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Numero settantotto Giugno 2012 Mensile di cultura e conversazione civile diretto da Salvatore Veca Direttore responsabile Sisto Capra DISTRIBUZIONE GRATUITA www.ilgiornaledisocrate.it la Feltrinelli a Pavia, in via XX Settembre 21. Orari: Lunedì - sabato 9:00-19:30 Domenica 10:00-13:00 / 15:30-19:30 FONDAZIONE SARTIRANA ARTE Arte para lucir Lima 2012 GIORGIO FORNI PAGINA 15 Qualche lettore forse ricor- derà che nell’ultimo dialo- ghetto fra il vecchio Socra- te e Glaucone , a un certo punto, verso la fine della conversazione, è venuta fuori la questione dei fini e dei mezzi. Abbiamo un mucchio crescente e lumi- noso di mezzi per fare sempre più cose e siamo messi piuttosto male, quanto alla valutazione dei fini, dell’insieme degli sco- pi che valgono la pena di essere perseguiti. Ric- chezza di mezzi, scarsità di fini. In un certo senso, i fini e gli scopi rivelano chi siamo. Ci dicono qual è il nostro progetto di vita. Individuale e collettivo. Se certi fini sono degni di es- sere perseguiti, vuol dire che essi per noi valgono. E, nello spazio del plurali- smo dei valori, valgono più di altri fini, possibili e alter- nativi. Definendo i nostri fini, noi dichiariamo lealtà a certi valori. E i valori non sono cose come i gusti. Sono qualcosa che noi siamo convinti dovrebbe valere per chiunque. Per questo, riflettere insieme sui fini è una questione della massima importan- za, soprattutto quando i fini o i valori sono investiti dal vento dell’incertezza, e diventano opachi al nostro sguardo. Quando ci impe- gniamo in una valutazione e in una discussione su mezzi fra loro alternativi, le cose vanno un po’ di- versamente. Teniamo fer- mi gli scopi, e ci chiedia- mo quali scelte e quali misure siano quelle più adeguate, efficaci o razio- nali, per perseguire quegli scopi. Certo, l’incertezza ci accompagna anche nel- la selezione dei mezzi. Ma il riflettore resta inevitabil- mente puntato solo sullo spazio dei mezzi. Il resto è al buio, come dicevano i nostri amici dialoganti. Uno dei maggiori filosofi italiani della seconda metà del secolo scorso, il pave- se Giulio Preti , aveva sot- tolineato l’importanza in- trinseca della riflessione e dell’indagine razionale sui fini nel suo classico Praxis ed empirismo, nelle pagi- ne dedicate al rapporto fra filosofia e politica. Quelle pagine mi sono tornate in mente quando mi è venuto di chiedermi, in più di un’occasione di discussio- ne pubblica in questi ultimi tempi: nel cuore di una crisi sistemica come quel- la in cui siamo intrappolati, da noi e in giro per il mon- do, il massimo impegno sembra essere posto nell’individuazione di mi- sure e provvedimenti per uscire dal tunnel. Del re- sto, è naturale che sia così. Ma, mi chiedo e vi chiedo: non varrebbe la pena di esplorare anche lo spazio dei fini possibili e degli scopi desiderabili? Di esercitare l’immaginazione democratica, entro lo spa- zio e i vincoli che il mondo ci concede? Lo so che la domanda può sembrare bizzarra. Ma sono convin- to che sia importante. La risposta è certo molto diffi- cile. E, per questo, la do- manda bizzarra e impor- tante la giro subito al vec- chio Socrate . Il Sileno ha i suoi tempi e a volte sem- bra un po’ fuori di testa, quando è alle prese con un rompicapo. Ma sono certo che un abbozzo di risposta, prima o poi, ce lo consegnerà. Così, potre- mo aprire e allargare lo spazio della nostra rifles- sione comune e, perché no?, della controversia su cose come fini, scopi e valori. Fini possibili, scopi desiderabili di SALVATORE VECA ELOGIO DELLE DONNE ISRAELIANE Marta Ghezzi A PAGINA 7 *** SE PAVIA SALE SUL SET Giuliana Rotondi A PAGINA 13 La scienza in libreria Neuroscienze tra informatica e filosofia A PAGINA 14 Interventi di: Luigi Luca CAVALLI SFORZA Telmo PIEVANI Francesco CAVALLI SFORZA Antonio TORRONI Luigi DE CARLI Silvano RIVA Orio CIFERRI Sisto CAPRA DA PAGINA 8 A PAGINA12 FOTOSERVIZIO PINCA-MANIDI PAVIA FOTOGRAFIA Sisto Capra DA PAGINA 2 A PAGINA 6
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Numero set tantotto – Giug no 2012

Mensile di cultura e conversazione civile diretto da Salvatore Veca

Direttore responsabile Sisto Capra

DISTRIBUZIO

NE GRATUITA

www.ilgiornaledisocrate.it

la Feltrinelli a Pavia,

in via XX Settembre 21.

