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L’UTOPIA (POSSIBILE?) DI UNA SOCIETÀ DELLA DECRESCITA · DELLA DECRESCITA di Fabio TITTARELLI...

Date post: 16-Feb-2019
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1 © 2012 RCS Libri S.p.A. – Tutti i diritti sono riservati ••• APPROFONDIMENTI ••••• L’UTOPIA (POSSIBILE?) DI UNA SOCIETÀ DELLA DECRESCITA di Fabio TITTARELLI Come uscire dalla crisi produttivo-finanziaria? Tra l’orienta- mento neoliberista ‘rigorista’ e quello neokeynesiano ‘interven- tista’ si sta facendo strada una terza posizione, che mira a con- testare e demolire la base stessa su cui si fondano il liberismo e l’interventismo economico. È la ‘filosofia della decrescita’. L’ATTUALE CRISI PRODUTTIVO-FINANZIARIA La crisi produttiva e finanziaria che sta imperversando nei Paesi a capitalismo maturo – ossia negli Stati Uniti e, con particolare virulenza, nel nostro continente – ha sottratto lavoro (o ha negato lavoro ai giovani che per la prima volta si affacciano sul “mercato”) a oltre 20 milioni di persone nell’ambito della sola Unione europea, e non accenna a diminuire di intensità. Al contrario, tutti i dati statistici e previsivi portano a ritenere che essa sarà ancora lunga e provocherà ulteriore impoverimento, crescita della disuguaglianza economica, tensioni sul piano sociale, emergere di istanze e movimenti potenzialmente eversivi (si pensi, tra gli altri, al movimento “Alba dorata”, di chiara ispirazione neo-nazista, che ha ottenuto, in Grecia, un notevole successo elettorale nelle ultime elezioni politiche). Sul “come uscire dalla crisi” gli orientamenti sono – come è ovvio – i più disparati. Ma è certo che nessuno, nel momento attuale, ha, come si usa dire, la soluzione in tasca. Cercheremo, nelle note che seguono, di riassumere brevemente le tre posizioni che si contrappongono per cercare di dare uno sbocco positivo a questa crisi, soffermando quindi l’attenzione sull’ultima di esse, che presenta, a nostro avviso, caratteri e contenuti di estremo interesse. COME USCIRE DALLA CRISI: a) la via dell’austerità La prima linea di azione, di ispirazione neoliberista, è quella sinora intrapresa dalle istituzioni dell’Unione europea nonché “benedetta” dal Fondo monetario internazionale, che si può coniugare con il binomio austerità-crescita. In sostanza, di fronte alla disoccupazione, alla recessione produttiva e all’aumento abnorme dell’indebitamento degli Stati (la cosiddetta “crisi dei debiti sovrani”) si oppone la convinzione che sia necessario applicare una politica di rigore, centrata sulla riduzione drastica dell’intervento pubblico, al fine di “alleggerire” il più possibile
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L’UTOPIA (POSSIBILE?) DI UNA SOCIETÀ DELLA DECRESCITAdi Fabio TITTARELLI

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Come uscire dalla crisi produttivo-finanziaria? Tra l’orienta-mento neoliberista ‘rigorista’ e quello neokeynesiano ‘interven-tista’ si sta facendo strada una terza posizione, che mira a con-testare e demolire la base stessa su cui si fondano il liberismo e l’interventismo economico. È la ‘filosofia della decrescita’.

L’ATTUALE CRISI PRODUTTIVO-FINANZIARIA

La crisi produttiva e finanziaria che sta imperversando nei Paesi a capitalismo maturo – ossia negli Stati Uniti e, con particolare virulenza, nel nostro continente – ha sottratto lavoro (o ha negato lavoro ai giovani che per la prima volta si affacciano sul “mercato”) a oltre 20 milioni di persone nell’ambito della sola Unione europea, e non accenna a diminuire di intensità. Al contrario, tutti i dati statistici e previsivi portano a ritenere che essa sarà ancora lunga e provocherà ulteriore impoverimento, crescita della

disuguaglianza economica, tensioni sul piano sociale, emergere di istanze e movimenti potenzialmente eversivi (si pensi, tra gli altri, al movimento “Alba dorata”, di chiara ispirazione neo-nazista, che ha ottenuto, in Grecia, un notevole successo elettorale nelle ultime elezioni politiche). Sul “come uscire dalla crisi” gli orientamenti sono – come è ovvio – i più disparati. Ma è certo che nessuno, nel momento attuale, ha, come si usa dire, la soluzione in tasca. Cercheremo, nelle note che seguono, di riassumere brevemente le tre posizioni che si contrappongono per cercare di dare uno sbocco positivo a questa crisi, soffermando quindi l’attenzione sull’ultima di esse, che presenta, a nostro avviso, caratteri e contenuti di estremo interesse.

