen-te che voglia coltivare le risorse della creatività, investendo prima di tutto in una scuola che fornisca un capita-le umano all’altezza delle nuove sfide. Questo perché la produttività non si basa più su conoscenze tradizionali assimilate in modo definitivo, ma su un percorso di long life learning, in cui diventano centrali le competenze, cioè la capacità di mobilitare risorse interne (saperi, saper fare, attitudini) ed ester-ne per affrontare situazioni non abitu-dinarie. Continuando il ragionamento Visco arriva ad affermare che questa impostazione non è salutare solamen-te per la sfida economica ma anche per l’intera società: «se oltre i fatti sono importanti i valori va sottolineato con forza che oltre a un impatto positivo

sulla crescita economica ne possono derivare contributi fondamentali per il rafforzamento del senso civico e la comprensione dell’importanza del ri-spetto delle regole e degli altri».

Non si possono negare alcuni vantaggi di un simile cambio di pa-radigma. Rapporti umani basati su orizzontalità, dialogo e cooperazione opprimono meno l’individuo che non quelli strutturati su burocrazia, gerar-chia e standardizzazione. Il ricono-scimento che ogni personalità, anche nello studio, può esprimere meglio le sue potenzialità se favorita nei suoi caratteri specifici. E in generale, pare maggiore il grado di serenità di una so-cietà e di realizzazione degli individui all’interno di un sistema che riconosce la legittimità e il vantaggio collettivo di alcune esigenze: il desiderio di mo-bilità; la voglia di esprimere se stessi e la propria individualità attraverso la creazione; la soddisfazione data da un lavoro appassionante; la fiducia nella propria particolarità psichica; la ne-cessità di rapporti tra pari; il rispetto delle differenze culturali. Il lavoro cre-ativo si configura come l’espressione di un’ampia tendenza sociale che coin-volge tutti i settori della vita e abita tutti noi: ha preso forma una retorica della creatività capace di fondere insie-

una retorica della creatività

capace di fondere insieme la sfera della necessità

e dei doveri con quella dei

desideri

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pacità di avere interessi forti, almeno che non si tratti di semplice svago: la possibilità di una realizzazione del sé fuori dalla sfera economica è guardata con sospetto, al limite con indulgen-za. L’ipotesi di una vita umana come condivisione, della propria interiorità, delle proprie esperienze e progetti con gli altri è del tutto respinta, a meno che non sia monetizzabile.

L’idea che un’individualità forte sia possibile solo se fondata sulla relazio-ne con gli altri cede alle suggestioni di un’umanità composta da differen-ze particolari costituite da profondità psichiche incomunicabili anche se, a guardar bene, standardizzate e esterna-bili solo nel mercato dei consumi ma-teriali e immateriali. Infine, la costru-zione di un senso attraverso la ricerca di strutture in grado di trascendere le nostre solitudini legandole a una storia collettiva, è sentita come desueta o ri-mandata alle cure del disagio psichico: dalla vetta della visionarietà creativa, passando per l’audacia di una ricerca spasmodica di esperienze autentiche e per le fibrillazioni dei consumi, si scende al mercato della mistica fino al vuoto colmato da pastiglie.

ranza e tecnologia dal punto di vista di un’idea di uomo?

Il talento in questo regime discor-sivo significa il ricatto del merito, im-plica che questo sistema si presenti come inclusivo solo per i meritevoli, ovvero per chi vuole farne parte e per chi riesce bene, è una forma di coerci-zione: chi non è interessato alla carrie-ra, chi non vuole fondere passioni e la-voro, chi conserva zone della vita non monetizzabili che non siano semplici hobbies sprofonderà per colpa perso-nale. Qui talento e merito significano lo stress perenne della competizione, ma competizione totale dato che cre-atività non è solo lavoro ma vita nella sua interezza.

La tecnologia è il nome dato all’i-dea che il progresso della civiltà coin-cida con il progresso tecnico, scienti-fico ed economico; che possa esistere un progresso umano diverso, civile e culturale, non è preso in considerazio-ne. L’amministrazione della tecnologia attraverso l’uso di una razionalità non economica è anzi un pericolo da allon-tanare.

Tolleranza vuol dire ancora in-clusione: inclusione di una differenza purché accetti i fondamenti e i ricatti di una società neoliberista; l’alterità che non vuole essere inclusa in modo standardizzato, e che quindi persiste in

una vera alterità, resterà ai margini.Se si rifugge la forza ipnotica del

ronzio creativo si riescono ad osser-vare i principi costitutivi di tale idea di uomo e il tentativo conseguente di formare un’antropologia funzionale che, però, snatura le esigenze poste da individui e collettività alla società contemporanea. Quest’uomo conti-nuamente alluso e mai dipinto con precisione deve essere una singolarità, però seriale perché svuotata di ogni in-dividualità psichica forte di cui, tutta-via, il discorso della creatività tenta di creare l’illusione predicando che «è nei consumi che, in gran parte, si esercita la creatività come strategia di risposta all’incertezza: la costruzione di identi-tà e di stili di vita». Questa singolarità è individualista: la sua essenza si fonda sullo scarto dalla norma, la sfera del-la sua realizzazione è quella privata, la sua esistenza è assorbita dalla compe-tizione totale. La pressione della me-ritocrazia è altissima: se l’inclusione è stata fatta ognuno è responsabile del proprio successo. Per il creativo la vita deve essere formazione continua in-tesa però come mera acquisizione di competenze da riversare sul lavoro, oltre che assorbimento delle proprie energie nel profitto a cui segue l’inca-

cosa significano talento, tolleranza e tecnologia

dal punto di vista di un’idea di uomo?

l’ipotesi di una vita umana come condivisione,

della propria interiorità, delle proprie esperienze e

progetti con gli altri è del tutto respinta, a meno che non sia

monetizzabile

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1. In pochi capivano, quaranta anni fa, che nel giro di un decennio la centralità della fabbrica nella società sarebbe scomparsa; in ancor meno credevano che l’universo simbolico dell’Italia operaia si sarebbe sgretolato nel giro di una manciata d’anni. Eppu-re, gli schemi con i quali oggi conside-riamo economia e mondo del lavoro sono frutto dei mutamenti maturati, in Italia, a partire dalla metà degli anni Settanta: aumento esponenziale degli

addetti del terziario a discapito dell’in-dustria, esplosione del mercato della merce immateriale, post-fordismo e delocalizzazioni della produzione. Alla trasformazione economica segue il ri-disegnarsi del rapporto fra l’individuo e la sfera sociale e politica; sul piano culturale, miti e modelli di interpreta-zione si avvicendano, in una succes-sione sempre più rapida. L’impressio-ne è che, davvero, tutto sia cambiato.

Storia della creatività

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2. I cambiamenti che hanno in-teressato l’universo economico e produttivo negli ultimi quarant’anni non potevano che avere delle ricadu-te complesse sul mondo del lavoro. La certezza per cui «il mondo del la-voro è completamente cambiato», o semplicemente «il mondo è cambia-to», esprime una verità legata ai feno-meni articolati e globali cui abbiamo accennato sopra. La robotizzazione della produzione e – parzialmente – della logistica, unita allo spostamento dell’asse economico sul terziario e de-localizzazioni, determina una richiesta di forza lavoro diversamente specializ-zata. La differenza con la fase econo-mica precedente riguarda, almeno per alcuni campi, la flessibilità della spe-cializzazione: non è data una volta per sempre, deve piuttosto adattarsi alle esigenze del lavoro e saper attraver-sare i confini del proprio specialismo, rimanere aggiornata, programmare autonomamente il proprio «restare al passo». Questa esigenza è diffusa, e in alcuni campi ha dato luogo a nume-rose ricadute, evidenti in particolare dove il rapporto con le nuove tecno-logie risulta più stretto.

In sociologia si definisce «società dell’informazione» il mondo in cui viviamo, intendendo con ‘informazio-ne’ tutto ciò che, immateriale, produ-ca valore (informazione giornalistica, pubblicità, prodotti culturali, comu-nicazioni ecc.). Al di là delle interpre-tazioni specialistiche, per un europeo dei nostri anni intuitivamente è facile comprendere quali siano i caratteri

della centralità sociale dell’informazio-ne; e come questa centralità, veicolata dall’informatizzazione dell’esisten-za, ne faccia uno dei settori di punta dello sviluppo economico. È proprio all’interno di questo settore che, negli ultimi 25 anni, diventano necessarie figure professionali specifiche e ver-satili, in grado di gestire attivamen-te la strumentazione informatica, di valutare l’estetica di un prodotto (es. un sito), di maneggiare i linguaggi verbali e non verbali, e soprattutto di intercettare i movimenti dell’immagi-nario, le idiosincrasie, quel che ‘tira’ o che potenzialmente può esplodere, e tutto questo al ritmo dei millisecondi della trasmissione via fibra ottica. Si tratta di un terreno che, al momento, è in grado di garantire grandi profitti. Essere in sincronia con le vibrazioni della rete, esserne consapevoli e ave-re i mezzi per esercitare un minimo di pressione vuol dire, tra l’altro, poter-vi influire. Si tratta di specializzazioni flessibili, che non si apprendono se non attraverso la pratica, e che fanno tesoro di un valore umano, di una ca-pacità intuitiva difficili sia da educare che da misurare.

L’esplosione di questa categoria di lavori può essere affrontata da un altro punto di vista, con lenti culturali piuttosto che economiche. L’impor-tanza dell’influenza – e, su un altro piano, del controllo – sull’immaginario è legata alla stagione culturale iniziata negli anni Settanta, nella quale siamo oggi immersi. L’atteggiamento cultu-rale postmoderno nasce da un rifiuto

1. I Barbudos entrano all’Avana, 19592. Sylvester Stallone e Silvio Brlusconi, 19933. Steve Jobs e Bill Gates, inizio anni Novanta

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ma dovrà essere flessibile, pronto a cogliere le opportunità di formazione. Dovrà saper reinventare se stesso e il proprio sapere a contatto con i muta-menti della realtà economica e cultu-rale, insomma rispondere alle nuove esigenze del mercato che abbiamo visto sopra.

In molte delle strutture retoriche della Strategia di Lisbona si percepi-sce la necessità di un nuovo rapporto fra conoscenze e prassi lavorativa, che tuttavia non trova espressione in una parola: si impiegano quelli che sono oggi i capisaldi della pedagogia, compe-tenze (parola chiave: non il sapere, ma il saper fare), long life learning (in italia-no apprendimento permanente, parallelo al lavoro) oltre che, ovviamente, innova-zione. Manca un termine che, concisa-mente, riassuma le nuove esigenze in particolare nel campo dell’istruzione. Le perifrasi sono lunghe e complesse:

Siffatti mercati svolgono un ruo-lo essenziale in termini di impul-so alle nuove idee, sostegno alla cultura imprenditoriale e promo-zione sia dell’accesso alle nuove tecnologie che dell’utilizzo delle medesime.

le scuole e i centri di formazione, tutti collegati a Internet, dovreb-bero essere trasformati in centri locali di apprendimento pluri-funzionali accessibili a tutti, ri-correndo ai mezzi più idonei per raggiungere un’ampia gamma di gruppi bersaglio; tra scuole, centri di formazione, imprese e strutture di ricerca dovrebbero essere istitu-iti partenariati di apprendimento a vantaggio di tutti i partecipanti […]

Questo campo semantico sarà a breve coperto dai concetti di creativi-tà e lavoro creativo, che tuttavia fino al 2003 non compaiono.

4. Creatività: «capacità produttiva della ragione o della fantasia, talento creativo, inventiva; prima accezione: 1951» (Devoto-Oli 2014). Creativo: «chi elabora annunci pubblicitari; pri-ma accezione: 1970» (DELI 1979). Contrariamente alle apparenze, i ter-mini in oggetto sono estremamente recenti; fino a metà Novecento, in ita-liano non creativo ma creatore poteva essere al massimo Dio. Le due parole, calchi sull’inglese, fino agli anni Zero ricoprono un campo semantico oscil-lante, parzialmente distante dal signifi-cato odierno. Intendendo la creatività come facoltà innata nei bambini, i due termini sono impiegati nella pratica pedagogica. Primo Levi intitola Lavo-ro creativo un racconto del ’71, in cui il concetto di creatività è equamente distribuito fra uno scrittore e il suo personaggio, un inventore. Il campo semantico fin qui è quello dell’arte, o dell’inventiva nel senso pieno; tali caratteri nel significato attuale non scompaiono, ma si affievoliscono: un grafico, un copywriter, hanno qual-cosa del genio e dell’artista, ma sono altre le caratteristiche dominanti, in un certo senso più comuni, più diffuse, da proletariato culturale. Le immagi-ni dell’artista e del genio, condite con un pizzico di follia, costituiscono due fra gli ingredienti principali del mito del creativo, vero e proprio sogno dei tempi, di cui trattiamo in uno degli ar-ticoli della rivista.

delle grandi narrazioni (culturali, poli-tiche, ma anche religiose) e dell’etica (nel bene e nel male) collettiva della modernità, facendo perno sull’indivi-duo immerso in un mondo di infor-mazioni indifferenziate e immediata-mente fruibili. Dire che «la profondità è sostituita dalla superficie o da più superfici» [Jameson] significa rilevare, attraverso una metafora spaziale, la sostituzione di un modo conoscitivo incentrato sul primato della raziona-lità e sulla fiducia nella conoscenza storica con uno incentrato su relati-vismo, associazioni mentali, memoria involontaria. In termini meno astratti, ciò significa un’importanza accresciu-ta – anche, banalmente, in termini di tempo di fruizione – di intrattenimen-ti informatici e individuali, a discapito di altre forme di impiego del tempo tipiche del moderno, più ‘materiali’ e comunitarie. Ribaltando il discor-so precedente, si può allora vedere la nascita di lavori come risposta del mercato – e dell’offerta di merci – alle nuove esigenze culturali del postmo-derno: i nuovi mestieri nella società dell’informazione nascono dall’esi-genza di maggiore velocità, comple-tezza, pervasività dei linguaggi nella vita di ognuno.

Lo stesso fenomeno, dunque, può essere osservato da una prospettiva socioeconomica, oppure culturale. I dati restano – nuovi lavori, nuovi modi delle persone di fruire l’informazione, spostamento del settore di punta – ma con sfumature diverse. Diciamo che dare una priorità ai cambiamenti cul-

turali comporta il rischio di leggere i mutamenti economici come naturali: come adeguamenti necessari, conse-guenti a cambiamenti d’altro livello, del tipo appunto: «il mondo è cambia-to», nessuno si stupisce che cambino i lavori. Teniamo presenti tutte e due le prospettive, e concentriamoci su quelli che definiamo lavori creativi.

3. L’Unione Europea nel 2000, in una congiuntura economica positiva, imposta un piano decennale di svilup-po economico, la Strategia di Lisbona. L’UE si propone così di divenire la più grande economia della conoscenza mondia-le, lavorando su tre direttrici: «Il pas-saggio a un’economia digitale, basata sulla conoscenza, indotta da nuovi beni e servizi, metterà a disposizione un po-tente motore per la crescita, la compe-titività e l’occupazione. Inoltre sarà in grado di migliorare la vita dei cittadini e l’ambiente». La proposta accoglie in pieno le tesi neoliberiste, per cui lo svi-luppo economico del privato ha rica-dute a pioggia su tutta la società. Non solo gli obiettivi ‘civili’, ma soprattutto quelli economici fanno sorridere oggi: crescita dell’occupazione del 10% in 10 anni, del 3% annuo del PIL.

Per «predisporre il passaggio a un’economia competitiva, dinamica e basata sulla conoscenza» l’UE iden-tifica diverse strategie, fra cui ha un posto di assoluto rilievo la formazione continua del lavoratore. Data la com-plessità della nuova fase economica, il lavoratore dovrà essere costantemente aggiornato, non potrà contare su com-petenze acquisite una volta per sempre

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menti del contesto socioculturale. È possibile identificare diverse

emittenti discorsive che hanno collaborato a delineare l’attuale significato di creatività e lavoro creativo. Non ci si deve stupire nel constatare un’ovvietà: tutte queste emittenti sono propulsive del sistema economico neoliberista. Il concetto di lavoro creativo cresce e acquista forza in relazione alla storia economica degli ultimi quindici anni, ed è in un certo senso plasmato da quelle istituzioni, pubbliche e private, che hanno diretto questo sviluppo.

La creatività è un concetto vago, non è semplice definirlo al di fuori di un generico – sostanzialmente vuoto – «creativity is the act of turning new and immaginatives ideas into reality». Il rimando è all’esigenza economica di creare connessioni creative sempre più rapide fra vari campi della conoscenza e della produzione, appunto ponendo nuove idee al servizio della realtà: la realtà della produzione di plusvalore. Il significato della parola, a partire dal testo di Florida, viene mano a mano definito attraverso un martellamento retorico che si diffonde capillarmen-te dagli emittenti alti (UE, istituzioni finanziarie, facoltà di economia e ma-nagement, grande giornalismo ecc.). Il concetto viene definito attraverso accostamenti modulari, che vengono presi e riportati pari pari nel passag-gio dagli emittenti alti a quelli inferiori (giornali minori, contenuti online di varia natura, direttive aziendali) fino a giungere al discorso comune, con-tribuendo a quella sorta di «rumore di fondo» nel quale siamo immersi.

6. Vediamo la traiettoria del ter-mine attraverso alcuni esempi, legati a emittenti alti. Il concetto di long life learning è la risposta dell’UE alle sfide – anche culturali – del nuovo millennio.

L’apprendimento permanente è tuttavia qualcosa di più che un semplice fattore economico. Esso promuove anche gli obiettivi e le ambizioni dei paesi europei di di-ventare più inclusivi, tolleranti e democratici e costituisce la pro-messa di un’Europa i cui cittadini abbiano l’opportunità e la capacità di realizzare le loro ambizioni e partecipare alla costruzione di una società migliore. In effetti, secon-do un recente rapporto dell’OCSE risulta sempre meglio comprovata la relazione tra l’apprendimento e l’investimento nel capitale umano non solo con un aumento del PIL ma anche con una maggiore par-tecipazione civica, un maggiore senso di benessere e una minore criminalità [Realizzare uno spazio per l’apprendimento permanente, UE 2001]

La manna divina dell’apprendi-mento permanente viene ibridata, dopo il libro di Florida, con il concet-to di creatività, che si fa carico di tutte queste aspettative. I seguenti estratti provengono dalla «Raccomandazione relativa a competenze chiave per l’ap-prendimento dell’UE» (2006). Vengo-no identificate otto competenze chiave che ciascun cittadino-lavoratore deve possedere. Fra queste l’uso delle ICT (tecnologie della comunicazione e dell’informazione: «le ICT possono coadiuvare la creatività e l’innovazione e rendersi conto delle problematiche legate alla validità dell’informazione»

fra il 2003 e oggi la parola

creatività diventa un

concetto

La situazione muta completamen-te con la pubblicazione, nel 2002 negli Stati Uniti, e a brevissimo in traduzio-ne italiana, de L’ascesa della classe creati-va. Richard Florida, geografo urbano e sociologo, si propone di comprendere alcuni dei mutamenti socio-economi-ci contemporanei; di capire perché alcune aree, zone, città - soprattutto - stiano vivendo una grande prospe-rità, e altre, invece, momenti di grave crisi; perché certi settori della produ-zione sono in espansione ed altri, fra problemi e delocalizzazioni, al limite del collasso; ragionando su una serie di variabili che, a prima vista irrelate, mostrano una forte ricorrenza nei campi studiati. Le città a più alto sviluppo econo-mico, ad esempio, sono caratterizzate da una presenza significativa di omosessuali o da una proposta culturale - dai musei ai locali notturni - particolarmente viva; la bohème e il suo modo di vivere pro-duce, nei luoghi che abita, un terreno fertile di possibilità; la riqualificazione urbana significa molto di più che il re-staurare dei palazzi e riasfaltare delle strade. Si può vedere, e questo è più facile, che la tecnologia funziona come un catalizzatore di benessere.

La chiave che per Florida permet-te ordinare questa intricata situazione è uno strano tipo di merce, oggi par-ticolarmente preziosa, tanto difficile da definire quanto importante: l’intel-ligenza, il talento, il sapere, l’inventiva – appunto – la creatività. Nelle sue

svariate forme e con un estensione di significato rispetto all’uso comune (circa un terzo dei lavoratori america-ni sarebbe creativo) la creatività trova una posizione centrale nella lettura del presente, ma soprattutto del futuro.

Il discorso di Florida non si limi-ta ad essere un tentativo analitico. Si pone come visione propositiva capace di pensare una direzione da percorre-re per un nuovo rinascimento; non si parla solamente di soldi, lavoro, pro-sperità economica. I lavoratori crea-tivi, intesi come classe politica, sono caratterizzati da interessi e da un ethos,

che li elegge, quasi natu-ralmente, ad avanguar-dia di un mondo fatto di tolleranza, multicul-turalismo, diritti civili, ecologia, cultura. Tutti elementi rintracciabili nei contesti urbani in pieno sviluppo proposti da Florida.

5. Fra il 2003 e oggi la parola creatività diventa un concetto. Koselleck ci aiuta a capire che cosa si-gnifichi: «una parola diventa concetto quando tutta la ricchezza di un con-testo politico-sociale di significati e di esperienze, in cui e per cui si usa un particolare termine, entra, nel suo in-sieme, in quella stessa e unica parola». Il concetto trascende i limiti del signi-ficato del termine e occupa un campo semantico più ampio, entrando nella sfera della plurivocità semantica. Il concetto funziona assumendo diversi significati, intrecciando anzi una sor-ta di rete di significati con diversi ele-

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All’Italia serve una buona scuola, che sviluppi nei ragazzi la curiosità per il mondo e il pensiero critico. Che stimoli la loro creatività e li in-coraggi a fare cose con le proprie mani nell’era digitale. Ci serve una buona scuola perché l’istruzione è l’unica soluzione strutturale alla disoccupazione, l’unica risposta alla nuova domanda di competen-ze espresse dai mutamenti econo-mici e sociali

La creatività è il termine medio fra curiosità per il mondo e pensiero criti-co da una parte, mutamenti economici e sociali dall’altra: fra teoria e prassi al servizio dell’economia e della società. Il concetto di creatività viene declina-to diversamente sui singoli paesi. In Italia risulta necessario sottolineare il raccordo fra passato e futuro, con ri-ferimento qui solo implicito al Made in Italy come espressione dell’italica creatività.

Un patrimonio storico, culturale e creativo unico al mondo […] mol-to di più di una semplice tradizio-ne da ricordare: è ciò che distingue la nostra identità, e che alimenta la nostra creatività.

Una creatività che, tuttavia, manca nel dizionario fino agli anni Cinquan-ta: da questo punto di vista, è interes-sante come la percezione italiana del concetto insista sempre su qualcosa che un tempo c’era (Leonardo da Vin-ci!) e oggi abbiamo dimenticato. «Con la musica e la storia dell’arte riportia-mo la creatività in classe»: non por-tiamo, ma riportiamo, un ritorno alle origini del nostro spirito nazionale, una postura nostalgica ma non triste. La cosa interessante è che la vera mo-

tivazione di questo proposito è la ne-cessità di esaurire le graduatorie degli insegnanti; proporzionalmente, le più popolate erano quelle di storia dell’ar-te e musica.

Vogliamo che la scuola diventi il filo forte di un tessuto sociale da rammendare. Che ritorni ad essere

il centro inclusivo e gravitazionale di scambi culturali, creativi, inter-generazionali, produttivi.

Ancora una volta la creatività rap-presenta il termine medio fra cultura e lavoro, ma all’interno di un progetto di convivenza sociale all’insegna dello sviluppo creativo. Essa rappresenta una conquista per il singolo come per la collettività.

8. La traiettoria del termine nel di-scorso istituzionale è solo un esempio, in verità minore, della fortuna del con-cetto nello scorso quindicennio. Il suo tratto fondamentale è la pervasività: il marchio creative fornisce una patente d’adesione all’ideologia del nostro pre-sente, racchiude in sé l’idea, propria del liberalismo classico ma anche del

ecc.); le competenze linguistiche («inte-ragire adeguatamente e in modo creati-vo sul piano linguistico» ecc.); quelle civiche («ciò comporta una riflessione critica e creativa e la partecipazione co-struttiva alle attività della collettività e del vicinato) e, chiaramente, artistiche («espressione creativa di idee, esperienze ed emozioni» ecc.). La creatività però è legata soprattutto alla settima compe-tenza fondamen-tale, il «Senso di iniziativa e impren-ditorialità» (calco su “entrepreneu-rship”) che viene definito attraverso uno dei soliti mo-duli:

Il senso di iniziativa e l’imprendi-torialità concernono la capacità di una persona di tradurre le idee in azione. In ciò rientrano la creati-vità, l’innovazione e l’assunzione di rischi, come anche la capacità di pianificare e di gestire progetti per raggiungere obiettivi.

La creatività è un ingrediente ne-cessario al sistema produttivo. Ciatia-mo dall’introduzione, ideologicamen-te esplicita, a L’apprendimento permanente per la conoscenza, la creatività e l’innovazio-ne (UE, 2008):

L’istruzione e la formazione sono essenziali nell’ambito dei cambia-menti economici e sociali. La fles-sibilità e la sicurezza necessarie per ottenere posti di lavoro migliori e più numerosi dipendono dalla capacità di garantire a tutti i citta-dini la possibilità di acquisire co-noscenze cruciali e aggiornare le

loro competenze durante tutta la vita. L’apprendimento lungo tutto l’arco della vita sostiene la creati-vità e l’innovazione e consente di partecipare interamente alla vita economica e sociale.

Fra 2003 e 2010 si delinea il con-cetto: esso costituisce una sorta di trait d’union fra formazione e lavoro, ha a

che fare con ciò che è nuovo (innovazione, tecnologie informa-tiche), permette una piena realizzazione dell’uomo, compor-ta vantaggi per la società – in sintonia con la proposta teori-ca di Florida. Questi discorsi costituisco-

no la base della diffusione capillare del concetto, e dei suoi impliciti ide-ologici, all’interno del discorso delle politiche nazionali, del giornalismo, di internet.

7. L’approvazione della leg-ge 107/15, La buona scuola¸ è stata preceduta da una campagna mediatica martellante sostenuta dal governo Renzi. Fulcro della campagna è stato un ammiccante dossier di 136 pagine del settembre 2014, elaborato durante l’estate da Renzi e Giannini sacrificando le vacanze, nel quale sono illustrate le principali linee guida della futura riforma. Il concetto di creatività ricorre 18 volte, spesso in posizioni chiave (ad esempio, è presente nel primo e nell’ultimo paragrafo del testo). Ecco l’incipit:

la creatività è un ingrediente

necessario al sisistema produttivo

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Una volta che ci si è accorti dell’e-sistenza del mito della creatività si ini-zia a rintracciarlo un po’ dappertutto; si inizia pian piano a vederlo nelle sue personificazioni – i creativi – e nella sua presenza nel mondo del lavoro – il lavoro creativo o i modi creativi di compiere un lavoro; si sentono ri-suonarne la parole in molti discorsi a vari livelli (nei telegiornali, nei blog, su facebook, negli annunci di lavoro, nelle chiacchere da bar...); lo si nota come un’aura che colora molte figure signifi-cative del nostro immaginario. La tinta euforica che sempre si accompagna al mito della creatività viene utilizzata per rappresentare una serie di oggetti, valori e luoghi anche molto diversi tra di loro; i colori ricordano quelli delle fotografie di Oliviero Toscani. Anche quando non vengono usate diretta-

mente la parola e i suoi derivati ci si accorge, man mano che si affina lo sguardo, che una serie di altri lemmi, concetti e valori che con essa costru-iscono una ragnatela simbolica (inno-vazione, originalità, bellezza diffusa, genio, successo...) sono disseminati nel mondo che abbiamo davanti, nei nostri discorsi quotidiani. La creativi-tà appare nella forma del mito: non semplicemente una mistificazione, ma narrazioni, immagini, costellazio-ni di elementi che producono identità culturali e collettive, all’interno delle quali le persone possono riconoscersi e riconoscere i loro simili, ricondurre le loro esperienze particolari a un mo-dello generale. Abbiamo iniziato pen-sando di dover portare in superficie un ossicino un po’ coperto dalla terra e ci accorgiamo, mano a mano che si sca-

Mito della creatività

neoliberismo, di una correlazione di-retta fra profitto capitalistico, espres-sione del soggetto e progressione dei diritti. Esser creativi diviene naturale, e come tale esistente da sempre, al pari dell’acqua, delle nuvole, dell’amore. Il termine viene adottato nei più diversi campi, divenendo una delle vie d’ac-cesso al discorso smart e tecnocratico dei nostri giorni: si trovano esempi negli articoli che precedono e seguono questo testo. Al pari di uomini-prismi, in tutti i campi è necessario rifrangere attraverso se stessi il reale (sfornando testi), l’immaginario (tratteggiando grafiche e producendo audiovisivi), i desideri collettivi (facendo procedere l’industria culturale).