Orari: Lunedì - sabato 9:00-19:30 Domenica 10:00-13:00 / 15:30-19:30

FONDAZIONE SARTIRANA

ARTE

Arte para lucir

Lima 2012

GIORGIO FORNI

PAGINA 15

Qualche lettore forse ricor-derà che nell’ultimo dialo-ghetto fra il vecchio Socra-te e Glaucone, a un certo punto, verso la fine della conversazione, è venuta fuori la questione dei fini e dei mezzi. Abbiamo un mucchio crescente e lumi-noso di mezzi per fare sempre più cose e siamo messi piuttosto male, quanto alla valutazione dei fini, dell’insieme degli sco-pi che valgono la pena di essere perseguiti. Ric-chezza di mezzi, scarsità di fini. In un certo senso, i fini e gli scopi rivelano chi siamo. Ci dicono qual è il nostro progetto di vita. Individuale e collettivo. Se certi fini sono degni di es-sere perseguiti, vuol dire che essi per noi valgono. E, nello spazio del plurali-smo dei valori, valgono più di altri fini, possibili e alter-nativi. Definendo i nostri fini, noi dichiariamo lealtà a certi valori. E i valori non sono cose come i gusti. Sono qualcosa che noi siamo convinti dovrebbe valere per chiunque. Per questo, riflettere insieme sui fini è una questione della massima importan-za, soprattutto quando i fini o i valori sono investiti dal vento dell’incertezza, e diventano opachi al nostro sguardo. Quando ci impe-gniamo in una valutazione e in una discussione su mezzi fra loro alternativi, le cose vanno un po’ di-versamente. Teniamo fer-mi gli scopi, e ci chiedia-mo quali scelte e quali misure siano quelle più adeguate, efficaci o razio-nali, per perseguire quegli scopi. Certo, l’incertezza ci accompagna anche nel-la selezione dei mezzi. Ma il riflettore resta inevitabil-mente puntato solo sullo spazio dei mezzi. Il resto è

al buio, come dicevano i nostri amici dialoganti. Uno dei maggiori filosofi italiani della seconda metà del secolo scorso, il pave-se Giulio Preti, aveva sot-tolineato l’importanza in-trinseca della riflessione e dell’indagine razionale sui fini nel suo classico Praxis ed empirismo, nelle pagi-ne dedicate al rapporto fra filosofia e politica. Quelle pagine mi sono tornate in mente quando mi è venuto di chiedermi, in più di un’occasione di discussio-ne pubblica in questi ultimi tempi: nel cuore di una crisi sistemica come quel-la in cui siamo intrappolati, da noi e in giro per il mon-do, il massimo impegno sembra essere posto nell’individuazione di mi-sure e provvedimenti per uscire dal tunnel. Del re-sto, è naturale che sia così. Ma, mi chiedo e vi chiedo: non varrebbe la pena di esplorare anche lo spazio dei fini possibili e degli scopi desiderabili? Di esercitare l’immaginazione democratica, entro lo spa-zio e i vincoli che il mondo ci concede? Lo so che la domanda può sembrare bizzarra. Ma sono convin-to che sia importante. La risposta è certo molto diffi-cile. E, per questo, la do-manda bizzarra e impor-tante la giro subito al vec-chio Socrate. Il Sileno ha i suoi tempi e a volte sem-bra un po’ fuori di testa, quando è alle prese con un rompicapo. Ma sono certo che un abbozzo di risposta, prima o poi, ce lo consegnerà. Così, potre-mo aprire e allargare lo spazio della nostra rifles-sione comune e, perché no?, della controversia su cose come fini, scopi e valori.

Fini possibili,

scopi desiderabili di SALVATORE VECA

ELOGIO DELLE DONNE ISRAELIANE

Marta Ghezzi A PAGINA 7

***

SE PAVIA SALE SUL SET

Giuliana Rotondi A PAGINA 13

La scienza in libreria

Neuroscienze tra informatica

e filosofia

A PAGINA 14

Interventi di:

Luigi Luca

CAVALLI SFORZA

Telmo PIEVANI

Francesco

CAVALLI SFORZA

Antonio TORRONI

Luigi DE CARLI

Silvano RIVA

Orio CIFERRI

Sisto CAPRA

DA PAGINA 8 A PAGINA12

FOTOSERVIZIO PINCA-MANIDI PAVIA FOTOGRAFIA

Sisto Capra DA PAGINA 2 A PAGINA 6

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Pagina 2 Numer o settan to tto - Giug no 2012

Ecco dove viene distribuito gratuitamente

“Il giornale di Socrate al caffè”

Il giornale di Socrate al caffè Direttore Salvatore Veca

Direttore responsabile Sisto Capra Editore: Associazione “Il giornale di Socrate al caffè”

(iscritta nel Registro Provinciale di Pavia delle Associazioni senza scopo di lucro, sezione culturale)

Direzione e redazione via Dossi 10 - 27100 Pavia 0382 571229 - 339 8672071 - 339 8009549 [email protected]

Redazione: Mirella Caponi (editing e videoimpaginazione), Pinca-Manidi Pavia Fotografia Stampa: Tipografia Pime Editrice srl via Vigentina 136a, Pavia

Comitato editoriale: Paolo Ammassari, Silvio Beretta, Franz Brunetti, Davide Bisi, Giorgio Boatti,

Angelo Bugatti, Claudio Bonvecchio, Roberto Borri, Roberto Calisti, Gian Michele Calvi, Mario Canevari, Mario Cera, Franco Corona, Marco Galandra, Anna Giacalone, Massimo Giuliani, Massimiliano Koch,

Isa Maggi, Arturo Mapelli, Anna Modena, Alberto Moro, Federico Oliva, Davide Pasotti, Fausto Pellegrini, Aldo Poli, Vittorio Poma, Paolo Ramat, Carlo Alberto Redi, Antonio Maria Ricci, Giovanna Ruberto,

Antonio Sacchi, Dario Scotti.

