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L'uso del paragone nel dialetto cavallirese - Libero...

Date post: 17-Feb-2019
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Gianni Martinetti L’uso del paragone nel dialetto cavallirese
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Gianni Martinetti

L’uso del paragone nel dialetto cavallirese

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INTRODUZIONE

Prima di entrare nel vivo della nostra trattazione, è bene dare qualche indicazione sul paese oggetto

del presente esame.

Cavallirio è un paese dell’area medio collinare novarese, alle propaggini della bassa Valsesia, con

una superficie di 8,08 kmq ed una popolazione di circa 1300 abitanti.

Per quanto riguarda la sua storia citiamo letteralmente Franco Dessilani: “ I comuni novaresi –

Schede storiche” Interlinea edizioni Novara 2001:

“In regione Suloro di Cavallirio fu trovata nel secolo scorso l’ara votiva romana dedicata a

Mercurio lucrorum potenti e alle Matrone, trasferita poi a Cavaglietto in casa Maggiotti (ora

Municipio, dove è ancora visibile) Anche il nome di Cavallirio è stato ricondotto tradizionalmente a

quello del cavallo, animale che perciò figura sullo stemma comunale. Alcuni studiosi ipotizzano che

l’origine del nome, risalga a Curticella de cavalli regis, citato nel diploma di Corrado II (1025) per

il Vescovo di Novara e che si trattasse di una località in cui si allevavano “i cavalli del Re” (ossia

dei sovrani barbarici), anche per la presenza della località Stoccada (dal germanico Studegarde –

recinto per cavalli-). Il villaggio nel 1028 fu confiscato da Corrado il Salico ai sostenitori dello

sconfitto re Arduino e assegnato al Vescovo di Novara Pietro III, passò poi ai Marchesi di

Romagnano nel 1163, come è testimoniato nel diploma di Federico I in cui è citato come “villa

Cavaler”. Dal 1407 fu feudo dei Barbavara, discendenti dei Conti di Castello, poi unito al

Marchesato di Romagnano nel 1441. Dopo alterne vicende e altrettanti cambi di proprietà,

l’imperatore Carlo V provvide a infeudare Cavallirio, insieme a Borgomanero, Biandrate, Ghemme

e Carpignano al cardinale Mercurino Arborio di Gattinara con atto 19 maggio 1529. Passato al

nipote Giorgio, per lascito testamentario, alla sua morte, la successione venne contestata e i

marchesi di Romagnano ne riottennero il possesso. Ulteriori cambi di possessori, tra cui il cardinale

Carlo Borromeo, finchè nel 1585 il feudo di Romagnano (e quindi anche Cavallirio) fu devoluto

alla Corona di Spagna, che, smembrandolo della Colma e di San Germano Vercellese, lo diede in

vendita il 17 maggio 1588 a Giovanni Battista Serbelloni. Questa famiglia ne rimase in possesso

fino al 1802

Dell’epoca medioevale rimane la chiesa di San Germano isolata nella brughiera, documentata come

appartenente a Romagnano nel secolo XIII, la cui parte inferiore delle murature è assegnabile alla

prima metà del secolo XI e conserva intatto il paramento esterno dell’abside, con la cornice ad

archetti pensili a coppie scandite da lesene.

La chiesa di San Gaudenzio, la cui esistenza è testimoniata da un documento del 1498 diventa

parrocchia di Cavallirio il 13 luglio 1563, separandola da Romagnano. La parrocchiale fu poi

ricostruita a tre navate nei primi anni del Settecento; custodisce altari marmorei (i due laterali sono

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del 1778, dello scultore Giudice), alcune tele di Andrea Miglio (del 1846 – 1847) e un quadro del

pittore Velatta di Cellio (San Gaudenzio, nel coro, del 1816); restauri e abbellimenti alla chiesa si

ebbero nel 1893. L’armadio di sacrestia proviene dal convento dei cappuccini di Romagnano,

soppresso in età napoleonica.

Notevoli sono gli affreschi del XVIII secolo presenti all’interno dell’Ossario, posto all’esterno della

Chiesa Parrocchiale

L’oratorio dell’Assunta fu costruito nel 1616; l’altare marmoreo è del 1753, mentre l’ancona lignea

dorata risale al 1668. Nel 1770 sorse l’oratorio di San Rocco, a tutt’oggi di proprietà privata e

contenente affreschi di Lorenzo Peracino.

Sulle colline in posizione parallela tra loro e volte verso il paese si ergono le “Tre Madonnine”,

dipinti risalenti alla metà dell’Ottocento e restaurate a metà del Novecento, che sono da

considerarsi, con San Germano, uno dei simboli di Cavallirio.

Nel punto più alto del paese (404 metri) sorgono i resti di una Torre, ricostruita su resti

presumibilmente dei secoli XII – XIII.

Si segnala ancora l’antica casa parrocchiale del XVI secolo, sita nel cantone Suloro, che presenta tre

meridiane datate secolo XVII.

Le attività tradizionali del paese, concentrate principalmente a sud sulla direttrice Romagnano –

Borgomanero, sono allevamento dei cinghiali, industrie chimiche, metalmeccaniche e alimentari

(produzione di gorgonzola). Un capitolo a parte merita la produzione del vino che imprenditori

locali tendono a riproporre soprattutto come vino di qualità (Boca DOC), ripopolando i vigneti sulle

colline.”

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CAPITOLO I

Nella descrizione di fatti e situazioni, tutte le parlate dialettali abbondano nell’uso del

paragone, ottenendo sovente effetti di rara efficacia: i paragoni sono a volte sottili, a volte arguti, o

pur banali, di difficile interpretazione, legati direttamente all’osservazione della natura o del mondo

circostante, in ogni caso comunque espressione della ricchezza propria idiomatica del linguaggio

popolare.