COME USCIRE DALLA CRISI: a) la via dell’austerità

La prima linea di azione, di ispirazione neoliberista, è quella sinora intrapresa dalle istituzioni dell’Unione europea nonché “benedetta” dal Fondo monetario internazionale, che si può coniugare con il binomio austerità-crescita. In sostanza, di fronte alla disoccupazione, alla recessione produttiva e all’aumento abnorme dell’indebitamento degli Stati (la cosiddetta “crisi dei debiti sovrani”) si oppone la convinzione che sia necessario applicare una politica di rigore, centrata sulla riduzione drastica dell’intervento pubblico, al fine di “alleggerire” il più possibile

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il peso del debito e porre così le condizioni per la ripresa. Ciò nella presunzione che, “liberando” il più possibile il mercato dal gravame della condizione debitoria pubblica, l’iniziativa privata possa ritrovare le condizioni ottimali per accrescere gli investimenti, fare innovazione, assumere manodopera, incrementare i margini di profitto.Questa soluzione, tuttavia, tende a determinare nel breve periodo ulteriori difficoltà tanto sul piano economico (tra l’altro, la recessione fa diminuire le entrate fiscali e questo causa un ulteriore peggioramento dei conti pubblici), quanto su quello sociale (per il ridimensionamento del sistema di welfare, che penalizza soprattutto i soggetti a basso reddito), così come su quello politico (per l’opposizione, anche particolarmente dura, di quanti ritengono ingiusto “pagare la crisi” non ritenendosene in alcun modo responsabili).

COME USCIRE DALLA CRISI: b) la via dell’interventismo

Alle politiche di austerità – che hanno attualmente come principali alfieri, in Europa, la Cancelliera tedesca Angela Merkel e il premier britannico David Cameron – si contrappone un’altra visione di politica economica, di matrice neokeynesiana, propugnata soprattutto da studiosi statunitensi (alcuni di essi insigniti del Nobel per l’economia) e, di massima, condivisa dalla presidenza Obama, che ritiene del tutto errata la strategia di perseguire la drastica “cura dimagrante” dei bilanci pubblici in una condizione, come l’attuale, di carenza di domanda, di investimenti, di occupazione. Al contrario, si sostiene la necessità e l’urgenza di misure che possano rilanciare la domanda, la produzione e l’occupazione, e tali interventi dovrebbero essere realizzati dalle autorità pubbliche, allentando così la stretta monetaria e creditizia, favorendo investimenti pubblici, sostenendo i redditi dei ceti meno abbienti, tassando i grandi patrimoni e ponendo sotto rigido controllo la speculazione finanziaria. Questa posizione, però, al momento è respinta dalla leadership dell’Unione europea, soprattutto a motivo della forte resistenza ad essa da parte dei Paesi del Nord, Germania in primis.

COME USCIRE DALLA CRISI: c) il rigetto della “religione della crescita”

Ma tra l’orientamento neoliberista “rigorista” e quello neokeynesiano “interventista” si sta facendo strada una terza posizione, del tutto diversa dalle precedenti, che mira a contestare e demolire la base stessa su cui si fonda tanto il liberismo quanto l’interventismo economico. La chiameremo, in prima approssimazione, la linea del decrescitismo. Secondo la tesi “decrescitista” quella che stiamo attraversando non è, di fatto, una “crisi”, perché con questo termine è corretto definire qualcosa di momentaneo; se, al contrario, una condizione di estrema difficoltà si protrae nel tempo e non accenna a invertire la sua tendenza, non siamo più di fronte a una “crisi”, ma a un declino. Ed è, nella fattispecie, il declino del capitalismo, il modello economico-sociale che ha dominato la storia moderna. Occorre allora prendere atto che il sistema capitalistico – così come sinora lo abbiamo conosciuto e, da parte di molti, altamente apprezzato – è in uno stato comatoso, per cui si rende necessario al più presto “invertire la rotta”. Questo, però, non significa “invertire il ciclo economico”, ma cambiare radicalmente i parametri della convivenza civile. Una vera e propria rivoluzione, ancorché incruenta.