La creatività fornisce dei rimbor-si – attenzione: non solamente sim-bolici! – alla rottamazione dell’idea di uomo come essere sociale; promette la nascita di nuove comunità di senso all’ombra del mercato, costruite sul desiderio d’ognuno; assicura al singo-lo un lavoro che sia anche espressione di alcune delle esigenze più profonde del sé; garantisce un pluralismo che, nell’impossibilità di un ragionamento vero sulle condizioni di esistenza e senso, rappresenta la più alta realizza-zione. «Tutto meno una cosa: meno cioè quell’azione sul mondo e sugli uomini che è l’unica via per giungere al più vero se stessi» [Fortini].

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ma anche il lavoratore non specializ-zato dovrebbe possedere e/o svilup-pare per migliorare il suo lavoro e la produzione, per gli interessi aziendali, ma anche per i suoi propri. Nessuno vuole essere un lavoratore-macchina, l’appendice biologica di app, torni e computer; tutti vo-gliono essere degli individui che parte-cipano attivamente a quello che fanno, soprattutto se que-sto occupa una parte consistente del loro tempo e delle loro energie. Quando si parla di mito della creatività si sta parlando soprattutto di individui e del modo che hanno di vivere la loro vita: di un’idea di uomo che serpeggia tra le narrazioni e le immagini, presen-tata come esportabile in ogni campo e in ogni luogo, un’idea di uomo che rimanda necessariamente a un’idea di mondo. Questo.

Una cosa però sembra univoca e difficilmente contestabile rispetto al mito della creatività: la creatività è la luce che illumina ciò che oggi fun-ziona. Nella indubitabile criticità del momento (disoccupazione e disservizi esistenziali) creativo è chi ce l’ha fatta. Chi non ce l’ha fatta non è creativo; chi ce l’ha fatta è riuscito grazie agli auspici della creatività. Nella vita e nel lavoro, a vari livelli, in vari modi, l’homo creativus sorride all’obiettivo quando lo fotografano, sembra molto soddisfatto: ha il diritto di parlare del-la sua esperienza e noi lo ascoltiamo.

Dice Io, come chi ha capito qualcosa di come va il mondo, come chi – di fronte a un problema condiviso da molti – ha proposto nella pratica stes-sa del vivere una soluzione vincente. Storie di eccellenza che diventano mo-delli da seguire. Come quella di alcuni

studenti di Bologna che, ritrovandosi il frigo sempre vuo-to, creano un sito internet che ti con-nette con una lista infinita di pizzerie, ristoranti e kebab; ti permette di scegliere comodamente nei

loro listini informatizzati e ricevere la cena direttamente a casa. I diritti di PizzaBo sono stati poi venduti per ci-fre milionarie (si parla di cinque milio-ni di euro). Una storia che assomiglia a molte altre, anche e soprattutto nel modo in cui è raccontata. Un giovane o dei giovani, sotto ogni aspetto nor-mali, spesso abili ad usare il computer – ma non necessariamente – hanno una buona idea, semplice, che risolve inizialmente un problema personale o crea qualcosa di nuovo; la realizza-no quasi per gioco, per scherzo o per caso: funziona. Ci si accorge che il problema che hanno risolto è un pro-blema di molti; la novità è affascinante per tanti; la vendono e diventano mi-lionari. L’ingrediente magico in questa meccanica del successo è la creatività. L’idea era buona perché non era mai venuta a nessuno, fatta della semplicità di cui sono fatte le idee geniali, pen-sate nel presente ma già nel futuro. Si può leggere l’oggi come crisi o come

l’homo creativus sorride all’obiettivo quando lo

fotografano, sembra molto soddisfatto: ha il diritto di

parlare della sua esperienza e noi lo ascoltiamo

va, che l’ossicino è il dito di una zampa dello scheletro di brontosauro, sepolto sotto tutta la pianura circostante.

Ci sono tante accezioni di creativi-tà, usi svariati; certi luoghi caratteristici e non altri. Ambienti urbani e non ru-rali, la West Coast e non Foggia; atelier e laboratori universitari; narrazioni pa-rodistiche ed epiche. E ancora di più sono le sfere dell’esistenza tinteggiate dai colori in technicolor del mito, mo-delli di vita più o meno pervasivi: un certo modo di vestirsi e divertirsi, un certo gusto musicale, dei consumi cul-turali ricercati e diversi da quelli della produzione massi-ficata, diritti civili e ecologismo: tutta una serie di elemen-ti che costituiscono una rappresentazio-ne del sé, un’imma-gine di uomo a cui tendere; quello che potevano essere i santi e gli eroi in epoche passate. C’è un pensiero che nutre il mito secondo il quale la creatività sarebbe capace di interpretare l’uomo nella sua totalità, tanto da prendere le forme precetti-stiche di una filosofia di vita, fatta di una morale, di ritualità e appunto di miti. Possiamo vedere un uso di que-sta ragnatela di concetti e discorsi nei dibattiti sulla scuola e sull’educazione: nelle idee della scuola steineriana, nelle riforme e nelle direttive dell’istruzione pubblica degli ultimi anni, nei consi-gli che vengono dati ai giovani che ri-flettono su cosa faranno da grandi e nella costruzione dei loro sogni di li-

bertà futura. Nelle forme che dovreb-be assumere una vita degna di essere vissuta. Numerose sono le figure che portano l’aureola creativa sulla fronte, diventandone – anche senza volerlo – gli eroi: da Leonardo da Vinci a Mark Zuckerberg, dai geni della scienza ai divi del rock, passando per cuochi e tatuatori, programmatori e ingegneri informatici; ma anche figure nuove che nascono negli spazi liberati del nuovo mondo: youtuber, fashion blogger, organizzatori di eventi (categorie un po’ sfottute, un po’ ammirate, un po’ invidiate). Sia il grande immaginario globale e nazionale che il nostro pic-

colo immaginario privato, fatto di po-sti frequentati e fac-ce conosciute, sono popolati da figure significative che ri-splendono dell’aura mitica della creati-vità.

La diffusione è tale e talmente disordinata che risul-ta complesso tenerne assieme i pezzi: ci sono barbieri creativi, bar creativi, persone che vivono da creative il loro tempo libero; si parla di economia cre-ativa (il sottotitolo: come le persone fanno dei soldi con le idee). Il mito ci raccon-ta che ogni cosa potenzialmente può essere fatta con un surplus dato dalla creatività e che ognuno possa essere – nel suo piccolo ma anche in grande – un artista di quello che fa, esprimen-do se stesso. Questo viene da pensare quando si parla di creatività nella ge-stione aziendale; creatività come ca-ratteristica che, non solo il manager,

il mito ci racconta che ogni cosa potenzialmetne può essere fatta con un surplus dato dalla creatività e che ognuno possa

essere un artista di quello che fa, esprimendo se stesso

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possibilità. Non è difficile capire da che parte stanno i nostri.

(E chi non ce l’ha fatta? di questo il mito non parla.)

Un’altra cosa importante, nel go-mitolo intricato che abbiamo davanti, è indicare un punto nel tempo che segna un passaggio da un prima a un dopo. Uno snodo a partire dal quale la creatività diviene l’ingrediente fonda-mentale della vita di un elevato nume-ro di persone, potenzialmente di tutti. In questo senso, Torino risulta essere un immagine significativa: il momen-to è quello del suo passaggio da una città industriale, operaia, novecentesca a una Torino città delle innovazioni, turistica, culturale, Città Creativa per il Design nel 2014 secondo l’Unesco. Nello iato che separa queste due To-rino possiamo, in piccolo, intravedere il mutamento di luce che tentiamo di descrivere nella sua globalità; il passag-gio dal bianco e nero al colore. La data che indichiamo nel suo valore simbo-lico è il 1980: anno di cassintegrazioni e licenziamenti alla fabbrica di Mira-fiori, anno della marcia dei Quaran-tamila; un anno significativo nel pro-cesso di deindustrializzazione che ha attraversato la città. Per chi passeggia per Torino oggi, i ricordi o i raccon-ti della Torino di ieri hanno qualcosa di surreale. Le tute blu sono diventate camice bianche, a quadri o a fiorelli-ni; occhiali con la montatura spessa; computer marchiati Apple. I segni del passato rimangono, ma la città è un’al-tra. Nel 1985 il Lingotto, storico sta-bilimento di produzione della FIAT,

è stato ristrutturato da Renzo Piano. Fuori è rimasto pressoché identico e ora, al suo interno, ospita sale con-gressi, alberghi, negozi, cinema e mol-to altro; dal 1992 al Lingotto si tiene il Salone internazionale del libro, uno dei più importanti festival culturali ita-liani. Torino oggi è una città giovane, a misura d’uomo, inserita in una rete di relazioni globali e dove, meglio che in altri posti in Italia, un laureato può trovare lavoro o possibilità culturali e finanziarie per inventarsene uno. Ma non è solo una questione di lavoro: Torino è una città dove la qualità della vita è buona; dove – è difficile non ac-corgersene – si vive complessivamente meglio che in molti altri luoghi.

Naturalmente il mito della creati-vità come attitudine umana, il genio, la libertà di pensiero, il profetismo lai-co, hanno una storia ben più antica: il mito del genio romantico, emblema di sregolatezza e eroismo individuale, il viandante sul mare di nebbia o qual-che figura della mitologia classica sono lì a dimostrarcelo. Il mito contempo-raneo della creatività affonda le sue ra-dici in questa riserva di immagini: eroi, grandi nomi dell’arte e della scienza, individui che sono stati capaci - grazie a precognizioni sul futuro, originalità e volontà - di cambiare il mondo (il loro e quello di tutti), di essere oggi nel mondo di domani: Prometeo, Socrate, Cristoforo Colombo, Albert Einstein, Marylin Monroe, Pablo Picasso, Bruce Lee... Ma, ci dicono gli esperti, diver-samente dal loro mondo, nel nostro la creatività è al potere (affermazione che tanto ricorda quel l’immagination

1. Lingotto, Torino 19592. Lingotto, Torino 2016

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meno apparente che reale. La propen-sione all’innovazione tecnologica è uno de-gli indici attraverso cui si misura, sulla scorta di Florida, il tasso di creatività di una grande città; sul piano dell’im-maginario collettivo ognuno di noi non faticherebbe molto a individuare la figura del creativo in Steve Jobs, un uomo che ha fatto del connubio tra tecnologia e design la sua fortuna; mentre nei talent show odierni – si pen-si alle diverse coloriture nazionali del format televisivo Got Talent (America’s Got Talent; Britain’s Got Talent; Italia’s Got Talent,..) – creatività e intrattenimen-to si presentano come due facce della stessa medaglia. Esempi significativi che mostrano quanto il concetto sia polivalente, disseminato e impiegato in molti ambiti, dalla sfera sociale a quella individuale.

Esiste, tuttavia, un doppio livello di base entro cui agisce il meccanismo mitico della creatività. Da una parte infatti esso si appropria delle connota-zioni simboliche dei campi culturali cui viene accostato – un esempio: se creati-vità rimanda spesso alla tecnologia, allora tutte le connotazioni positive del “tecno-logico” andranno a sostanziare anche il concetto di creatività; dall’altra l’aura creativa viene sfruttata come strumen-to di valorizzazione di quegli stessi campi – il lavoro del tatuatore non sarà più un semplice lavoro, ma diver-rà un’arte. Questo meccanismo spiega così l’estrema versatilità del concetto.

Una versatilità necessaria alla natura estensiva del mito, inscritta nella sua storia [vedi articolo Storia della creati-vità del presente numero], nella sua progressiva perdita di intelligibilità, nel suo presentarsi come un termine vuoto e aperto a significati contraddit-tori: un creativo può essere un’artista di fama internazionale, ma anche un barbiere che cura la barba con la stessa dedizione e maestria messa in campo da Michelangelo per scolpire il David; creativo è il modo che i bambini han-no di rapportarsi alla realtà, ma anche un tipo di professione (i creativi in ge-nere sono i pubblicitari); ma creativa deve essere anche l’attitudine alla vita, in tempi di crisi.

L’Italia – da sempre considerata patria di creativi che va dalla geniali-tà di Dante, Brunelleschi, Caravaggio fino a Enzo Ferrari, Paolo Sorrenti-no e Massimo Bottura – ha risposto in maniera originale alla crisi, delimi-

tando la sua propria creatività e trasfor-mandola in un mar-chio certificato.

Nato verso gli anni Ottanta e istitu-zionalizzato tramite l’art. 16 del D.L. nº 135 del 25 settembre 2009 che ne regola

l’applicazione a determinati prodot-ti, il brand Made in Italy ha spopolato in tutto il mondo, a tal punto da es-sere considerato il terzo marchio più noto dopo Visa e Coca Cola. Il Made in Italy è quell’etichetta impiegata per connotare un prodotto «per il quale

il Made in Italy ha spopolato in tutto il mondo,

a tal punto da essere considerato il terzo

marchio più noto dopo Visa e Coca Cola

prend le pouvoir in una foto di un muro parigino nel maggio del Sessantotto e che ha il sapore della sua realizzazio-ne).

Il mutamento di cui siamo testi-moni – quello dei voli low cost, di in-ternet super veloce, della cultura a di-sposizione di tutti, delle start-up – ha prodotto il terreno e le condizioni cli-matiche perché questo mondo mitico, un po’ già reale e un po’ ancora so-gnato, fiorisca. Questa, non si capisce bene se auspicabile o ineluttabile, è la direzione del progresso.

Diversi sono quindi gli elementi di cui una società dispone per prepa-rare la propria personale ricetta del progresso. Almeno nel nostro mondo questa contempla una serie di ingre-dienti: la creatività è apparentemente solo uno fra i tanti. Eppure la diffu-sione e il prestigio che il concetto ha ottenuto negli ultimi trent’anni non è casuale. Nel 2002 esce The Rise of the Creative Class del sociologo statuni-tense Richard Florida, libro dall’anda-mento allo stesso tempo narrativo e analitico in cui l’attenzione al fenome-no urbano (Florida è, prima di tutto, un geografo urbano) si mescola con la volontà di proporre una più ampia teoria del progresso in età post-indu-striale. L’indagine prende avvio da una domanda preliminare: quali sono, al giorno d’oggi, le figure che meglio di altre contribuiscono allo sviluppo eco-nomico, sociale e culturale di una co-munità? La risposta di Florida è fatta della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni americani del nuovo millennio, nel momento in cui individua nella cre-

ative class (scienziati, artisti figurativi, ingegneri, poeti, romanzieri, pubblici-tari, designer, operatori dell’industria informatica e delle comunicazioni) la precondizione essenziale per il pro-gresso economico e sociale in ambito urbano (e di conseguenza nazionale e sovranazionale). Eppure il libro può essere letto anche sotto un’altra luce, come sintomo di una progressiva ri-valutazione del concetto di creatività all’interno dell’immaginario collettivo.

Non è un caso che dieci anni dopo la pubblicazione del libro di Florida, in Italia, una rassegna come TEDx abbia riservato alla creatività un inte-ro ciclo di incontri. Acronimo di Te-chnology, Entertainment, Design, TED è un format di conferenze, nato nella Silicon Valley nel 1984 e importato in Europa durante gli anni Zero con l’o-biettivo di «diffondere idee di valore». Pensatori e creatori da tutto il mondo, uniti sotto l’egida di TED, in diciotto minuti – questo il tempo massimo a disposizione per ogni relatore – condi-vidono le loro iniziative e riflessioni su come «cambiare il mondo». Il format ha offerto così un modello vuoto, re-plicabile in qualsiasi città e momento, anche al di fuori della programmazio-ne originaria.

Al di là del dato puramente refe-renziale, la triade evocata dal brand (tecnologia, intrattenimento, design) rappresenta la costellazione simbo-lica verso cui la nostra società volge lo sguardo per indirizzare il proprio corso. La distanza che intercorre tra questi tre concetti e ciò che noi oggi intendiamo per creatività, si rivela così

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ne, ognuno dei quali presentavano prodotti tradizionali tipici delle di-verse nazioni, il portavoce italiano è Oscar Farinetti. Il noto imprenditore qualche anno prima aveva aperto una catena di ristoranti denominati Eataly, dove la crasi ribadisce l’unione di cibo e origine: un’azienda che è diventata un colosso mondiale della ristorazio-ne (nonché modello) con lo scopo di promuovere in tutto il mondo i sa-pori sani e genuini del Made in Italy. Ennesima storia avvincente: l’epopea del self-made man che, in un momento di crisi, reinventa il prodotto sfruttan-do i punti di forza del proprio paese, conferendo agli stessi un’aura di italia-nità perenne; cosicché quando andia-mo all’ipermercato e ci troviamo da-vanti a diversi tipi di mele tendiamo a scegliere quella di origine italiana, per-suasi che la provenienza ne garantisca la qualità.

Quando vedi una mela sul banco-ne, vicino ci trovi solo il prezzo. Ma esistono duecento tipi di mele. Ea-taly è nata per mettersi a parlare di mele. Così ri-esce a far sentire “figo” chi le mangia.

Nell’idea di un lega-me intimo tra alimenta-zione sana, buona cucina e italianità la televisione ha ribattuto questo mes-saggio in varie forme anche per promuovere Expo 2015. Sebbene da noi assuma delle forme particolari, la centralità del cibo nei palinsesti te-

levisivi non è una questione solo ita-liana. A qualsiasi ora della giornata è possibile trovare un programma – se non reti tematiche– dedicate alla cuci-na: talent culinari, intermezzi notiziari dedicati alle fiere agroalimentari, con-sigli su come preparare ricette facili e veloci fino a sfide tra ristoratori o chef. Il cibo ultimamente sembra aver oc-cupato un posto centrale nella nostra vita quotidiana che va oltre il semplice nutrimento. Mangiare da gourmet, piatti cucinati da artisti (con un’attenzione particolare alla salute) è diventato uno status symbol, come è facile notare dal-la popolarità di Masterchef. Venti aspi-ranti chef si sfidano in competizioni a tempo, dentro studi televisivi accu-ratamente ammobiliati come piccole cucine, grandi sale, o supermercati-di-spense; ma anche in prove in esterna, organizzate in brigate, all’interno di cornici suggestive, tra borghi storici e prodotti nostrani.

Il format si nutre di questo e di altro: della tradizione come della ge-

il disegno, la progettazione, la lavo-razione ed il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano», ma non solo. Se sezioniamo questo brand e ne analizziamo sempli-cemente le componenti linguistiche, possiamo scorgere qualcosa di più: Made in Italy, ossia “fatto/nato/pro-dotto in Italia”. Non desta meraviglia l’anglicizzazione dell’italianità, ma è chiaro che essa punti ad appagare il global consumer. D’altronde, la strategia economica sviluppata fin dal secondo dopoguerra dall’Italia – accentuatasi dopo la crisi del 2008 – è stata sempre orientata all’esportazione.

Italy quindi; un paese d’origine ma anche something better. Cosa signi-fica scorgerne il marchio, quell’acco-stamento di verde, bianco e rosso, il riconoscibile profilo dello stivale, tra le vetrine di un centro commerciale di Seul? La parola Italy evoca una rete di figure – connotate sempre positiva-mente – che nell’immaginario del suo consumatore sono legate all’idea di Italia nel mondo. Un’idea che esisteva già prima della nascita del brand ma, grazie a questo, battezzata e certificata in modo da poter essere impressa su una merce. Il brand, andando oltre il semplice marchio di origine, richiama il mito della creatività italiana, ossia di un certo stile giocoso, elegante, biz-zarro, fascinoso, sovversivo e poetico: garanzia di qualità.

In generale il mito non ci è indiffe-rente, anzi, nella sua accezione ampia agisce in un duplice movimento dia-lettico che fa leva sul nostro bisogno di senso: da un lato come parte di una

community, dall’altro come individuo. Queste due dimensioni indissolubili operano muovendosi mai parallela-mente ma sempre intrecciandosi l’una con l’altra. È un processo talmente radicato e naturale che sembrerebbe non avere nulla a che fare con il Made in Italy; invece il noto brand italiano agisce esattamente alla stessa maniera: marchiando il prodotto e conferen-dogli una identità simbolica forte. La promozione della creatività italiana, nella versione certificata dal brand Made in Italy, contribuisce a creare in chi ne condivide l’origine nazionale un senso di appartenenza. Contempora-neamente, sul piano particolare, spin-ge l’individuo a incarnare quello stesso stereotipo di italianità di cui subisce la retorica. Quello che fa il Made in Italy non è solo un’operazione a livello eco-nomico-produttivo (vale a dire finaliz-zata al consumo di prodotti di tenden-za), ma anche simbolico, alimentando il mito che costruisce l’identità italiana.

La vertiginosa parabola ascenden-te di questo brand arriva al culmine della visibilità con Expo Milano 2015. «L’Expo – ha sottolineato Renzi in un’intervista – deve essere l’occasione per l’Italia per raccontare se stessa, per scrivere una pagina nuova del raccon-to del Made in Italy». Nell’esposizione internazionale che Milano ha ospitato due anni fa, lo slogan “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” mette in primissimo piano la questione del cibo, sull’onda di un rinnovato interesse per l’italianità nel mondo di cui la cucina è il piede nella porta. Tra i padiglioni allestiti per l’occasio-

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re considerato l’emblema di quella che qui abbiamo definito come la dissolu-zione dell’estetico nel quotidiano. Una sedia non sarà più una sedia, ma un’o-pera d’arte visivamente accattivante, con un nome e un’identità.

Un processo che ha attraversa-to ormai gli oggetti e i luoghi che ci circondano. Da una parte la fortu-na dell’offerta tec-nologica Apple è la messa a frutto di questo cambiamen-to di paradigma, nella promozione di un semplice oggetto dalla categoria del funzionale (un pc) a quella dell’este-tico (un MacBook); dall’altra passeg-giare per le grandi città metropolitane – in particolar modo quelle che si vo-gliono “creative” – equivale ad attra-versare uno spettacolo di luci, colori, suoni; significa farsi abitare da quella meraviglia estetica cui alcuni secoli fa si accedeva solo dinnanzi ai grandi monumenti (architettonici, letterari, artistici…).

L’homo creativus dentro tutti noi, aspira ad avere quegli oggetti e ad abi-tare queste città, anche in quanto status symbol. In un ordine sociale di massa in cui paradossalmente vige il prima-to dell’individuo, l’angoscia dell’uni-cità muove buona parte delle nostre azioni. Gesti, discorsi, modi di vestire e, più generalmente, le nostre attività professionali e sociali sono vissute come performance, continuamente soggette a uno sguardo «spettatoriale» diffuso. La creatività, l’essere creativi

offre una risposta a questo continuo e martellante “dover essere”.

Nella mia esistenza ho scelto sem-pre di fare, nel vero senso della parola, il freelance, il ronin, il Ma-verick, il cavallo selvaggio, quello completamente fuori dagli schemi. Quindi, del rapporto tra creatività

e professione ne ho da raccontare tante. Nel senso che del loro matri-monio ho vissuto qualunque fase: le infatuazioni, i di-vorzi, i problemi, i drammi, le lace-razioni, l’estasi…Tutto quanto. Non c’è un singolo ele-mento tra creativi-

tà e professionalità che nel corso di un elevato numero di anni, non mi sia trovato ad affrontare.

Il creativo – in questo caso il filo-sofo-opinionista Franco Bolelli a una convention TEDx sulla creatività – si presenta come l’individuo par exellence: freelance (svincolato da una colletti-vità), ronin (il samurai senza padro-ne), Maverick (i capi bestiame “privi di marchio”). Superomisticamente il creativo – ci dice – è un cavallo sel-vaggio, la sua unica regola è quella di non avere regole e valori. O meglio: non conosce «altra maniera di tratta-re i grandi valori che non sia il gioco» (Nietzsche).

A livello stilistico, l’enumerazio-ne caotica e il riferimento all’ imma-ginario romantico, suggeriscono da una parte una vitalità difficilmente sopprimibile, dall’altra convalidano l’unicità dell’inventore creativo. Una spinta vitalistica lo ammorba, lo rende

Una sedia non sarà più una sedia, ma un’opera d’arte

visivamente accattivante, con un nome e un’identità

stione manageriale di un team, fino al talento creativo come ingrediente se-greto di ogni piatto. Le figure dei giu-dici, veri protagonisti del programma, riescono a coniugare una precettistica strettamente culinaria con dei consi-gli di carattere più generale, il rigore del professionista con la saggezza del maestro, che si offre come modello di successo.

Cucinare è una cosa che gene-ralmente sappiamo fare e con cui ci confrontiamo ogni giorno. Trasporre un’azione quotidiana e domestica nella dimensione lavorativa, trovarne soddi-sfazione e acquisire notorietà è il sogno di molti. Masterchef si propone come un programma per rea-lizzare tutto questo. I concorrenti hanno la stessa possibilità di vincere la competizio-ne, perché tutti parto-no dallo stesso livello: nessuno di loro ha mai avuto a che fare con il mondo culina-rio professionale e le loro conoscenze provengono da un’autoformazione. La ricetta vincente? L’autoperfeziona-mento, l’acquisizione di skills, la capa-cità di problem solving, il saper lavorare in teamwork, la creativity nel sposare tradizione, sperimentazione e imma-ginazione.

Il cuoco è diventato così artista, creatore, creativo. Il piatto una tela da comporre. Impiattare significa prepa-rare un’esperienza estetica o, meglio,

sinestetica dove tutti i sensi vengono invitati al godimento. La dissoluzione dell’estetico nel quotidiano, il predo-minio del bello di per sé, il primato del-la forma sul contenuto è ormai com-piuto e ha raggiunto anche la sfera del domestico. Al di fuori dell’ambito cu-linario, gli esempi sono innumerevoli e tutti richiamano la dimensione della creatività, a dimostrare come questa sia legata alla dimensione estetica, non solo nell’immaginario ma anche nella pratica. Si pensi all’acquisizione di un’autonomia vera e propria della sfera del design, la cui origine è col-

locabile all’incirca agli inizi del No-vecento con le avanguardie storiche e si consolida nella seconda metà del secolo. Il design primonovecentesco, incarnato da una Bauhaus già orienta-ta a una logica di produzione seriale, è diventata oggi di massa attraverso la ricerca estetica dei mobili Ikea. Se l’arte, intesa in senso tradizionale, si è occupata soprattutto della sfera del bello, il design odierno – interessato a rendere non solo bello, ma anche utile ed ergonomico un oggetto – può esse-

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è figlia di un mutamento culturale, consolidatosi definitivamente a partire dagli anni Ottanta. L’enfasi sul valore dell’individuo, sulla libertà di azione e sull’indipendenza da appartenenze precostituite («non sono mai riuscito a stare dentro nessuno schema, nessuna ideologia, nessuna categoria», dice di sé Bolelli) è infatti diventata ormai pa-radigmatica. Se i cre-ativi d’oggi vivono la loro vita come un’in-solita progressione armonica rispetto a quello che imma-ginano come un monocorde mondo sociale – concependosi così come dif-ferenti e in contrasto rispetto a esso –, è in realtà evidente come la tenuta delle società occidentali stesse, da di-versi decenni, si fondi sull’insolito, sul peculiare, sull’individuo irriducibile a etichetta. Il pre-cedente giudi-zio nietzschia-no dovrà essere così riformula-to rispetto agli homines creativi d’oggi: uomini insoliti – non più condannati, ma accolti – «in una società le-gata a ciò che è insolito».