Anche la parlata di Cavallirio (espressione di una comunità ormai circoscritta a pochi

esemplari autoctoni, per i noti fenomeni di immigrazione e di pianificazione culturale esercitata dai

mezzi audio-visivi) non rifugge da questa regola.

Per sua natura, il cavallirese appartiene alla famiglia dei dialetti gallo-italici, di ceppo

piemontese, con la struttura grammaticale tipica del valsesiano; risulta tutta via interessato da

profondo influssi esercitati dal novarese e da tutta l’area dialettale lombarda in genere.

Le influenze determinate dalla somma di tutte queste componenti sono riscontrabili in

numerose espressioni caratteristiche dell’una o dell’altra parlata, entrate comunque a far parte del

patrimonio linguistico dell’abitante-tipo di Cavallirio.

Limitandoci all’analisi dell’uso del paragone, troveremo perciò accanto a forme idiomatiche

esclusivamente locali, anche forme comuni ad aree linguistiche molto estese.

Prima di passare tuttavia ai casi specifici, è opportuno indicare i criteri usati nella trascrizione

fonetica.

Ovviamente ci si limita a pochi cenni schematici, necessari a dare una traccia orientativa,

non essendo questa la sede per la sua dissertazione completa.

Ecco dunque la trascrizione adottata, seguendo, nella quasi totalità, le indicazioni

dell’Istituto Glottologico Italiano di Torino:

c’ = c finale dolce come in “cena”

es.: nòc’ = notte; lac’ = latte

ch = c finale dura come in “caro”

es,: fach = faccio; sach = sacco

g’ = g finale dolce come in “giorno”

es.: pég’ = peggio; mag’ = maggio

gh = g finale dura come in “ghiro” es.: fagh = faccio; lagh = lago é = e chiusa come in “vera” es.: véc’ = vecchio; léc’ = letto

é = e aperta come in “bello”

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es.: cumè = come; rèbia = rovo ë = e semi-muta come nel francese “le”

es.: për = per; ëndrumantà = addormentato

(spesso, in inizio di parola, nel parlato la ë si elide e si può rendere utilizzando l’apostrofo:

‘ndrumantà)

j = serve ad indicare una pronuncia agglutinante della i, di solito sostituisce la forma italiana -gl

es.: fërgaja = briciola; paja = paglia n- = n velare piemontese; in fine di parola il suono è sempre velare

es.:campan-a = campana; nuén-a = novena

ó = o chiusa come in “sole”

es.: còl = quello; fòmla = donna

ò = o aperta come in “rosa”

es.: fiòcca = neve; piòv = piove

ö = come nel francese eu: “adieu”

es.: sö = suo; pörgu = portico

ü = come u nel francese es.: “usine”

es.: müs = muso; rüs = spazzatura

(senza dieresi la u si legge come in italiano)

s = normalmente si legge come in italiano nella parola “scena”, esistono tuttavia alcuni casi in cui il

suono, davanti a c e g, risulta più prolungato e staccato, per cui è preferibile sottolinearne la

pronuncia con un trattino intermedio che renda il distacco tra le due consonanti: s-ciòpp = schioppo,

s-giaff = schiaffo

Le rimanenti lettere seguono la pronuncia e la trascrizione della lingua italiana.

Prima di passare all’elencazione dei vari paragoni (e, in qualche caso, di pseudo-paragoni)

aggiungiamo una ulteriore e doverosa precisazione:

jün cumè ch’ës dév = uno come si deve, una persona ammodo

al pòd nòt rasunè cumè si sìa = non può ragionare come capita

ma ‘l dév dì tüt pròpriu cumè ch’l’è = ma deve dire tutto come è (tal quale)

sanza ‘nfingardarii = senza ipocrisie

e sòra tütt parlè = e soprattutto parlare

cumè ch’l’è mustraghi sö mari = come gli ha insegnato sua madre

Tale regola è alla base del presente lavoro, per cui anche le espressioni più crude sono rese

nella loro totalità: il linguaggio popolare infatti non ha mai avuto mezzi termini o veli di copertura

che sarebbero stati (se qui utilizzati) la negazione intrinseca dell’originalità e della spontaneità.

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CAPITOLO II

I paragoni più immediati sono senza dubbio quelli legati all’aspetto fisico di un individuo,

forse perchè di questo se ne ha una percezione immediata e diretta.

E così:

- un individuo alto sarà detto:

aut cumè na pubia = alto come un pioppo

- mentre uno basso di statura è:

grand cumè ‘n sòd ëd furmag’ = alto come un soldo di cacio

- per qualcuno non del tutto “tappo” c’è però la concessione:

aut cumè düi sòid ëd furmag’ = alto come due soldi di cacio

- una persona magra può essere definita in vari modi:

maigru cumè ‘n pich = magro come un piccone

maigru mè ‘n ciò = magro come un chiodo

maigru mè ‘n saru = magro come un palo della vigna

sèch cumè ‘n grisin = secco come un grissino

sèch cumè n’inciùa = secco come un’acciuga

sutil cumè n’òstia = sottile come un’ostia; in quest’ultimo caso con particolare riferimento a

persona dimagrita per malattia.