Autorizzazione Tribunale di Pavia n. 576B del Registro delle Stampe Periodiche in data 12 dicembre 2002

INTERVISTA IMPOSSIBILE

Il nobile Da Strada, nativo di Zerbolò, e il Gran Sultano

che cacciò i Crociati da Gerusalemme

TORELLO E IL SALADINO

Incontriamo in San Pietro in Ciel d’Oro i due protagonisti della novella di Giovanni Boccaccio

Il messaggio email

arrivava dall’indirizzo [email protected] ed era piuttosto laco-nico: «Alla direzione del “Giornale di Socra-te al caffè” di Pavia. Siete gentilmente invi-tati a un incontro con il poeta novelliere Gio-vanni Boccaccio, che si terrà domenica 27 maggio 2012 alle ore 11 nella basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, davanti all’Arca di Sant’Agostino. Lo scrittore nell’occasione presen-terà due illustri amici protagonisti di una delle novelle del “Decameron” ambien-tate in Pavia. L’evento è nell’ambito delle ma-nifestazioni per il 611° anniversario della composizione dell’opera, avvenuta nel 1351». Non una pa-rola di più. Un fulmine a ciel sereno. Nessuno ci aveva anticipato al-cunché. Per quanto ne sapevamo, Giovanni Boccaccio, con Dante Alighieri e Francesco Petrarca padre nobile della letteratura italia-na, era morto a Certal-do il 21 dicembre 1375, da allora riposava in quella che era consi-derata la sua tomba

nella chiesa dei Santi Michele e Jacopo nel comune fiorentino e non era più tornato in vita. La faccenda in-somma aveva tutti i crismi dell’imbroglio.

Tuttavia, era lecito so-

spendere il giudizio perché “Il giornale di Socrate al Caffè” era stato testimone in e-sclusiva negli ultimi due anni di numerosi casi di reincarnazione:

personaggi storici tor-nati alla vita per il las-so di qualche ora al solo scopo di parlare ai pavesi attraverso le colonne del giornale mensile. Si enumera-vano Galeazzo II Vi-

sconti, Leonardo da Vinci, Cesare Augusto, Severino Boezio, Ade-laide Cairoli, Ada Ne-gri, Cesare Angelini, la statua della Minerva, Giuliano Ravizza, Francesco Petrarca, Cristoforo Colombo, Vittorio Necchi. Anche stavolta il prodigio si era rinnovato? Consul-tatomi con il direttore Salvatore Veca, mi preparai con gli arnesi del mestiere, cioè tac-cuino e registratore, all’appuntamento e quella mattina mi pre-sentai in anticipo in San Pietro in Ciel d’Oro. Davanti al mo-numento funebre di Sant’Agostino erano però in attesa non tre ma due persone, e questo accrebbe il mio sospetto. L’uno era all’apparenza un digni-tario musulmano del Medioevo e l’altro un nobiluomo della Lom-bardia del Quattrocen-to. Non appena mi vi-dero mi si avvicinaro-no e colui che appari-va un sovrano dell’Islam iniziò a par-lare. Saladino. Caro amico di Socrate, venni ideal-mente a Pavia circa sei-cento anni fa per merito di Giovanni Boccaccio e

del suo “Decameron”, nelle cui pagine eccelse ebbi l’onore di materia-lizzarmi. Ed è così che oggi in questa città ho voluto recarmi, stavolta non nelle pagine di un libro ma in carne e ossa, per incontrare l’insigne mio benefattore di allo-ra, Torello, che tempo addietro nell’aldilà si è palesato a me, in modo assolutamente inaspet-tato, e che vedi qui al mio fianco». Socrate al Caffè. Non si è mai visto, a memo-ria d’uomo, nella basi-lica di San Pietro in Ciel d’Oro, un perso-naggio tanto splen-dente come Vossigno-ria, maestoso ed ele-gante nel suo abito di seta bianca, contrap-punta di smeraldi e zaffiri. Chi siete? Saladino. Vi stupirete, amico di Socrate, a udi-re il mio nome: io sono il principe curdo Salah al-Din, che voi occidentali conoscete come “il Sala-dino”, Sultano di Egitto e Siria dal 1174 al 1193. Fui il grande stratega che unì in un unico sul-tanato Damasco e Il Cairo, sconfisse i Cro-ciati nel 1187 e conqui-stò il Regno di Gerusa-

(Continua a pagina 3)

L’ARCA DI SANT’AGOSTINO IN SAN PIETRO IN CIEL D’ORO

di SISTO CAPRA

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Numero set tantotto - Giug no 2012 Pagina 3

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TORELLO E IL SALADINO

INTERVISTA IMPOSSIBILE

lemme strappandolo per sempre alla cristianità. Voi pavesi dovreste co-noscermi non solo per-ché fui uno dei protago-nisti della storia del Me-dioevo, esaltato per la mia sapienza e per la mia capacità militare e temuto per la mia fama di oppositore della cri-stianità, ma anche attra-verso la nona novella della decina giornata dell’immortale “Decame-ron” di Giovanni Boccac-cio, di cui sono protago-nista insieme al nobile pavese Messer Torello da Strada, che qui oggi ho potuto finalmente in-contrare in persona do-po tanti secoli. Nel Lim-bo mi vide fuggevolmen-te anche Dante Alighieri, com’egli narra nel quar-to canto dell’“Inferno”, poiché io me ne stavo in disparte per via della mia fede diversa dalla cristiana. Ora, caro Mes-ser Torello, tocca a voi, prego, parlate. Torello da Strada. Io sono Messer Torello da Strada, personaggio pa-vese insigne nel tredice-simo secolo. Messer Boccaccio per la verità mi chiama Torello di Stra. Sono nativo di Zer-bolò ma ho percorso una carriera di grandi