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I “decrescitisti” – il cui rappresentante più noto e seguito è lo studioso francese Serge Latouche (1940) – criticano duramente le politiche di austerità sin qui promosse dall’Unione europea, responsabili di impoverire ulteriormente ampie masse di popolazione e, nel contempo, di non riuscire ad agganciare la ripresa economica. Scrive a questo riguardo Latouche: «in nome del “risanamento” dei deficit di bilancio vengono smantellati sistematicamente i servizi pubblici e si privatizza a tutto gas quello che ancora non è stato privatizzato». E soggiunge che si determina persino una masochistica “rincorsa” a chi riesce ad applicare più draconianamente le misure di austerity: «Il paese A annuncia una riduzione dei salari del 20% e subito il paese B annuncia che farà meglio, riducendoli del 30, mentre il paese C, per non essere da meno, si affretta ad aggiungere misure ancora più rigorose: il tutto per compiacere le agenzie di rating e i mercati finanziari internazionali con cui i paesi A, B, C hanno contratto prestiti». Ma la crescita, la tanto auspicata crescita, non arriva. «Questa stupida politica di austerità può soltanto portare a un ciclo deflazionistico che farà esplodere una nuova crisi, che il rilancio – prevedibile soltanto nel settore speculativo – non potrà impedire.» E in altra parte della sua opera (ci si riferisce, in particolare, al suo ultimo lavoro dal titolo: Per un’abbondanza frugale, Bollati Boringhieri, Torino, 2012) lapidariamente afferma che «non c’è niente di peggio di una società della crescita senza crescita». Peraltro, i “decrescitisti” non risparmiano severe critiche ai neokeynesiani, poiché ritengono che anche questi studiosi, nel tentativo di suggerire adeguate misure di politica economica per far uscire il sistema dalla spirale recessiva, si mantengano nell’alveo della logica capitalistica, centrata sul “dogma” di una società in crescita. Secondo questa visione, infatti, il progresso dell’umanità si coniuga con la crescita economica, con l’aumento continuo della produzione di merci, con l’accumulazione

del capitale, con una tecnologia in grado di “sfornare” sempre nuovi beni e di “stimolare” sempre nuovi bisogni. Ma, come sottolineava ironicamente lo studioso Kenneth Boulding (uno dei padri fondatori dell’economia ecologica) già molti anni or sono: «chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista». I neokeynesiani, dunque, non fanno differenza rispetto ai neoliberisti, in merito a quella che Latouche chiama la “religione della crescita”: su entrambi i fronti il principio della crescita non viene messo in discussione, e le diverse “ricette” sottendono modi alternativi di intervento, ma all’interno di una medesima concezione di fondo.

Di contro, i “decrescitisti” ritengono che si debba rinnegare la “religione della crescita” per poter salvare davvero l’umanità da un crollo che prima o poi finirà per travolgerla. È necessario, quindi, passare da una “società della crescita” a una “società della decrescita”. Ma questa “decrescita”, avverte Latouche, non va confusa con la “crescita negativa” che, nel lessico economico tradizionale, sta a indicare una fase di recessione o depressione del sistema, segnalata da una riduzione del Prodotto interno lordo (il Pil, l’indice “feticcio delle società della crescita”, secondo lo studioso francese): «il progetto di una società della decrescita è radicalmente diverso dalla crescita negativa. La decrescita presuppone una uscita dalla società dei consumi».

I “PRECURSORI” DELLA FILOSOFIA DELLA DECRESCITA

Il tema della “decrescita” non è nuovo nel panorama dottrinario dell’epoca moderna. Diversi studiosi, infatti, hanno avanzato in passato molti dubbi sulla capacità del sistema di mercato di poter continuare ad alimentare la crescita. Ci interessa qui

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segnalare due posizioni di grande suggestione, avvertendo però che, in effetti, molti altri contributi sono stati espressi in materia nel corso del secolo passato. In pieno Ottocento – ossia nella fase di massima espansione della prima rivoluzione industriale – l’economista di scuola classica John Stuart Mill (1806-1873) già individuava dei precisi limiti all’avanzata del capitalismo, e riteneva che la crescita, nel processo di accumulazione, dovesse presto o tardi lasciare il posto a una condizione di “stazionarietà”. La sua teoria dello stato stazionario presenta due caratteri di rilievo: a) si muove nella logica del sistema di mercato, nel senso che non prefigura l’uscita dal capitalismo, ma il permanere in quest’ultimo in una condizione di non-accumulazione; b) ritiene che non soltanto il sistema ineluttabilmente cesserà di crescere, ma che ciò è altamente auspicabile, in quanto ottimale per l’umanità tutta. Così si esprimeva al riguardo: «una condizione stazionaria del capitale e della popolazione non implica affatto uno stato stazionario del progresso umano. Vi sarebbe sempre lo stesso scopo per ogni specie di cultura intellettuale, e per il progresso morale e sociale; e altrettanto spazio per perfezionare l’arte della vita, con una probabilità molto maggiore di perfezionarla, una volta che le menti degli uomini non fossero più assillate dalla gara per la ricchezza. Anche le arti industriali potrebbero essere coltivate con uguale intensità e con uguale successo, con questa sola differenza, che invece di non servire ad altro scopo che all’accrescimento della ricchezza, i miglioramenti industriali produrrebbero il loro effetto legittimo, quello di abbreviare il lavoro» (Principi di economia politica, Utet, Torino, 1983). La posizione quasi visionaria di Stuart Mill può a buon diritto considerarsi anticipatrice della concezione odierna dei “decrescitisti”, anche se non completamente allineata con la loro concezione, come lo stesso Latouche non ha mancato di sottolineare («soltanto una rottura con il sistema capitalistico, con il suo consumismo e il suo produttivismo può evitare la catastrofe»). Ma certamente la tesi di questo economista classico è quanto di più prossimo alla linea dei fautori della “decrescita felice” sia stato espresso nei secoli scorsi, avendo egli preconizzato «un modello di società in cui i bisogni e il tempo di lavoro sono minori, ma in cui la vita sociale è più ricca, perché più conviviale».