- I grassi sono così catalogati:

grass mè ‘n tass = grasso come un tasso (in considerazione dell’accumulo di grasso fatto da

quest’animale nei mesi estivi, in previsione del letargo invernale)

grass cumè ‘n purcél = grasso come un maiale

rutónd mè na balla = rotondo come una palla

- una persona che gode di buona salute è:

ardì cumè ‘n cigulòt = sano come un cipollotto

san cumè ‘n pèsc’ = sano come un pesce

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E anche ( meno usato):

- arzillo cumè ‘n pèsc’ = arzillo come un pesce ( in base alla considerazione che un pesce sano è in

perenne movimento e che il suo fermarsi a pancia all’aria è indice di morte sopravveniente o

sopraggiunta)

- un individuo affetto da malattie epatiche è invece:

giaunu cumè ‘n limón = giallo come un limone

- un orientale, oltre che “giaunu cumè un limón” sarà:

giaunu cumè ‘n canarin = giallo come un canarino

- un nero:

néigru cumè ‘l carbón = nero come il carbone

- l’essere pallidi (non importa se per paura o per malattia) comporta per i cavalliresi:

bianch cumè në strac’ = bianco come uno straccio

smört cumè na pëtta : pallido come un peto

smört cumè na pëtta ‘d lüv = pallido come una vescia. La vescia è una specie di funghi della

famiglia delle Lycoperdacee denominata scientificamente “Bovista plumbea”. È di forma globosa,

inizialmente di colore bianco, mentre a maturità vira verso il grigio- piombo (da cui il nome) che si

rompe alla sommità per l’emissione delle spore. Come tutte le vesce è commestibile solo nella fase

bianco-candida, ma rende bene solamente se “impanato”.

- colui che sta morendo lentamente di consunzione:

ës cunsümma cumè na candéla = si consuma come una candela

- il timido, la persona che arrossisce facilmente, diventa:

róss cumè ‘n pulòn = rosso come un tacchino

Questo paragone vale anche per chi è fresco reduce di qualche sforzo violento,

- avere le gambe da cavallerizzo fa dire:

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sciablu cumè ‘n maulèt = arcuato come una falce. Maulèt è la falce ricurva usata per tagliare l’erba

ai bordi dei sentieri di collina o lungo le sponde dei vari ruscelletti, lavoro di solito destinato alle

donne)

- avere la capigliatura ribelle significa:

véighi cavèi dric’ cumè lésni = avere capelli diritti come lesine

- di un individuo prestante si dirà che è:

fòrt cumè ‘n tòr = forte come un toro

largh cumè na chërdénza = largo come una credenza

al gà ji spali cumè n’armariu = ha le spalle come un armadio

- l’essere un pappamolla vale:

mòl cumè ‘n fich = molle come un fico

mòl cumè la pót = molle come l’infarinata. La pót è una pappina la cui ricetta base è semplice: in

una pentola si fanno bollire quattro parti di acqua e una di latte; a ‘parte si miscelano nelle stesse

proporzioni, farina bianca e farina gialla che poi si versano mescolando pian piano in acqua e latte

durante l’ebollizione. Dopo tre quarti d’ora circa la pót è pronta e va consumata con l’aggiunta di un

po’ di latte freddo.

- chi non risulta particolarmente amico dell’acqua viene definito:

vónc’ cumè ‘l fónd d’una padèlla = unto come il fondo di una padella

e anche:

vónc’ cumè na pèla = unto come una “padella”. La pèla per l’esattezza è una padella bassa e larga,

con il fondo forato o fatto di bacchette metalliche intrecciate, in cui vengono messe le castagne per

farne caldarroste.

- per il sudicione, sopra indicato, vale anche questo paragone “olfattivo”:

spüzè cumè na carògna = puzzare come una carogna

- Suscita ribrezzo chi è:

gròss cumè ‘n rat ëd curmëgna = grosso come un topo da fogna (sottinteso anche sudicio). È noto

che il topo da fogna - “mus decumanus” – è più grosso degli altri topi e che il suo ingrassare è

legato al procacciamento di cibo tra le sostanze in decomposizione.

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- a far da contrasto a questi abitatori del sottobosco umano, ecco un individuo dal portamento eretto

fiero ed impettito:

dric’ mè ‘n füs = diritto come un fuso

dric’ mè na spòla = diritto come una spola

dric’ mè në s-ciòp = diritto come uno schioppo

mentre:

réid cumè ‘n baccalà = rigido come un baccalà

Si dice di chi irrigidisce di fronte a qualche fattore imprevisto, ma anche per indicare un morto per

assideramento.

E ancora spigolando:

véighi la bócca cumè ‘n fórn = avere la bocca come un forno può essere riferito a chi ha dimensioni

abnormi della bocca, ma anche parlando di persona particolarmente vorace.

frèsch cumè na ròsa = fresco come una rosa

biót mè ‘n vërmisgiö = nudo come un verme

sgónfiu cumè ‘n balón = gonfio come un pallone. Il paragone può riferirsi a gonfiori dovuti ad

idropisia, mal di denti, ecc., ma anche al gonfiore determinato da un pasto pantagruelico o dall’aver

troppo bevuto.

gëlà cumè ‘n burdón = gelato come una rapa. “Burdón” è una specie di rimolaccio che d’inverno

gela sotto terra.

sbatü cumè në strac’ = sbattuto come uno straccio, nel senso di persona esausta, in particolar modo

per intensa attività sessuale. Il paragone nasce dall’energica azione di sbattitura esercitata dalle

lavandaie sui panni.

La fantasia dei cavalliresi galoppa a briglie sciolte nel definire individui a cui madre natura non ha

fornito le fattezze di Adone o di Venere:

brüt cumè ‘l pëcà = brutto come il peccato

brüt cumè la nòc’ = brutto come la notte

brüt mè ‘l cü = brutto come il deretano

brüt cumè ‘l diau = brutto come il diavolo

béla cumè ‘l cü d’una padèlla = bella come il retro di una padella

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E ancora:

véighi la facia cumè ‘l cü = avere la faccia come il deretano. Questa espressione, oltre che indicare

una persona di aspetto repellente, viene usata anche per classificare individui noti per la loro

sfacciataggine.