onori e responsabilità interamente lontano da Pavia. Sono passato alla storia come podestà di varie città, fedelissimo dell’imperatore Federico II, poeta trovatore e pro-tagonista di una delle più famose novelle del “Decameron” cui il mio illustro amico ha testé fatto riferimento. Incon-trai Voi, Gran Sultano Saladino, in questo luo-go, a Pavia, oltre sei se-coli fa, ma non fisica-mente e di persona, bensì attraverso la pen-na dell’immortale Gio-vanni Boccaccio che volle farci vivere insieme nel “Decameron”, in un momento esclusivo e fondamentale della lette-ratura italiana. È per questo che abbiamo ot-tenuto dal Cielo il privile-gio esclusivo di tornare alla vita insieme. Al ter-mine della storia che Vi racconteremo, amico socratico, capirete il per-ché. Socrate al Caffè. Il Vo-stro mentore Boccac-cio non è qui con Voi? Perché? Saladino. No. il grande poeta e novelliere non aveva bisogno di pale-sarsi qui e ora. Giacché parlano per lui le cento novelle del suo “Deca-

meron” e, in partico-lare, la n o n a d e l l a decina e ulti-ma giornata, che ci vede insieme protagonisti. Egli ha organizzato que-sto incontro odierno a Pavia, ha diramato le convocazioni e si è defi-lato, perché ha voluto che presenziassimo To-rello di Strada ed io da soli. Ma tu conosci, ve-ro, la novella in questio-ne? Socrate al Caffè. Di fama, illustrissimi si-gnori. Sinceramente, però, non ne ricordo esattamente la trama. Saladino. E allora Ve la racconteremo noi affin-ché possiate rinfrescare la memoria dei Vostri lettori. Prima, però, oc-corre che rimarchiamo l’importanza storica dell’evento che oggi si materializza in questa meravigliosa basilica. Come potete intendere, Vi ribadisco che io e il nobile Torello da Strada in vita mai ci incontram-mo. Giacché io vissi nel dodicesimo secolo, dal 1138 al 1193, quando

m i s pens i a l l ’ e t à di 55 anni … Torello d a

Strada. E io vissi dal 1198 al 1250, in tutto e per tutto coetaneo del mio sire, l’Imperatore Federico II di Svevia, nato e morto negli stessi miei anni. Vidi dunque la luce cinque anni dopo la scomparsa del Gran Sultano Saladino. Devo l a m i a f a m a all’Imperatore Federico, che mi volle suo compa-gno fedelissimo, come avrò l’occasione di nar-rarVi. E sarà un raccon-to che penso incuriosirà anche il nobile Sultano. Come apprezzerete, qui, oggi, in questa nobile basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, ci incontria-mo per la prima volta in carne e ossa dopo es-serci frequentati con qualche difficoltà nel corso dei secoli trascorsi nell’aldilà. Socrate al Caffè. Per-ché dite “con qualche difficoltà”? Saladino. Perché io tra-scorro i miei secoli eter-ni nel paradiso di Allah Iddio Potente e Miseri-

cordioso, mentre i Cri-stiani mi pensano nel Limbo in cui essi collo-cano coloro che non si sono convertiti al cristia-nesimo. Torello da Strada. … Mentre io sono ancora in Purgatorio, nell’attesa di mondarmi del tutto dalle mie colpe e ascen-dere al Paradiso. Per la prima volta oggi possia-mo godere del privilegio di trascorrere insieme, a Pavia, qualche scampo-lo dell’eternità. Finora, infatti, ci siamo potuti frequentare davvero sol-tanto nelle pagine del “Decameron”. Socrate al Caffè. Orsù, dunque, ardo dal desi-derio di ascoltare la novella che vi dedicò il Boccaccio. Saladino. Eccovi accon-tentato. C’era una volta il Sultano Saladino, cioè il sottoscritto, gran si-gnore di Egitto, Siria e Babilonia. Prima di con-quistare la gloria delle armi, tuttavia, volli pre-pararmi scrupolosamen-te alla sfida con la Cri-stianità e per far ciò scelsi un modo origina-le. Venni cioè in Europa travestito da mercante per controllare in che modo i Cristiani si stava-

no preparando per la Terza Crociata. Socrate al Caffè. La Terza Crociata? Saladino. Sì, quella lan-ciata da Papa Gregorio VIII nel 1187 e che sa-rebbe miseramente falli-ta davanti a Gerusalem-me nel 1192, per mano del mio esercito. Pensa, ebbi come avversari Fe-derico I Barbarossa, Fi-lippo II Augusto di Fran-cia, Riccardo Cuor di Leone re d’Inghilterra e tanti altri principi valoro-si. Barbarossa morì an-negato nel 1190 in Ana-tolia, il re di Francia ab-bandonò l ’ impresa l’anno successivo e Ric-cardo Cuor di Leone fir-mò una tregua con me. Sul campo rimasi il pa-drone incontrastato fino alla mia morte, nel 1193. Ma torniamo alla novella del Boccaccio. Socrate al Caffè. Sì, prego. Saladino. Nel racconto del Boccaccio, io, sbar-cato in Italia, mi ritrovai, dopo avere alquanto girovagato, com’è come non è, proprio a Pavia. Eravamo solo in cinque: io, due miei fidi dignitari e tre servitori, tutti asso-

(Continua da pagina 2)

(Continua a pagina 4)

LA CASA DI GIOVANNI BOCCACCIO A CERTALDO.

SOTTO, BOCCACCIO IN UN DIPINTO DI ANDREA

DEL CASTAGNO, 1448-1451.

A DESTRA, UN RITRATTO DELL’AUTORE

DEL DECAMERON.