Più di recente, il Club di Roma – che riunisce un nutrito gruppo di studiosi ed elabora dei “rapporti” sullo stato del pianeta e sulle condizioni per la sua vivibilità – ha riproposto con vigore la tesi della decrescita, considerando l’odierno livello di degrado ambientale, il consumo massiccio di risorse naturali, il prossimo esaurimento delle riserve energetiche non rinnovabili. Ha scritto, in proposito, l’economista Georgescu Roegen riferendosi al Rapporto del Club di Roma stilato nel 1972: «siamo convinti che la presa di coscienza dei limiti materiali dell’ambiente mondiale e delle conseguenze tragiche di uno sfruttamento irragionevole delle risorse terrestri è indispensabile per far emergere nuovi modi di pensare che porteranno a una revisione fondamentale del comportamento degli uomini e, di conseguenza, della struttura della società attuale nel suo insieme». Questi “nuovi modi di pensare” sono, appunto, le analisi sulla necessità della decrescita: l’abbandono del “feticcio” del Pil, l’orientamento a un generale contenimento dei consumi, il drastico ridimensionamento della “civiltà industriale”, il rispetto per l’ambiente e la vocazione alla “frugalità”. In sostanza, le indicazioni di Latouche e degli altri “decrescitisti”.

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I TENTATIVI DI COSTRUIREINDICATORI ALTERNATIVI AL PIL

Il Prodotto interno lordo (Pil) è considerato, tradizionalmente, l’indicatore “principe” idoneo a valutare la ricchezza di un dato sistema economico. Ma negli ultimi decenni si sono moltiplicate le critiche a questo indice, principalmente a motivo del fatto che il Pil misura la ricchezza monetaria in quanto scambiata, astraendo da molte altre valutazioni. Così, per esempio, rientra nel Pil un salario, un profitto, un interesse, ma non una prestazione in natura, non un’attività svolta per sé con propri mezzi (tecnicamente definita “in economia”), non una prestazione a carattere volontario ecc. Come ha acutamente osservato il filosofo Zygmunt Bauman a questo riguardo, «se fai un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il tuo meccanico. Se tu invece entri nel cortile del vicino e gli dai una mano a tagliare la siepe compi un gesto antipatriottico perché il Pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo». La critica più serrata al Pil, però, riguarda il problema dei costi sociali dovuti al degrado ambientale, sotto qualunque forma esso si manifesti. Parliamo dell’inquinamento atmosferico, della presenza di rifiuti tossici, del dissesto idrogeologico e così via. Sono costi che gravano sulla collettività in quanto vanno a diminuire il “valore”

dell’ambiente nel quale si vive. Ma questi costi non entrano nel calcolo del Pil (riducendolo); al contrario, vi rientrano (aumentandolo) i redditi pagati ai lavoratori, i profitti percepiti dagli imprenditori ecc. imputabili alle attività di disinquinamento, di smaltimento dei rifiuti tossici, di messa in sicurezza del territorio dissestato e via dicendo. In sostanza, si assiste al paradosso che il Pil aumenta all’aumentare del degrado ambientale, e non viceversa!Per questo, si sono prodotti diversi tentativi di predisporre indici alternativi al Pil, in grado di misurare con maggiore correttezza il benessere di un dato sistema, da quello indicato con l’acronimo Fil (Felicità interna lorda), o Gnh secondo

l’espressione inglese (Gross national happiness) all’Ipa (Indicatore di progresso autentico, o Gpi, Genuine progress indicator), all’Isu (Indice di sviluppo umano, o Hdi, Human development index). Si tratta, in ogni caso, di indicatori compositi che tendono a valutare non già (o non soltanto) la ricchezza materiale, ma la “qualità della vita”, ossia il benessere nel senso più ampio che si deve attribuire a tale espressione. Ne è scaturita, per la maggior parte degli Stati a capitalismo maturo, una “collocazione” assai più in basso rispetto a quella che gli stessi Paesi hanno in base al relativo Pil. In altre parole, in questi Paesi il reale benessere risulta inferiore rispetto alla ricchezza materiale misurata dal Prodotto interno lordo, a riprova del fatto che lo “stare bene”, in senso lato, non si coniuga necessariamente con la disponibilità di un dato ammontare di ricchezza. La contestazione al Pil mossa da più parti ha anche indotto, nel 2008, il governo francese a istituire un apposito organismo (la Commissione sulla misurazione della performance economica e del progresso sociale) con lo scopo di identificare i limiti del Pil e prendere in considerazione altri eventuali indicatori con i quali valutare più appropriatamente tanto la “performance economica” quanto il “progresso sociale” di un sistema.