- Per i belli, invece, forse perchè già baciati in fronte dalla fortuna, il dialetto non ha molta fantasia:

bél cumè na fiö = bello come un fiore

bèla cumè na madonna = bella come una madonna

-

- Nel definire un individuo villoso non c’è che da scegliere:

pëlós cumè n’órs = peloso come un orso

pëlós cumè na sciümia = peloso come una scimmia

- Parlando di persone affette da sordità abbiamo:

stórn mè na tapla (taplin) = sordo come una scheggia di legno

balórd cumè na sappa = sordo come una zappa, paragone che un vecchio mio compaesano, un po’

poeta e un po’ filosofo spiegava così: “La zappa, mentre sta lavorando, non sente mai i lamenti

della terra che viene sminuzzata”

balórd mè na campan-a = sordo come una campana. Anche qui lo stesso vecchio, con un sorrisetto

sulle labbra, spiegava: “La campana chiama tutti a Messa, ma lei non ci va mai: è evidente dunque

che non ci sente”.

- colui che vede poco o niente è:

òrbu cumè ‘n müsón = orbo come una talpa; evidente il riferimento alle ridotte capacità visive

dell’animaletto in questione.

- Pure la giovinezza ha i suoi termini di paragone:

gióvnu mè l’aj = giovane come l’aglio, con ogni probabilità in base alla sensazione di freschezza

che dà uno spicchio d‘aglio appena sgusciato

gióvnu cumè l’ava = giovane come l’acqua. In questo caso è trasparente il riferimento all’acqua

corrente che nel suo fluire continua a rinnovarsi, mantenendosi perciò “giovane”.

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- Di un vecchio si dice:

l’è véc’ mè ‘l cuccu = è vecchio come il cuculo, sulla base dell’antica credenza che il cuculo non

moriva mai e ad ogni primavera ricompariva da bravo parassita a depositare le sue uova nei nidi

altrui.

Per terminare questa prima serie di paragoni (ben lungi dall’essere esaustiva), eccone uno un poco

ricercato e riferito a coloro che sono afflitti dall’acne o da similari malattie della pelle:

véighi la facia cumè ‘n camp pin ëd mutèri = avere lla faccia come un campo pieno di mucchi di

terra. La “mutèra” è un monticciolo di terra e letame che si fa nei prati con funzioni di

rinnovamento dell’humus; è dunque una terra grassa che viene sparpagliata durante l’autunno

sull’appezzamento di terreno. Però sta anche a significare i mucchietti di terra smossi dalle talpe ed

è sicuramente a questa seconda definizione che si riferisce la similitudine.

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CAPITOLO III

Un’altra serie di paragoni è legata al mangiare e al bere.

- di chi è particolarmente vorace si dice che è:

górd cumè na pulla = ingordo come un tacchino

górd cumè ‘n ciatru = ingordo come un rospo

- di un mangione:

l’è cumè ‘l pózz ëd San Patriziu : è come il pozzo di san Patrizio, cioè è senza fondo, così come la

leggenda narra del pozzo costruito in una notte dal diavolo in seguito ad un patto dello stesso con il

santo, dal quale venne alla fine beffato.

- di chi mangia poco:

al mangia cumè ‘n picin = mangia come un pulcino

- di chi mangia senza parlare:

al mangia cumè i frài = mangia come i frati. Una delle regole di molti ordini religiosi è appunto

quella del silenzio durante i pasti.

- di chi mangia velocemente, ingozzando il cibo in fretta e furia come se vivesse sempre nel

pericolo oppure come se fosse l’ultimo pasto della sua vita:

al mangia cumè ‘n ludru = mangia come un furfante. “Ludru”, nel dialetto valsesiano, ha il

significato di mariuolo, di senza religione, forse derivato da “luterano” come ipotizza, non si sa su

quali basi il Tonetti nel suo “Dizionario valsesiano”.

Invece, con ogni probabilità, è da porsi in relazione con il significato originario del termine:

“maschio della lontra”, del quale è nota la voracità

- di chi ha mangiato troppo:

sgónfiu cumè ‘n butal = gonfio come una botte. Paragone facile se si considera la forma

ovoidaleggiante delle botti

pin cumè ‘n babiu = pieno come un rospo

- di chi ha bevuto troppo:

pin cumè n’öv = pieno come un uovo

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pin cumè na lüm = pieno come un lume

Nel caso manchi ancora qualche bicchierino per essere ubriaco fradicio, correttezza vuole che ci sia

lo sconto:

pin cumè ‘n lümin = pieno come un lumino

- quando il vino è limpido e non presenta depositi di alcun genere:

l’è ciar mè ‘n cristal = è chiaro come un cristallo

Se invece risulta squisito al palato, ecco che:

al và giü cumè ‘l rusòliu = va giù come il rosolio

- se si esagera nel bere si fa presto a diventare:

ciuch mè na bija = ubriaco come una biglia

ciuch mè ‘n birin = ubriaco come un birillo

I paragoni nascono dal rapporto tra l’instabilità motoria dell’ubriaco e la facilità di rotolamento

della biglia – o di cadere del birillo al minimo urto

ciuch mè n’aquila = ubriaco come un’aquila, forse in base alla difficoltà di stabilire con esattezza

quale sia la traiettoria dell’ubriaco e la direzione di volo di un’aquila

ciuch mè na vaca = ubriaco come una mucca. In questo caso l’andatura barcollante dell’ubriaco

viene paragonata a quella ciondolante della mucca.