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Pagina 4 Numer o settan to tto - Giug no 2012

INTERVISTA IMPOSSIBILE

«Io per caso ospitai il Sultano travestito

da mercante. Con dignitari e servi era

giunto a Pavia»

TORELLO E IL SALADINO

«Venni a Pavia nel mio pellegrinaggio in Europa alla scoperta dei preparativi per la Terza Crociata»

lutamente irriconoscibili, in abiti da mercante. La sorte volle che alle porte della vostra città mi im-battei proprio nel qui presente Torello da Strada Torello da Strada. Ah, Signoria Illustrissima, Gran Sultano! Ricordo le circostanze della novella del Boccaccio come se non fossero passati tanti secoli, come se davvero in quell’occasione Vi a-vessi stretto la mano. Vi incontrai di sera presso le porte di Pavia. Voi mi chiedeste in latino se conoscessi una locanda dove trascorrere la not-te, poiché eravate mer-canti provenienti da Ci-pro e diretti a Parigi. Io mi misi immediatamente a Vostra disposizione, spiegai che senza una guida del posto non a-vreste potuto varcare le mura della città e Vi in-vitai a casa mia per la cena e per il pernotta-mento. Intanto, mandai subito i miei servi ad av-visare mia moglie, affin-ché preparasse una degna accoglienza co-me solo lei sapeva fare. Siccome però temevo che avreste tirato diritto per la Vostra strada e non Vi sareste degnati di accettare la mia mo-desta accoglienza, per

non darmi incomodo, incaricai un mio servito-re di accompagnarVi direttamente e di farVi capitare, così per caso, discorrendo del più e del meno, nella mia residen-za. Così non avreste p o t u t o e s i m e r V i dall’accettare l’invito. Quando arrivaste, io ero lì ad attendervi. Saladino. Caro, caro Messer Torello, che splendida accoglienza, e quali onori mi riservaste. Ricordo tra l’altro che mi mostraste la Vostra abi-lità di addestratore di falconi. E non sapevate neppure chi io fossi, per-ché per ragioni di sicu-rezza anche a Voi avevo celato la mia vera identi-tà, ammannendoVi la storiella di Cipro e di Pa-rigi. Il giorno dopo mi accompagnaste a visita-re Pavia, che trovai mu-nita e benestante, sep-pure immersa in prepa-rativi di guerra perché tutto intorno alle mura si addensava l’esercito dei Visconti di Milano, che avrebbero assediato e conquistato la città nel 1359, e mi colmaste di doni e di onori, fino alla mia partenza. Ebbi tra l’altro l’occasione di visi-tare questo luogo, dove ci troviamo ora, la chie-sa di Agostino, Boezio e Liutprando, anche se a

quei tempi questa splen-dida Arca non esisteva ancora… Socrate al Caffè. Eh sì, sarebbe stata edificata solo a partire dal 14 dicembre 1362. Ma continuate il Vostro racconto, Vi prego. Saladino. Insomma, lasciai Pavia e proseguii nel mio pellegrinaggio. Finito il giro d’Europa, mi imbarcai per Ales-sandria e tornai nel mio Sultanato per organizza-re le difese in vista dell’imminente guerra. Ciò che avevo visto, in-fatti, mi sarebbe stato di enorme utilità nella guerra contro i Crociati. Torello da Strada. Nel frattempo, però, anch’io partii volontario nelle milizie cristiane alla vol-ta della Palestina. Prima di salutare mia moglie, mi feci promettere che mi avrebbe aspettato almeno un anno, un me-se e un giorno prima di riprendere marito. Ella mi giurò fedeltà eterna e mi affidò un anello quale prova del suo amore. Ma le armate di Vossi-gnoria Illustrissima era-no davvero troppo po-tenti per l’esercito dei Cristiani, fummo sconfitti ed io venni catturato. Ma nel campo di prigionia

mi misi in mostra come falconiere e per questa ragione Voi, Gran Sulta-no, mi notaste, aveste la compiacenza di strap-parmi alla dura prigionia e mi accoglieste nel Vo-stro palazzo. Io intanto, approfittando delle Vo-stre grazie, entrai in contatto con alcuni am-basciatori di Genova che stavano presso la Vostra corte, magnanino Saladino, e consegnai loro una lettera indirizza-ta all’abate di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia, che era mio zio, allo scopo di informare mia moglie che ero ancora in vita, che sarei tornato a casa e che mi aspettas-se. Saladino. La Vostra squisitezza, Messer To-rello, era innata ed io Vi riconobbi e Vi colmai di onori, ricordate? Torello da Strada. Dav-vero eravate il più insi-gne, magnanino e mera-viglioso dei sovrani be-nefattori. Mi volevate bene come se fossi Vo-stro fratello, nonostante la diversità della condi-zione: Voi eccelso, io umile. Tuttavia, non ero felice. Ero infatti venuto a sapere che la nave degli ambasciatori geno-vesi aveva fatto naufra-gio e la povera lettera

alla mia consorte era finita in bocca ai pesci. Poi per la verità seppi che non quegli amba-sciatori erano periti nel naufragio, bensì altri che recavano notizie di un mio omonimo Torello, originario però non di Pavia bensì di Dignes presso Avignone. In-somma, ebbi il presenti-mento che la mia con-sorte avesse ricevuto la notizia della mia morte, quando io ero ben vivo e vegeto. Terribile sorte, acuta disperazione. Ero ricolmo di onori nella dimora del mio amico Saladino, eppure ero inconsolabile perché vedevo perso il mio ma-trimonio. La mia adorata consorte, non avendo ricevuto notizie su di me, stava per risposarsi perché il periodo di un anno, un mese e un giorno dalla mia parten-za da Pavia stava per scadere. Vi confidai la mia pena, magnanimo Saladino, e Voi che co-sa inventaste per me? Saladino. Beh, non fu poi una cosa molto diffi-cile, perché i miei maghi erano davvero eccezio-nali. Confezionarono un incantesimo, Vi diedero da bere una pozione e Voi, caro Messer Torel-lo, Vi addormentaste in Babilonia e Vi risveglia-