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La Commissione, presieduta dall’economista e premio Nobel Joseph E. Stiglitz, docente presso la Columbia University, ha concluso i suoi lavori nel settembre del 2009, presentando in un ponderoso rapporto di 300 pagine il più circostanziato atto d’accusa nei riguardi del Pil. Tra l’altro, nel rapporto si legge che se si fosse prestata attenzione, nel recente passato, ad altri indicatori, come per esempio quello sulla sostenibilità finanziaria, si sarebbe potuto governare meglio l’attuale drammatica crisi. La Commissione ha anche presentato 12 raccomandazioni che dovrebbero condurre non tanto alla definizione di un indicatore sintetico alternativo al Pil, quanto alla messa a punto di statistiche in grado di cogliere il benessere sociale nelle sue molteplici dimensioni.

Graduatoria (primi 10 Paesi) rispetto al Pil pro-capite e all’Indice di sviluppo umano

Gli scostamenti – valutati sul piano internazionale – fra il Prodotto interno lordo pro-capite (a parità di potere di acquisto) e l’Indice di sviluppo umano sono notevoli. In quest’ultimo indicatore, elaborato periodicamente da un’Agenzia delle Nazioni Unite, rientra oltre al valore del Pil pro-capite, anche il tasso di alfabetizzazione, la speranza di vita alla nascita, la difesa dell’ambiente e altri parametri che tendono a registrare il “benessere” in un significato più ampio di quello derivante dalla sola ricchezza monetaria.

PIL

Lussemburgo 89.992

Qatar 88.919

Macao 77.607

Norvegia 61.882

Singapore 61.103

Kuwait 54.654

Brunei 52.560

Hong Kong 49.990

Svizzera 49.151

Stati Uniti 48.442

ISU

Norvegia 0,938

Australia 0,937

Nuova Zelanda 0,907

Stati Uniti 0,902

Irlanda 0,895

Liechtenstein 0,891

Paesi Bassi 0,890

Canada 0,888

Svezia 0,885

Germania 0,885

Come si può notare, soltanto due Paesi risultano ai primi dieci posti in entrambe le statistiche (Norvegia e Stati Uniti). Per il resto, come Pil pro-capite figurano diversi Stati asiatici, che invece non compaiono nella seconda classifica.L’Italia è al 28° posto in base al Pil pro-capite (ma l’attuale crisi economica probabilmente la colloca ancora più in basso), mentre figura al 18° posto in base all’Isu (idem come sopra). Per quanto riguarda gli ultimi dieci posti, in entrambe le statistiche vi figurano tutti Paesi africani. In particolare, in peggior “piazzamento” appare quello della Repub-blica Democratica del Congo, con un Pil pro-capite di appena 328 $ annui pro-capi-te (ossia meno di 1 $ al giorno!) e un Indice di sviluppo umano che colloca questo Paese all’ultimo posto, insieme allo Zimbabwe.

Per l’anno 2011 i primi 10 Paesi per livello di Pil annuo pro-capite (espresso in $) risultano i seguenti:

Nello stesso anno, i primi 10 Paesi classificati in base all’Indice di sviluppo umano risultano essere:

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I CONTENUTI E I FINI DEL PROGETTO DELLA DECRESCITA

«Come un ciclista, il sistema si mantiene in equilibrio soltanto pedalando con ti- nuamente. Degli interventi “esogeni”, in particolare politici, si rendono periodi-camente necessari per evitare le crisi o rimediarvi e per rilanciare la macchina, ma bruciando un carburante non rinnovabile: le riserve del patrimonio naturale.» Così Latouche sintetizza la società della crescita, alla quale egli contrappone la so-cietà della decrescita. Non si tratta, però, di un puro e semplice ribaltamento di pro-spettiva, ma di una vera e propria “rivoluzione culturale”, prima ancora che econo-mica, che questo studioso intende proporre e perseguire. Occorre, quindi, operare affinché si creino le condizioni per una società della decrescita, una società che