- alla fine a degno coronamento di tutte queste “ciocche”, guardando controluce il fondo di una

bottiglia ( o bottiglione che si tratti), non è raro che il beone sconsolato esclami:

l’è sciüc’ mè ‘n brèm = è asciutto come la crusca del granoturco

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CAPITOLO IV

Un’ulteriore gruppo di paragoni si riferisce alle caratteristiche morali ed ai vari temperamenti

degli individui.

Abbiamo così:

brau cumè ‘l sól = bravo come il sole. Da sempre il sole, nelle civiltà rurali, è sinonimo di vita, di

luce, di calore; facile quindi la correlazione e, dunque, la comprensione di questo modo di dire.

brau cumè ‘n tòch ‘d pan = bravo come un pezzo di pane. Vale il commento fatto in precedenza: è

inutile sottolineare l’importanza del pane in un’economia di pura sopravvivenza.

Al contrario, per chi è di indole malvagia, si ha:

gram cumè ìl tösgu = cattivo come il veleno. “Gram” in generale può significare sia “cattivo

sapore” che “indole malvagia” e nel cavallirese viene usato con entrambi i significati.

gram cumè ‘n giüdé = malvagio come un giudeo. Il marchio dell’uccisione di Cristo, che da sempre

accompagna i Giudei, trova come si vede, una precisa collocazione anche nel linguaggio popolare.

gram jün di cavèi róss = cattivo come uno dai capelli rossi. Per antica tradizione il pelo rosso

(“Rosso Malpelo”) è sinonimo di individuo poco raccomandabile.

danà cumè ‘n cópp = dannato come un coppo. Il senso attuale di questo modo di dire è appunto:

“molto cattivo” oppure “molto discolo”, mentre ben altro era il significato originario. Infatti il

“cópp” è l’antica forma di tegola, usata a copertura dei tetti ed il “danà” ( o “dagnà”) secondo i

vecchi intendimenti voleva dire “rotto” “rovinato” e quindi il paragone stava a significare “esposto

a tutti gli scherzi della sorte”.

Gli individui un po’ bizzarri trovano una loro precisa similitudine in uno dei seguenti paragoni a

scelta:

mòc’ cume ‘n caval = matto come un cavallo

mòc’ cumè na crava = matto come un capra

matt cumè na pulla = matto come una tacchina

È evidente in questi casi il riferimento al comportamento dei singoli animali, ovvero la bizzosità e

la riottosità e quindi un carattere difficile e indocile che induce a pensare alla loro stranezza.

A chi arride qualche momento di buonumore sarà detto che è:

cuntént cumè na pasqua = contento come una “pasqua”. Pasqua è festa di gioia e di resurrezione per

i cristiani: sinonimo quindi di letizia interiore.

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cuntént cumè na spósa = contento come una sposa. Quale giorno è più bello per una donna di quello

del matrimonio?

cuntént cumè ‘n grill = contento come un grillo. Forse perchè il grillo è da intendersi come simbolo

della gioia di vivere con il suo cri-cri innalzato al cielo stellato!

Colui che riesce ad esternare la sua contentezza non fa altro che.

sciübiè cumè ‘n fringuèll 0 fischiettare come un fringuello

Un imperturbabile è:

sërén mè në spéc’ = sereno come uno specchio

Uno pieno di energia:

frèsch mè në spós = fresco come uno sposo. Poichè in genere i matrimoni si celebravano in giovane

età, risulta evidente quanto gli sposi novelli fossero pieni di energia, indipendentemente dalle loro

attività notturne.

Un arrabbiato:

l’è négru cumè ‘n capél = è nero come un cappello. Anticamente tutti i cappelli da cerimonia (e

quindi anche per i funerali) erano di colore nero.

Un geloso, non ci si accontentava di definirlo tale, ma era:

gilós cumè ‘n can = geloso come un cane. È noto l’attaccamento (spesso morboso) del cane per il

proprio padrone.

Uno poco perspicace:

l’è güzz cumè ‘l fónd d’un butal = è aguzzo come il fondo una botte. Le botti sono tutte di forma

rotonda o ovale.

Uno astuto:

fürb cumè la vólp = astuto come la volpe

Uno debole di carattere:

l’è cumè na còrda ‘d bür = è come una corda di burro

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Chi la tira troppo per le lunghe è:

lóngh cumè la quarésma = lungo come la Quaresima. I quaranta giorni della Quaresima parevano

non passare mai...

Uno prudente:

al fà al pass cumè la gamba = fa il passo come la gamba, ovvero non si spinge mai al di là dei

propri limiti.

Uno ostinato, particolarmente tenace nelle proprie opinioni, difficile da smuovere:

l’è dür cumè ‘n sass = è duro come un sasso

Chi non vuole sentire ragioni fa dire:

l’è cumè parlè al mür = è come parlare con il muro

Un individuo altero, orgoglioso

l’è fier mè n’artaban = è fiero come un armigero impettito nella propria uniforme di gala. Per

inciso, si deve ricordare che Artabano, oltre che essere stato il nome di alcuni re di Persia, secondo

una leggenda, era il quarto dei Re Magi.

Un credulone:

al bócca cumè ‘n pèsc’ = abbocca come un pesce

Un personaggio di cui non ci si può fidare:

l’è fàus cumè Giüda = è falso come Giuda. La tradizione evangelica ha lasciato profonde tracce

nell’animo popolare. Per il paesano infatti l’apostolo Giuda Iscariota è da sempre il non plus ultra

della doppiezza e del tradimento.