ste di botto proprio in questa chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro in cui ci troviamo a Pavia, dove si stava per cele-brare il matrimonio tra la Vostra consorte e un degno gentiluomo, igna-ro di ciò che la sorte sta-va per riservargli. Ricor-date, eravate vestito da elegantissimo dignitario orientale, ammirato da tutti gli astanti. Torello da Strada. Mia moglie, incuriosita dalla mia presenza, non a-vendomi riconosciuto abbigliato e truccato com’ero, mi fece conse-gnare da un servitore una coppa con del vino. Mi lanciava degli sguar-di: “Orsù, brindiamo alla mia nuova fortuna”. Io bevvi fino in fondo e de-positai sul fondo della coppa l’anello che lei mi aveva affidato nel giorno della mia partenza da Pavia per le Crociate. Il servitore le riportò la coppa, lei trovò sul fon-do l’anello, trasalì, e-splose di gioia, Mi corse incontro, mi abbracciò e mi baciò. Eravamo di nuovo insieme, insieme, insieme! La liberalità, la magnanimità, l’amore avevano trionfato. Socrate al Caffè. Se non mi inganno, mi

(Continua da pagina 3)

(Continua a pagina 5)

RICCARDO CUOR DI LEONE E IL SALADINO RAFFIGURATI IN DUELLO

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TORELLO E IL SALADINO

INTERVISTA IMPOSSIBILE

sembra adesso di intu-ire il motivo per cui Voi due signori avete ottenuto l’inusitato pri-vilegio di incarnarvi nel ventunesimo seco-lo e di incarnarvi pro-prio in questa basilica di Pavia. Saladino. Non Vi ingan-nate, amico di Socrate. Desideravo tornare nella città dove, nella finzione letteraria del “Decame-ron”, mi ero trovato così a mio agio ed ero stato ristorato e colmato di onori, a riprova che la cortesia è in ogni epoca una delle migliori virtù dell’uomo. Volevo dun-que esprimere a Messer Torello, e indirettamente a Messer Boccaccio, la mia eterna gratitudine. Il valore supremo della cortesia, così ben e-spressa dal Boccaccio nella novella che egli gentilmente ci dedicò, è rimasto da allora affidato per sempre alla lettera-tura.

Torello da Strada. E io, analogamente, ho ap-profittato con grande gioia dell’opportunità di esprimere la mia gratitu-dine a Vossignoria, Gran Sultano, e per suo tramite a Messer Boc-caccio, per avermi fatto vivere in letteratura una meravigliosa storia d’amore. Socrate al Caffè. Ora che il racconto è termi-nato, avrei due curiosi-tà da soddisfare. Vor-rei conoscere meglio le Vostre due persone, Gran Saladino e Mes-ser Torello da Strada. Gran Saladino, volete cominciare Voi a rac-contare ai lettori del “Giornale di Socrate al caffè” la Vostra storia? Saladino. Il mio nome è Saladino, per esteso Salāh al-Dīn Yūsuf b. Ayyūb b. Shādī b. Mar-wān, più semplicemente chiamato Ṣalāḥ al-Dīn al-Ayyūbi. Nacqui a Ti-krit, in Mesopotamia nel 1138 e morii a Damasco il 3 marzo 1193. Fui Sul-

tano di Egitto e Siria e Hijaz dal 1174 alla mia morte, col laqab di al-Malik al-Nāṣir ("Il Sovra-no Vittorioso"), fondato-re della dinastia curda ayyubide. Sono conside-rato tra i più grandi stra-teghi di tutti i tempi. Da giovane studiai a lungo e con brillanti risultati tanto le materie giuridi-che quanto quelle lette-rarie. Chi era chiamato a governare doveva pre-sentarsi con un ottimo corredo conoscitivo ai propri sudditi. Con mio zio Shirkuh acquisii un'ottima preparazione anche militare, seppure preferivo lo studio dal quale mi sentivo partico-larmente attratto. Nel 1168 seguii lo zio in E-gitto: qui era scoppiata una grave crisi sotto gli Imam, della quale aveva approfittato il re crociato, il quale aveva occupato alcuni territori egiziani. L’imam / califfo Abid mi nominò vizir (una sorta di primo ministro), ma nel 1171 io deposi lo stesso califfo, ponendo fine alla dinastia sciita

che aveva regnato dal decimo secolo. L'Egitto divenne così sunnita. Io ne divenni il sultano e avviai una dinastia che, dal nome di mio padre, prese il nome di ayyubi-de. Socrate al Caffè. Quando cominciò la Vostra ascesa? Quan-do diventaste davvero il Saladino, protagoni-sta nei libri di storia dell’Occidente e dell’ Oriente? Saladino. Nel 1174 ini-ziai la mia personale opera di conquista dell'area siro- palestine-se: riuscii a prendere il controllo di Damasco nel novembre. Nel marzo successivo conquistai la cittadella di Homs. L'an-no successivo misi sotto assedio Aleppo; mentre ero accampato fuori dal-le mura della città, il 22 maggio 1176 scampai a un tentativo di assassi-nio da parte di tredici appartenenti alla setta dei Nizariti. Venivano detti gli Assassini: ed è