A ben guar-dare, tuttavia, il predominio del peculiare,

vissuto come necessità antropologica all’interno della nostra società, è lo specchio di una più ampia concezione del nostro essere uomini. Tra le due dimensioni che sempre hanno con-traddistinto l’uomo – l’individuale e il collettivo, l’io e il noi, l’interesse par-

ticolaristico rispetto ai destini generali – oggi è soprattutto la prima ad apparirci come quella più pro-priamente antropo-logica. A rimarcare una tale marginaliz-zazione della sfera cooperativa e inter-u-

mana dell’uomo, contribuiscono due tipologie di discorsi, apparentemente distinti ma legati intimamente. La pri-ma è una sorta di darwinismo sociale: la società viene rappresentata come piattaforma di una sottile lotta di tutti contro tutti e l’uomo concepito come

non sono mai riuscito a stare dentro

nessuno schema, nessuna ideologia, nessuna categoria

inquieto. Il regno delle «lacerazioni» e dell’«estasi», dell’unicità e dell’insolito pare così accessibile solo a figure di questo tipo. Non è un caso che il giu-dizio di Nietzsche su due dei maggiori esponenti del romanticismo tedesco come Kleist (1777-1811) e Hölderlin (1770-1843) – «uomini insoliti» con-dannati a vivere «in una società legata a ciò che è solito» – possa essere appa-rentemente promosso a slogan su cui si fonda il mito del creativo del nuovo millennio.

C’è tuttavia una svolta che si registra nel corso de l l ’Ottocento e viene a raffor-zarsi nel secolo appena trascorso, segnando un altro cambiamento di paradigma; una svolta rubricabi-le come la perdi-ta dell’aureola da parte dell’artista e allegoricamen-te rappresentata dal poemetto in prosa ne Lo Spleen di Parigi (1869) di Charles Baudelaire. In una società che non ha più motivo di consacrare la poesia e, più in genera-le, le forme artistiche a manifestazioni della coscienza collettiva, il poeta per-de la sua funzione, a metà strada tra il sacro e il simbolico ed è condannato così all’anonimato. L’autore francese mette in scena questa svolta attraverso il ricorso alla drammatizzazione di un poeta che volontariamente – nel ten-

tativo di sopravvivere al «mobile caos» della modernità – abbandona «nel fango della massicciata» la simbolica aureola, l’alloro della consacrazione, il diritto di parola. Il passaggio da vate a «semplice mortale» è affrontato tutta-via senza apparente tragicità:

Ora posso girare in incognito, fare delle bassezze e darmi alla crapula come i semplici mortali. Ed ec-comi in tutto simile a voi, come

vedete!” “[…] la dignità m’è venuta a noia. Poi, mi piace il pensiero che qualche poeta-stro la raccat-terà [l’aureola] e se ne cingerà sfacciatamente. Far felice uno, che piacere! e soprattutto, felice uno che mi farà ridere! Pensate a X, o a Z! Sarà proprio buffo, no?”

A essere stata raccolta, riprodot-ta su vasta scala e posta sulle teste

dei creativi d’oggi, non è tuttavia l’au-reola abbandonata da Baudelaire nella frenetica vita parigina di metà Otto-cento, ma quella che lo stesso poeta ha contribuito a forgiare. L’anticonformi-smo baudeleriano, il suo maledettismo più o meno velato, si sposa oggi con la nostra incessante volontà di emer-gere come individui. Un’esigenza che nell’immaginario collettivo viene de-clinata nella sua fattispecie antropo-logica e metastorica, ma che in realtà

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un animale; sociale, certo, ma in fondo in fondo tutto fatto di furbizia e istin-to di sopraffazione. A tale retorica se ne accompagna un’altra che pare con-trobilanciare la brutalità della prima. Essa infatti si fonda su almeno tre as-sunti di base: che l’espressione del sé e della propria personalità sia uno degli elementi cardine nell’esistenza dell’es-sere umano; che tale esigenza antro-pologica trovi nelle odierne società occidentali il terreno ideale per un suo soddisfacimento; e che la realizzazio-ne dell’individuo abbia delle ricadute positive sul piano collettivo.

Il mito di un Nuovo Umanesimo,

di cui i creativi rappresenterebbero una coraggiosa avanguardia, non fa al-tro che innestarsi su queste due conce-zioni individualistiche dell’essere uma-no: una buona dose di io, contro una marginale predisposizione al noi; la prevaricazione sull’altro (a tutti i livelli) e l’esprimere se stessi come uniche co-stanti antropologiche. La ricerca della creatività pare così equivalere non solo alla ricerca della felicità (il successo la-vorativo e sociale), ma anche a quel-la dell’umanità. Non è un caso che il creativo rappresenti una variazione delle figure topiche dell’immaginario collettivo neoliberista: è l’imprendito-

re di se stesso; l’homo faber fortunae suae; l’uomo della volontà per metà artista e per metà manager che ha trasformato il regno delle sue possibilità, nel regno della realtà per tutti.

Questo è quello che sembra rac-contarci il mito. Se, in particolar modo oggi, ne subiamo il fascino, è perché la sua forza esorcizzante – rispetto a un mondo sociale che ha fatto dell’inquie-tudine, dell’instabilità e della flessibilità il suo carattere peculiare – promette la più facile e immediata delle soluzioni a un’evidente precarizzazione delle no-stre esistenze. Grazie ad esso il mondo delle possibilità sembra dischiudersi davanti a noi e due verbi modali come volere e potere paiono fondersi in un’u-nica e indistinta sfera semantica («vo-lere è potere»). Eppure, come in tutti i racconti mitici, permane un’aderenza imperfetta tra l’utopia e la realtà, tra ciò che è narrato e ciò che è. Qualsiasi mito lascia delle zone d’ombra: da una parte la schiera dei sommersi, di quelli che non ce l’hanno fatta e che non han-no saputo (o potuto) tradurre le possi-bilità in realtà; dall’altra la dimensione collettiva, cooperativa e inter-umana. Dinnanzi all’ininterrotta pressione di forze non dominabili (gli indici di borsa, gli attentati terroristici, le crisi economiche) è proprio quest’ultima, il sogno negato della social catena, che può emergere come spazio alternativo rispetto all’azione strettamente indivi-duale proposta oggi dal mito.

La ricerca della creatività pare così equivalere

non solo alla ricerca della felicità (il successo lavorativo e sociale), ma anche a quella

dell’umanità.

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riflessi

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Il personaggio principale di 2666 di Roberto Bolaño è Hans Reiter ma il suo nome lo si scopre solo una vol-ta giunti a leggere l’ultimo dei cinque romanzi di cui l’opera si compone. Fino a La parte di Arcimboldi, infatti, il nome attraverso cui conosciamo que-sto sfuggente perno della narrazione è Benno von Arcimboldi, scrittore con-temporaneo tedesco di nicchia.

Il quinto romanzo si confronta quindi finalmente con questo fanta-sma, ossessivamente ricercato nella prima parte da un gruppo di critici letterari (La parte dei critici), relegato poi progressivamente ai margini della storia nelle tre articolazioni narrative successive (La parte di Amalfitano, La parte di Fate, La parte dei delitti), in cui la perdita di centralità tematica è pro-porzionale al moltiplicarsi di richiami

indiretti allo scrittore, che portano a confondere il suo personaggio con altri, in una serie di abbagli che diso-rienta chi legge. Del resto l’ambienta-zione principale di questi tre romanzi è il deserto messicano, quale luogo più idoneo a una distorsione allucinata della realtà?

Il disorientamento effettivamente è una delle esperienze principali pro-vocate da questo libro e una conferma di ciò potrebbe già essere nel nome scelto per il suo pseudo-protagonista: Arcimboldi, appunto. Hans Reiter, soldato tedesco coinvolto suo mal-grado nella seconda guerra mondiale, se ne appropria una volta tornato alla vita civile, quando la ricostruzione frettolosa delle città mima l’esigenza di una parallela ricostruzione delle identità e riconversione delle coscien-

Il ribaltamento come matrice conoscitivaStudio di una figura in 2666 di Roberto Bolaño

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Quando non ce la faceva più, An-sky tornava ad Arcimboldo […] La tecnica del milanese gli sem-brava il massimo dell’allegria. La fine delle apparenze. L’arcadia pri-ma dell’uomo. Non tutti i quadri, è chiaro, perché certi gli sembrava-no quadri del terrore, ad esempio Il cuoco, un quadro alla rovescia, che appeso da una parte è un grande vassoio di metallo pieno di carni alla griglia […], e appeso al contrario ci mostra il busto di un soldato, con casco e armatura, e un sorriso soddisfatto e temerario a cui mancano dei denti, il sorriso atroce di un vecchio mercenario che ti guarda, e il suo sguardo è ancora più atroce del suo sorriso, come se sapesse delle cose di te, scrive Ansky, che tu nemmeno so-spetti. (794)

Allegria e terrore sono emozioni contrapposte e fra loro contraddito-

rie; Ansky le avvicina per esprimere l’effetto che un unico autore può su-scitare in lui; Hans Reiter ne sceglie la complessa compresenza facendo

suo il nome di quest’artista. Entrambi sembrano commentare in tal modo il tratto di storia che condividono: una storia violenta quale fu quella del con-flitto mondiale, in cui le categorie del reale slittano e si sconvolgono, così come nell’epoca pre-barocca a cui risale il pittore italiano erano state ri-voluzionate dalle scoperte scientifiche che privavano la terra e l’uomo della propria secolare centralità. Bolaño potrebbe a sua volta aver suggerito l’importanza di questa contraddizione, affidando al personaggio Reiter-Ar-cimboldi il ruolo di protagonista – seppur spesso decentrato e disperso – di questo ciclo narrativo. Potrebbe aver quindi tracciato un ponte fra pas-sato e presente nel segno di una vio-lenza (reale o conoscitiva) che riposi-

ziona lo sguardo sul contemporaneo.L’allegria si lega alla composizione

artificiosa e magnifica del reale, al gio-co astuto e intelligente che nell’intrec-

ze dalla violenza alla pace. Il soldato Reiter ha ucciso un solo uomo in guer-ra; in seguito ha scritto e ora necessita di una macchina da scrivere per com-pletare la sua opera e di un nome che nasconda il suo passato con cui proporsi al futu-ro: Arcimboldi.

Arcimboldi o Ar-cimboldo Giuseppe è un pittore milanese del Cinquecento. Di fronte ai suoi quadri, l’osser-vatore contemporaneo potrebbe trovarsi in bi-lico fra l’attrazione e la ripulsa: da lontano la composizione dei primi piani di Arcimboldi ap-pare geniale e metafori-ca (un cipollotto come guancia; la pera è il naso; i capelli sono grappoli d’uva); avvicinandosi però, mentre si sgretola l’unità in un brulichio informe, non è escluso che si manifesti una sor-ta di disgusto. La forma fugge nei qua-dri di questo manierista italiano, esce dal campo visivo lasciando identità vuote, fantocci grotteschi, pezzi irrela-ti. Altre sue opere insistono sullo stes-so concetto attraverso il meccanismo del ribaltamento: siamo di fronte a una natura morta di carni arrosto o al ghigno sdentato di un uomo-soldato bestiale? Una figura si confonde o ma-nifesta nell’altra mentre l’oscillazione percettiva scava cunicoli di incertezza alla base del concetto di realtà.

Nel momento in cui sceglie di

adottare questo nome, Hans Reiter non conosce né ancora ha potuto os-servare i dipinti dell’ artista italiano; ha potuto leggere però alcune descrizioni delle sue opere nelle pagine di diario

di un soldato ebreo dell’Armata Ros-sa, Ansky, di cui ha occupato l’isba di-sabitata durante la ritirata dell’esercito tedesco dalla disastrosa campagna di Russia e di cui ha recuperato le memo-rie casualmente, cercando delle bende per medicarsi la gola trapassata da un proiettile. Il soldato tedesco, reso afa-sico da una ferita di guerra, acquisisce così la voce di un avversario ebreo in uno scambio vertiginoso di identità: carnefice e vittima; offeso e offensore.

Si legge, riguardo ad Ansky:

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ipotizzare il ruolo strutturante di que-sta strategia retorica all’interno del romanzo; essa diviene una chiave con cui cercare di aprire almeno una del-le innumerevoli porte che alla lettura ci si sbarrano di fronte, senza che la chiave scivoli prontamente di mano, lasciandoci a bocca aperta, a guarda-re nel buio attraverso la griglia di un tombino, a chiederci dove possa essere finita.

Partiamo dalla macchina ma-cro-narrativa, ovvero dal modo in cui l’autore ha intrecciato la varietà di sto-rie che si rincorrono o deviano o si di-sperdono nelle sue pagine. Nel primo romanzo ci sono i critici che viaggia-no per l’Europa e infine si ritrovano a Santa Teresa, all’inseguimento del loro oggetto di studio/feticcio. Il se-condo tratta di Amalfitano, professore universitario che vive a Santa Teresa, dopo essersi trasferito con la figlia dal-la Spagna. Al centro del terzo atto è Fate, un giornalista nero statunitense che per motivi di lavoro deve raggiun-gere Santa Teresa. La parte dei delitti è ambientata a Santa Teresa, città fron-taliera fra due mondi, zona contraddi-toria dove al massimo dell’industrializ-zazione e dell’occupazione femminile corrisponde un tasso sconvolgente di femminicidi. L’ultimo romanzo sfiora Santa Teresa solo verso la fine, quan-do Hans Reiter divenuto Arcimboldi, dopo la guerra e le peregrinazioni per l’Europa, raggiunge quella zona per un incontro con il nipote, imputato numero uno degli omicidi.

Seguendo i fili narrativi, questi si annodano in un punto: Santa Teresa. Che cos’è e cosa rappresenta questa

città? Collocata nel deserto, sorge mo-derna come un’allucinazione, come un’oasi di riscatto da una condizione di arretratezza, quella del sud del mon-do che minaccia di materializzarsi non appena valicata la frontiera fra Stati Uniti e Messico. Qui no: qui ci sono le ville, ci sono luccicanti automobili nere, la notte del deserto è illumina-ta dai colori e suoni delle discoteche. Qui, al di qua delle discariche. Il riscat-to passa per il lavoro: le maquilladoras funzionano e assumono a pieno ritmo. Queste sono stabilimenti industriali posseduti da capitali stranieri, nei quali si lavora all’assemblaggio di pezzi pro-venienti dall’estero e il cui prodotto finale è destinato all’esportazione. La salvezza viene da fuori, dall’alto: da quella fetta nord-occidentale del mon-do che delocalizza e esporta la civiltà, come un tempo i conquistadores con gli indios. La società ipermoderna, sma-terializzata, informatizzata e creativa può specchiare il suo volto ben rasato in questo progresso. Il riflesso lascia emergere però l’ombra di un ghigno: lo sfruttamento; la violenza; i femmi-nicidi serializzati; i cartelli della droga.

Allora potremmo dire che ci sono due mondi in questo libro. Uno è quel-lo occidentale avanzato: l’Europa e gli Stati Uniti. È rappresentato da quasi tutti i personaggi e i romanzi; i suoi caratteri sono la varietà, il movimento. L’allegria della composizione. Le posi-zioni professionali e sociali di chi vive in questa realtà sono medio alte (pro-fessori, giornalisti, scrittori); lo spazio è esteso e muta continuamente insie-me agli spostamenti rapidi dei lavora-tori flessibili che lo occupano; il tempo

cio di materiali, forme, storie, intuisce ironicamente un’unità sempre pronta a rivoluzionarsi. Il terrore è suscitato dal ribaltamento improvviso, che non solletica l’ego dell’osservatore, blan-dendo le sue capacità interpretative, ma lo coglie alla sprovvista, lasciando-lo disorientato e sconvolto. Il ribalta-mento è inquietante come un incubo, come l’inconscio di un uomo che a singhiozzi emerge, come il rimosso di una nazione; la spazzatura gettata nell’angolo e dimenticata, che però in qualche modo ti descrive, ti commen-ta. Queste esperienze possono avver-tirsi separatamente, oppure collocarsi l’una nell’altra, in un conturbante rap-porto speculare, per cui l’una è l’altra, se guardata da una di-versa prospettiva.

Si trovano nu-merose figure di rovesciamento nelle pagine di questo ro-manzo: una, già rilevata, è quella che fa sì che un tedesco si insinui nella storia e nel punto di vista di un ebreo. Si potrebbe aggiungere un’immagine significativa, che possa fermare nella memoria la sensazione legata a questo tipo di esperienza: siamo in un sogno, quindi in un contesto di distorsione della realtà, se la realtà è quella della veglia. Nel sogno ci sono due specchi; una donna – la stessa che sogna – si osserva al centro della fuga prospet-tica che questi, in quanto posti uno di fronte all’altro, provocano. Il campo degli specchi la intrappola, le impedi-sce di muoversi. In questa posizione

forzata – che è anche osservazione forzata – emerge dalla moltiplicazio-ne labirintica dell’immagine di sé il sospetto di non appartenere a quel riflesso.

[…] lo sguardo della donna nello specchio e il suo s’incrociarono in un punto imprecisato della stanza. Gli occhi di lei erano uguali ai suoi. Gli zigomi, le labbra, la fronte, il naso. La Norton si mise a piangere e pensò che piangeva dal dolore o dalla paura. È uguale a me, si disse, ma lei è morta. La donna provò a sorridere e poi, quasi di colpo, una smorfia di paura le sfigurò il volto. (135)

Le parti della donna – zigomi, lab-bra, fronte, naso – ci son tutte, ma ricom-poste in modo diffe-rente a causa di una deformazione della realtà, in questo caso procurata dal sogno e dallo specchio. La

donna di questo frammento si chiama Liz Norton, viene dall’Inghilterra ed è una ricercatrice universitaria; al mo-mento dell’incubo si trova in un hotel nella città di Santa Teresa (nella realtà Ciudad Juarez) al confine fra Messico e Stati Uniti, dove è giunta insieme ad altri studiosi sulle tracce di Arcimbol-di; non sa quasi nulla di ciò che avvie-ne in questa città, è distratta dal suo obiettivo personale. In questa città uc-cidono donne.

A partire quindi da Arcimboldi e dai frammenti citati in cui opera il fenomeno del ribaltamento, si può

il terrore è suscitato dal ribaltamento improvviso,

che coglie lo spettatore alla sprovvista,

lasciandolo disorientato e sconvolto

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i prezzi delle merci; la morte in serie riduce la percezione del delitto. Allo stesso modo, ancora, l’accumulo di in-formazione spesso provoca un effet-to di distrazione e oblio: ne facciamo esperienza quotidiana con telegiornali e internet. L’annullamento dell’identi-tà passa anche attraverso l’occhio par-cellizzante del narratore, che non pre-senta solitamente le vittime nella loro interezza, ma si concentra su partico-lari irrelati; si distrae nell’osservazio-ne dell’abbigliamento o del contesto; stila elenchi di oggetti appartenuti alla morta. Tutto rimane alla rinfusa attac-cato a un corpo, senza farne un corpo, ovvero senza farne una persona.

Era stata uccisa a coltellate, an-che se sul volto e sull’addome si osservavano contusioni provocate da ripetute percosse. Nella borset-ta fu rinvenuto un biglietto della corriera per Tucson, che partiva quella mattina alle nove […]. Fu-rono ritrovati anche rossetto, ci-pria, mascara, fazzolettini di carta, mezzo pacchetto di sigarette e una confezione di preservativi. Non aveva passaporto né agenda né al-tro che potesse identificarla. Non aveva nemmeno l’accendino. (388)

Il primo mondo, che è anche il no-stro e i cui caratteri principali sono il narcisismo e la competizione, ovvero l’esasperazione della singolarità e il suo desiderio di emersione, viene ca-lamitato dall’intreccio narrativo verso questo buco nero, in cui le particola-rità vengono drasticamente livellate dalla violenza. E quindi? Quindi sono posti uno di fronte all’altro, si guarda-no per volontà dell’autore. Potrebbero osservarsi come sconosciuti o avversa-

ri. Eppure, riattivando il concetto di ri-baltamento, le due realtà sono una sola che si sta specchiando in una superfi-cie deformante che la capovolge. Tale superficie potrebbe essere proprio il romanzo, che forza l’allegria e varietà compositiva verso il gorgo della mo-notonia, che porta ripetutamente una realtà dentro l’altra. Così si intuisce quanto l’esistenza della prima deter-mini la seconda: quale è l’altra faccia del lavoro creativo della fetta fortu-nata del mondo che può permettersi di essere foolish? Come in uno scherzo di Arcimboldi pittore, allontanandoti smetti di visualizzare la parte e cogli il tutto, in cui la parte – i corpi mutilati delle vittime di Santa Teresa – trova un riscatto, una storia. Ed ecco presto avanzare un senso di terrore all’emer-sione del ghigno: l’altro mondo, con i suoi caratteri di violenza esplicita e di serializzazione delle personalità ci ap-partiene non solo in quanto ci denun-cia, bensì perché smaschera dinamiche interne, seppur ben celate della nostra stessa società.

C’è un’immagine di Fate che può aiutarci a dare consistenza a questo concetto:

Per un istante immaginò una bi-lancia, simile alla bilancia che tiene in mano la giustizia cieca, solo che

Potrebbero osservarsi come sconosciuti o avversari.

Eppure le due realtà sono una sola

che si sta specchiando in una superficie deformante

che la capovolge.

è quello ritmato e spesso insufficiente della vita quotidiana, oppure è la di-mensione storica che arriva fino alla seconda guerra mondiale per ricolle-garsi al presente in un percorso pro-gressivo di eliminazione (rimozione) della violenza; le relazioni sono rapide e intercambia-bili, come le esperienze che si possono fare passeggiando per le strade di una metropoli affollata, non raramente però sfiorano l’apa-tia, forse per sovraccumulo. Anche a livello

stilistico la rappresentazione di questo tipo di realtà nelle sue variabili è resa attraverso il ricorso a generi differenti e fra loro ibridati: il giallo, la fiaba, il romanzo storico, quello di formazio-ne, il racconto filosofico.

L’altro mondo è Santa Teresa: uno spazio minacciato dalla monotonia del deserto, le cui tinte solo impercet-tibilmente differenti si trasmettono a una voce narrante piatta, cronachisti-ca, che snocciola una catena di nomi di giovani donne morte, come una litania meccanicamente imparata e ri-prodotta. Una voce che procede senza sdegno, senza che sia possibile uscire dall’ipnosi di un simile ritornello, per ritrovare una causa, una spiegazione plausibile, un responsabile al male; o almeno una forma di riscatto che passi attraverso il recupero delle storie del-le vittime. La parte dei delitti è infatti totalmente chiusa nella gogna di una ripetizione che significa impotenza e appiattimento: attraverso questa figura le identità subiscono un processo di serializzazione che le svaluta, esatta-mente come accade nelle leggi di mer-cato. La produzione di massa abbassa

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L’eterna cronacaRealtà e apparenza in 2666 di Roberto Bolaño

A.

Si racconta che nel marzo del 1838, Henri Beyle lasciò Parigi per mettersi in viaggio verso Narbona, Montpellier, Cannes e Marsiglia; ri-salendo fino in Svizzera, attraversò la Germania per raggiungere i Paesi Bassi, facendo ritorno da quei luoghi nell’ottobre dello stesso anno. Il 4 no-vembre, finalmente a Parigi, raccon-ta ai conoscenti di essere partito per una battuta di caccia, si richiude alle spalle la porta della casa di rue Cau-martin, e inizia a dettare a un copista il romanzo che lo avrebbe impegnato per un numero di giorni – cinquanta-due – pari a quelli che impiegherà per correggerne le bozze; una cifra ridico-la se paragonata alla piacevole veloci-tà di lettura delle oltre 500 pagine in

cui, con rapidità quasi cronachistica, si alternano le battaglie, gli amori, le storie degli inquieti protagonisti della Certosa di Parma. Avvolti da un manto di intrighi politici e passioni sentimen-tali, la vita dei personaggi stendhaliani si gioca nel costante tentativo di sod-disfare un ideale assoluto di felicità, che né Fabrizio né Clelia raggiungono mai, e che pure è profondamente ra-dicato nell’esteriorità, nella possibilità di agire il mondo e trasformarlo, e di mutare la Storia nella dimensione – a un tempo retorica e politica – dell’actio. L’azione – La Chartreuse è soprattutto un romanzo d’azione, in cui l’eroe parla poco e pensa ancora meno – si alimenta della discontinuità dell’im-previsto, in un continuo mutamento di immagini e scene che moltiplicano l’intreccio, complicando le vite dei

Tel est du globe entier l’éternel bulletin Baudelaire

al posto dei piatti questa bilancia aveva due bottiglie o qualcosa di simile. La bottiglia di sinistra, chia-miamola così, era trasparente e piena di sabbia del deserto. Aveva vari fori da cui perdeva. La bot-tiglia di destra era piena di acido. Non aveva alcun foro, ma l’acido si stava mangiando la bottiglia da dentro. Lungo la strada per Tuc-son, Fate non riuscì a riconoscere niente di quanto aveva visto qual-che giorno prima, quando aveva percorso la stessa strada in senso inverso. Quello che era alla mia destra ora è alla mia sinistra […]. (380)

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che precede Stendhal, e – per continu-ità – dei padri modernisti di Bolaño. «Mentre scrivevo la Certosa – annota Beyle nella minuta di una lettera in-dirizzata a Honoré de Balzac – per prendere il tono, leggevo ogni mattina due o tre pagine del codice civile, allo scopo di essere naturale».

1. Stile

Lo stile ipotattico rispecchia un’ar-ticolazione razionale del pensiero, una ragione che domina i suoi oggetti pre-cisandone le relazioni – come a cer-carne l’essenza comune –, quasi che il mondo fosse visto e ordinato dall’alto. Al contrario, Rober-to Bolaño adotta uno sguardo rasoterra: il procedere ellittico del discorso e l’acco-stamento paratattico degli elementi della frase conferiscono alla prosa di 2666 un’impressione ge-nerale di velocità. Spesso domina la forma dell’elenco, esasperata da uno stile che, proprio per la sua logica ma-tematizzante e ossessiva, produce un effetto umoristico, rivelando la pro-fonda insensatezza dei linguaggi che il senso comune considera razionali e rigorosi:

Quando tornò nella sua stanzetta trovò il foglio di carta e prima di gettarlo nel cestino lo esaminò per qualche minuto. Il disegno n. 1 non aveva altre spiegazioni che la sua noia. Il disegno n. 2 sembrava un seguito del disegno n. 1, ma i nomi aggiunti gli parvero demen-ziali. Senocrate poteva starci, non

era privo di una sua folle logica, e anche Protagora, ma cosa c’entra-vano Tommaso Moro e Saint-Si-mon? Cosa c’entravano, che senso avevano Diderot e, santo Dio, il gesuita portoghese Pedro da Fon-seca, che era semplicemente uno delle tante migliaia di commen-tatori di Aristotele e neppure col forcipe smetteva di essere un pen-satore molto marginale? Il disegno n. 3, al contrario, aveva una certa logica, una logica da adolescente tarato, da adolescente vagabondo nel deserto, con i vestiti stracciati, ma pur sempre con i vestiti. Tutti i nomi, si poteva dire, appartene-vano a filosofi assillati dal tema ontologico. La B che compariva al vertice superiore del triangolo sovrapposto al rettangolo poteva essere Dio o l’esistenza di Dio

che sorge dalla sua essenza. Solo allora Amalfitano notò che anche il disegno n. 2 esi-biva una A e una B e non ebbe più alcun dubbio che durante le lezioni

il caldo, a cui non era abituato, lo faceva vaneggiare

In generale, il romanzo è costruito su procedimenti enumerativi, che ri-producono in modo caotico il rumore del mondo, accumulando azioni e fatti che qualche volta – e spesso all’inter-no di uno stesso frammento – sono retti da nessi temporali e congiunzioni iterate. Una forma di sintassi lunga in cui lo scioglimento del senso è costan-temente rinviato, rivelandosi solo alla fine del frammento:

Ma Pelletier fu più veloce. Tre giorni dopo l’incontro con l’e-ditrice di Arcimboldi, comparve a Londra senza preavviso e dopo

un’impressione generale

di velocità

personaggi: figure di un mondo che appare dominato dal caso.