Latouche ritiene, senza mezzi termini, possa portare alla «felicità dell’umanità attraverso l’autolimitazio-ne, per realizzare l’abbondanza fru gale». Nei “decre-scitisti” sono costanti i riferimenti a espressioni non economiche quali la felicità, il benessere spirituale, la virtù dell’autocontrollo, la vocazione alla frugali-tà, il valore della solidarietà, il piacere della convi-vialità. Ma non si tratta di una sorta di “proposta di ascetismo”: Latouche parla spesso, al riguardo, della necessità di una “rottura”, cioè di una netta disconti-nuità con il modo di vivere, di produrre e di consu-mare odierno. Questa “rottura” «presuppone che si esca dal circolo infernale della creazione illimitata di bisogni e di prodotti, come pure dalla frustrazione crescente che questa genera, e contemporaneamente che si compensi attraverso la convivialità l’egoismo derivante da un individualismo ridotto a una mas-sificazione uniformizzante». In sostanza, la società della decrescita mira a ricostruire l’“homo socialis”

distrutto dal modello economico fondato sulla crescita. Per fare ciò – Latouche ne è convinto – occorre uscire dal sistema capitalistico. Quindi, la società della decrescita è, in concreto, una società anticapitalistica. In verità non tutti quelli che egli chiama “obiettori della decrescita” si pongono sulla sua lunghezza d’onda, con riferimento al sistema capitalistico. Taluni, infatti, ritengono che si possa coniugare un progetto di decrescita con il mantenimento dell’ossatura del capitalismo, sia pure ampiamente “riveduto e corretto”. Ma sono una minoranza, poiché gran parte dei “decrescitisti” condivide l’impostazione di Latouche ritenendo il capitalismo un sistema di per se stesso inconciliabile con l’idea dell’abbondanza frugale o, come anche viene definita, della “decrescita felice”. Questo nuovo modo di impostare l’economia, la produzione, i consumi “terremota” dunque tutti i parametri su cui si fonda l’attuale società della crescita. Vediamo in breve come potrebbe “cambiare la vita”, secondo i fautori di questo orientamento.

a) La tecnologia e la produttività

Avviare la decrescita non significa tornare indietro, annullare il progresso tecnologico, vagheggiare una nuova “civiltà della pietra” (sono tutte obiezioni, avanzate con toni più o meno sarcastici, da quanti contestano i fautori della decrescita). La tecnologia, in particolare, rimane un fattore importante del progresso dell’umanità, ma essa deve essere effettivamente al servizio dell’uomo, e non del profitto, dell’accumulazione, della logica basata sui consumi inventati. Essa deve servire a indirizzare la produzione verso attività bio-eco-compatibili. Come ha sostenuto, al riguardo, Maurizio Pallante – il più noto rappresentante

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della “decrescita felice” in Italia «le tecnologie della decrescita (…) ridanno un senso al lavoro perché non lo indirizzano, come fanno le tecnologie della crescita, a produrre quantità sempre maggiori di merci da buttare sempre più in fretta per produrne altre senza preoccuparsi della loro utilità e/o dei danni che creano, ma a produrre con un sempre minore impatto ambientale merci con una utilità specifica», e soggiunge che esse «sono in grado di ri-avviare un circolo virtuoso dell’economia (…) per le conseguenze positive sugli ambienti e sulla vita degli esseri umani». Parallelamente, la produttività (ossia il rendimento dei fattori produttivi) verrà a ridursi «in conseguenza dell’abbandono del modello termo-industriale, del rifiuto delle tecniche inquinanti e dell’uso sconsiderato delle energie fossili e del rigetto delle attrezzature energivere» (così Latouche). Si tratterà, in sostanza, di sganciare l’applicazione delle tecniche alla produzione dal suo attuale scopo “quantitativista” a un fine di miglioramento qualitativo della società. Come ha sostenuto Maurizio Pallante in proposito, «se le tecnologie finalizzate ad aumentare la produttività finalizzano il fare umano a fare sempre di più, le tecnologie della decrescita connotano il fare umano come un fare bene e lo finalizzano alla possibilità di contemplare ciò che si è fatto».