da allora che questa pa-rola è entrata nel vostro vocabolario occidentale. Dopo un'inutile spedizio-ne sulle montagne dove avevano rifugio gli As-sassini, mi ritirai al Cai-ro. Nel 1187 mi rivolsi verso il Regno di Geru-salemme. Venuto a co-noscenza dei miei piani, re Baldovino VI lasciò Gerusalemme con 500 cavalieri per tentare la difesa di Ascalona, ma venne da me bloccato sul posto. I Cavalieri Templari cercarono di prestare soccorso a Bal-dovino ma vennero presi d'assedio a Gaza. Giu-stiziai i miei prigionieri cristiani e continuai la marcia verso Gerusa-lemme, ma poiché non consideravo più Baldovi-no come una minaccia, permisi al suo esercito di diffondersi a raggio lungo una vasta area, per razziare e riposare. Nel frattempo, sia Bal-dovino che i Templari riuscirono a liberarsi dai rispettivi assedi, e mar-ciarono lungo la costa, nella speranza di inter-

cettarmi prima che rag-giungessi Gerusalem-me. Il 25 settembre 1177 si scontrarono con me a Montgisard, co-gliendomi del tutto di sorpresa. I miei Musul-mani furono messi in rotta. Molti vennero ucci-si e io stesso riuscii a fuggire solo perché ca-valcavo un cammello da corsa. Così tornai in E-gitto. Soltanto un deci-mo del mio esercito riu-scì a tornare in Egitto con me. Anni dopo, a-vrei definito quella scon-fitta “grande come una catastrofe”. Baldovino mi tallonò fino nella pe-nisola del Sinai, ma non riuscì a trarne vantaggio e in seguito io tentai un nuovo attacco nel 1179. Socrate al Caffè. La Vostra epopea, Gran Saladino, cominciò nel 1187, vero? Saladino. È vero. Nel 1187 inviai a Tiberiade una piccola armata gui-data da mio figlio, per rappresaglia a un prece-dente attacco a una ca-rovana musulmana, e sconfissi i Cristiani il 1° maggio. L’esercito del Regno cristiano di Geru-salemme, mossosi dalla Città Santa in direzione nord per contrattaccare, fu distrutto nella batta-glia di Hattin (4 luglio 1187), durante la quale vennero catturati sia il re Guido, sia il Maestro templare, che vennero usati da me come ostag-gi da rilasciare in cam-bio della consegna di piazzeforti. La reliquia della Croce di Cristo, portata in battaglia dai crociati come miracolo-sa insegna, fu presa e di essa si persero le trac-ce. Tutti gli Ospitalieri e i Templari catturati ven-nero uccisi. Il 10 luglio ottenni anche la città e il porto di San Giovanni d’Acri; volevo mantene-re intatto questo centro commerciale che porta-va ricchezza ai miei do-mini e infatti nei termini della resa concedevo che gli abitanti cristiani avrebbero avuto salva la

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MINIATURA DEL SALADINO IN UN MANOSCRITTO

ARABO DEL XII SECOLO.

A SINISTRA, IL CASTELLO

DEL SALADINO IN SIRIA

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Pagi na 6 Numero set tantotto - Giug no 2012

INTERVISTA IMPOSSIBILE

Il Sultano con una magia riportò

il nobile da Babilonia alla basilica di San Pietro in Ciel d’Oro

TORELLO E IL SALADINO

v i ta e

conservate le loro pro-prietà, ma, per la mag-gior parte, rifiutarono di restare ed emigrarono senza essere molestati. Partii poi alla conquista di altri centri costieri. La strada per Gerusalem-me era ormai aperta per me e io posi l'assedio alla città, ma non ebbi bisogno di espugnarla: il suo difensore, Baliani di Ibelin, ebbe la saggezza di negoziare una resa onorevole in cambio di un’evacuazione ordinata dei circa 16.000 abitanti cristiani che vi erano asserragliati, i quali ven-nero fatti uscire e imbar-care senza subire perdi-te. Entrai trionfante nella città il 2 ottobre 1187. Ai Crociati rimase solo il controllo di Tiro, Tripoli e Antiochia, che pure at-taccai nel 1188, ma sen-za successo. Il regno crociato si riduceva così a una sottile striscia co-stiera. Socrate al Caffè. La notizia della perdita di Gerusalemme e della Palestina fu sconvol-gente per l’Europa cri-stiana. Saladino. Ebbene sì. Vi fu presto la richiesta di una nuova Crociata, proclamata da Papa Gregorio VIII e dal suo successore Papa Cle-mente III. Nel 1189 giun-sero numerosi contin-genti militari per la libe-razione della Terrasan-ta. Il 4 ottobre 1189 mossi a est della città di San Giovanni d'Acri ver-so il campo di Guido di Lusignano e schierai le mie truppe in un semi-

cerchio a oriente della città. Il centro e il fianco destro del mio esercito furono messi in fuga. Ma i vincitori cristiani si sparsero per saccheg-giare; allora io radunai i miei uomini e, quando i cristiani cominciarono a ritirarsi con il bottino, scatenai la cavalleria leggera su di loro. I cro-ciati dovettero ritirarsi soffrendo gravi perdite, ma alla fine sconfissero le mie truppe al costo della perdita di 7.000 uomini. Nel 1191 Riccar-do Cuor di Leone giunse in Terrasanta per tenta-re la riconquista di Geru-salemme. La battaglia durò solo pochi minuti e l’esercito musulmano fu messo in rotta e costret-to alla fuga. Io ebbi col sovrano inglese rapporti di stima, ma il re d’Inghilterra non rimase in Terrasanta abbastan-za a lungo per mettere a frutto le sue indubbie qualità guerriere. Gover-nai con energia ed effi-cienza l'Egitto, la Siria e lo Hijiaz, tenendo sotto il mio controllo anche le due principali città sante dell’Islam: Mecca e Me-dina. Morii nel marzo 1193, appena due anni dopo la partenza del mio grande antagonista, Ric-cardo Cuor di Leone. I miei possedimenti anda-vano dall’Eufrate alla Terrasanta e al Sudan. Dante Alighieri mi porrà, oltre un secolo più tardi, tra i valorosi non cristia-ni del Limbo, a testimo-niare la mia duratura fama di uomo retto ed esempio di virtù cavalle-resca. Questo non vuol dire, naturalmente, che