Tra i non pochi scrittori che nel nostro tempo hanno subito il fascino dell’antica divinità, Roberto Bolaño merita un posto privilegiato. 2666 è la storia di un inseguimento: quattro cri-tici letterari si lanciano alla ricerca di uno scrittore scomparso, che inseguo-no per tutta Europa e che li conduce fino a Santa Teresa (Messico), dove – piuttosto che trovare il loro ido-lo – scoprono causalmente i terribili femminicidi che avvengono nella città; Lola, la moglie del professore cileno Oscar Amalfitano, abbandona Barcel-lona per inseguire un poeta spagnolo internato in un manicomio, un uomo solitario e folle come il marito, che si trasferisce – insieme alla figlia Rosa – in Messico: il luogo in cui tutte le sto-rie sembrano intrecciarsi e fermarsi di fronte all’or-rore; in fuga verso la fron-tiera statuni-tense, Oscar Fate e Rosa A m a l f i t a n o abbandonano Santa Teresa, nella notte sudamericana in cui finisce il pellegrinag-gio letterario di Benno von Arcimboldi, e inizia la diaspora di Roberto Bolaño, che lasciò Città del Messico nel 1973 per tornare nel Cile di Salvador Allen-de, un istante prima – così ho sentito

dire dall’autore, in una lunga intervista trasmessa dalla televisione cilena – del golpe del generale Pinochet.

Se è vero che molti degli incontri del romanzo stendhaliano avvengono casualmente, è altrettanto vero che questi momenti sono carichi di signifi-cato: un telos orienta la Storia, e in ogni istante si addensa una possibilità che muta il corso dei destini individuali, e li connette tra loro. Si ricordano pochi finali inconcludenti come quello della Chartreuse, e l’ironica dedica To the hap-py few («ai pochi felici») tradisce tutto lo scetticismo illuminista dell’autore. Eppure, potremmo chiederci se uno scrittore della generazione di Stendhal avrebbe fatto dire a uno dei suoi per-sonaggi: «La storia è una puttana molto semplice, che non ha momenti cruciali ma è una proliferazione di istanti, di attimi fu-

gaci che compe-tono fra loro in mos t ruos i tà» . Separati dai secoli, Beyle e Bolaño sono intimamente legati da una profonda ri-cerca di sin-cerità, di una verità storica che passa at-traverso la rapidità dello stile, in un esi-

bito rifiuto del tono alto e sublime, di rigetto della serietà accordata alla rap-presentazione dell’interiorità: autenti-co feticcio della generazione letteraria

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che ne conserviamo nell’istante in cui scompare.

Forse Rosa Méndez aveva parlato della sua passione per il cinema e a quel punto Oscar Amalfitano le aveva chiesto se sapeva cos’e-ra il movimento apparente. La risposta però – e non poteva an-dare altrimenti – non l’aveva data la sua amica ma Charly Cruz. Il quale disse che il movimento ap-parente è l’illusione di movimento provocata dalla persistenza delle immagini sulla retina. «Esatto» confermò Oscar Amalfitano «le

immagini rimangono sulla retina una frazione di secondo»

Così in Ottobre di Eisenstein, in una scena che rievoca la Rivoluzione di Febbraio: al fotogramma che mostra un cavallo bianco cadere nel fiume, all’ordine dello zar di sollevare il ponte sulla Neva, ne segue un altro in cui un cavallo nero al trotto tiene in riga i ri-voluzionari imprigionati e diretti nelle carceri. Questo motivo si ripresenta in altri fotogrammi successivi, sempre in

continuità o discontinuità con quelli precedenti, caricandosi di volta in vol-ta di nuovi valori.

Molti dei frammenti di 2666 sono autonomi semanticamente, ma sem-brano privi di valenza logica: una parte del loro senso è frantumato e disper-so in altri luoghi dell’opera; l’ordine narrativo si scontra con l’autonomia dei frammenti che ospitano riflessio-ni enigmatiche o scene di pura visio-narietà. Questo modo compositivo

trova il suo momento più virtuosistico e tragico nella quarta parte del romanzo (La parte dei delitti), in cui si alternano – quasi imma-gini di un notiziario tele-visivo – la cronaca lucida e terribile dei femminicidi di Santa Teresa, le incon-cludenti indagini della polizia locale, le inchieste dei giornalisti come Ser-gio Gonzàlez, e le rare divinazioni televisive della veggente Florita Almada. Tutte le azioni riguardano i delitti di Santa Teresa,

ma ciascuna scena è come alienata dalle altre, separata e incomunicabile. Il continuo cambio del punto di vista produce una sensazione di profondo disorientamento, di seriale perdita di un senso che riaffiora a barlumi, nella traccia di un sogno, nella fantasma-goria di una visione, o tra i residui di dialoghi in cui rivelazioni fondamen-tali sul senso degli omicidi cadono nel vuoto, un momento dopo che se ne è fatta esperienza.

aver raccontato a Liz Norton le ultime novità la invitò a cena in un ristorante di Hammersmith che gli aveva raccomandato un col-lega del dipartimento di russo, e mangiarono gulasch e purè di ceci con barbabietole e pesce macerato in limone e yogurt, una cena con candele e violini, e russi autenti-ci e irlandesi mascherati da russi, esagerata da ogni punto di vista e dal punto di vista gastronomico piuttosto misera e discutibile, che accompagnarono con bicchierini di vodka e una bottiglia di bor-deaux, e che a Pelletier costò un occhio della testa, anche se ne valse la pena perché poi la Norton lo invitò a casa sua, formalmente per parlare di Arcimbol-di e delle poche cose che aveva rivelato su di lui la signora Bubis, senza di-menticare le sprezzanti parole che aveva scritto sul suo primo libro il cri-tico Schleiermacher, e poi entrambi si misero a ride-re e Pelletier la baciò sulle labbra, con grande tatto, e l’inglese ricambiò il suo bacio con un altro mol-to più ardente, forse per effetto della cena e della vodka e del bordeaux, ma che a Pelletier parve inco-raggiante, e poi andarono a letto e scoparono per un’ora fin-ché l’inglese non si addormentò

Questa fine provvisoria non pro-duce nessuna autocomprensione da parte dei personaggi, che non sem-brano – puri vettori in un campo di forze che non controllano – capire il senso delle proprie azioni. Gli eroi di Bolaño non si interrogano troppo sul significato di ciò che accade, e se lo fanno non comprendono. Gli incon-

tri e le relazioni che potrebbero avere uno sviluppo descrittivo o saggistico o introspettivo sembrano risolversi in eventi futili e banali, enumerazione di fatti privi di senso.

2. Montaggio

Non c’è niente di più tipicamente novecentesco del montaggio: una tec-nica cinematografica e avanguardistica molto apprezzata da Bolaño, al punto da essere il principale metodo compo-

sitivo di 2666. Nel montaggio, le im-magini – fotogrammi o frammenti di testo – scorrono rapidamente e in suc-cessione, proprio per quella coesisten-za di continuità e discontinuità così tipica dell’arte cinematografica; ogni inquadratura assume un senso sulla base dell’inquadratura che la precede, un valore che lo spettatore attribuisce all’immagine attuale mettendola in re-lazione con la traccia mnestica della precedente, con il ricordo temporaneo

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[2] Siccome non avevano nulla da fare tranne aspettare la partenza dell’aereo che li avrebbe riportati a Parigi e a Madrid, Pelletier ed Espinoza si dedicarono a passeg-giare per Amburgo. La passeg-giata li portò immancabilmente nel quartiere delle puttane e dei peep-show, e allora entrambi si immalinconirono e cominciarono a raccontarsi storie di amori e de-lusioni. Non fecero nomi né date, è ovvio, si sarebbe potuto dire che parlavano in termini astratti, ma nonostante l’esposizione appa-rentemente fredda di disgrazie, la conversazione e la passeggiata contribuirono soltanto a spro-fondarli ancora di più in quello stato di malinconia, al punto che nel giro di due ore si sentirono en-trambi soffocare

[3] Quasi alla fine del 1996 Mori-ni ebbe un incubo. Sognò che la Norton si tuffava in una piscina mentre lui, Espinoza e Pelletier giocavano a carte intorno a un ta-volo di pietra. Espinoza e Pelletier voltavano le spalle alla piscina, che all’inizio sembrava una piscina d’albergo come tante. Mentre giocavano, Morini osservava gli altri tavoli, gli ombrelloni, le se-die a sdraio che si allineavano sui lati. Dietro c’era un parco con siepi verde scuro, brillanti, come se avesse appena smesso di pio-vere. Espinoza e Pelletier gioca-vano a carte intorno a un tavolo di pietra. Gli sembrò di scor-gere, all’altro capo della piscina, un’ombra, e si avviò con la sedia a rotelle in quella direzione. […] Poco dopo Morini fu avvolto dal-la nebbia. All’inizio tentò di pro-cedere, ma poi si rese conto che correva il pericolo di cadere con la sedia a rotelle dentro la piscina e preferì non rischiare. Quando i suoi occhi si furono abituati vide una roccia, una specie di scoglio

scuro e iridescente che spuntava dalla piscina. Non gli parve stra-no. Si avvicinò al bordo e gridò di nuovo il nome di Liz, stavolta con la paura di non rivederla mai più. Gli sarebbe bastato un lieve movimento delle ruote per caderci dentro. Allora si rese conto che la piscina si era svuotata e che era immensamente profonda, come se ai suoi piedi si aprisse un pre-cipizio di piastrelle nere di muffa per via dell’acqua. Sul fondo scor-se una figura di donna (anche se non si poteva esserne certi) che si dirigeva verso le pendici dello sco-glio. Morini stava già per gridare di nuovo e farle segno quando intuì di avere qualcuno alle spalle. In un istante ebbe due certezze: si trat-tava di un essere maligno, l’essere maligno desiderava che Morini si voltasse e lo vedesse in volto. […] Morini poteva ancora vederla, una macchia minuscola che si accin-geva a scalare lo scoglio diventato ormai una montagna, e quell’im-magine, così lontana, gli inondava gli occhi di lacrime e gli provocava una tristezza profonda e invincibi-le, come se stesse vedendo il suo primo amore dibattersi in un la-birinto

[4] La Norton sognò un albero, una quercia inglese che sollevava e spostava da un punto all’altro della campagna, senza che nessun posto la soddisfacesse completamente. La quercia a volte era priva di radi-ci e a volte si trascinava dietro ra-dici lunghe come serpenti o come la chioma della Gorgone

La realtà quotidiana dei critici let-terari – apparentemente ciclica e ri-tuale, disincantata e sognante – può essere rappresentata solo a patto di risultare eccessiva, iperbolica, parodi-ca e, al tempo stesso, simbolicamente legata al sogno, alla visione, all’enigma.

.Tutte le parti di 2666 sono attratte, a distanze diverse, dal centro violento e delittuoso del Messico: una forza di gravitazione universale, una raffinata metonimia del male, del crimine, del-la violenza, del fondo regressivo della civiltà. Ma il monstrum ha molti volti: è delitto privato e violenza di massa, crimine individuale e sterminio seria-le, guerra coloniale e femminicidio, aggressività quotidiana e genocidi; si replica per somiglianze e differenze rispetto a un nucleo apparentemente indicibile. Se si abbandona una lettura sincronica del testo, considerando cioè i suoi elementi non nella loro succes-sione lineare ma nei rapporti che in-trattengono a distanza, si scopre che i frammenti apparentemente privi di valenza logica sono profondamente connessi tra loro, attraverso una rete di cariche positive e negative, elementi affini e divergenti che gravitano attor-no a un doppio polo: tra apparenza e realtà.

La parte dei critici

[1] Sembrava andasse tutto bene. Ma quando Amalfitano era entrato nell’acqua si era immobi-lizzato, come se all’improvviso avesse visto il diavolo in persona, ed era andato a fondo. Prima di andare a fondo, Pelletier ricorda-va che si era tappato la bocca con tutt’e due le mani. In ogni caso non aveva fatto il minimo sfor-zo per nuotare. Fortunatamente Pelletier era lì accanto e non ci aveva messo nulla a immergersi e a riportarlo in superficie. Poi si erano bevuti un whisky a testa e Amalfitano gli aveva spiegato che non nuotava da un pezzo

B.

Nel 1967 Lawrence Roberts, inge-gnere del MIT e direttore dell’Advan-ced reserch project agency, pubblicò un piano per ARPANet, una rete per la connessione e il lavoro condiviso

tra calcolatori posti a grandi distanze. Qualche anno prima, Paul Baran ave-va progettato una rete radicalmente decentralizzata e ridondante: non c’è un centro nevralgico da cui passano le informazioni, la preistorica «rete del-le reti» è una struttura senza centro; i singoli pacchetti di informazioni ven-gono scomposti e viaggiano attraverso i fili delle grandi dorsali, passando di nodo in nodo – centinaia di chilometri di cavi sotterranei – giungendo allo snodo finale (i server dei grandi pro-vider del Web) attraverso percorsi dif-ferenti. Se fosse scoppiata una guerra nucleare, le comunicazioni non si sa-rebbero interrotte.

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rada delle dimensioni di un occhio, una baia scura e serena, anche se la serenità non esisteva, esisteva solo il movimento che è la ma-schera di molte cose, compresa la serenità

[3] A tre anni Hans Reiter era più alto di tutti i bambini […] All’ini-zio camminava con passi incerti e il medico del villaggio disse che era dovuto alla sua altezza e consigliò di dargli più latte per rinforzare le ossa con il calcio. Ma il medico sbagliava. Hans Reiter camminava con passi incerti perché si muove-va sulla superficie terrestre come un sommozzatore alle prime armi sul fondo del mare

[4] A sei anni Hans Reiter era più alto di tutti i bambini […]. Inol-tre, a sei anni aveva rubato per la prima volta un libro. Il libro si intitolava Animali e piante del litorale europeo. […] A sei anni decise che un metro era troppo poco e si lan-ciò testa a picco verso il fondo del mare

[5] In quel periodo cominciò a disegnare su un quaderno ogni genere di alga. Disegnò la Chorda filum, che è un’alga composta da lunghi cordoni sottili che però possono raggiungere gli otto me-tri di lunghezza. Privi di rami e dall’apparenza fragile, sono in realtà molto robusti [6] Ma non li vedo mai, non capi-sco mai verso quale punto dell’o-rizzonte si sono lanciati. Vedo solo te, la tua testa che appare e scompare fra le onde e allora mi siedo su uno scoglio e rimando lì fermo a guardarti, a lungo, tra-sformato anch’io in uno scoglio, e se a volte i miei occhi ti perdono di vista o la tua testa ricompare a grande distanza da dove ti eri tuf-fato, non ho paura per te, perché so che tornerai a galla, che l’acqua

non può farti nulla

Arcimboldi è la contro-parte dei critici, non può essere scalfito dal Male: è singolare, sincero, puro; segue un codice di comportamento che ri-calca l’ideale cavalleresco della cortesia, e lo fa con coerenza fino alla fine della sua vita, quando decide di andare a sal-vare il nipote in Messico. Il narratore non spiega nulla del suo atteggiamen-to, ci sono ignote le motivazioni inte-riori che lo spingono a raggiungere il suo ideale e a sacrificarsi sempre per il Bene. Arcimboldi agisce semplice-mente in coerenza con la sua voca-zione e con il suo senso di giustizia (non esita ad uccidere per vendetta), come accade nei romanzi cavallereschi o nelle fiabe. Diversamente, i critici sono ingabbiati in un rituale prestabi-lito, obbligati al movimento, costretti ad adeguarsi al cosiddetto progresso, come i viaggiatori di Le voyage, la po-esia di Baudelaire che Bolano cita in epigrafe. Espinoza e Pelletier rinun-ciano ai loro sogni giovanili e tradi-scono l’ideale ricerca di Arcimboldi per inseguire la Norton, ma giunti con quest’ultima in Messico non riescono a comprendere il motivo della presen-za del vecchio scrittore tedesco né mai riescono a trovarlo.

La dimensione surreale delle spiagge estive, il fatuo riprodursi dei conve-gni universitari, l’automatismo dei rapporti sociali, rivelano in sogno il fondo oscuro e mostruoso dei luoghi e delle persone apparentemente fami-liari. Dietro la giovane critica, amica e amante Liz Norton, si cela il volto ter-ribile della Gorgone che pietrifica gli uomini con lo sguardo, la donna «orri-bile e al tempo stesso bellissima». Allo stesso modo, i delitti di Santa Teresa possono entrare nel romanzo solo a patto di essere privi di pathos, come simulazione del modo cronachistico e fintamente neutrale dell’informazione, specchio fedele degli orrori della re-altà. Per Bolaño, la letteratura e l’arte in generale riportano a galla una ve-rità profonda, al di là del superficiale occultamento dell’universo mediatico: una verità conflittuale perché tragica e bella nel mostrarci – nei resti di una statua che emerge dalle acque, nelle immagine degli uomini pietrificati dal-la Gorgone – i frammenti dei delitti, i corpi delle vittime di Santa Teresa:

[5] E allora Pelletier si met-teva a piangere e vedeva che dal fondo del mare metallico emergevano i resti di una sta-tua. Un pezzo di pietra infor-me, gigantesco, consumato dal tempo e dall’acqua, in cui però si poteva ancora distinguere,

con assoluta chiarezza, una mano, il polso, parte dell’a-vambraccio. E la statua usciva dal mare e s’innalzava sopra la spiaggia ed era orribile e al tempo stesso bellissima

Come molte figure di artisti e poeti in 2666, l’arte di fronte al male non può che impazzire: si frantuma e strepita, protesta e si immalinconisce, e profetizza e piange d’insensatezza. Come Liz Norton:

[6] Quando mi sono seduta nel let-to, però, l’unica cosa che ho fatto è stata mettermi a piangere come una pazza, apparentemente sen-za motivo

La parte di Arcimboldi

[1] Hans Reiter nacque nel 1920. Non sembrava un bambino ma un’alga. […] Non gli piaceva la terra né tanto meno il bosco. Non gli piaceva nemmeno il mare o quello che la maggior parte dei mortali chiama mare e che in real-tà è solo la superficie del mare, le onde mosse dal vento che a poco a poco sono diventate la metafora della sconfitta e della follia. Quel-lo che gli piaceva era il fondo del mare […]

[2] Quando la guercia gli faceva il bagno in una tinozza, il piccolo Hans Reiter le scivolava sempre via dalle mani saponose e scende-va sul fondo, con gli occhi aperti, e se le mani di sua madre non lo avessero riportato in superficie sarebbe rimasto lì, a contemplare il legno nero e l’acqua nera in cui fluttuavano particelle del suo stes-so sporco, pezzettini minuscoli di pelle che viaggiavano come sotto-marini in qualche direzione, una

il fondo oscuro e mostruoso

dei luoghi e delle persone apparentemente

familiari

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Le vite potenziali

Francesco Targhetta

Le vite potenziali è il titolo provvisorio del romanzo di Francesco Targhetta, di prossima uscita per Mondadori. A intrecciarsi sono le storie di tre consulenti informatici, figure emblematiche della creative class, continuamente oscillanti tra un vitalismo ecumenico - «rendere il mondo un posto migliore» at-traverso l’invenzione di nuove app - e la paura che dietro ad anglismi, acronimi e tecnicismi del mestiere si nascondano soltanto l’azienda-lismo più ottuso e un narcisismo fine a se stesso. Ne presentiamo alcune pagine che vedono prota-gonista Alberto, titolare di un’a-zienda specializzata in «erogazio-ne del servizio e vendita di licenze SAP» (uno dei principali software gestionali impiegati oggi). Ringra-ziamo l’autore e l’editore per il consenso alla pubblicazione.

Nell’aereo per Helsinki Alberto tenne acceso l’airplane mode, perché avrebbe dovuto sistemare mille cose, ma cadde quasi subito in un sonno greve e superiore ai sensi di colpa. Arrivò all’Holiday Inn accanto alla stazione dei treni ancora più stanco, privo di qualsiasi desiderio di parteci-pare all’ennesimo meeting SAP. Men-tre si faceva una doccia provava a non pensare alle scene che si stava appre-stando a vedere: l’ennesimo concerto di un artista mediocre ormai defunto a livello commerciale e costretto a ra-cimolare qualche soldo cantando di fronte a una platea di geek che al col-lege o alle superiori avrebbe associato mentalmente alla scabbia o all’invasio-ne delle locuste; dall’altra parte della sala una pista per macchinine Polistil attorno alla quale partner SAP e project

Perseo, figlio di Zeus e Danae, ri-esce a decapitare Medusa senza guar-darla in volto attraverso l’immagine ri-flessa nello scudo donatogli da Atena. Come in uno specchio in frantumi, la letteratura per Bolaño mostra costan-temente un deserto d’orrore in un’oasi di noia, il terrore dietro l’allegria, la re-altà sotto il velo dell’apparenza. «Plon-ger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe? / Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau !» (Tuffarci al fondo dell’abisso, Inferno o Cielo, che importa? / Al fondo dell’Ignoto per trovare il nuovo!) recitano gli ultimi due versi del Voyage di Baudelaire, che oppone – con l’ironica dedica a Ma-xime du Camp, il poeta che in Chants Moderns aveva lodato la magia del Va-pore e i valori del Progresso celebrati all’Exposition universelle del 1855 – lo stile al feticismo della tecnica, la ser-vitù laica dell’arte agli untuosi inchini salottieri, proclamando come unica meta del viaggio il fatale naufragio della morte, cui il poeta può sottrarsi salvando dal tempo una parte di sé, secondo un’idea che da Baudelaire ar-riva alla Recherche di Proust, che pro-prio con Temps – Tempo – si conclude. È per certi versi la stessa ricerca che Arcimboldi impara attraverso i libri e grazie ai molti scrittori che incontra sul suo cammino:

[7] In quegli anni Ansky pensa-va che la rivoluzione non avreb-be tardato a estendersi in tutto il mondo [...]. La rivoluzione, pen-sava Ansky, finirà per abolire la morte. Quando Ivanov gli diceva che era impossibile, che la morte era accanto all’uomo da tempo immemorabile, Ansky rispondeva

che si trattava proprio di questo, […] abolire la morte, abolirla per sempre, sommergerci tutti nell’i-gnoto fino a trovare un’altra cosa. L’abolizione, l’abolizione, l’abolizione.

Ma è un movimento reale e in-trinsecamente centrifugo quello che spinge Arcimboldi ad abbandonare le comodità del Paradiso degli Scrittori per un’altra più vera e autentica desti-nazione: quel México che è anche l’ulti-ma parola del romanzo.

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l’anello di un forno mastodontico. Ad Alberto era venuto il desiderio di fare quello, da grande: l’inventore di giochi, il creatore di svaghi, l’uomo dei passa-tempi. E invece da quel margine va-riopinto della vita, pieno di promesse fatate, era sdrucciolato, proprio come i peggiori concorrenti maltesi, al nucleo traditore: essere al centro di qualsiasi cosa implica che la si corromperà.

La seconda sera, dopo aver in-trattenuto le relazioni sociali d’obbli-go e aver cercato invano di ricevere qualche anticipazione sull’esito degli awards, decise di disertare l’evento. Si fece una passeggiata per la Helsinki abbietta della sera, pronta a trasfor-marsi in una successione di locali squallidi e capannelli di russi ubriachi, finché scelse di allontanarsi dalla fie-ra in modo definitivo, prendendo un traghetto per l’isola fortezza di Suo-menlinna. Sulle colline erano sparsi antichi edifici dall’aspetto vittoriano, locande in legno, musei e austere case di pescatori, mentre crocchi di ragazzi si sparpagliavano a bere e fumare tra i meandri erbosi, le grotte, le torri e gli avvallamenti. Non sentiva niente, Al-berto: era in preda a una specie di ne-vrosi esplorativa. Raggiunto un bastio-ne a picco sull’acqua, osservò il mare dalla feritoia, ma vide il blu scuro delle onde improvvisamente adombrato da una massa bianca e indistinta. Allora smise di guardare, indietreggiò e poi salì sopra il baluardo: stava passando sotto la luna un’immensa nave da cro-ciera. Il sole, come un’arancia poggiata su un tavolo, schiariva ancora le basse scogliere. Il vento quasi cessò, per un silenzio che era immacolato, provo-

candogli un fremito tale da scuotergli le spalle, come una febbre.

Due minuti dopo, mentre anda-va verso il bar sul molo che guardava Helsinki e il sole calante, gli arrivò un messaggio di un partner Osram con cui aveva pranzato: era la foto del me-gaschermo della sala congressi. Spirit of excellence award – Albecom / Italy. Avevano probabilmente fatto il suo nome e nessuno dalla platea si era al-zato. Il premio era rimasto lì, incusto-dito. Il suo posto al mondo, di fronte a lui, vacante.

manager in camicia bianca si sarebbero accalcati per sfide all’ultima curva; ses-sioni interminabili di Demo Jam dove uomini dell’information technology delle società più improbabili d’Europa si sa-rebbero messi alla prova presentando progetti inutili sviluppati su base SAP, ad esempio lavoratori della Mentadent Italia che avrebbero esposto ai colle-ghi in platea la demo di un sistema ope-rativo comandato dai joypad della wii, e nemmeno il barlume di un’idea per rendere il mondo un posto migliore. Uscito dalla doccia e indossato il con-sueto abito in fotocopia, espettorò l’ir-ritazione ruttando una bestemmia allo specchio. Lasciò l’albergo solo legger-mente stupito dalla propria brutalità.

I finlandesi fuori dai bar in Pohjoi-sesplanadi sedevano tutti guardando la strada, in modo da prendere in faccia quel sole fresco e potente che ad Al-berto non stava facendo nessuno degli effetti tipici dei soli del nord. Mentre camminava e li guardava, aveva l’im-pressione che si fissassero a vicenda come un visitatore allo zoo e il gorilla in gabbia. Alberto suppose che i fin-landesi si sedessero così, sullo stesso lato dei tavolini, soltanto per poter guardare le medesime cose e commen-tarle assieme, non avendo, per il resto, nulla da dirsi.

Non appena sulla destra comparve il mare, si ritrovò sferzato da un forte vento cui preferì sfuggire, rientran-do nel cuore della città; fu così che, arrivando nella piazza del duomo, ri-mase abbacinato, più ancora che dal biancore delle colonne e dei palazzi, dalla continuità tra il verde acquoso delle cupole e la spianata traslucida del

cielo. Probabilmente l’avrebbe vinto Albecom, il premio Spirit of excellence per il partner migliore nell’erogazione del servizio e vendita di licenze SAP in ambito e-commerce nella zona EMEA; ma cosa se ne sarebbe fatto?

Alla keynote session, nonostante l’af-follamento, Alberto adocchiò Beatri-ce. Era molto carina: non l’aveva mai notato. Decise, comunque, che non le avrebbe rivolto la parola. Il vicino di poltrona gli rivelò che durante la festa, la sera successiva, si sarebbe esibita Anastacia. Alberto pensò che sarebbe stata l’occasione ideale per poter svi-colare e farsi un giro a Suomenlinna per godersi il crepuscolo tardivo ed estenuante del giugno finnico: a che ora sarebbe tramontato il sole? Alle dieci e mezza? Alle undici? Se solo Paola fosse stata con lui: la condivisio-ne dei tramonti è uno dei puntelli che tengono in piedi l’umanità. Non biso-gnerebbe farci una App? Se lo annotò.

Tutti i dettagli sul meeting SAP che si era immaginato in doccia furono confermati dalla realtà; oltre al torneo di formula uno Polistil, si svolse anche una sfida tra macchine radiocomanda-te e una gara tra droni. Vinsero sem-pre gli ungheresi, come a Giochi senza frontiere: avrebbe dovuto assumerne qualcuno. Guardandoli giocare, ricor-dò quando la trasmissione era arrivata a Treviso, sul prato della Fiera: Alber-to si era limitato a osservare le struttu-re gigantesche dall’esterno, appoggia-to a una transenna: gli scivoli immensi, le vasche d’acqua, i pilastri colorati, le reti in canapa, i misirizzi monumentali, le pareti su cui arrampicarsi lanciando oggetti a forma di pagnotta dentro

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L’occhio dell’alieno

Il VEGA (VEnice GAteway for Science and Technology) è un sito compo-sto da quattro distretti che si espando-no fino a occupare un’area di ventisei ettari. È uno dei più importanti parchi scientifico-tecnologici d’Italia. Svolge una funzione di networking, offren-do opportunità di collaborazione tra l’Università, il mondo dell’impresa e svariati centri di ricerca. I settori di cui viene privilegiato lo sviluppo all’inter-no della struttura puntano prevalen-temente sull’innovazione tecnologica: nanotecnologie, Information Communi-cation Technology e Green Economy.