b) L’occupazione e la produzione

La decrescita, secondo le indicazioni dei suoi fautori, creerà più occupazione, non il contrario. Latouche afferma, infatti, che «una società della decrescita non avrà nessuna difficoltà a creare attività autonome o anche salariate per tutti. L’abbandono del produttivismo e dello sfruttamento del Sud renderà necessario più lavoro per soddisfare uno stesso livello di consumo finale (con una forte riduzione del consumo intermedio), o anche un livello inferiore di consumo generale». Questa tesi è condivisa da tutti gli obiettori della crescita. Così, secondo quanto contenuto in un Manifesto-appello su “debiti pubblici, crisi economica e decrescita felice” firmato da numerosi economisti, politici, sindacalisti (tra cui lo stesso Latouche), la decrescita può «creare un’occupazione qualificata, che paga i suoi costi con i risparmi economici conseguenti alla riduzione dei consumi di fonti fossili che consente di ottenere». D’altra parte, sottolineano i sostenitori della decrescita, il sistema a capitalismo maturo, basato sull’industrializzazione, ha prodotto nel tempo crescenti sacche di disoccupazione lavorativa. Macchinari sempre più potenti producono in tempi sempre più brevi sempre maggiori merci, ma ciò non ha accresciuto l’apporto della forza-lavoro, anzi è avvenuto il contrario. È ciò che già nel XIX secolo Karl Marx aveva ben segnalato, parlando di un aumento nella “composizione organica del capitale”, cioè del rapporto tra il capitale costante (le macchine) e il capitale variabile (i lavoratori). Nel contempo, la produzione capitalistica non “segue” la domanda, ma cerca di “precederla”, inducendo sempre nuovi bisogni, che tuttavia non riescono quasi mai ad assorbirla interamente. Di qui, le ricorrenti crisi di sovrapproduzione (o di sottoconsumo che dir si voglia). «Le tecnologie accrescono l’offerta di merci in misura superiore alla crescita della domanda e ciò comporta una diminuzione dell’occupazione», si sostiene nel citato Manifesto-appello. Ma la spirale non si ferma a questo punto, perché «la diminuzione dell’occupazione riduce ulteriormente la domanda. Perciò l’unico modo per incrementare la domanda è l’indebitamento». Dunque, affermano gli obiettori della crescita, quest’ultima non è la soluzione, ma il problema. Se, tuttavia, la decrescita – a differenza della crescita – potrà produrre un incremento dell’occupazione, certamente essa dovrà essere ri-direzionata, secondo i nuovi orientamenti della produzione. In particolare, si moltiplicheranno le attività

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artigianali, quelle delle piccole imprese, le attività nel settore agricolo, mentre caleranno drasticamente o verranno persino soppresse molte attività legate al terziario, al mondo finanziario e così via. Il “piccolo è bello” tenderà ad affermarsi e a diffondersi in tutti i settori produttivi, perché più rispettoso dell’ambiente e della tutela delle risorse naturali. Afferma Latouche: «Lo sviluppo dell’autoproduzione, di piccoli laboratori con attrezzature di piccole dimensioni, anche sofisticate ma poco consumatrici di energia, permetterebbe di soddisfare i bisogni essenziali di tutti attraverso una diffusa attività neoartigianale».

c) L’ambiente

Uno dei punti di forza del progetto della decrescita riguarda l’ambiente e la sua preservazione per le generazioni avvenire. È a tutti evidente, infatti, che l’attuale modello di sviluppo sta rapidamente depauperando le risorse naturali – specie quelle non rinnovabili – e provocando gravi danni all’ecosistema (inquinamento, deforestazione, cementificazione ecc.). La decrescita dovrà, quindi, invertire la rotta anche su questo punto nodale riguardante il futuro dell’umanità. I dati attuali sono allarmanti in proposito. Attualmente, avverte Latouche, «siamo arrivati a un superamento di più del 50% (nel 2009) della capacità di rinnovamento della biosfera (30% nel 2002), e questo a livello globale, con gli africani che consumano meno del 10% della parte spettante a ciascuno e gli statunitensi che superano quella stessa parte di 9-10 volte. Oggi il consumo di un francese è di circa 5,8 ettari di spazio bioproduttivo, il che equivale a un bisogno di 3 pianeti se tutti vivessero come lui, mentre nel 1960 era ancora di 1,8 ettari, equivalenti, secondo lo stesso calcolo, a 1 solo pianeta». Urge, pertanto, la presa d’atto della assoluta impossibilità a proseguire sulla via di “questa” crescita” (che non genera vero sviluppo, produce disoccupazione, distrugge l’ambiente). A questo si deve aggiungere il “degrado psicologico” cui va soggetta l’umanità nel meccanismo “tritatutto” della crescita capitalistica. Così il prof. Cornelius Castoriadis – altro eminente obiettore della crescita – si esprime al riguardo: «Non c’è soltanto la dilapidazione irreversibile dell’ambiente e delle risorse non sostituibili. C’è anche la distruzione antropologica degli esseri umani, trasformati in bestie produttrici e consumatrici, in abbrutiti zapping-dipendenti».

d) I consumi

Affinché si possa pervenire a una “decrescita felice” occorre, allora, che le tecnologie siano finalizzate alla produzione di beni effettivamente utili all’uomo e non dannosi per l’ambiente. Ma occorre anche – in modo complementare – che si vada verso una drastica riduzione dei consumi, sia per eliminare “il superfluo”, sia per soddisfare maggiormente quanti oggi rimangono ai margini della sopravvivenza, nonostante il (o anzi, soprattutto a causa del) sovraconsumo materiale, che «lascia una parte sempre più consistente della popolazione nella penuria e non assicura neppure un vero benessere per tutti» (Latouche). Di qui l’espressione, che a molti può suonare bizzarra o contraddittoria, di “abbondanza frugale”: “abbondanza” perché la produzione di beni utili alla vita deve essere destinata a tutti e non soltanto a quanti oggi hanno la disponibilità economica per poterli acquistare, e “frugale” perché tutti dovranno saper rinunciare al superfluo, ai beni inventati, indotti dall’attuale modello di società dei consumi, e tutti dovranno abituarsi al risparmio, all’eliminazione degli sprechi, a un uso non sconsiderato dell’ambiente.