Un economo:

l’è cumè na furmiga = è come una formica

Un solitario (di carattere o perchè evitato dagli altri) è:

da për sì cumè ‘n can = da solo come un cane. È evidente il riferimento ai cani randagi o, a quei

cani abbandonati da padroni crudeli nel periodo estivo durante la partenza per le vacanze.

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Un importuno:

l’è nuiós cumè na mósca = è noioso come una mosca.

Un testardo:

l’è cumè ‘n mutón ca gnücca = è come un montone che dà testate

Un antipatico:

l’è vist cumè ‘l füm nt’j’öggi = è visto come il fumo negli occhi

Un individuo inacidito dalle contrarietà esistenziali:

l’è cumè un vin patì = è come un vino andato a male

Chi non brilla per originalità:

urdinariu cumè ‘l pan ëd mélga = comune come il pane di meliga. Il detto è spiegabile ricordando

come, fino all’avvento dell’industrializzazione, la biada ed il mais – da cui si faceva derivare il pane

– erano alla base dell’alimentazione dei contadini e perciò comuni.

Chi è molto coraggioso ha

un figgu gròss cumè na cà = un fegato grosso come una casa

Invece il pauroso si sentirà dire che:

la pusè spëssa l’è cumè l’ava = la più spessa è come l’acqua

Chi è impacciato viene così etichettato:

ëmbranà cumè na fòca = impacciato come una foca. La similitudine è legata al goffo

comportamento di questi pinnipedi sulla terra ferma.

Chi è in preda ad una arrabbiatura è:

rabiént cumè na biscia = arrabbiato come una biscia. Nel dialetto cavallirese la biscia per eccellenza

è la vipera, per cui il paragone nasce dall’osservazione della particolare pericolosità di questi rettili

al risveglio ai primi tepori primaverili, dopo il lungo letargo invernale.

Chi è estremamente reattivo viene gratificato di un:

al sàuta sü (së ‘rvòta) cumè na biscia = si rivolta come una vipera

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ërvutèsi cumè na biscia = rivoltarsi come una vipera. Colui che d’impulso risponde alle

provocazioni è come una vipera calpestata (anche inavvertitamente) che attacca il disturbatore.

Chi è afflitto da mille mali:

l’è cumè na cavagna rótta = è come un cesto rotto. I cesti venivano fatti con vimini intrecciati, che

con l’usura finivano con il rompersi, creando vuoti che ne rendevano precario l’utilizzo.

Chi rimane sconcertato e sorpreso di fronte a qualsivoglia evento rimane:

cujón cumè la lün-a = minchione come la luna, forse perchè nelle notti di luna piena il nostro

satellite pare avere una faccia che esprime perenne meraviglia.

Chi invece cambia di propositi e di opinioni in continuazione:

l’è cumè na vëlla = è come una banderuola, che si muove ad ogni soffio di vento

Un filosofo sarà capace di:

ciapè la vitta cumè ch’la vén = prendere la vita come viene (e lasciare che le cose vadano per il loro

verso)

A completamento di questa serie:

al diffidente viene addirittura riservato un modo di dire a rima baciata, tratto dai Vangeli:

èsi cumè san Tumà / crëdi nót fin ch’a s’è tucà = essere come san Tommaso, non credere fino a che

non si è toccato

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CAPITOLO V

Anche sui comportamenti e sulle caratteristiche peculiari del singolo la fantasia si sbizzarrisce:

E così chi non brilla per velocità è detto:

sveltu cumè un gatt ëd marmu = rapido come un gatto di marmo

o, più prosaicamente:

svèltu cumè na lümàiga = rapido come una lumaca

Invece un tipo effettivamente rapido nell’esecuzione dei propri piani:

scatta cumè na mòlla = scatta come una molla

l’è svèltu cumè ‘n fuin = è veloce come un furetto

l’è sveltu cumè ‘n ratt = è rapido come un topo

Un individuo molto agile;

al rampiga cumè ‘n gatt = si arrampica come un gatto

Chi torna stanchissimo dopo una giornata di lavoro potrà sentirsi:

strach mè n’asu = stanco come un asino

strach mè na vaca = stanco come una mucca

strach mè na bés-cia = stanco come una bestia. Ricordiamo, per inciso, che la “bés-cia” per il

contadino sottintendeva esclusivamente la mucca

strach mè ‘n ladru = stanco come un ladro. Quest’ultimo paragone va visto in riferimento alla vita

notturna, errabonda, piena di insidie e quindi, alla fine, stancante, del ladro.

Chi si abbandona profondamente tra le braccia di Morfeo:

al dròm cumè ‘n ghiru = dorme come un ghiro

al dròm cumè na marmòtta = dorme come una marmotta

Da sempre questi due animali sono l’emblema del dormiglione

Invece per chi ama starsene pigramente ad arrostire al sole, il paragone risulta immediato:

l’è cumè na nigròla = è come una lucertola

Dalla pigrizia alla frenetica attività.

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Chi è molto vivace:

al cór cumè na sajëtta = corre come una saetta

Chi si muove molto rapidamente:

al gira mè na ròva = gira come una ruota

Chi cammina di buon passo:

al tròtta cumè n’asu = trotta come un asino

Chi fugge in fretta:

scappa cumè ‘l vént = fugge come il vento

Chi si agita in continuazione:

al balla cumè ‘n riatèl = balla come uno scricciolo. Questo paragone vale anche per chi è come una

marionetta, manovrato da una terza persona e costretto a fare le altrui volontà

Chi fa all’amore in maniera troppo veloce:

al mónta cumè ‘n cunin = monta come un coniglio

Il parlare troppo viene etichettato come:

véighi la bócca cumè na ciavatta = avere la bocca come una ciabatta, avere cioè la bocca troppo

larga, come le ciabatte che l’uso deforma ed allarga in maniera eccessiva

Chi non è amante del galateo:

al ròccia cumè ‘n purcél = rutta come un maiale

Il dare ordini in continuazione ad un subordinato, senza un attimo di tregua vuol dire:

fèlu girè (córi) cumè na tròtula = farlo girare (correre) come una trottola

fèlu girè cumè la ròva d’un carètt = farlo girare come la ruota di un carro

Se poi il sotto posto recalcitra o disobbedisce, lo si può:

strapazè cumè ‘n can = maltrattare come un cane

o anche quando non è più di alcuna utilità:

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sbati via cumè na pèl dë strachin = buttar via come una crosta di stracchino. “Strachin” è il

formaggio tipico derivato da mucche “stanche” – strachi - dopo la transumanza dai monti verso il

piano.