Il VEGA occupa la medesima area in cui negli anni Venti del secolo scorso le prime imprese cominciarono a insediarsi a Porto Marghera. Qui i primi stabilimenti vennero edificati e messi in attività grazie agli investimen-ti di grandi gruppi imprenditoriali e fi-nanziari, primo tra tutti quello di Giu-seppe Volpi, Conte di Misurata, futuro Ministro delle Finanze e presidente di Confindustria dal 1934 al 1943. Senza le agevolazioni fiscali garantite dal go-verno del tempo qui non sarebbe stata possibile la costruzione di alcunché. Gli edifici che oggi compongono il

I.

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Cammino lungo Via delle Industrie in direzione di Fincantieri. È una serena mattina di primavera. Se non fosse per la consapevolezza di trovarmi a Porto Marghera, avrei l’impressione di respirare un’aria salubre, forse addirittura for-tificante. Alla mia sinistra si ergono i resti di qualche stabilimento. Hanno una facciata dalla conformazione convessa e si espandono oblunghi in profondità. Questo li rende simili ad hangar, ma a vederli per come si presentano oggi ri-cordano piuttosto lo scheletro cavernoso del ventre di un cetaceo, o magari piuttosto di un qualche pachidermico animale primitivo, dinosauri o qualcosa di simile. Non si può entrare nell’area in cui i mostri del passato dormono il loro sonno eterno. Li si guarda solo da distante questi colossi ossei. L’arco in cemen-to armato da cui i lavoratori entravano per poi immergersi nelle pance di queste mastodontiche balene si staglia imponente in tutta la sua severità. Sembra la Porta del Tempo, una soglia che, come i cancelli d’ingresso ai cimiteri, se ne sta lì alludendo a qualcosa di intimo, che tuttavia ciascuno dimentica mentre è in vita.

parco del VEGA sorsero negli anni Novanta del Novecento. Andarono a sosti-tuire gli stabilimenti precedentemente attivi nell’area, che appartenevano perlo-più ad aziende produttrici di fertilizzanti chimici per l’agricoltura. La loro costru-zione rientra all’interno di un programma di riqualificazione ambientale, gestito da una società consortile a responsabilità limitata e senza fini di lucro, al cui interno figurano il Comune di Venezia, Veneto Innovation, la Provincia di Venezia, l’Università Ca’ Foscari e IUAV. Senza i fondi strutturali garantiti dall’Unione Europea nessun progetto di conversione di Porto Marghera in un distretto del terziario avanzato avrebbe mai potuto essere attuato.

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Sulla causa dell’estinzione dei dinosauri nella scienza permangono a tutt’oggi veli di mistero. Gli studiosi non sono in grado di offrire a riguardo una teoria coerente ed esaustiva. Alcuni sostengono che la loro scomparsa sia avvenuta a causa di un meteorite precipitato sulla Terra, il cui impatto avrebbe generato nell’atmosfera un calore tale da sconvolgere completamente le condizioni clima-tiche che garantivano ai pachidermi la conservazione della vita. Altri invece – più temerari, forse; sicuramente meno rigorosi – si spingono a dire che la ragione della loro fine sia da attribuire a un contatto avvenuto con popolazioni extra-ter-restri. La responsabilità dell’estinzione della specie sarebbe da ricondurre dun-que a quando sulla Terra – per la prima volta – arrivarono gli alieni

II.

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L’occhio dell’alieno è una perla d’inchiostro; sembra una goccia caduta da una perdita proveniente dal toner di una stampante a sintetizzazione laser. Ciò che l’alieno guarda si imprime sulla retina dell’occhio. Il mondo, nell’occhio dell’alie-no, diventa un riflesso. Le cose che c’erano prima non ci sono più. Perdono di consistenza. In compenso ciò che ne rimane viene sostituito dall’occhio stesso dell’alieno. Diviene in esso un’immagine potenziata da effetti di realtà aumenta-ta. Nella pupilla dell’alieno vivono fantasmi lucidi. Sono trasfigurazioni di pas-sato lanciate verso contorsioni temporali che protendono al domani. Ciò che esiste ora e ciò che è esistito acquistano nell’occhio dell’alieno l’aura del divenire. Lì ciò che rimane del tempo trascorso e il parziale dell’ora vengono integrati nell’avvenire, vanno verso il compiuto; e questo processo ha per nome progres-so. L’alieno è venuto dal futuro affinché si possa essere fin da oggi ciò che si sarà domani. Passato e presente si depositano sulla superficie dell’occhio dell’alieno, vi si addentrano e ne percorrono le terminazioni nervose, giungono al centro delle sintesi neuronali, ritornano sotto forma di riflesso sulla patina lucida della pupilla, sembrano immagini che occupano uno schermo, ribaltano nel rimando speculare la prevedibilità dell’asse del tempo, divengono la trasposizione iconica di un’idea passata che ritorna dal futuro.

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Quando arrivarono gli alieni i dinosauri se ne andarono.La Terra cambiò volto.

Alcuni ancora faticano a riconoscerla.

Da una parte c’è lo sguardo dell’alieno. Dall’altra ciò che lo sguardo dell’alieno osserva.Lo sguardo dell’alieno è un raggio potente e pericoloso.

L’alieno cattura sulla superficie del proprio occhio ciò che il raggio colpisce. Il raggio polverizza ciò che colpisce.

Sotto lo sguardo dell’alieno la materia evapora.

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Da fuori il campo-base della stazione aliena appare come un insieme ben strut-turato di costruzioni sobrie e lineari. Il loro andamento formale segue le diret-trici geometriche del parallelepipedo o della piramide. Hanno dimensioni impo-nenti e maestose, eppure non suscitano alla vista il senso d’autorità e pesantezza che ci si aspetterebbe da edifici di tal fatta. Sono enormi, ma non dominano il paesaggio: piuttosto lo assorbono. Queste costruzioni hanno introiettato nel proprio lessico formale il campo semantico irradiato dal termine integrazione. Estremamente diverse dallo spazio intorno e perfettamente a proprio agio nella differenza, liquidano l’alterità che esse stesse rappresentano in una sapiente ma-estria di riflessi. Le costruzioni degli alieni appaiono leggere. Armonizzano nel vetro rifrangente la spigolosità arcigna degli insediamenti autoctoni. Catturano e convertono ciò che è pesante nell’innocenza della superfice.

Non vogliono conflitto. Gli alieni vengono in pace.

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III.

Sto per entrare in uno di questi edifici. Qui non è come nel cimitero dei dino-sauri. Chiunque può accedervi. Le soglie sono aperte. Non sono accoglienti. Non invitano a essere varcate, eppure sembra comunque che qualcuno abbia deciso che nulla debba ostacolare l’afflusso dei passanti. All’interno mi aspetto molto fermento e arredamenti scintillanti, tonalità che incoraggiano l’avvenire. Mi aspetto il movimento del nuovo: nei volti di coloro che incontrerò, negli abiti che indosseranno, negli oggetti e nei dispositivi che utilizzeranno. Questo posto è in fondo una cellula di futuro in un luogo traumatizzato dal proprio passa-to recente. La Storia ha distrutto l’ambiente intorno, l’ha utilizzato e piegato a proprio vantaggio. Questo posto in fondo serve a dare ancora speranza, a non gettare via ciò che per abuso è divenuto ormai inutilizzabile. Chi lavora qui den-tro è gente che ha scelto: gente positiva in cammino sulla via che porta al futuro. Dinamismo, velocità, creatività e innovazione se vuoi restare al passo. Altrimenti torna da dove sei venuto. Esaurita la stagione in cui progresso significava seria-lità e standardizzazione, qui dentro per reggere la corsa ci vuole lo slancio del genio, il fulmine dell’idea. Gli alieni sono esseri intelligenti. Usano la mente per portare il futuro nei luoghi dove approdano. Predispongono gli spazi in modo tale da stimolare velocità e reattività celebrali.

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Eppure è come se qualcosa fosse andato storto. Nel bianco delle pareti, nelle fughe prospettiche che dirigono il protrarsi dei corridoi, nel freddo opalino delle luci al neon, si avverte l’alone di una presenza anteriore, che sembra venire prima e che probabilmente nemmeno i costruttori stessi ebbero tenuto in conto nel momento in cui eressero questi edifici. Qualcosa qui dentro rimanda al rigore necessario che la malattia richiede alle stanze in cui se ne consuma la conva-lescenza. Una volta entrati, più che all’interno di una fucina di innovazione e sviluppo, qui dentro si ha l’impressione di essere in un luogo di cura. Come le prigioni o le scuole, anche gli ospedali necessitano di dedicare porzioni del proprio spazio a zone adibite per funzioni di ricreazione. Il personale, tanto quanto i convalescenti, è quotidianamente sottoposto a situazioni di stress. Chi lavora negli ospedali non ha orari di lavoro. Esistono nella ripartizione dei turni griglie sommarie che indicativamente sanciscono per ciascuno la quantità gior-naliera di ore di prestazione previste. Ma come per i movimenti orbitali e le rotte dei pianeti, come per le curvature diagrammatiche sugli schermi che inseguono il fluttuare delle monete, così nei luoghi laddove gli uomini controllano la vita e la morte degli uomini il tempo esiste soltanto nella dimensione in cui le scansioni cronologiche sono interrotte. Chi lavora negli ospedali lavora sempre, anche a casa. Chi lavora negli ospedali necessita, anche a lavoro, di distendere i nervi quando la pressione sui gangli giunge a varcare le soglie del contenibile.

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A Marghera la Storia è arrivata nei primi decenni del Novecento. A Marghera la Storia ha preso il nome di S.A.D.E.; di Vetrocoke, poi Pilkington; di

Breda, poi Fincantieri; di Montecatini, poi Montedison; di Sava, poi Alumix; e molti altri.La Storia a Marghera ha avuto molti nomi.

La Storia a Marghera si è ritorta in una malattia che corrode l’ambiente.Oggi, a Marghera, la Storia prende il nome di VEGA.

Il VEGA avrebbe dovuto essere il sanatorio in cui curare le malattie di Marghera.

Ma Marghera, malata, con la sua Storia si è ritorta contro il VEGA.Marghera, malata, con la sua Storia corrode l’ambiente del VEGA, suo sanatorio.

Quando intaccano un corpo le malattie raramente lo attraversano senza lasciar-ne in superficie i segni del proprio passaggio. Nel breve termine, la testimonian-za del loro arrivo prende forma di ferita; di cicatrice, se il tempo trascorso si fa consistente. A volte invece la malattia è il tempo stesso; o meglio, sono le cose che accadono nel tempo, ossia quella serie congiunta di circostanze ed eventi, che presi insieme si rapprendono intorno a un concetto essenziale e sfuggen-te: una sorta di complesso fascio di intersezione, intorno al quale oscillano tra passato, presente e futuro il dato e il virtuale, che gli uomini livellano attraverso l’impiego del termine Storia. La malattia è questa operazione di livellamento del tempo, che si materializza sulle superfici dei luoghi sotto forma di ferite; poi necrosi quando queste ferite non sono curate.

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E poi a volte le bende entrano a far parte delle ferite.Allora la differenza tra dinosauri e alieni diviene più che altro una questione di tempo:

per chi era qui prima dei dinosauri, i primi alieni furono i primi dinosauri

Il VEGA è una benda troppo stretta, posta a coprire i margini di una ferita che ancora si espande.

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IV.

Cammino lungo il Canale Industriale Sud in direzione del mare. Il VEGA non è il luogo che immaginavo prima di entrarci. Mi aspettavo brulichio e fermento. Ho trovato desolazione. Non ho incontrato nessuno al suo interno. Gli uffici erano chiusi. Le mattonelle dei pavimenti si ribellavano all’asse orizzontale che avrebbe dovuto appianarle per rendere agevole il passo. Agli angoli delle pare-ti c’erano oggetti abbandonati: pacchi di volantini, elenchi telefonici dal 2005, sedie rotte, pannelli di cartongesso, carta da imballo. Tutto era fermo. Nell’aria si respirava l’atmosfera di una catastrofe lontana, dalle ripercussioni tuttavia in atto, che ancora interrompono il fluire delle cose che dovrebbero portare in avanti la vita. Penso che in Ucraina, dopo Černobyl’, per un po’ di anni si debba aver vissuto più o meno così. Le uniche persone che ho incontrato sono state due turisti russi, un ragazzo e una ragazza, che si erano persi e cercavano indica-zioni per andare a Venezia. Mi hanno chiesto in inglese dove potevano prendere il treno per attraversare il Ponte della Libertà. Ora sono su questo canale industriale che taglia a metà la zona del Petrolchimico di Porto Marghera. Vedo chiatte enormi attraccate ai margini della banchina e gru altissime caricarvi sopra container. Vedo uomini camminare, alcuni correre, lungo i pontili delle navi. Sulla strada che costeggia in parallelo il canale vedo camion solcare il rettilineo in direzione dell’entroterra: il rumore delle ruote sull’asfalto mi morde le orecchie. Le cose si muovono. Sono pesanti, metalliche, puzzano, sono oleose, sono mangimi, fertilizzanti chimici prodotti in labora-torio attraverso la sintesi dei polimeri, sono combustibili, plastiche, panelli di plexiglas: producono ricchezza, muovono il mondo e al contempo lo distrug-gono, lentamente. Provengono dalla pancia di dinosauri che l’occhio dell’alieno mi aveva fatto credere fossero estinti. Ora non riesco a capire quale dei due sia maggiormente temibile.

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Il pesce ormai manda sempre meno sussulti. Il suo respiro si fa sempre più flebile. Non sembra più che la pelle esploda quando si gonfia in cerca di ossige-no. Piano piano lo spirito della lotta cede spazio a qualcosa di ineluttabile, che sembra non trovare altre forme per esprimersi se non nella resa. Il pesce sta per morire. Ha lo sguardo che punta al niente. L’occhio del pesce è un vuoto profondo. Il suo interno sembra raccogliere tutto il buio e la disperazione del mondo. La superficie dell’occhio invece è limpida, brilla di riflessi che splendono al sole e rimandano a chi lo osserva le cose del mondo, gli uccelli del cielo e le gru del porto. Ormai il pesce ha abbandonato la vita. Mi giro per andarmene. In fondo l’occhio di questo pesce morto in una serena mattina di primavera non è poi così dissi-mile dall’occhio dell’alieno.

Sono arrivato al fondo di questo canale. Qui davanti si apre il mare in una distesa color cenere. I raggi del sole proiettano sulle increspature dell’acqua una griglia irregolare di scaglie minime che luccicano intermittenti. Un uomo che sembra vecchio come il mondo getta una lenza retta dal bastone di una canna. Ha la pelle terrosa, tra il verde e il rossastro, come il colore del bronzo. Lo vedo da lontano, non ne riconosco i lineamenti, ma gli noto in volto rughe profonde. Su quella sua pelle di terra, le rughe sembrano percorrerlo come solchi di aratro. Sta pescando e mi chiedo perché lo faccia. Non per nutrirsi. Solo un folle mangereb-be una sardina cresciuta tra le acque del Petrolchimico. Forse il suo è solamente il diversivo di un pensionato che tenta di ammazzare il tempo perché non sia il tempo ad ammazzarlo. Oppure questo suo gesto significa qualcos’altro. Forse si tratta di una specie di ricerca, magari annoiata, ma non per questo meno ostina-ta. Forse questo gettare la lenza significa anche chiedersi che cosa resti, in queste acque di olio e catrame, di ciò che esisteva prima che esistesse tutto il resto. La natura, in fondo, è dura a morire. La punta della canna si piega e trema. Ha abboccato qualcosa. L’uomo tende la schiena. Tira il gancio del mulinello e inizia ad arrotolare la lenza. È un pesce piccolo, sicuramente. L’uomo non sembra in difficoltà. Recupera metri di filo. Il pesce è sul pelo dell’acqua. Allunga un braccio per afferrare il retino. Lo im-merge in corrispondenza di dove la superficie si increspa. Il pesce è nella rete. L’uomo fa leva sul braccio, congiunge in un unico asse la canna e il retino, li regge entrambi con un pungo solo (è proprio un pesce piccolo), muove i due bastoni in aria disegnando un arco di novanta gradi che dal centro punta alla sua sinistra, si ferma per un istante a osservare il pesce che sbatte e dimena la rete; infine deposita il tutto a terra. Si avvicina ed estrare il pesce dal retino. Lo afferra con le mani e gli infila due dita in gola. Afferra l’amo con l’indice e il pollice. Lo smove con forza. La bocca viscida del pesce lascia colare sul corpo argenteo un rivolo scuro di sangue. Il pescatore dà uno strappo, estrae l’amo e appoggia il pesce a terra. Con la coda il pesce molla schiaffi alla terra e al vento. Il pescatore raccoglie la sua roba. Chiude la canna e accorcia il retino. Si dirige verso l’auto-mobile parcheggiata a cinque metri da lì. Apre il baule. Infila i suoi arnesi. Apre lo sportello del guidatore. Si siede sul sedile. Chiude lo sportello. Mette in moto, afferra il volante e se ne va. Fino a quando non scompare, resto a guardare l’automobile del pescatore allon-tanarsi, ripercorrendo il rettilineo che costeggia il canale. Se ne è andata. Intorno non rimane nessuno. Vedo solo nel cielo le traiettorie mobili disegnate dal volo di qualche uccello. Mi giro verso il mare e inizio a camminare in direzione del pesce. Dà ancora ogni tanto qualche sussulto. Dopo lo scatto il suo corpo sbatte a terra cadendo dal lato opposto a quello che precedeva il salto. Non si muove quasi più, ma respira ancora. Le branchie sono divelte. Scoprono al loro interno il rosso rubino delle interiora. Ad ogni respiro il pesce si gonfia. Ad ogni respiro la sua pelle sembra che stia per esplodere.

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Voci

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di impiego e un certo modo di re-lazionarsi all’interno dell’azienda. Come sono gestiti i rapporti fra datore di lavoro e dipendenti nella tua agenzia? Ti sembrano orientati a una gerarchia verticistica, o ten-dono ad un’orizzontalità?

Questo tipo di lavoro creativo, che ha a che fare con la produzione di immagini pubblicitarie –meglio: di contenuti pubblicitari – coinvolge del-le competenze che hanno vari livelli di specializzazione: c’è quello basico, quello un po’ più specializzato, quel-lo più competente. Questo va quindi a creare una struttura gerarchizzata, più verticale che orizzontale. Esistono vari livelli di organizzazione di un’a-genzia come la nostra, ci sono quelle più orizzontali e quelle più verticali. Io

Marco Vezzaro

La parola ai lavoratoriIntervista al creativo

Intanto una domanda generale: in cosa consiste il lavoro di cui ti occupi, è possibile definirlo crea-tivo, credi che sia adeguatamente retribuito?

Noi prendiamo in appalto la ge-stione dei canali di social marketing di brand di vario tipo, di diversi settori merceologici, ne sviluppiamo una stra-tegia editoriale e produciamo i conte-nuti che fanno parte di questa strate-gia, oltre a fare campagne anche più strutturate. Rispetto alla retribuzione mi sembra adeguata, forse un po’ al ribasso rispetto agli altri paesi europei.

Provando a capire cosa sia oggi il lavoro creativo e che idea di mon-do ci sia dietro, abbiamo notato una corrispondenza fra questo tipo

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sullo stesso piano.

Cambiamo un attimo argomen-to. Hai appena spiegato quello che fai, quale è il tuo lavoro, in cosa consiste; vorrei chiederti se secon-do te questo tipo di produzione di immaginario, legata al lavoro cre-ativo, ai social, a nuovi canali per veicolare il messaggio, cambi la relazione fra l’uomo e il mondo de-gli oggetti. Secondo te, con i lavo-ri come il tuo, con quelli simili al tuo, muta ciò che l’individuo pensa quando acquista qualcosa, quando ha a che fare con un oggetto?

Qui si esce dal settore della crea-tività: se lavori nel marketing, impari a vedere i prodotti da un altro tipo di prospettiva. Che ne so: lavorando agli shampoo, mi sono accorto che alcuni puntano la comunicazione sul tecnico, quindi su informazioni tecniche: par-ticelle, molecole, cose che vanno ad influire sul tuo capello; e invece altri puntano tutto sul misticismo, sull’eso-terismo, sulle fragranze, su quelle cose là: sono due tipi di comunicazione di-versa per lo stesso prodotto.

Quindi va al di fuori dello spa-zio della creatività, perché è il mar-keting.

Credo di sì: in un lavoro che tutti da fuori considerano creativo, c’è una parte di ‘creativi’ e una parte invece che ha più a che fare con l’analisi, la logistica, con altre questioni; però tutti hanno presente le stesse informazioni a proposito del mercato in cui opera-

no. Credo che sia il fatto di lavorare nel marketing a cambiare il tuo ap-proccio nei confronti del prodotto

Se ti chiedo di definire il lavo-ro creativo, come lo definiresti? Se uno apre un dizionario degli anni Novanta, il creativo è il pubblici-tario, quello che lavora nel marke-ting; però noi stiamo parlando di un’altra cosa: nel sentire comune la parola si è risemantizzata: non è più il pubblicitario, è qualcos’altro.

Io non avrei detto così, avrei det-to che la concezione più vecchia del creativo è quella dell’artigiano, mentre la concezione attuale ha più a che fare con il mondo della pubblicità, o col mondo digitale in generale

La parola creatività in italiano nasce negli anni Cinquanta, non c’è prima, ed è legata al mondo della pubblicità; anzi, oggi sembra più vicina al mondo dell’artigiana-to, ha creato questo alone seman-tico... Nemmeno noi lo sapevamo!

Pensa che adesso in gergo interno le creatività, al plurale, sono sinonimo di contenuti, o le cose che abbiamo prodotto... lo usiamo noi, ma penso sia una cosa abbastanza comune. ‘Le creatività’ è diventato sinonimo di ‘i contenuti’!

Per rispondere alla tua domanda, che cosa vuol dire un lavoro creativo: in generale si tratta di partire da alcu-ne informazioni e raggiungere un de-terminato obiettivo; e in mezzo – tra queste informazioni e questo obiet-

le ho sperimentate entrambe, vedo che funziona di più il verticale, a livello di divisione del lavoro, di divisione delle competenze, e anche per il fatto che sono lavori che vanno gestiti da un team di 2-3 persone al massimo, se si allarga troppo, se troppe persone han-no da dire, non sono ottimizzati tem-po e sforzo.

Se mi parli invece di clima lavora-tivo legato alla gerarchizzazione, direi che non è dipendente dal genere di lavoro, creativo o meno: ci sono po-sti in cui c’è un clima assolutamente rilassato e disteso, come può essere da noi, però so anche di posti che fanno lo stesso tipo di lavoro, proponendo lo stesso servizio, che invece hanno un’organizzazione e un clima vecchio stile. Penso non dipenda dal tipo di lavoro.

Sembra, ad esempio, che Goo-gle – naturalmente è un altro ordi-ne di grandezza, oltre che di lavoro – lasci un 20% del tempo lavorativo libero, dedicato alla discussione, al gioco, al confronto, cose di questo tipo: in questo spazio nascerebbe-ro le idee migliori. Per questo ti chiedevo rispetto all’ambiente di lavoro...

Beh, è vero, è vero che dovreb-bero esistere o già esistono momenti di questo tipo. La distrazione è anche un po’ un valore aggiunto, nel senso che vengono fuori delle idee, vengono fuori dei metodi risolutivi - non sem-pre è così, non è scientifico: più che lasciare tempo per il gioco è lasciare tempo per concentrarsi sulle proprie

inclinazioni. Alla fine è quello il tuo valore aggiunto come professionista, se sei in ambito creativo: quello di prenderti un po’ di tempo per guar-darti alcune tendenze, per aggiornarti su cose che non sai... Ovviamente se hai le otto ore lavorative tutte impe-gnate da quello che devi fare non ri-esci ad andare avanti in questo senso, o comunque non riesci a condividere qualcosa con un tuo collega, con cui magari può nascere qualche idea.

Posso fare una domanda? Inve-ce la retorica c’è? Il tuo capo la usa la retorica dell’orizzontalità, del «siamo tutti allo stesso livello»... Oppure è un capo?

No no, è un capo.

Pensavo che ci puntassero all’o-rizzontalità, almeno a livello di di-scorsi...

No, anche perché è una favola che non funziona, sia da un punto di vista di responsabilità oggettive che da un punto di vista di retribuzioni. Creereb-be più malumori sopiti che altro. Nes-suno vuole lavorare in un ambiente in cui a qualità differenti si risponda con uguali oneri e uguali onori, non può nascere creatività da un appiattimento generale - nel nome di che cosa poi? A differenza dell’associazionismo, in un’azienda o in un’agenzia ci sono di mezzo ambizioni personali, confronti, sfide. La causa comune è importante, ma solo fino a quando coincide con l’obiettivo personale.

Nessuno si illude che si sia tutti

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C’è una penetrazione che è di livel-lo diverso adesso. Non è più l’uso del media per raggiungere il consumatore, è il consumatore che fa un uso del me-dia per arrivare al brand, e sono due cose opposte.

Opposte, perché da una si cer-ca il consumatore, dall’altra ci si fa cercare. Questo è un discorso ab-bastanza complesso...

Sto parlando dello sviluppo degli ultimi mesi: bisogna vedere dove va, quanto è realizzabile. Questi marchin-gegni sono delle mappature della re-altà, fatte attraverso una fotocamera. Raccogliendo questi dati, in qualche server di facebook c’è una mappatu-ra dettagliatissima di porzioni enormi di mondo, a disposizione di chi voglia farci pubblicità.

La riflessione del Novecento te la chiamerebbe colonizzazione dell’immaginario, a un livello im-pensabile con l’industria culturale quasi preistorica degli anni Sessan-ta, Settanta e anche Ottanta! Anche con la televisione...

Capire gli interessi di un consu-matore adesso potrebbe sembrare più facile, ma è molto più complesso, perché si hanno a disposizione molti livelli di lettura. Se una volta li potevi raggruppare come interessati a questo, interessati a quello, o ‘donne di 40-50 anni’, ecc., queste categorie adesso sono infinitamente stratificate: devi andare a prendere il settore giusto per raccoglierli tutti.

Cambiamo campo. Sai che l’e-splosione dei concetti di creatività e lavoro creativo coincide con la pubblicazione nel 2003, del libro di Florida, L’ascesa della classe creativa: una quindicina d’anni fa. Usando i termini suoi, ti chiedo quali sono le caratteristiche della classe creativa, e se secondo te esi-ste un riconoscimento sociale per chi fa questo tipo di lavoro.

Probabilmente se tu facessi la stes-sa domanda ad altri cento miei col-leghi, tutti ti darebbero una risposta opposta alla mia. Io sono abbastanza disilluso sulla cosa. Secondo me, lavo-rando in ambienti creativi, ti capita di avere a che fare con persone che val-gono veramente poco: sia, meramen-te, dal punto di vista professionale, che da quello di voglia di mettersi in gioco… Secondo me, la prerogativa per fare questo lavoro è una specie di compenetrazione degli interessi, complanarità dei saperi, saper appli-care Calvino al detersivo diciamo. Dal punto di vista del grafico, può essere prendere Bruno Munari per parlare di birre, sigarette, pantaloni... Tu hai comunque il prodotto come punto di partenza. Il prodotto racconta solo se stesso; tutto quello che ci sta introno ce lo devi mettere tu, e ce lo metti con le tue conoscenze, che derivano dalla tua preparazione scolastica, universita-ria ed anche personale.

Quindi, attorno a te trovi una carenza in questo senso?

tivo – si crea qualcosa da zero. Poi, ovviamente vediamolo in senso meno demiurgico! Di fatto sviluppi qualco-sa che prima non c’era, o sviluppi un adattamento, comunque si tratta di un contenuto inedito, se vogliamo chia-marlo così.

La seconda parte di questa sezione riguarda l’uso di internet e dei social. A parti-re dalla prospettiva del tuo lavoro, ti chiedo una rifles-sione sulla loro importanza, e sui cambiamenti che hanno comportato a livello di espe-rienza che l’indi-viduo può fare nel mondo

Io e te abbiamo la fortuna, se vuoi, di poter parlare a cavallo fra due mondi: conoscevamo il prima, conosciamo il dopo, e non siamo né troppo vecchi da non capire questo mondo nuovo, né così giova-ni da non poter immaginarcelo senza. Forse siamo quelli che possiamo capi-re meglio questo cambiamento.