Page 10: L’UTOPIA (POSSIBILE?) DI UNA SOCIETÀ DELLA DECRESCITA · DELLA DECRESCITA di Fabio TITTARELLI ... crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo

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e) La democrazia

Anche sul piano delle scelte democratiche e del diritto dei popoli di decidere sul pro-prio futuro le tesi dei “decrescitisti” hanno, come si usa dire, buon gioco rispetto alla condizione che stiamo attraversando. È chiaro a tutti come, per esempio, gran parte delle decisioni assunte sul piano economico sfuggano totalmente al controllo dei popoli, e appare difficile risalire esattamente ai centri di potere dove esse vengono prese. Persino i singoli Stati sono, oggi, sotto scacco, presi di mira dalla speculazione finanziaria, valutati come scolaretti dalle agenzie di rating e così via. Sul piano am-bientale, poi, le forme di pressione esercitate dalle varie lobbies (in primis le grandi imprese multi-transnazionali dell’energia) rendono praticamente impossibile una po-litica ecologica degna di questo nome. Il progetto della decrescita intenderebbe porre

fine a tutto questo. Come sostiene al riguardo Latouche «L’au-tonomia rivendicata dagli obiettori della crescita (…) consiste nel rifiuto della sottomissione alla dittatura dei mercati finan-ziari e alla mano invisibile dell’economia, per fare in modo che le persone possano riappropriarsi del loro destino». Dunque, occorre cambiare radicalmente gli stessi meccani-smi decisionali, dando il massimo spazio propositivo e di confronto ai popoli, sottraendolo agli attuali centri di potere. Sul piano europeo, per esempio, questo significherebbe ri-fondare totalmente l’Unione europea prevedendo organi che siano espressione diretta delle popolazioni dei Paesi aderenti, e non – come oggi – rappresentanti dei relativi governi.

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

Non è nelle intenzioni di chi scrive “schierarsi” a favore o contro la tesi della de-crescita che si è brevemente illustrata. Molti commentatori hanno già avanzato os-servazioni critiche, dubbi, valutazioni integrative su di essa. È fuor di dubbio che, al momento, il progetto della decrescita rimane, al più, una “utopia possibile”, poco condiviso da chi già ne conosce i contenuti di fondo e ancora poco conosciuto e dibattuto dai più. C’è il problema di un “sistema” che va in senso del tutto opposto a quanto auspicato dagli obiettori della crescita (si pensi, tanto per fare un esempio, all’accordo intervenuto tra il Governo Monti e le parti sociali – sindacati e imprese, a eccezione della Cgil – sul tema della produttività e del suo necessario aumento), c’è il potere che continua a esercitare il mondo finanziario, ci sono le decisioni assunte in sede europea per “rilanciare la crescita”, c’è lo sviluppo in termini emi-nentemente quantitativi che perseguono le economie emerse come la Cina, l’India, il Brasile e via dicendo. Ma, d’altra parte, c’è il continuo processo di degradazione dell’ambiente al quale assistiamo, che si coniuga a una crisi (o a un “declino”) del sistema capitalistico di proporzioni planetarie e di durata indefinita.Non da ultimo, c’è il problema della “rivoluzione culturale” che soggiace al proget-to di decrescita. Una modificazione talmente radicale dell’attuale modello di vita (che, per esempio, gran parte degli statunitensi ritengono “non negoziabile”) da far dubitare sulla possibilità, anche remota, di un’affermazione della società della de-crescita. Lo stesso Latouche mostra di esserne perfettamente consapevole, quando scrive: «Certo, la via della sobrietà volontaria e conviviale non si affermerà senza dolore. Chi è pronto a “rinunciare” all’automobile, alla lavastoviglie, alla seconda casa o ai viaggi intorno al mondo? Chi chiederà la ripartizione delle risorse rare attraverso un razionamento generale piuttosto che in base ai poteri d’acquisto? (…) Ci saranno opposizioni violente. Con o senza decrescita, la storia dell’umanità è comunque un dramma pieno di rumore e furore. L’abbandono della religione della crescita non risolverà i problemi con un colpo di bacchetta magica». E tuttavia…


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