Fuggirsene mortificato viene reso con:

scapè cumè ‘n can bastunà = scappare come un cane bastonato

Di una persona che parla bene e con assennatezza si dice che:

la parla cumè un libru stampà = parla come un libro stampato

Invece:

fè gnì la tèsta cumè ‘n balón = far venir la testa come un pallone è tipico di che parla troppo e

spesso a vanvera

L’essere blasfemo è legato alla fama dei carrettieri, evidentemente non molto teneri con le

divinità:

cristunè cumè ‘n carëté = bestemmiare come un carrettiere

Una persona eccessivamente invadente la si stigmatizza con:

ët la tròvi da për tütt cumè ‘l pranzëmlu = la trovi dovunque come il prezzemolo

l’è cumè l’èrba bétònica = è come l’erba bettonica. La bettonica è un’erba perenne delle labiate,

comunissima nei prati e nei boschi a cui la credenza popolare attribuisce virtù medicinali.

Chi ride sguaiatamente:

al ghigna cumè ‘n matt = ride come un pazzo. Evidente il paragone con il riso incontrollato, tipico

di chi soffre di turbe mentali

Chi, per una qualsiasi ragione, viene a trovarsi fuori posto:

l’è cumè ‘n can ën giésa = è come un cane in chiesa

Ad una precisa domanda sul “come va?”, colui che sta attraversando momenti difficili, darà

come risposta:

la va cumè na barca ‘nt un prà = va come una barca in un prato, che, essendo fuori dal suo

ambiente naturale, non può muoversi e quindi non essere di alcuna utilità

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Di chi ha preso un sacco di botte, si dice che è:

fracà cumè ‘n póm – ammaccato come una mela

Il trovarsi impacciato in situazioni non necessariamente difficili significa:

èsi cumè ‘n picin ‘nt la stóbia = essere come un pulcino nella stoppia

Chi si trova in condizioni difficili, senza alcuna possibilità di aiuto o soccorso:

l’è furtünà cumè un can ën giésa = è fortunato come un cane in chiesa, rischia cioè come il cane di

provare la crudeltà e l’incomprensione della gente.

Chi strepita in maniera spropositata rispetto ad un eventuale danno subito, viene bollato con:

strilè cumè n’òca spënà = strillare come un’oca spennata

Così i bimbi dopo qualche marachella, di fronte alla minaccia di botte, incominciano a:

criè cumè n’aquila = gridare come un’aquila

Di chi recalcitra di fronte alla prospettiva di compiere una determinata azione vien detto che:

ërcüla cumè ‘n mül = rincula come un mulo

Chi è morbosamente attaccato a qualcuno o qualcosa:

l’è tacà cumè na sanguëtta = è attaccato come una sanguisuga

L’essere individuo di poco conto significa

cüntè cumè ‘l düi da picchi (quan che la briscula l’è cöri) = contare come il due di picche (quando

la briscola è cuori). Nel gioco della briscola il due è la carta di minor valore quindi: contare – o

valere – poco o nulla

Fare un favore a qualcuno che non l’apprezza nel suo giusto valore:

l’è cumè dèghi un bëscutin a ‘ n asu = è come dare un biscotto a un asino

l’è cumè dèghi la biava a ‘n asu = è come dare la biada ad un asino

Riuscire a far fronte ai propri impegni in qualunque situazione è:

paghè cumè ‘n banché = pagare come un banchiere. In senso scherzoso il paragone viene riferito al

perdente cronico nel gioco delle carte.

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Invece il freddo e la paura fanno:

trëmè cumè ‘n pisciacan = tremare come un “pisciacan”. Questi è un fungo non commestibile,

lungo di colore bianco-lattiginoso che trema ad ogni soffio di vento. Il nome dialettale nasce dal

fatto che spesso viene innaffiato dai cani che lo trasformano in un loro personale vespasiano

Chi è bagnato fradicio

l’è bagnà cumè ‘n picin = è bagnato come un pulcino, non importa se per colpa del tempo o di

eccessiva sudorazione. Il paragone nasce dall’osservazione dello stato di un pulcino quando esce

dall’uovo.

Chi è vestito bene (come gli sposi nel giorno del matrimonio):

l’è vëstì cumè në spós = è vestito come uno sposo

Il povero non si accontenta di essere tale ma:

l’è pòvru cumè Iòb = è pòvero come Giobbe

ma può essere anche:

stracià cumè ‘n ladru = vestito di stracci come un ladro, a significare chi è vestito in maniera

dimessa, che nel caso dei ladri è un falso bello e buono, come argutamente dice Dante Ticozzi nel

suo “A Novara si dice così” ed. La Famiglia Nuaresa 1977.