Sicuramente può aver reso l’espe-rienza del mondo un po’ più condi-visa, ma anche un po’ più ‘sempre in scena’... Adesso sto guardando con abbastanza interesse, e un po’ di in-quietudine, i video che i nuovi padri pubblicano su facebook, su insta-gram... Vedo che alla fine anche i loro

figli in qualche modo diventano pro-dotti. Vedo il padre che per scherzare mette il berrettino firmato al bambi-no, gli fa un video, gli fa una foto, li pubblica, si prende centinaia di con-divisioni perché è ‘carino’: perché è un bambino e perché di mezzo c’è un prodotto. È un’esperienza nuova, per

quanto mi riguarda! Si sta parlando di

realtà aumentata, si sta parlando di cam-bio di concezione della pubblicità: una volta erano i marchi che andavano a cer-care di raggiungere un pubblico tramite i media; a questo si sono poi aggiunti i social media; adesso la cosa si sta facendo anche più inquietan-te. Ci sono queste esperienze di realtà aumentata: tipo i fil-

tri sulle foto di snapchat, che poi sono diventati anche di instagram e di fa-cebook. Cosa succede: non è più la tastiera il mezzo di espressione delle persone, ma è la fotocamera. La fo-tocamera aggiunge elementi di realtà aumentata a quello che cattura con la lente; molto spesso i brand ci infilano i prodotti, prodotti finti che nella real-tà non ci sono. Tu puoi fare una foto a una tavola, che ne so, una marca di birra si mette in mezzo, crea il filtrino della birra, e quando fai la foto ti com-pare la birra sul tavolo. Tu che sei un consumatore ci giochi, ma di fatto stai facendo il gioco del brand!

tu che sei un consumatore

ci giochi, ma di fatto stai facendo

il gioco del brand!

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Mi sembra un discorso lucido. Non c’è niente di spirituale, o di separato, ma è una competenza, un saper far bene un mestiere sfac-cettato, che ha a che fare con im-maginario, lingua, design, grafica.

C’è un po’ di innato, ma sta tutto nell’essere una persona curiosa e di-sposta a guidarsi da sola nell’aumenta-re le proprie competenze. Se ti accon-tenti di quel che hai imparato a scuola non vai tanto lontano... In ogni caso stiamo parlando di personalità, non di capacità di chissà quale tipo!

Infatti l’ultima domanda riguarda il rapporto con l’arte. Che rapporto ti sembra esiste fra creatività, come viene intesa nel lavoro creativo, e l’arte?

È sicuramente un rapporto molto stretto, in questi termini. La pubblicità può anche essere vista come i sotterranei del palazzo della poesia e delle arti figurative, perché di fatto si tratta di linguaggi visivi e testuali, con dei sotto-strati. Che siano destinati al mercato è soltanto una differenza di destinazione, ma obbediscono agli stessi meccanismi, se ne fregano della critica perché l’unico critico è il con-sumatore. Dicevo: più sei interessato all’arte, più riesci a raggiungere posi-zioni elevate in una gerarchia azien-dale di quel tipo. Gli art director, i copywriter più alti, sono sempre per-sone che vanno a mostre, hanno una preparazione seria dal punto di vista letterario e artistico; sono mancati ar-chitetti, mancati insegnanti, mancati

scrittori...

Una cosa che si legge molto spesso nelle stronzate di cui, in merito a questo argomento, inter-net è pieno, è un altro discorso ri-spetto all’arte. Questo che fai lo ca-pisco benissimo: una quotidianità con un certo tipo di espressione ti dà più strumenti, input e interessi per sviluppare un discorso semio-tico sul prodotto. Quel che invece si legge è: ‘Il creativo è l’artista’. Su questo tipo di affermazione, che mi sembra circoli abbastanza - il creativo come artista - una li-nea che lega Leonardo Da Vinci al copywriter del 2017- che opinione hai?

È una domanda difficile. Ad esempio, noi lavoriamo molto con la memetica, con i meme. Si tratta di un linguaggio nato con i social network, principalmente di stampo parodistico, che ha la propria forza nell’infinita e continua riproducibilità: è riproduci-bile da tutti, e all’infinito. Prende un significato, lo rovescia e lo moltiplica all’infinito. Ovviamente in comunica-zione funziona tantissimo, perché fa il giro del mondo in due secondi. In sé è un linguaggio nuovo: veramente l’unica novità semiotica uscita dall’era digitale, o almeno la più importante, e presto avrà lo status di arte – quando ci sarà un minimo di codifica, di di-stacco, di comprensione della cosa; ci sono alcuni umorismi da social che sono dirompenti, e anche di livello molto alto. Credo che non mancherà tanto alla prima mostra di meme...

Sì, tanta gente che salta il passag-gio, e che ama definirsi creativa come i cinquantenni che vanno ai corsi serali di poesia amano definirsi poeti!

[risate]Di questo sto parlando! È bello

sentirsi creativi, pervasi dalla furia bac-chica, ma in realtà la creatività non è una qualità, è un mindset, un’attitudine mentale, che si può imparare, svilup-pare, perdere o non trovare proprio, ma non è un ‘sono portato per questo, lo faccio’. Ci sono cose che mi ven-gono molto naturali: i giochi di parole mi vengono naturali, ma perché ne ho sempre fatti tanti, mi sono allenato su questo, perché ho letto su questo, ho sviluppato una tecnica. Non credo ci sia una prerogativa diversamente dalle altre professionalità. Questo concetto di creatività non crea una classe socia-le, non crea una categoria sociale sepa-rata dal resto!

Florida tirava fuori la classe creativa non in senso marxiano. La sua domanda è: come fare a cre-are le condizioni per un maggior sviluppo economico nel terziario avanzato? Bisogna fare in modo che proliferi la classe creativa. E come prolifera? Con la tolleranza, con la tecnologia, e con il talento..

Il talento innato!Patria e famiglia!

In queste categorie mette in mezzo anche il gay index: dove c’è un più alto numero di omosessuali ci sono più creativi. Naturalmente, è New York il suo modello.

È un dato di fatto che questi lavori siano terreni fertili, e anche che siano attrattivi. Anche nel nostro ambiente lavorativo l’omosessualità ha un certo peso, come la multiculturalità, ma è quello che ti dicevo prima: in un am-biente del genere lo scambio di idee è fondamentale, è necessario uscire dalla propria bolla: quindi è tutto un sottile equilibrio fra essere consci, consape-voli e anche orgogliosi delle proprie competenze, e saperle mettere in di-scussione di fronte a qualcosa che, per motivi culturali, di pensiero ecc. vi si oppone.

in realtà la creatività non è una qualità,

è un mindset, un’attitudine mentale, che si può imparare,

sviluppare, perdere

o non trovare proprio, ma non è un

‘sono portato per questo, lo faccio’

tanta gente salta il passaggio,

ama definirsi creativa come i cinquantenni che vanno

ai corsi serali di poesia amano definirsi poeti!

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La parola ai lavoratoriIntervista al creativo

Andrea Nale

pare, al di fuori del lavoro.

Normalmente i lavori cosiddet-ti “creativi” sono soggetti a forme contrattuali non garantite (partite IVA) o a scadenza (c. a progetto, a tempo determinato, ecc.). Pen-si che tale situazione contrattuale sia compensata dalla possibilità di svolgere un lavoro creativo, vario, potenzialmente soddisfacente?

Sono abbastanza soddisfatto della mia situazione contrattuale. Di certo, non vorrei in alcun modo peggiorare la mia condizione per fare della mia capacità “creativa” il mio lavoro, non sono disposto, aimè, a prendere meno per dove scrivere per altri cose che non voglio scrivere e che, in fondo, non mi interessano.

In cosa consiste il lavoro di cui ti occupi?

Faccio il project manager in una software house, mi occupo del proces-so di sviluppo di siti web, siti e-com-merce e di app per smartphone.

Il tuo lavoro ti soddisfa? Credi che sia adeguatamente retribuito?

Vorrei poter fare lo stesso lavoro in un ambiente culturale, per progetti che sento più vicini alla mia sensibilità. Sto però imparando molto, e quello che faccio – non avrei mai pensato – mi soddisfa più dello scrivere (cosa che amo, invece, e che svolgo al di fuo-ri del lavoro per molte realtà). Anzi, non scrivere per lavoro mi permette di essere in forze per scrivere quel che mi

Esiste la figura autoriale, in queste cose, o no?

Sempre meno...

Quindi hanno una loro autono-mia completa?

È un po’ un ritorno all’arte cinese, se vuoi, non ci sono autori, o meglio: sono talmente tanti che se ne perde il nome, e non ha nessuna importanza in realtà. Ha più importanza, casomai, la brandizzazione dell’autore. Ci sono pagine facebook, vere voci che parla-no alle persone, tramite ignoti. Questi ignoti non avrebbero nessun beneficio dal rivelarsi.

C’è una pagina di satira politica, Bispensiero. È spesso molto difficile da capire, gioca molto con la politica italiana, è raffinata. Si sa benissimo chi è questa persona ma il conoscere la sua identità non cambia la cosa, l’im-portante è che esista questa pagina che ha un nome, un logo, un modo in cui parla, un tono, una forma in cui realiz-za i meme. L’autore si è fatto brand e invita anche i suoi lettori ad arricchire il discorso con nuovi meme che ob-bediscano alle stesse leggi semiotiche, creando di fatto un mondo e una dia-lettica paralleli.

Per tornare al discorso dell’arte, io faccio un po’ di fatica a definirla arte, perché vive un po’ più nel quotidiano, forse l’arte è molto più programma-tica, ha di sicuro un altro fine, politi-co-sociale più che del mercato; di fat-to, a diversi livelli, usano però gli stessi linguaggi.

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che aveva la classe contadina, quella operaia e quella aristocratica.

Non avendo una linea comune di narrazione, abbiamo bisogno di trova-re migliaia di piccole narrazioni etero-genee, di vivere migliaia d’esperienze minori; come furono tolti gli animali dalla natura per metterceli a disposi-zione negli zoo, ecco che piccole dosi d’esperienze ci sono donate sotto for-ma di narrazione grazie al marketing che viene fatto attorno ad ogni cosa acquistiamo, a tutto ciò di cui ci cir-condiamo.

Una Guinness porta con sé tutta la magia della storia d’Irlanda; un paio di Nike fanno diventare chi le indossa una persona diversa, sportiva, deter-minata. Ogni cosa è simbolo di una narrazione dalla quale abbiamo inces-sante bisogno d’essere investiti.

Questo processo di creazione della narrazione è sempre stato fatto dalla letteratura, ma ora, visto che giovani intellettuali devono campare in agen-zie di comunicazione, viene fatto in gran parte anche da qualsiasi cam-

pagna pubblicitaria, incarnata poi in qualsiasi prodotto acquistiamo.

Il problema di fondo di questo processo è da ritrovarsi nella differen-za tra arte e creatività, ma è tutta una questione più complessa.

Il secondo incrocio tra creatività e marketing è dato dal fatto che il lavo-ro creativo non trae il suo valore da ciò che produce, ma dalla reputazione attorno ad esso. Per poter vendere sto-rie, il creativo ha bisogno di creare la più bella storia attorno alla sua perso-na e al suo prodotto. Per fare il cuoco - ad esempio - non basta più dire che si è bravi a far da mangiare, bisogna invece mostrare e creare storie attorno al lavoro di ricerca che si fa sui pro-dotti, al proprio modo di cucinare, eccetera. Ogni cosa è opportuna per aumentare i capitoli del racconto che si narra di sé, per vendere se stessi.

Essere un creativo implica così, non solo avere iniziativa imprendito-riale, ma diventarne soggetto: l’indivi-duo diviene brand. Crolla il meccani-smo tempo-valore. Ed entra in gioco la reputazione.

Se fai uso di social-network (es: Facebook, Twitter, Instagram), descrivine l’esperienza. Pensi che questi dispositivi influiscano sui processi di soggettivazione delle persone? In che modo? Perché i lavori “creativi” sono molto spesso legati a questo tipo di dispositivi?

Sui social network ci sono i propri profili, e, questi profili lo sono nel sen-so letterale del termine: invenzioni di una storia di sé che – ovviamente – al-

essere un creativo implica così,

non solo avere iniziativa imprenditoriale, ma diventarne

soggetto: l’individuo diviene brand

Come vengono gestiti, nell’a-zienda per cui lavori, i rapporti tra titolari, responsabili di settore e dipendenti? Ti sembra che i ruoli aziendali siano gerarchicamente ri-partiti o si lavori piuttosto in un’ot-tica di orizzontalità?

L’azienda è piuttosto piccola, l’ot-tica è prettamente orizzontale.

Pensi che la mansione che svol-gi abbia – tra le altre cose – anche un con-notato generaziona-le o ritieni che po-trebbe essere svolta altrettanto bene da un cinquantenne? Per quali ragioni?

Credo che la co-noscenza dei social network e la cultura tecnologica e sociale che un quasi trentenne porta con sé si-ano indispensabili per fare al meglio il mio lavoro e impostare ogni progetto tenendo presente quale sia la realtà in cui potrà inserirsi.

Che rapporto hai con i tuoi col-leghi?

Ottimo, è uno dei fattori che ogni giorno mi rasserena nell’entrare in uf-ficio.

Nei lavori cosiddetti “creati-vi” gioca un ruolo determinante

il settore del marketing. Credi che quest’ultimo influisca nel modo in cui il consumatore si rappor-ta al prodotto e nel modo in cui il prodotto stesso prende forma nel mondo? Come cambia la relazione fra soggetto-consumatore e mon-do degli oggetti, dei servizi e dei dispositivi (es: internet, tv, radio, social media) con l’avvento del-la nuova dimensione creativa del marketing?

Credo ci siano due grossi incroci tra le strade della creatività e del marketing – del-la comunicazione – di cui parlare: il primo legato al fatto che la maggior parte dei la-vori creativi è costitu-ita da lavori al servizio del marketing e della pubblicità ; il secondo del fatto che un lavoro creativo non ha valore in sé come i lavori co-

nosciuti fino ad ora, il lavoro creativo si valuta in base alla reputazione attor-no ad esso. La reputazione è l’effetto di una buona comunicazione.

La chiave del rapporto tra il lavoro creativo e il marketing passa attraverso la mancanza di storie, di esperienze e di grandi narrazioni nella vita media contemporanea. Vivendo giorno dopo giorno la stessa routine fatta di proble-mi quotidiani, stanchezza lavorativa, abitazioni uniformanti e spazi pubblici alienanti, è stata tolta alla classe media una fondante narrazione e unitaria co-scienza teleologica dell’esistenza, cosa

la chiave del rapporto tra il lavoro creativo e il marketing passa

attraverso la mancanza di storie,

di esperienze e di grandi narrazioni

nella vita media contemporanea

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In genere il lavoratore creativo è visto come un modello di suc-cesso, che ha saputo affermare la propria personalità, coniugando la necessità del lavoro alle proprie disposizioni soggettive. Condivi-di questa prospettiva? Secondo te, un’espansione del lavoro creativo che conseguenze potrebbe avere sulla struttura della società?

Credo che la prospettiva del la-voratore creativo sia proprio questa. Un self-made man che è riuscito non tanto a coniugare la necessità del la-voro alle proprie di-sposizioni soggettive, quanto a mettere le proprie disposizioni soggettive al servizio della necessità di la-voro. La differenza e la mia opinione sta tutta qui: il lavoratore virtuoso, creativo, è un artista che si imprenditorializza.

Tracciare delle possibili future conseguenze è complesso, mi inte-ressa capire quanto potrà reggere il confine tra arte, intesa come critica e giudizio della società, e lavoro creati-vo al servizio della società. Lanciando un macigno direi che una profezia fu-tura è da scovare tra lavoro manuale sostituito da robot, assenza di bisogno di produrre per lavorare, reddito di cittadinanza o – addirittura – reddito d’esistenza. Tutto questo è il grande problema che ingloba quello del lavo-ro creativo.

Cosa ne pensi del recupero che

delle forme antiche di artigianato sta avvenendo negli ultimi anni? In che modo questo recupero si inserisce nella cornice della creati-vità? Pensi che ciò possa avere una funzione di contrasto rispetto all’o-mologazione dei consumi globa-lizzati? Credi che in questo modo l’Italia possa presentarsi come un paese competitivamente all’avan-guardia sul piano internazionale?

Ancora cruciale è l’influenza dei social network e della tecnologia: po-ter condividere, mostrare il proprio

lavoro, arrivare a mol-te persone grazie ai social network ha - a mio avviso - giocato un ruolo fondamen-tale nell’espansione di un recupero del lavoro artigianale. Lo svilup-po di tecnologie alla

portata di tutti, open-source, ha porta-to i cosiddetti “makers” a creare, con le proprie mani, prodotti di artigianato tecnologico al pari dell’artigianato tra-dizionale. Non è un caso, che una delle invenzioni tecnologiche e alla portata di tutti create negli ultimi anni, la piat-taforma hardware Arduino, sia nata in Italia. Il problema è capire quanto queste nicchie produttive possano competere con i grandi produttori o, ancor più sottile e difficile, capire se possano arrivare a rendersi autonome senza passare da Amazon, Google o senza essere promosse da algoritmi di Facebook o altri social network.

Considerando che la nozione di

il lavoratore virtuoso, creativo,

è un artista che si imprenditorializza

tro non è che una costruzione di verità di sé, come lo sono i profili psicolo-gici stilati dai medici, il proprio curri-culum vitae, la propria fedina penale. Non siamo mai stati tanto chiamati a raccontare la nostra storia personale: siamo visti di profilo, dalla prospettiva dei mille profili della nostra singolari-tà, che si aggrovigliano imbrigliandoci e soggettivandoci.

Prova a spiegare le ragioni per cui, secondo te, negli ultimi decen-ni in occidente è esplosa la cosid-detta “classe creativa”. Quali sono le prerogative che la caratterizza-no? Senti anche tu di appartenere a questo particolare tipo di lavorato-ri? Se sì, senti di essere socialmen-te riconosciuto per questo?

Le migliori menti della nostra ge-nerazione hanno potuto sviluppare una finezza di gusto, una cultura, una velleità artistica e una capacità di giudi-zio come nessun’altra generazione nel-la storia. Le migliori menti della nostra generazione hanno creduto di poter vivere soltanto di bellezza, passando gli anni universitari a vagare tra un li-bro e l’altro, tra un concerto e l’altro, in giro per l’Europa. Ci hanno fatto credere di poter tenere lo stesso stile di vita dei grandi poeti, dei grandi arti-sti: capaci di dedicarci alla nostra arte soltanto, consapevoli o meno della mi-seria del mondo, viventi soltanto per investire tutte le energie della propria sensibilità nella creazione di bellezza.

Le migliori menti della nostra generazione hanno poi, d’un tratto, scoperto che tutto questo benessere

e tempo libero erano un’illusione, che tutto quel che pensavano di poter aver di diritto, il tempo libero della crea-zione e del pensiero, una vita agiata e un’identità d’élite culturale, erano in-vece spazi da conquistarsi con la fatica del lavoro.

Da aspirante eterno sognatore, il giovane rappresentante delle migliori menti della nostra generazione, ha do-vuto prima fare dei lavori per potersi mantenere le sue passioni e poi, come vittoria e realizzazione nella vita, fare delle proprie passioni un lavoro: di-ventare membro docile e passivo della nuova forza lavoro intellettuale.

Quel che mi ha spaventato nel-lo scegliere quale lavoro fare è stato il dover monetizzare la creatività e la vita. Che ogni attimo possa essere usato a consumo – in base a quel che dicevamo della reputazione per il lavo-ratore creativo – della reputazione che ho bisogno di creare. Questo perché la mia creatività è strettamente legata alle esperienze e all’entusiasmo che vivo e di cui vivo, e rendere ogni mia esperienza – la cosa più personale che mi posso tenere – carburante per un processo di monetizzazione di essa. Non voglio dover essere performante in ciò che amo di più e non voglio che i momenti più intensi della mia vita diventino “utili” a creare qualcosa per-ché venga monetizzata. Non voglio di-ventare un brand più di quanto non lo sia il racconto di me che già faccio sui social network come chiunque di noi. Per questo, no, non credo di apparte-nere e voler appartenere a questo tipo di lavoratori.

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cemente di lavoro che a me piace fare.C’è il marketing di base, e poi c’è

l’idea dello storytelling. Questo, in par-ticolare, deve necessariamente avere a che fare con i social, con cui io lavoro molto... Dico sempre, quando un’a-zienda mi chiede come si deve fare, che la strada è quella di raccontare del-le storie: ormai siamo eccessivamente sollecitati dai prodotti e dalle cose, che sono ovunque. L’unico modo che c’è per lasciare una traccia è quello di rac-contare una storia...

Su questo torneremo... Credi che il tuo lavoro sia adeguatamente retribuito?

Prima assolutamente no: quando lavoravo in azienda prendevo 1000 euro al mese; è un tipo di lavoro che

Claudia Rualta

La parola ai lavoratoriIntervista al creativo

Per iniziare, ti chiedo in che cosa consiste il lavoro di cui ti oc-cupi adesso, e di cui ti sei occupata in passato.

Io sono un copywriter, ma non solo. Soprattutto lavorando in azien-da mi sono occupata della produzione di contenuti pubblicitari. Contenuti pubblicitari e definizione dei canali: un lavoro di marketing, insomma. Da quando lavoro in proprio invece, cer-co - per quanto mi è possibile, perché comunque bisogna campare - di pre-diligere lavori in cui, oltre a questo, entra in gioco anche un altro tipo di concetto: non fare pubblicità e basta, ma cercare di dare una voce a chiun-que voglia tentare di raccontarsi, e non ci riesce. In questo, forse, rientra più il concetto di creatività, o anche sempli-

“creatività” viene spesso ricollega-ta con quanto siamo soliti chiama-re arte, a te, che sei un lavoratore “creativo”, è mai sorta l’impres-sione di sentirti un po’ come un artista, un eccentrico, o comunque un ‘diverso’? Perché? Prova a spie-gare…

L’artista era un artista, il creativo è un imprenditore. La natura del lavoro creativo, mi pare, è una versione sala-riata del lavoro artistico, con il quale condivide certamente l’abilità e l’origi-ne culturale del creativo e dell’artista che – in questi anni, però – da salariato diviene imprenditore.

Nel mondo in cui viviamo la di-mensione estetica – e narrativa, come non smetterò mai di ripetere – è dive-nuta prima macchina (nella riproduci-bilità tecnica) e poi mercato. Quando l’artista si imprenditorializza, il lavora-tore diventa virtuoso, svolge un lavoro cognitivo in cui non contano più le abilità ma il modo di comunicarle.

In ultimo, dover rendere l’arte per-formativa – renderla vittima delle leg-gi di mercato – è un processo che la snatura nell’essenza: non più definire il visibile, parlo dell’arte figurativa, ma definire e mostrare il modo migliore per vendere qualcosa. Significa usare le stesse abilità cognitive e intellettuali o, se vogliamo, artistiche, per qualche cosa d’altro. E non credo, in nessun modo, che ci sia niente di eccentrico nel produrre valore di mercato.

Ritieni che l’espandersi dell’e-sperienza quotidiana con la dimen-sione creativa, in questo senso 2.0

che abbiamo definito nelle scorse domande, cambi la percezione della realtà dell’individuo? Se sì, in che modo?

Come ho già detto, cambia la per-cezione del creativo nella misura in cui ogni esperienza, ogni attimo quotidia-no, diviene monetizzabile, diviene uti-le per creare il proprio prodotto, non lasciando più alcuna separazione tra la vita e il lavoro, tra lo spazio del lavo-rare per vivere e lo spazio per vivere dei frutti del lavoro: il crollo di questa separazione per molti è una conquista, a me ha terrorizzato. La percezione di chi subisce i frutti del lavoro creativo è, inoltre, modificata nella misura in cui è circondato di storie, immagini, narrazioni e addirittura “concetti” in ogni momento della sua vita (dall’e-sperienza d’acquisto in un supermer-cato a quella online, dal mangiare in un ristorante al vagare di una gita turisti-ca). È, però, circondato di storie che non sono storia, di immagini che non sono arte, di narrazioni che non sono letteratura e concetti che non sono fi-losofia: tutto è maniera di comunicare.

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Io gestivo la comunicazione dell’a-zienda stessa per cui lavoravo: faceva-mo campagne pubblicitarie, foto sui social in cui si voleva mostrare che c’e-rano grandi spazi di co-working, o che eravamo tutti uguali, il capo che impa-gina una cosa come l’ultimo dei desi-gner, oppure grandi momenti di con-divisione, l’openspace in cui si lavorava tutti insieme. Magari sarebbe anche stato bello, però non fun-zionava. Eri sempre messo a conoscenza di metà delle cose che dovevi sapere... anche a livello lavorativo

Non so nemmeno io per quale motivo si spinga così tanto su questa idea: alla fine secondo me, alle persone non fa né caldo né freddo che tu proponga questa immagine, è più una cosa che si vuole dimostrare a se stessi... Mi sem-bra che queste trovate lascino un po’ il tempo che trovano.

Alla fine, esiste una gerarchia e soprattutto un processo decisiona-le...

Magari non è nemmeno così sba-gliata come cosa. Non capisco perché debba esserci questa pretesa: alla fine vengono sempre a crearsi situazioni spiacevoli, di forte ambiguità, e questo non aiuta sul piano lavorativo, e nem-meno a livello di creatività.

Al di là di tutto, a volte mi è capi-tato di pensare che questo non è un lavoro che puoi fare da dipendente, perché la creatività ha a che fare con

la libertà.

Tu lavori nel settore del marke-ting, che però significa qualcosa di più ampio; la comunicazione passa necessariamente attraverso i social. Ti chiedo, in base alla tua esperienza, come un soggetto che si rapporta al mondo nell’era dei

social cambia la sua percezione rispetto alla merce.

È una domanda difficile. Da qualche anno non è più pos-sibile fare pubblici-tà e basta sui social network, le persone si

stufano, giustamente si sentono bom-bardate. Non è possibile che io acceda a facebook per vedere cosa ne pensa-no i miei amici delle elezioni a Padova e Belluno, e mi trovi pieno di pubblici-tà dei cioccolatini, dei vestiti ecc. Que-sta è la pubblicità vecchio tipo, sempli-cemente trasmessa su un altro canale di comunicazione.

Quello che si cerca di fare ades-so invece è unire alla comunicazione anche un surplus: che può essere di informazione, narrativo, o altro. La persona non deve essere colpita dal messaggio pubblicitario, deve piutto-sto esserne attratta, o incuriosita.

Mi son detta: io non voglio più avere quindici realtà da gestire, cui non riesco a stare dietro. Il mio sogno è di avere tre realtà a cui do una mano, aiu-tandoli a raccontarsi, preparando dal-la brochure al catalogo, al copy on-line; però sempre con un occhio rivolto al

questo non è un lavoro che puoi fare

da dipendente, perché la creatività

ha a che fare con la libertà

stipendio, ha anche un ritorno in termine di piacere rispetto a quello che fai, e capitale simbolico rispet-to a quello che sei? Secondo te que-sta cosa in qualche modo compen-sa questa situazione contrattuale?

Secondo me è difficilissimo che una persona come me ti risponda: «il mio lavoro è sola creatività”; ed è al-trettanto difficile che questo venga ri-conosciuto, nel mondo del lavoro - so-prattutto nel bellunese, che in questo è un po’ indietro. Ad esempio, una delle aziende per cui lavoro ha quattro soci, e fosse per tre di questi io non esisterei nemmeno. È una questione di schemi mentali!

Quando lavoravi in azienda, i rapporti erano improntati ad una orizzontalità o verticalità? TI chie-do anche se c’è una narrazione aziendale rispetto a questo.

Sicuramente quello a cui si tene-va molto è che fuori passasse questa idea, che ci fosse un’oriz-zontalità all’interno dell’azienda; in real-tà - vuoi la gioventù dei responsabili, vuoi altri fattori - si teneva

molto alle gerarchie; e soprattutto in maniera borderline: in alcuni momenti, quando conviene, c’è orizzontalità, in altri verticalità, una situazione un po’ particolare.

Ma come funzionava l’autopre-sentazione verso l’esterno?

non puoi sbrigare solamente nell’o-rario d’ufficio, quando devi creare un oggetto creativo, o una campagna pubblicitaria... Quando ho scritto un documentario sulla grande guerra, mi arrangiavo fuori dalle ore di lavoro, spesso e volentieri; o quando devi ge-stire i social, devi prendere il tuo tem-po la sera. Sembra stupido detto così, ma è un tipo di lavoro per il quale è costantemente richiesta la reperibilità. Se lo fai fatto bene, ovviamente. Quin-di, la retribuzione era scarsissima. Io ero inquadrata come apprendista, ma facevo molto più di questo; secondo me è un po’ il problema delle grandi aziende.

Pensi sia una situazione gene-ralizzata, quindi?

Si, è una cosa che sento molto. Tanto sbattimento, poca soddisfazio-ne, poca retribuzione: questo mi sem-bra l’andazzo. Ho sempre pensato che questo tipo di lavoro non puoi farlo in ufficio otto ore al giorno: è un parados-so, un controsenso, come fai a metterti lì e immaginare qualco-sa in una stanza grigia e buia? C’è bisogno di ispirarsi!

Tornando alla domanda: se si parla solo in termini di retribuzione, adesso prendo più di prima: ho chiesto un tot, che considero una soglia dignitosa e va bene così.

Secondo te, il fatto di svolgere una professione creativa, oltre allo

è un tipo di lavoro per il quale è

costantemente richiesta la reperibilità

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È la stessa cosa che ci hanno detto gli altri intervistati...

Cambiamo argomento: nel 2003 Richard Florida pubblica il suo li-bro, L’ascesa della classe creativa; da quel momento si assiste a una crescita esponenziale dell’uso dei termini creatività e classe creativa. Riesci a dare una definizione di lavoratore creativo?

Non è possibile darne una defini-zione statica: è un termine informe, un po’ abusato; a volte mi chiedo an-ch’io se lo sono. Forse direi: uno che di lavoro cerca di dare una forma a dei concept.

Quali sono le motivazioni di questa crescita, dell’aumento del numero di lavoratori creativi?

Penso che un po’ tutto sia nato dall’industria della moda, e che co-munque vada di pari passo con la so-cietà del benessere: più tempo e più disponibilità per concentrarsi su cose che non siano di vitale importanza. Forse c’è un bisogno, in generale oggi, di dare una forma esteticamente valida alle cose. Mi piacerebbe dire che que-sto ha a che fare con una rivalutazione dell’importanza della bellezza, ma in

definitiva non ci credo.

In relazione a questo: secondo te quale è il rapporto che c’è fra creatività e forme di espressione artistica? In particolare a quello che fai tu, rispetto a un certo uso del linguaggio.

Penso che creatività e arte siano sorelle gemelle; che la mamma si chia-mi bellezza, e che le figlie si chiamino creatività e arte, che dipendano un po’ una dall’altra. Io non ho la pretesa di fare nulla di artistico, però credo che il concetto di creatività per come lo intendo io - il dare forma alle cose -, qualcosa di poietico, sia il principio an-che per fare qualcosa di artistico. Arte e creatività hanno a che fare con la bel-lezza e con la forma.

E quale è la differenza?

Forse la creatività la vedo più come una pulsione, quello che sta alla base, e l’arte qualcosa di realizzato.

Capisco cosa intendi; mi sem-bra di capire che tu faccia riferi-mento al concetto di creatività in vigore fino agli anni Ottanta, No-vanta; poi, a un certo punto, il con-cetto di creatività si lega, a livello di discorso comune, a quello di lavoro creativo.

Penso che, a livello di discorsi ma anche all’interno delle aziende, ci sia invece una bella divisione fra ciò che ha a che fare con il marketing, e ciò che ha a che fare con la creatività.

c’è un bisogno, in generale oggi,

di dare una forma esteticamente valida

alle cosefare informazione.

Ti faccio l’esempio di una farma-cia con cui lavoro nel bellunese: io ho spinto molto perché facciano degli articoli che siano informativi rispetto a determinate tematiche, e mi sembra che sia una cosa che funzioni. Ogni dieci giorni mando quelle che secondo me possono essere le tematiche inte-ressanti. Da una pagina che è piccola, appena nata, tu butti fuori un articolo e vedi che qualche centinaio di perso-ne lo legge, lo condivide ecc.

Rispetto a questo ti sottopongo una mia curiosità: navigando in in-ternet, ho spesso l’impressione che gli articoli siano pieni di nulla, di cazzate; c’è un inizio, di circa un terzo, in cui non si dice nulla, ecc.

Il lavoro difficile del copywriter è quello di riuscire a veicolare contenuti utili, ma che siano brevi - la gente non si ferma più di due minuti, da statisti-che - distribuiti in paragrafetti, riutiliz-zando una stessa parola chiave. Il pro-blema - volendo la sfida - è quello di utilizzare queste regole, le regole della scrittura per web, riuscendo a produr-re contenuti di valore. Secondo me, le persone che lo sanno fare sono poche,

ci sono tante cose che sono scritte a cazzo; spesso e volentieri trovi conte-nuti copiati, ecc. Spesso si dà più va-lore al fatto che cercando ‘cioccolatini italiani’ venga fuori il tuo prodotto (con un’operazione di CEO quindi). Si impiega la forza dei copywriter per fare un sacco di articoli-fuffa che però danno il vantaggio di fare trovare il prodotto per primo; e non si dà valore al valore: questo è il trend.

Secondo te, oggi, il fruitore cui tu pensi idealmente pensi si con-cepisce in un modo diverso, per il fatto che utilizza i social?

Secondo me i social istigano la bi-polarità dell’individuo. Utilizzo molto i social per lavoro, spesso vedi la di-screpanza fra la vita on-line e la vita reale di una persona: a me ha stupito tante volte. La percezione di te cam-bia, ti mette nella condizione di non capire esattamente chi sei...Le perso-ne, soprattutto nella fascia d’età 18-30, non usano i social per condividere ri-flessioni, pensieri, contenuti seri ecc.; più che altro è un ‘sono a questa spa fighissima’, ‘guarda che capelli di mer-da’ ecc.: è un modo di cercare confer-me, attraverso un ulteriore schermo fra te e il mondo reale. La percezione di te si sdoppia, cambia, porta nuove difficoltà all’auto-comprensione, che già è difficile di per sé! Da quando fac-cio questo lavoro utilizzo pochissimo i socialnetwork! Entrerò in facebook 20-25 volte in una giornata, ma mi capita ogni due mesi di condividere qualcosa...

la persona non deve essere colpita

dal messaggio pubblicitario,

deve piuttosto esserne attratta, o incuriosita

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Valerio Franco

dentro di noi una sorta di miracolo che ci porta a generare qualcosa, come ad esempio idee o oggetti. La creativi-tà in questo senso è un magma. Tut-tavia è un magma che – nel momento in cui parliamo di creatività riuscita – definirei virtuoso.

La creatività non è la pubblicità. Piuttosto la pubblicità è una disciplina creativa, o meglio, è un mestiere crea-tivo, ossia una professione che si basa sulle arti creative, utilizzando la creati-vità per farne un lavoro.

Ci sono delle competenze spe-cifiche che secondo te un creativo o un pubblicitario deve avere?

Assolutamente sì. La differenza tra l’illusione di essere tutti creativi e l’essere dei pubblicitari consiste nel

La parola all’imprenditoreIntervista a un imprendtore nel campo creativo

Come definiresti il concetto di creatività? Cosa significa essere creativi?

Creatività è una parola bellissima, nel senso che ognuno di noi è creativo. L’idea di creatività pertiene al campo dell’espressività, anche umanistica, e ha a che vedere dunque con la compo-nente artistica che ognuno di noi ha. La creatività è presente nella scrittura, nelle arti visive, nella recitazione, e anche nell’artigianato. Si possono tro-vare infinite modalità in cui il singolo trasmette qualcosa di sé mediante un processo ideativo che preleva conte-nuti dalla sensibilità e dall’irrazionali-tà, dal vissuto e da ciò che si assorbe dal mondo. Attraverso un’operazione che coinvolge testa, pancia e contami-nazioni di ogni tipo, avviene dunque

Sono degli step differenti e spesso, in aziende strutturate bene, coperti da fi-gure diverse. Tutta la creazione del con-cept di una campagna pubblicitaria sta da una parte, la realizzazione a livello di marketing dall’altra. In un’azienda, se dici ‘creatività’, pesi all’art director, al copywriter, non pensi a quello che ti gestisce i socialnetwork

Quindi tu dici: c’è una creativi-tà, intesa come facoltà umana, che ha diverse realizzazioni possibili, che possono essere artistiche, o di altro tipo, e che quindi sono fra loro parenti perché partono da una stessa tensione al dare una forma.

Penso di essere un lavoratore crea-tivo nella misura in cui ideo qualcosa, penso a come dare forma alla cosa; nel momento in cui do forma alla cosa, sono una copywriter.

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fluenzato questo settore, anche ri-spetto alla necessità di convertire le competenze in senso digitale?

V: La crisi economica del 2008 è stata la più grande crisi degli ultimi vent’anni per il settore pubblicitario, e non solo. Le statistiche dicono che c’è stato un calo degli impiegati nel nostro settore superiore al trenta per cento. Prima ancora del boom del digitale, a creare un terremoto nel nostro settore è stata proprio la crisi economica.

In primo luogo, nei momenti di crisi, la prima cosa che le aziende fanno è tagliare gli investimenti nel-la comunicazione (quando invece gli esperti sostengono che la strategia do-vrebbe essere anti-ciclica, ossia: quan-do c’è crisi devi continuare a investire per riuscire a restare a galla). Ma la crisi ha avuto ripercussioni enormi nel nostro settore anche dal punto di vi-sta dei contratti di lavoro. Purtroppo in Italia il settore della pubblicità – lo dico anche con un forte senso critico – dal punto di vista delle condizioni lavorative era organizzato molto male. C’era moltissimo precariato. Questa fase di crisi, con il cambio di certe leggi (es.: l’abolizione dei contratti a progetto), ha portato le aziende a do-ver risanare questo tipo di situazioni. Hanno dovuto cioè regolarizzare tut-ta una serie di situazioni che erano ai bordi della legalità. La crisi economica ha fatto emergere tutte le contraddi-zioni che c’erano all’interno del nostro settore. C’erano professionisti di più di trent’anni d’età che lavoravano ancora con contratti di stage rinnovati di anno in anno. Queste situazioni che erano

intollerabili, ma venivano accettate dai lavoratori stessi pur di continuare ad avere uno stipendio, sono divenute insostenibili anche per le aziende dal punto di vista normativo e legale. Tut-te queste persone con la crisi del 2008 sono state lasciate a casa, per il fatto che non avevano tutele.

Nei lavori creativi che impor-tanza riveste il sapersi inserire in un’ottica di team-working e net-working, cioè lavorare insieme all’interno di una stessa azienda e in collaborazione con altre azien-de?

Esistono due concetti apparente-mente in contraddizione. Da un lato va di gran moda l’idea di personal bran-ding. Si tratta di una nouvelle vague se-condo cui ciascuno di noi è un brand. Dunque la cura della propria immagi-ne pubblica è una questione molto im-portante: dal momento che io sono il brand di me stesso, devo stare attento a come mi presento, devo aver cura dei miei profili social, di quello che dico e

prima ancora del boom

del digitale, a creare un terremoto

nel nostro settore è stata proprio lacrisi economica.

fatto che, mentre la creatività nuda e cruda sorge da un gesto estempo-raneo (spesso non programmabile, perché frutto di un momento inaspet-tato di espressione), la creazione pubbli-citaria –che comun-que è solo uno dei vari ambiti in cui si divide il mestiere della pubblicità – essendo il frutto del lavoro di un professionista, avviene sulla base di due ulteriori elementi. Il pubblicitario da un lato deve saper creare a comando, perché ci sono dei tempi da rispettare, legati alla com-messa del lavoro o del progetto. Oltre a questo, la seconda caratteristica del pubblicitario consiste nel fatto che la creatività deve poter essere canalizzata all’interno di ciò che noi chiamiamo brief, ossia all’interno di richieste che prevedono un certo tipo di percorso. In questo senso il creativo perde una parte della sua libertà, nonostante la creatività di per sé si esprima in ognu-no di noi come un gesto estremamen-te libero, che ciascuno declina a suo piacimento.

Nel mondo della pubblicità ha preso sempre più piede il settore del web marketing, ossia della co-municazione che passa attraverso i canali di internet. In che modo la sfera della creatività, nella sua de-clinazione pubblicitaria, si realizza nel digitale? Secondo te il mondo della pubblicità ha vissuto la svolta digitale come un cambiamento pa-radigmatico ed epocale, anche in

senso storico?

Decisamente sì. Guardando i fat-ti, l’avvento del digitale ha trasformato il merca-to della comunicazione. Per certi versi è andato a uccidere alcuni ambiti comunicativi preceden-temente molto affermati. Ad esempio, il mercato

della pubblicità su carta stampata è in crisi totale in tutto il mondo. Perde in-vestimenti da anni ormai. Di contro il mercato della comunicazione digitale sta esplodendo. Si pensi soltanto alla pubblicità nei social network, nei siti in-ternet, sugli smart-phone. Questa svol-ta ha trasformato le regole del gioco. Comunicare su questi tipi di strumenti è un mestiere completamente diverso rispetto al passato. La comunicazione nel settore digitale richiede l’inter-vento di nuove competenze di natura tecnologica, come ad esempio il saper programmare in html (cosa che a un creativo tradizionale non veniva ri-chiesta). Queste nuove competenze creano nuovi lavori. Il digitale dunque da un lato ha riallargato il mercato, anche del lavoro, includendo nuove skills che prima non erano richieste, dall’altro sta stressando una parte dei professionisti della pubblicità, i quali devono in qualche modo convertire le loro competenze. Chi rimane a fare le cose di cui si occupava fino a soltanto quindici anni fa oggi rischia di risultare obsoleto.

Secondo te la crisi economica del 2008 ha in qualche modo in-

il pubblicitario deve

saper creare a comando

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al gusto della bibita prodotta da un nostro cliente Dunque si deve saper mettere in connessione mondi com-pletamente diversi.

Cosa ne pensi dell’idea secondo cui il luogo di lavoro dovrebbe con-tenere al proprio interno anche dei luoghi di ricreazione?

Credo che questo sia un aspet-to importante, non tanto però nelle scelte che determinano la gestione del luogo di lavoro, perché questa cosa dei luoghi di ricreazione è un po’ come le perle blu che i colonizzatori europei mostravano agli indiani d’America, fa-cendo credere loro che fosse la cosa più “fica” del mondo. Intendo dire che ma-gari un creativo va a lavorare in un’azienda, trova il calcetto e il tavolo da ping-pong, però poi il datore di la-voro lo tiene lì giorno e notte e gli fornisce addirittura i letti per dormire, secon-do un’usanza che fino a pochi anni fa vedevo molto comunemente in diver-se agenzie divenute anche famose per questo modello apparentemente rivo-luzionario. Alla fine però il lavoratore vive dentro l’azienda e si rende conto di essere sfruttato, oppure gli viene la sindrome di Stoccolma e si innamora della sua prigione.

Consideriamo quel particola-re modello di azienda smart che prende il nome di start-up, nel quale persone, che generalmente

hanno un alto livello di formazio-ne, fondano un’impresa per lancia-re nel mercato progetti innovativi. Cosa ne pensi?

Temo che oggi si tenda ad abusa-re di questa parola. Nel senso che or-mai esiste una start-up per ogni cosa. In realtà la vera ragione di una start-up si trova in rapporto alla forza dell’i-dea che la fa sorgere. È nella natura del mercato la presenza di una forte componente di rischio, ma mi sembra che i nostri start-upper italiani non siano ancora aperti nei confronti di questo rischio. Se l’idea di massimo rischio di una start-up consiste nel limitarsi a progettare un’idea e trovare dunque

un finanziatore che mette tutti i soldi, al-lora l’idea stessa di im-prenditorialità decade. Tutti vogliono fare la start-up e poi si lamen-tano del fatto che non vengono finanziati da nessuno. Però è anche

vero che per creare una start-up buo-na – e io ci sono passato personal-mente perché con il mio team ne ho creata una – si deve fare un lavoro di studio e costruzione del business plan, che passi anche attraverso un processo di auto-valutazione della propria idea molto rigoroso. Bisogna uscire dall’il-lusione secondo cui esiste una start-up per tutte le età e che tutti possono par-tire a creare business solo perché hanno un’idea.

Qual è, secondo te, il discrimi-ne tra un’idea utile e una apparen-

si deve saper mettere

in connessione mondi

completamente diversi

di quello che faccio, anche in ambito professionale chiaramente. Quindi c’è una forte tendenza all’individualismo e alla valorizzazione del sé. Tuttavia, an-che se il mondo della comunicazione sembra effimero, alla fine per saperci lavorare contano i fatti; e per produrre fatti nel mondo della comunicazione si deve essere in grado di lavorare in squadra. Nella pubblicità tradizionale e ancor più in quella digitale, per cre-are un prodotto riuscito di comunica-zione entrano in gioco talmente tante competenze diverse che non è possibi-le trovare delle persone tutto-fare che arrivino dappertutto. Nella pubblicità non c’è l’equivalente dell’avvocato o del commercialista, che nella sua fun-zione può svolgere da solo quasi per intero il proprio lavoro.

Un’azienda pubblicitaria, presa singolarmente, sopravvive oggi nel mercato della comunicazione pur rimanendo da sola oppure neces-sita di lavorare in net-working con altre realtà?

L’Italia è un paese che oggi ne-cessita di guardare alla globalizzazio-ne con un occhio diverso rispetto al passato. Per molti versi, da un punto di vista produttivo-manifatturiero, il nostro paese ha sfruttato la globaliz-zazione a suo vantaggio, andando a produrre all’estero e delocalizzando; per altri versi però l’ha anche subita: nel nostro settore della comunicazio-ne noi spesso siamo divenuti nient’al-tro che un’appendice locale delle mul-tinazionali. Ciononostante il rischio di una chiusura e di una mancata apertu-

ra al net-working è quello di spegnersi, perché se così avvenisse diverremmo sempre più provinciali mentalmente. Dunque la mia risposta alla domanda se il net-working e il sistema delle part-nership siano necessari, o meno, è asso-lutamente sì.

Anche nel net-working tuttavia serve una paternità. Ogni idea ha bisogno di un padre, di qualcuno cioè che abbia il “pallino” della guida. Un’idea nasce insieme ma c’è sempre uno spunto che giuda e che vuole arrivare da qual-che parte. Intorno a questa idea poi si aggregano le altre realtà, in un’ottica di eterogeneità delle competenze. Mi vengono in mente alcuni progetti, gestiti dalla nostra agenzia, nei quali siamo partiti con le nostre idee, che per essere realizzate ci hanno tuttavia portato a cercare e a incontrare pro-fessionalità che non avremmo mai immaginato prima. Per un progetto di comunicazione dovevamo costruire una pecora gigante in polistirolo, che rappresentava l’icona di un brand. Per farlo siamo andati in cerca di un ar-tigiano che produceva installazioni in polistirolo per costruire delle camere da principessa Disney nelle regge dei sultani arabi: una cosa che non ha nul-la a che vedere con l’industria della co-municazione. Tuttavia, dopo un atten-to lavoro di ricerca, abbiamo trovato in lui un partner ideale per realizzare una parte molto importante del nostro progetto. Molte altre volte ci è succes-so di mettere il piede in aziende che non hanno nulla a che vedere con la comunicazione. In un’altra occasione abbiamo prodotto degli arbre-magi-que (dei deodoranti per automobili)

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creativity). Ringraziamo l’autore e l’editore Suhrkamp per la concessione dei diritti d’au-tore.

Blow-up, film a soggetto di Mi-chelangelo Antonioni, è apparso nel 19661. Al centro stanno il fotografo di moda Thomas – interpretato da David Hemmings – e la Londra dell’epoca. Thomas ha il senso dei motivi, degli oggetti, della loro stilizzazione e della loro manipolazione. Fotografa in un ricovero per senzatetto da cui prende i suoi modelli femminili, che sotto le sue mani diventano spettacolari im-

1 Cfr. a questo proposito anche il ricco volume: Walter Moser-Klaus Albrecht Schröder (a cura di), Blow up – Antonionis Filmklassiker und die Fotografie, Ostfildern 2014 (catalogo dell’omonima mostra pres-so l’Albertina a Vienna).

Andreas Reckwitz

Il creativo come figura sociale della tarda modernità

Pubblichiamo la traduzione di un sag-gio di Andreas Reckwitz, sociologo tedesco attualmente docente presso l’università di Francoforte sull’Oder. Il saggio è appar-so per la prima volta nel 2010 nel volume collettaneo Diven, Hacker, Spekulan-ten. Sozialtypen der Gegenwart, cu-rato per Suhrkamp da Stephan Moebius e Markus Schroer, ed è stato ripubblicato nel 2016 dall’editore transcript all’interno di una raccolta di saggi del solo Reckwitz: Kreativität und soziale Praxis. Studien zur Sozial- und Gesellschaftstheorie. Può essere letto come un condensato di alcune delle linee interpretative che reggono l’opera principale dedicata dall’autore ad un’analisi storico-critica del concetto di creatività, ossia il volume del 2014 Die Erfindung der Kreativität. Zum Prozess gesellschaft-licher Ästhetisierung (tradotto in inglese nel 2017 con il titolo The invention of

temente innovativa ma in definitiva futile?

È molto difficile da dire. La ri-sposta che dovrei dare è che questo discrimine lo pone l’andamento del mercato. Un’idea è innovativa nel mo-mento in cui risponde a dei requisiti tali da essere accettata dal mercato e far presa in esso. È futile quando ciò non avviene. Tuttavia queste questio-ni investono un campo molto vasto, all’interno del quale sono presenti il problema dei costi, della commercia-lizzazione, dell’originalità del servizio. Ci sono talmente tanti elementi da tenere in conto che mi riesce diffici-le dare una risposta univoca. Le idee potenzialmente sono tutte delle buone idee, ma quando l’idea deve tradursi in un progetto allora è da lì che passa il discrimine. Portare un’idea nella realtà significa prima di tutto saperla imma-ginare nel suo svolgimento ed è qui che il più delle volte il soufflé si sgonfia.

Nel mondo della creatività dif-fusa, oggi, molte professioni di artigianato – ad esempio anche quella del cuoco – sono viste come portatrici di una sorta di aura arti-stica. L’idea del genio creativo, che esprime l’eccedenza della propria interiorità soggettiva nel manufat-to artistico, è un mito di lunga du-rata, ma se dovessimo collocarne

storicamente la nascita potremmo indicativamente porla all’altezza del romanticismo. C’è secondo te una connessione tra questo mito romantico e la figura del creativo? Che significato ha secondo te, an-che in termini etici, la capitalizza-zione dell’espressione soggettiva?

Quando l’arte diventa spettacolo non è più arte. Quando ad esempio Cracco va in televisione, in quel mo-mento non è più un cuoco, ma diven-ta uno show-man. Questo significa che diventa un’altra cosa rispetto alla sua professione di artigiano. C’è l’arte e c’è la sua spettacolarizzazione. Quando ciò avviene l’arte diventa un business e, dunque, quel business può essere anche monetizzato. Secondo me il problema in sé non consiste nella capitalizzazio-ne dell’arte. Piuttosto bisogna essere consci del fatto che nel momento in cui una produzione televisiva crea la spettacolarizzazione di un valore cre-ativo, allora in quel momento mette in piedi un’altra attività. Certo le due cose sono fortemente compenetrate, ma è un problema di Cracco gestire la sua doppia identità. Però di fatto oggi il mondo ci porta a queste estensio-ni. In questo senso anche la creatività pubblicitaria va intesa come business. Ciò non significa tuttavia che l’anima della pubblicità debba essere vista come infernale e diabolica. La pubbli-cità può anche essere buona, quando ad esempio, promuovendo in un certo modo un certo tipo di prodotti e ser-vizi, contribuisce allo sviluppo di una società.

il discrimine fra un’idea utile e un’idea futile lo

segna il mercato

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ratissimi vestiti delle sue modelle così come le figure cenciose del ricovero. Ora, ciò accade – non casualmente – tramite il medium della visualità tecni-camente riproducibile e manipolabile, la fotografia. Qui, Thomas riesce nello stesso tempo ad avere successo nel quadro dell’economia dell’attenzione del mercato creativo: in qualità di fo-tografo di moda, possiede lui stesso qualità da star, di cui approfitta, non da ultimo, nei confronti delle sue grou-pies. David Hemmings/Thomas è una figura “cool”: sovrano di sé in tutte le situazioni, un creatore-manipolatore di superfici semiotico-immaginarie. Ma contemporaneamente la rappre-sentazione in Blow-up è incrinata. Il Thomas di Antonioni contiene chiari tratti del vecchio, classico-moderno tipo dell’artista che non si adattano alla postmodernità del creativo. In quanto tale, Thomas costituisce una figura malinconica: introverso, a distanza dal mondo. Non tutto, qui, è superfi-cie semiotico-immaginaria: l’irruzione della realtà lo disorienta. Il moderno problema della rappresentazione assil-la Thomas e lo spettatore: il problema del reale – sia esso un cadavere o una partita di tennis – a cui i segni riman-dano, la questione del carattere costru-ito delle proprie signifying practices. In questo modo, lungo il percorso della sua rifrazione nella figura dell’artista, il Blow-up di Antonioni, trovandosi già di fronte alla sua circolazione nella so-cietà, espone il creativo ad una autori-flessione dubitativa.

*

Il “creativo” rappresenta, già dagli anni Ottanta, una forma di soggetto egemonica della cultura tardo-moder-na. In prima battuta, un creativo è co-lui che possiede quella qualità che, alla fine del XX e all’inizio del XXI secolo, tutti dovrebbero avere e, com’è ovvio, trovare desiderabile, ma che alla fine solo pochi riescono a raggiungere: es-sere “creativo”, dispiegare il proprio potenziale di “creatività”. Creatività designa l’insieme delle proprietà di una soggettività a cui si aspira e che al contempo, si dà generalmente per scontata; una soggettività in grado di creare il nuovo e, in ciò, di rinnova-re incessantemente se stessa in modo sorprendente. Una simile creatività potrebbe potenzialmente estendersi a tutti gli ambiti possibili dell’esisten-za umana e, in essi, portare ai più di-sparati risultati. Nel tipo sociale del creativo, comunque, questo insieme di qualità si concretizza in una forma molto specifica e classificabile entro la semiotica della vita quotidiana: il crea-tivo è in primo luogo portatore di un determinato profilo professionale e di un determinato modo di lavorare in “professioni creative”, di un’atti-vità nelle creative industries. Allo stesso tempo il creativo è portatore di uno stile di vita che è strettamente legato, pur travalicandolo, con questo profi-lo professionale, di una stilizzazione della vita e di se stesso. Se creatività significa creare il nuovo in modo im-prevedibile, il creativo come tipo so-ciale segue paradossalmente un mo-dello assai prevedibile e identificabile senza problemi – da un punto di vista socio-culturale – nell’arco temporale

ta soprattutto a Londra e New York. Thomas Frank in The Conquest of Cool ha descritto con precisione questa fase di incubazione della scena creativa tardo-moderna all’interno dell’econo-mia pubblicitaria inglese e americana e dell’industria della moda di questo decennio: ciò che nel corso degli anni Sessanta permette al milieu dei creati-vi di svilupparsi come forma di vita di successo e attrattiva, d’avanguardia e capitalisticamente avanzata, è la com-

binazione tra un’industria dei consumi affermatasi già dagli anni Venti da un lato, e l’estetizzazione sperimentale delle controculture dall’altro2. Il Tho-mas di Antonioni si configura come uno dei seguaci di questa forma di vita. Ciò che è nuovo e caratteristico per il creativo è la sua capacita di sco-prire e configurare oggetti qualunque del suo ambiente urbano come super-fici semiotiche e immaginarie – i colo-

2 Thomas Frank, The Conquest of Cool. Bu-siness Culture, Counterculture, and the Rise of Hip Consumerism, Chicago 1997.

magini di se stesse. Segue molto da vicino la gentrificazione del suo quar-tiere londinese. Qui rovista nei negozi di antiquariato e ad un concerto degli Yardbirds finito in caos ruba, come un trofeo, il manico rotto di una chitar-ra (per sbarazzarsene poco dopo). Un giorno, in un parco, fotografa casual-mente qualcosa che poi, nell’ingran-dimento tecnico della foto, si rivela essere un cadavere. Il reale sembra irrompere nell’universo della circola-zione semiotica e immaginaria, e ciò sembra elettrizzare Thomas. L’enigma rimane, comunque, irrisolto. Il cadave-re era forse solo un’illusione. Proprio sul finire Thomas è messo di fronte ad un happening “pantomimico”; un gruppo di giovani attivisti culturali finge di giocare a tennis, senza alcu-na palla o racchette. Improvvisamente Thomas e lo spettatore – contro ogni probabilità – sentono battere una palla da tennis.