E, per rimanere in tema, il povero è sempre:

pëlà cumè ‘n gurin = pelato come un ramoscello di salice. “Gurin” è infatti il rametto forte e

flessibile di salice, al quale veniva tolta la corteccia, quindi, completamente sgusciato, lasciato a

bagno per lungo tempo e utilizzato, in seguito, per fabbricare panieri e canestri o per legare i rami

della vite ai suoi pali di sostegno.

I nostri nonni parlando di individui un po’ grezzi nel comportamento di tutti i giorni, piuttosto

tontoloni, noiosi nei discorsi e poco lungimiranti, citavano ad ogni piè sospinto:

èsi cumè ‘l Batista, lóngh ëd bali e cürt ëd vista = essere come il Battista, lungo palle e corto di

vista. Non ci è facile individuare l’origine di questo modo di dire, ma è facile che sia nato

esclusivamente per ragioni assonanza ritmica.

Sempre parlando di poveracci, era possibile sentir definire qualcuno mancante di sale e dall’aspetto

piuttosto dimesso:

l’è cumè ‘l “pòvru sciügaman dé Süna” = è come il “povero asciugamano di Suna”.

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Il tizio in questione, si dice, che fosse un vecchio barbone, non troppo intelligente che questuava

verso la fine dell’Ottocento lungo le strade dell’alto Novarese, del Borgomanerese e della Valsesia.

È il caso di notare la forma enfatizzante e da prendi in giro: “dé Süna”; in cavallirese stretto, infatti,

si dovrebbe correttamente dire “da Süna”.

Paragoni con personaggi caratteristici del passato sono rimasti nell’uso comune. Uno dei più

conosciuti è:

èsi cumè ‘l Cògiula = essere come il “Coggiola”. Costui era un accattone originario di Coggiola

(Vc) – da cui il soprannome – che batteva le campagne del novarese attorno agli anni Cinquanta.

Un altro modo per sentirsi dare dell’accattone è:

èsi cumè ‘l “Se potete” = essere come il “Se potete”. Anche questo era un barbone che vivacchiava

nel periodo tra le due guerre mondiali. Il nome gli era derivato dalla sua frase tipica: “fate la carità,

se potete, se non potete, fa’ lo stesso...”

èsi cumè ‘l Pëzòtt = essere come il Pezzotti. È un modo di dire riferito a coloro che nel gioco delle

carte continuano a fare il mazzo, causa sbagli nella distribuzione o per dimenticanza su chi è di

turno. Il Pezzotti, a memoria dei nostri nonni, era un soggetto del genere.

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CAPITOLO VI

A completamento del nostro excursus sull’impiego del paragone nel dialetto cavallirese,

ecco una miscellanea di incerta collocazione nei precedenti gruppi.

Una cosa di difficile reperibilità si dice:

rara cumè ‘l móschi bianchi = rara come le mosche bianche

e anche:

l’è cumè cërchè na vóggia ‘nt un pajè = è come cercare un ago in un pagliaio

Qualcosa che all’improvviso risulta disponibile in grande quantità:

spónta cumè i fóng’ = spunta come i funghi

Il compiere delle azioni che non presentano particolari difficoltà

l’è cumè bévi un öv = è come bere un uovo

Per due che non si amano, la somiglianza è immediata:

jin cumè can e gatt = sono come cane e gatto

Di un oggetto costoso si dice:

l’è car cumè ‘l föch = è caro come il fuoco. Il detto risale con ogni probabilità ai tempi in cui, per

l’accensione del fuoco occorrevano pietra focaia, acciarino, esca con conseguente costo non

indifferente dell’intera attrezzatura.

Di ciò che è solo imitazione dell’originale:

l’è cumè l’òr dal Giapón = è come l’oro del Giappone, in riferimento agli oggetti in similoro, nella

cui produzione erano particolarmente abili gli artigiani giapponesi.

Di un avvenimento che cade a puntino:

l’è cumè ‘l furmag’ sü la pasta sciüccia = è come il formaggio sulla pastasciutta

Un fatto sospetto, possibile di soluzioni alternative, una in contrasto con l’altra:

l’è cumè la stòria di düi ëndric’ = è come la storia dei due diritti, storia che non poteva mai

terminare, perchè le soluzioni erano l’una l’opposto dell’altra.

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Un lavoro interminabile:

l’è lóngh cumè ‘l Dòm da Milan = è lungo come il Duomo di Milano, che come è noto, non risulta

aver mai termine

Quando piove a dirotto, c’è sempre chi alzando gli occhi al cielo sospira:

a pióv cumè Diu la manda = piove come Dio la manda

E ancora:

càuda cumè ‘l pisc’ = calsa come la pipì

furè cume na riccia = pungere come un riccio (di castagna)

dócia cumè la mèl = dolce come il miele

dócia cumè la manna = dolce come la manna

tajè cumè ‘n rasó = tagliare come un rasoio

ligà cumè ‘n salam = legato come un salame

pësant cumè ‘l fèru (‘l piomb) = pesante come il ferro (il piombo)

piangi mè na salës = piangere come un salice

piangi mè na vit = piangere come la vite

Per finire, di due molto affiatati si parla in questi termini:

j’in cumè cü e camisa = sono come culo e camicia

ma, attenzione, se le due persone, pur amiche per la pelle, sono l’una in posizione subordinata

all’altra, il detto assume un’altra forma:

èsi cumè cü e camisa: jün l’è ‘l cü e l’aut la camisa = essere come culo e camicia, uno il culo e

l’altro la camicia, dove la camicia è da vedersi in funzione di lembo dio stoffa utilizzabile per pulire

le terga e quindi in funzione subordinata.

Questa carrellata evidentemente non si può ritenere completamente esaustiva, ma serve a

dare un’idea dell’utilizzo molto frequente del paragone nel parlato quotidiano degli abitanti di

Cavallirio.


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