La rappresentazione di Thomas in Blow-up si trova, nella storia del soggetto della cultura occidentale, ad un punto di svolta: quello tra l’arti-sta vecchio-europeo e il creativo tar-do-moderno. Blow-up è uno dei primi lungometraggi a mettere in scena la figura-icona del soggetto creativo nel mezzo del suo contesto urbano. Al contempo, questo soggetto creativo porta ancora, nella prospettiva di An-tonioni, chiari tratti del classico tipo dell’artista. Il creativo si frange nell’ar-tista. Thomas, in quanto fotografo pubblicitario e per riviste, è uno dei trendsetter di quel milieu creativo, tra economia culturale e Counter Culture, che si delinea a metà degli anni Sessan-

la rappresentazione di Thomas in Blow-up

si trova, nella storia del soggetto della cultura

occidentale, ad un punto di svolta: quello

tra l’artista vecchio-europeo

e il creativo tardo-moderno

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soprattutto a Parigi. Il soggetto-artista si trasforma, in quanto bohèmien, in portatore di uno stile di vita voluta-mente non borghese e anticonformi-sta, che si separa dalla morale, dal la-voro e dalla famiglia borghesi.

Così l’artista è, all’interno della cultura borghese, una figura margina-le, di nicchia, ma al contempo esterior-mente interessante, vissuta dal punto di vista affettivo in un senso contrad-dittorio: oggetto di un processo sia di eroicizzazione sia di patologizzazione. La figura dell’arti-sta può essere resa eroica poiché con-tiene qualità che rappresentano un potenziamento dei valori della cultura borghese, che allo stesso tempo non risultano generaliz-zabili all’interno del-la società borghese e classico-moderna. L’ ind iv idua l i smo e il produttivismo borghesi trovano nell’artista il loro se-greto idolo. Il borghese anela all’artista che egli stesso non è in grado di diven-tare, dato che la modernità borghese, nelle sue pratiche centrali del lavoro e della famiglia, non può poggiare su di uno sperimentalismo estetico, ben-sì si modella intorno a una razionalità strumentale e alla conformità a regole. In questo modo, l’artista sale di grado nel contesto borghese, fino alla con-dizione di oggetto di un’ammirazione auratica – e contemporaneamente di

un veemente rifiuto, che trova ma-nifestazione nel “Kulturkampf ” tra borghesia e bohème. L’artista-bohèm-ien si prende gioco delle fondamenta razionali e morali della modernità e, dal punto di vista di quest’ultime, deve essere avvertito come scandalo, ri-schio e minaccia. La patologizzazione dell’artista, in quanto figura deficiente dal punto di vista psichico e degenera-ta (fino a giungere alla “degenerazio-ne” di Nordau), gli rifiuta, in fin dei

conti, la legittimità a esistere.

Muovendo dal retroterra di questo status del sogget-to-artista irrimedia-bilmente minoritario e sentito come mas-simamente ambiguo, diviene chiara l’ecce-zionalità del proces-so storico-soggetti-vo in cui l’artista si rovescia nel creativo. Più fattori rendo-no possibile questo

spostamento e quello più importante è anzitutto la trasformazione dell’e-conomia capitalistica dall’industriali-smo e dal fordismo al post-fordismo. Quest’ultimo prende la forma di un’e-conomia dei segni, delle innovazioni semiotiche, e richiede un tipo econo-mico di soggetto che sia competente per quanto riguarda una simile innova-zione dei segni. Se l’industrialismo del XIX secolo fu un’economia dell’indu-stria pesante – con i suoi tipi soggettivi del lavoratore e dell’imprenditore – e il

così l’artista è, all’interno della cultura borghese,

una figura marginale, di nicchia,

ma al contempo esteriormente interessante,

vissuta dal punto di vista affettivo

in un senso contraddittorio

del volgere del millennio: quello di un attivismo estetico. Dal punto di vista della storia della cultura, nel corpo, nella psiche e nella performance del creativo la sensibilità semiotica e l’e-donismo sperimentale delle avanguar-die e delle controculture si incrociano con il sovrano autocontrollo e il fiuto imprenditoriale della borghesia capita-lista. Nel creativo, il vecchio artista eu-ropeo e il bohèmien vengono iniettati nell’economia post-fordista: un ibrido estetico-economico di un’estrema at-trattiva culturale per la nostra epoca.

Nel quadro di una storia culturale della modernità, il creativo rimanda in prima battuta all’artista. Le caratteri-stiche centrali sviluppate dall’artista in quanto figura sia marginale che eroica nel Rinascimento, nel Romanticismo e nelle avanguardie, si generalizzano e si trasformano nella figura del creati-vo. In questa prospettiva archeologica diviene chiara l’improbabilità storica

dell’egemonia culturale del creativo osservabile fin dagli anni Ottanta. Infatti, all’interno della prassi e della rappresentazione della società classi-camente moderna, dal XVIII alla metà del XX secolo, l’artista non fu capace di egemonia; fu, piuttosto, una figura culturale di nicchia. La forma del sog-getto dell’artista in senso moderno è un prodotto delle arti figurative del Ri-nascimento, ma soprattutto, intorno al 1800, del Romanticismo: anziché un’e-stetica classicista votata all’imitazione e della perfezione, segue un’estetica orientata alla creazione, alla realiz-zazione di ciò che è sorprendente. Il contesto romantico ci consegna un’e-stetica individualista dell’espressione, secondo cui l’artista esprime all’ester-no, nelle sue opere, il suo idiosincrati-co “interno”. Questa creazione artisti-ca come processo pratico di creazione presuppone, accanto a un’abilità arti-stica – o completamente al suo posto –, soprattutto una sensibilizzazione, una liberazione e una sperimentazio-ne della percezione sensibile (aisthesis). L’artista è dunque creativo in quanto crea un’opera, ma, all’interno di un processo ricco di conseguenze che si può cogliere nel corso del XIX secolo, la moderna condizione dell’artista ha anche un secondo significato: presen-tare se stesso, nel proprio stile di vita complessivo, come artista ed essere identificato in quanto tale, cosicché la vita possa essere realizzata “come un’opera d’arte”. Ciò può accadere in modo del tutto indipendente da eventuali opere artistiche, e il luogo socio-culturale per eccellenza di que-sta condizione artistica è la bohème,

nel corpo, nella psiche e nella performance

del creativo la sensibilità semiotica

e l’edonismo sperimentale delle avanguardie

e delle controculture si incrociano con il

sovrano autocontrollo e il fiuto imprenditoriale

della borghesia capitalista

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getti”, cioè di incarichi che hanno un carattere temporalmente limitato e richiedono l’intera forza lavoro di un “team” (o anche di una singola, auto-noma persona, il culturepreneur). Alla fine del progetto si trova il prodotto innovativo, il prodotto della creazione collettiva (o individuale). Le attitudi-ni del creativo sono quindi in prima battuta molto distanti da quelle del classico organization man interno all’ef-ficiente macchinario delle grandi corpo-rations. Il suo profilo tende piuttosto, nella sua sostanza, a ciò che Robert Reich chiama un symbol analyst4. Il suo compito centrale è di osservazione, raccolta, combina-zione e creazione di segni e idee. Le pos-sibilità tecnologiche della cultura digitale, che facilitano una si-mile raccolta e com-binazione, portano pure la routine della mobilità spaziale a un livello globale (soprattutto il trasporto aereo, presup-posto materiale del lavoro creativo). Questo lavorare creativo modellato su progetti presuppone e al contem-po produce un potenziale emotivo e affettivo nei gruppi su cui poggia: di-versamente rispetto al caso dell’organi-zation man, nel creativo non è richiesta alcuna razionalizzazione del Sé priva di emozioni, ma un entusiasmo per-manente nel cercare, nel cooperare e nell’inventare. In questo modo diviene

4 Cfr. Robert B. Reich, The Work of Nations. Preparing Ourselves for 21st-century Capitalism, New York 1991.

fragile anche la separazione tra profes-sionale e privato, tra tempo di lavoro e tempo libero.

Ad un primo livello, dunque, ha luogo nel creativo una generalizzazio-ne di competenze proprie del moder-no artista, primariamente del suo af-francamento da un modello di azione strumentale e basato su regole, tramite un modello di azione espressivo e in-novativo a livello simbolico. Ma na-turalmente il creativo tardo-moderno consegna né più né meno che una co-pia dell’artista romantico. Distintivo è piuttosto che il creativo suoni contem-poraneamente su due tastiere: quella

estetico-espressiva della creazione e quella economica del mercato. Ciò che conta non è la crea-zione del nuovo tout court, non è l’opera individuale in tutta la sua ingombranza (un mito romantico, che anche l’artista

del XIX secolo si poteva permettere solo in casi eccezionali), ma un pro-dotto innovativo che corrisponda ad una richiesta sul mercato dei prodot-ti e dell’attenzione. Il creativo segue quindi nel suo lavoro e nel profilo del-le sue capacità una obligation to dissent (McKinsey) di forma specifica, rende un marchio la differenza rispetto ad altri prodotti e ad altri creativi, gesti-sce un lavoro a partire dalla sua inso-stituibilità individuale (e dal suo cor-rispondente “marchio”). La differenza che lui stesso e i suoi prodotti eviden-ziano, deve in questo caso essere una

il creativo suona contemporaneamente

su due tastiere: quella estetico-espressiva

della creazione e quella economica

del mercato

fordismo dal 1900 al 1970 rappresen-tò una economia della produzione di massa – che produsse il tipo dell’im-piegato nella grande azienda – l’eco-nomia post-fordista poggia su di una produzione specializzata di beni di consumo (tanto materiali quanto im-materiali), che si configurano prima-riamente come portatori di segni per gruppi differenziati nel loro stile di vita. L’economia post-fordista è im-perniata su di un consumo estetizza-to, che fiuta negli oggetti di consumo offerte di identificazione e possibilità di esperienze disparate e variabili. Le economie capitalistiche hanno sempre e necessariamente poggiato sulla pro-duzione di nuove merci, ma nel con-testo post-fordista il “nuovo” è più il nuovo simbolico ed esperienziale che non il nuovo tecnico.

Il problema cruciale per l’esisten-za dell’organizzazione post-industriale sta dunque nel realizzare creazioni di

segni che siano innovative: viaggi di avventura e pacchetti di sicurezza fi-nanziaria, prodotti attrattivi e mobili esclusivi, outfit giovanili e alimentazio-ne salutista. A questo fine c’è bisogno, al cuore e al vertice di questa orga-nizzazione, di una forma di soggetto con competenze adeguate: il creativo. Si trova nella pubblicità come nel de-sign (di moda, arredamento, oggetti di uso quotidiano, automobili, ecc.), nell’architettura e nella consulenza, nei media, nel turismo e nelle nuove attività culturali, quindi in campi che vanno ben oltre ciò Adorno chiamava “industria culturale” e che nel frattem-po vengono raccolte, a mo’ di slogan, sotto la parola chiave delle creative in-dustries. Nella netta formulazione di Richard Florida, si tratta del nucleo professionale di una creative class che, all’inizio del XXI secolo, è costituita da poco meno di un quinto degli occupati nelle società occidentali3. Si addensa intorno alle grandi città orien-tate alla scienza e alla cultura, tra Stoc-colma e Barcellona, tra Seattle e Bo-ston, nelle creative cities che mettono a disposizione specifici quartieri in cui si concentrano creative industries, la scena artistica, attività culturali sovvenziona-te dallo stato e consumo estetizzato.

La forma organizzativa di queste industrie creative non può più accon-tentarsi della corporation del fordismo, gerarchica e differenziata in senso fun-zionale. Al suo posto entrano in gioco organizzazioni strutturate in modo post-burocratico: il lavoro è maggior-mente organizzato in forma di “pro-

3 Cfr. Richard Florida, The Rise of the Creative Class, New York 2002.

le economie capitalistiche hanno sempre

e necessariamente poggiato sulla produzione

di nuove merci, ma nel contesto

post-fordista il “nuovo”

è più il nuovo simbolico ed esperienziale

che non il nuovo tecnico

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Il tipo sociale del creativo è quindi più di un fenomeno unicamente pro-fessionale-economico, più dell’intro-duzione di determinate competenze proprie dell’artista nelle creative indu-stries, in cui si incrociano Sé impren-ditoriali e creatori di simboli. Il tipo del creativo si estende oltre la profes-sione, fino ad una forma di vita com-plessiva, cioè ad un insieme di prati-che sia professionali sia di consumo, personali-private, indirizzate al tempo libero e al corpo. Sul piano della sua soggettivazione fisico-psichica, nella sua autorappresentazione come anche nella sua rappresentazione tramite al-tri contesti, mezzi di comunicazione di massa o istituti di ricerca di mercato, il creativo è portatore di una forma di vita che comprende se stessa enfati-camente come “stile di vita”. Diverse etichette sono state utilizzate dai com-mentatori per definire la forma di vita del creativo: David Brooks parla di Bobos (Bohemian Bourgeois), Richard Florida di creative class e Mike Feather-stone di postmodern lifestyle6.

In particolare è assai presente la forma di consumo del creativo. Qui salta all’occhio uno specifico modo di utilizzo degli oggetti di consumo – vestiti, mobili, ecc. –, per comporli, in combinazione con altri oggetti, in uno stile individuale che viene percepito come “autentico” e, tra le altre cose, come “insostituibile”. Riviste come “Wallpaper” forniscono modelli per

6 Cfr. David Brooks, Bobos in Paradise. The New Upper Class and How They Got There, New York 2000; Mike Featherstone, Con-sumer Culture and Postmodernism, London 1991.

queste logica combinatoria del consu-mo, che Fredric Jameson ha qualifica-to nel suo carattere di pastiche e di mode rétro come distintiva per una estetica postmoderna del quotidiano7. Il crea-tivo può quindi abitare in un vecchio palazzo stuccato come in un bunga-low-bauhaus, può indossare giubbotti o completi – gli oggetti sono variabi-li, decisiva è la loro sapiente compo-sizione, in quanto segno di uno stile esteticamente saturato e brillante, che si tiene a distanza da qualsiasi cosa sia standardizzata. La differenza marcata da parte del creativo per mezzo del suo senso estetico del quotidiano, sensibi-lizzato all’estremo, agisce nei confron-ti di una forma di vita sentita come conformista e, in ciò, priva di stile, in cui vengono solamente replicati mo-delli dati. Requisito per l’abile gioco al consumo del creativo è quindi una spiccata competenza nella semiotica del quotidiano, che corrisponde alle competenze professionali del symbol analyst, un sapere pratico in relazione a oggetti d’uso comune di differente forma, dalla cultura alta come da quel-la popolare. Anche i rapporti persona-li hanno una forma caratteristica nel milieu del creativo: qui sono distintive reti di amicizia e di conoscenza di va-riabile intensità su un piano sovra-re-gionale (per quanto i confini siano per le “reti” professionali fluidi), nella cui cornice le relazioni del momento costituiscono punti nodali. Quest’ul-time somigliano d’altra parte a quella comunità di esperienza a due, come

7 Cfr. Frederic Jameson, Postmodernism, or, The Cultural Logic of Late Capitalism, Durham 1991.

differenza che è stata richiesta, a cui si indirizzano una attenzione positiva e un desiderio di consumo. A partire da questo scenario, un compito centrale del creativo consiste nella costante os-servazione del contesto in cui la sua organizzazione è inserita, dei trend cul-turali e degli spostamenti dei bisogni, delle nicchie e delle mode estetiche, anche tramite mezzi standardizzati come la ricerca di mercato. Il creati-vo, che ad un primo sguardo riproduce in se stesso il modello del moderno artista in forma generalizzata, è dunque il prototi-po di ciò che Nikolas Rose definisce enterpri-sing self: Egli agisce in modo imprenditoria-le in rapporto ai suoi prodotti – da una stra-tegia di promozione su una trasmissione televisiva fino a una sedia di design –, cioè si mette in caccia della richiesta di novità, e al contempo agisce in modo imprenditoriale in rapporto alla sua propria persona5, che deve posizionare e sviluppare in modo che essa stessa diventi un pro-dotto richiesto sul mercato del lavoro delle professioni creative e, alla fine, sul mercato dell’attenzione dei sogget-ti appetibili.

All’interno della più estesa massa di creativi di tutti i settori si costitu-

5 Cfr. Nikolas Rose, Governing the Soul. The Shaping od the Private Self, London 1990.

isce in questo modo un gruppo più ristretto di super-creativi, che ottengo-no visibilità oltre la singola organizza-zione creativa – la singola agenzia di consulenza, azienda di produzioni te-levisive, ecc. Qui la personalità e il suo stile soppiantano in misura crescente l’opera e il prodotto creativo. Al posto del “marchio” – artistico in senso stret-to – Picasso (verosimilmente il primo artista del XX secolo che è riuscito a

essere sia avanguar-dia sia imprenditore di stesso di grande successo) sono così entrati in scena i mar-chi creativi Philippe Starck, Harald Sch-midt, Tom Peters o Sarah Wiener, o, sul piano collettivo, Ebe-ne Scholz & Friends, TASCHEN o Body Shop. Quei creativi al vertice dell’economia dell’attenzione – crea-tivi che non lavorano più in un’organizza-zione creativa, ma la creano o sono del tut-to auto-imprenditori

– ottengono qualità “da star” nel qua-dro di un’opinione pubblica specia-lizzata, o anche più estesa. In questo modo l’attenzione si sposta sempre di più dai prodotti creativi alle carat-teristiche ordinarie-straordinarie degli stessi individui creativi – un fenomeno con cui d’altra parte si familiarizza fin dal Rinascimento, grazie alle biografie degli artisti.

il tipo del creativo si estende oltre la professione,

fino ad una forma di vita complessiva, cioè ad un insieme

di pratiche sia professionali sia di consumo,

personali-private, indirizzate al tempo libero e al corpo

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l’edonismo delle sub-culture estetiche. Dalla tradizione della borghesia capi-talistica e post-aristocratica preleva in-sieme il motivo di un sovrano gover-no del Sé, l’ideale di un’indipendenza disciplinata e imprenditoriale e di un agire di successo sul mercato econo-mico come su quello sociale. Non è sorprendente che al vertice del mo-dello tardo-moderno del creativo stia di nuovo l’artista – per quanto nella sua versione assai specifica di “artista di successo a livello globale”, come è reperibile al volgere del millennio nei campi delle arti figurative, del desi-gn e dell’architettura. Questi sembra muoversi apparentemente senza sfor-zo contemporaneamente nel registro estetico dell’espressione e nel registro economico del mercato.

*

Il film di Robert Pulcini “Ameri-can Splendor”, uscito nel 2003, tratta di Harvey Pekar, fumettista di primo piano nella scena americana indipen-dente, quasi sessantenne. Il film è principalmente un film a soggetto – in cui Pekar è impersonato in parte da Paul Giamatti, in parte da se stes-so – ma inclina anche ad elementi del cartone animato, precisamente nello stile dei fumetti di Pekar. “American Splendor” rappresenta la biografia e la vita quotidiana di Pekar, che lui stes-so prende come tema prediletto nei suoi fumetti. Dopo i suoi studi, Pekar si guadagna da vivere con un impie-go amministrativo piuttosto banale, in un ospedale statale piuttosto triste a Cleveland, nell’Ohio. È rappresentato

come un tipo per molti aspetti diffi-cile, rapidamente in collera, scontro-so, insocievole, insoddisfatto, i cui colleghi di lavoro sono amabili freak. Il suo stile nell’abbigliamento e l’arre-damento della sua casa sembrano ra-gionevolmente lontani da tutti i criteri di chi dovrebbe dispensare consigli di stile. Per lungo tempo e contro la sua volontà Pekar vive solo, prima di conoscere la sua futura moglie Joyce Brabner, una libraia del tutto anoni-ma. La sua apparizione nel talk-show di David Letterman – segno della sua rilevanza – finisce in un disastro. Più avanti, Pekar si ammala di cancro (che sconfigge).

Harvey Pekar è manifestamente un creativo che non rientra nel tipo sociale del creativo. Manca di quella co-olness dimostrata da David Hemmings in “Blow-up” e ancora di più di quella dell’artista di successo a livello globale. Un fascio di idiosincrasie – da cui si sviluppa un’opera artistica autonoma –, manca evidentemente della disposi-zione e della capacità di farsi sogget-tivare come “creativo”. Al contempo, però, in “American Splendor” è in grado di diventare una figura di culto underground. Così, paradossalmente, gli riescono sia l’espressività individuale sia il successo sul mercato dell’atten-zione, e quindi entrambi i criteri del tipo sociale creativo. Harvey Pekar è un non-creativo creativo, un creativo non-creativo, una figura in cui ven-gono testati i limiti dell’egemonia tar-do-moderna.

Anthony Giddens ha caratterizzato il rapporto ideale della pure relationship, e si possono estendere anche alla fa-miglia con quality time. In definitiva si attaglia allo stile di vita del creativo un comportamento nel tempo libero che combina individualmente diverse for-me di esperienze l’una con l’altra, dal viaggio in paesi lontani (secondo scel-ta, orientato alla cultura o alla natura) fino all’attività sportiva, e così facendo manifesta attivamente le proprie con-dizioni quadro socio-culturali.

In tutte le sue pratiche quotidiane, tra professione, consumo, rapporti personali e tempo libero, si costitu-iscono così uno specifico modo di funzionamento e una dinamica in-terna del tipo soggettivo “creativo”, che risultano nella triangolazione di tre orientamenti: il creativo considera in primo luogo il suo ambiente nella perspettiva di una semiotica sperimen-tale del quotidiano; in secondo luogo, fa costituire se stesso e i suoi desideri da una semantica del self growth, dell’e-spressione individuale di sé; infine, egli vuole raggiungere riconoscimento nel quadro di un mercato economico e so-ciale la cui merce è un’attenzione che scarseggia. I primi due punti costitui-scono, in senso generalizzato, orienta-menti estetici, il terzo un generalizzato orientamento economico. Il creativo è in grado, professionalmente e priva-tamente, di servirsi in modo brillante della simbolicità di oggetti e soggetti, al fine di utilizzarli come mezzi per l’espressione del suo Io, di quello spe-rimentalismo e di quell’accrescimen-to di sé, che la self growth psicology ha, dagli anni Sessanta, decretato essere

lo scopo naturale di una personalità autentica. Se lo sguardo sul mondo del creativo quindi percepisce tutto come un campo da gioco per opzioni semiotiche ed espressive e per la loro combinabilità, al contempo questo sembra essere inserito in modo per-fetto nella costellazione di un merca-to economico e sociale il cui bene più scarso è rappresentato dalla (positiva) attenzione, per la quale si concorre: creazione e creazione di sé hanno qui luogo davanti a un pubblico che deve certificare le innovazioni riuscite. Il carattere illimitato dello sperimentali-smo espressivo di un Sé che vuole co-stantemente mutare e l’imprevedibilità della richiesta economica e sociale di oggetti e soggetti “effettivamente” creativi trasmettono quindi alla forma soggettiva del creativo un’instabilità e un dinamismo duplicati.

L’egemonia culturale del creativo all’interno della cultura al volgere del millennio (che le previsioni storiche di ordine divulgativo estendono anche al futuro della creative class8), in quan-to soggetto attrattivo e desiderabile che si presenta come apparentemente senza alternative, si fonda, dalla pro-spettiva di una archeologia culturale della modernità, su una sorprendente doppia legittimazione, da parte della bohème e della borghesia. Dalla tra-dizione del soggetto-artista, per lungo tempo minoritario, il creativo mutua i modelli culturali di un’attività e di un’e-sistenza allo stesso tempo espressive e sperimentali, e l’anti-conformismo e

8 Cfr. Matthias Horx, Wie wir leben werden. Unsere Zukunft beginnt jetzt, Monaco-Zuri-go 2005.

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TesTi ciTaTi

Franco Fortini, Lettera agli amici di Piacenza, in Saggi ed epigrammi, Mondadori 2003

La lettera viene inviata dall’autore a numerosi gruppi e singoli attivi nell’area della sinistra non partitica ad inizio anni Sessanta; chi risponde, non a parole ma nei fatti, è il gruppo che di lì a poco fonderà i Quaderni Piacentini, storica rivista di cultura e politica, centrale per il ’68 in Italia. Fortini in dieci pagine delinea la si-tuazione: il progressismo degli anni Sessanta sembra poter garantire uno svilup-po della società, una crescita tecnologica senza precedenti, soddisfazioni e lauti compensi; tuttavia, al prezzo della delega del potere su ampie parti della propria esistenza, decise dall’esterno (si parla di gestione della conoscenza, sfruttamen-to lavorativo, colonizzazione dell’immaginario ecc.). La proposta, nell’assenza totale di soggetti politici non coinvolti in questo progetto – il PCI non faceva eccezione – è quella dell’autogestione della cultura e dell’analisi; dunque, della creazione di nuovi soggetti politici. Oggi la situazione è peggiore: gli unici sog-getti politici esterni al sistema sono fascisti, la cultura è relegata negli specialismi e non ha a che fare con la realtà, lo sfruttamento è in piena esplosione. Così, cerchiamo di fare nostra la proposta di Fortini.

Fredric Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti 1989

Il concetto di postmoderno viene introdotto alla fine degli anni Settanta da Lyotard, e appare subito in grado di dare forma complessiva alle tensioni sociali, artistiche, politiche operanti nella società di fine Novecento. Il postmoderno costituirebbe un deciso superamento dell’arte moderna, con la sua scommessa sul rapporto fra individuo e collettività; delle grandi narrazioni della modernità, dal marxismo al cristianesimo impossibili oltre una certa soglia storica; della società delle masse, trasformata nella società degli individui. Jameson, già dal titolo, postula invece una continuità: a informare le trasformazioni sociali, po-litiche e artistiche è, appunto, la logica del tardo capitalismo, la cui coerenza al di là dei mutamenti esteriori (della sovrastruttura) è sempre più ferrea. La forza

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del volumetto è quella di verificare dialetticamente la tesi di fondo nei più diversi campi, mettendo in evidenza la coerenza delle numerose trasformazioni che coinvolgono la società americana alla fine degli anni Ottanta, prefigurandone l’allargamento alle longitudini della periferia dell’impero, le nostre.

Reinhart Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, CLUEB 2007

Fatta eccezione per l’introduzione di Sandro Chignola, i saggi qui raccolti forniscono strumenti potenti per inquadrare il rapporto fra epoca moderna e temporalità. La tesi di fondo: fra l’orizzonte dell’esperienza – ciò che è dato pro-vare da ciascuno nella propria vita – e orizzonte d’aspettativa – la capacità di fare previsioni a medio e lungo termine – si è scavata una frattura, determinata dalla continua accelerazione del progresso. Quali le conseguenze? Il concetto stesso del tempo, basato sul come una certa epoca immagina il rapporto fra il passato e il futuro, cambia completamente – la concezione del futuro che avevano le epoche premoderne è tramontata: futuro che è passato, trascorso. Si apre l’epoca delle filosofie della storia: nel momento in cui non è possibile una previsione basata sull’esperienza, è necessario ricorrere ad altre categorie. Gli oggetti arti-stici non veicolano più un legame immediato, profetico, fra passato e presente in direzione di un futuro, le filosofie della storia dal XIX secolo lavorano sugli iati. La modernità, tuttavia, non rinuncia del tutto alle tensioni profetiche incastonate nell’opera, che continuano, all’interno di complesse stratificazioni, ad operarvi.

Figure. Il termine si lega alla retorica, identifica un luogo di aggregazione e condensazione di senso. In alcune figure ciò che normalmente è irrelato vie-ne congiunto; in altre si avvicinano al bruciare della contraddizione termini o concetti antitetici; ancora la figura gioca con i suoni delle parole, ne annida l’una nell’altra. In generale la figuralità accende un testo o un discorso, incide la memoria richiamando l’icasticità di un’immagine. Identifica un’attenzione alla lingua e all’immaginario che in essa si condensa. Interpreta la lingua infine nei termini di una complessità e ambiguità non sempre districabili, mobilitan-do l’esigenza di una dialettica e di uno sforzo non pacificabile del pensiero.


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