io non operassi con la durezza tipica dei miei tempi verso i miei avver-sari, senza però scadere nell’efferatezza fine a se stessa o nella crudeltà gratuita. Socrate al Caffè. Ora tocca a Voi, Messer Torello da Strada, rac-contare la Vostra sto-ria. Avete detto che siete originario del Pa-vese, ma che avete svolto tutta la Vostra carriera lontano, e che siete stato un fedelis-simo dell’Imperatore Federico II di Svevia. Questo i pavesi non lo sanno. Torello di Strada. Eb-bene sì. Fui un perso-naggio storico di rilievo, rampollo di una nobile famiglia pavese, e vissi nel tredicesimo secolo. La mia casata possede-va le terre e il Castello di Zerbolò. Vissi alla corte dell’imperatore Federico II e composi poesie nel-lo stile dei poeti trovato-ri, ricordato come Tau-rel. Nel 1220 fui con l’imperatore Federico II a Mantova, tra i fedelis-s i m i c h e l’accompagnavano. So-no sempre stato un par-

tigiano dell’Imperatore e ho lottato contro i Comu-n i l om bar d i c he cinquant’anni prima ave-vano dato vita alla Lega Lombarda e sconfitto l’imperatore Federico Barbarossa, nonno di Federico II, nella batta-glia di Legnano. Nel 1221 divenni podestà di Parma. In quella città fui scomunicato per aver voluto costruire il Palaz-zo comunale, in contra-sto col vescovo, cardi-nale Ugolino d’Ostia. Lo edificai in quella che è oggi piazza Garibaldi. A ricordo di ciò, accanto al Palazzo del Comune feci erigere un torello di marmo, poi raffigurato anche negli stendardi della città. Ai vostri tem-pi, il mio palazzo a Par-ma non esiste più. Ri-mase palazzo del Co-mune per pochi anni do-po la mia podesteria, fin quando non venne ulti-mato, sull’altro lato della odierna via Farini, il suc-cessivo palazzo del po-destà, collegato al mio tramite un ballatoio so-praelevato. Il mio palaz-zo lo volli in mattoni ros-si, con la facciata costi-tuita da un doppio porti-co. Dopo che venne di-smesso come sede del

Comune, il mio palazzo subì molte trasformazio-ni e divenne noto come palazzo Bondani. Al suo posto venne costruita una filiale della Banca Commerciale Italiana. Socrate al Caffè. Dob-biamo a Voi la celebre insegna del torello, che campeggiò in nu-merosi stendardi del Nord Italia nel Medioe-vo? Torello da Strada. As-sunsi come mia insegna pubblica l’arma parlante da me voluta: un torello al naturale in campo rosso. Da allora, e per lunghissima serie di an-ni, il torello fu, a così dire, il “totem” di Parma, come la lupa per Roma, il marzocco per Firenze, l’orso per Berna e il toro per Torino. Un torello in scultura con le corna dorate stette per lun-g h i s s i m o t e m p o all’ingresso del palazzo pubblico di Parma; si usava adornarlo di vesti sgargianti, come preva-lenza del rosso, nelle festività; e ancora nel 1632, un secolo e mez-zo dopo la mia podeste-ria il torello sullo stem-ma della città durava.

Parma mi nominò in se-guito nella toponomasti-ca, dedicandomi appun-to largo Torello da Stra-da. Nel 1226 ossequiai il mio sire Federico II a Cremona e a Borgo San Donnino e l’anno suc-cessivo fui di nuovo po-destà di Parma. In se-guito, tenni tale carica a Firenze, nel 1233 quan-do i fiorentini assalirono Siena, a Pisa, nel 1234, a Trento, nel 1236, e ad Avignone, nel 1237. Di-venni talmente famoso per saggezza, ricchezza e nobiltà anche d’animo, che Giovanni Boccaccio mi individuò come mo-dello di vera nobiltà e mi dedicò la novella di cui abbiamo parlato. Avevo meritato le lodi e i versi di Guglielmo Figueira. Quanto alla mia terra natale, Zerbolò, essa nel Medioevo venne ceduta dal monastero di San Salvatore ai Beccaria di Gropello, che nel 1393 vi eressero un castello di difesa e resistenza. Il feudo passò ai Visconti nel 1497. Del castello, trasformato in abitazio-ne, rimane ai vostri tem-pi una torre. Pavia mi ricorda con una via, una traversa di viale Cremo-na.

A SINISTRA, VIA TORELLO DA STRADA È UNA TRAVERSA DI VIALE CREMONA A PAVIA. QUI, IL PORTICATO DEL PALAZZO DEL TORELLO

DI PARMA IN UNA STAMPA DELL’OTTOCENTO (TORELLO DA STRADA FU PODESTÀ

DI PARMA DAL 1221)

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Pagina 7 Numero set tantotto - Giug no 2012

Ho fatto alla fine di aprile un

viaggio in Israele e nei territori occupati, non con l'Opera pellegrinaggi né con normali agenzie turistiche. Sono parti-ta con un gruppo di sedici donne guidate da un'amica valdese di Roma, Lucia Cuoc-ci, specializzata in viaggi in-terculturali, e una guida ara-bo-palestinese, Gasup.

Lo scopo ufficiale del viaggio

era quello di conoscere e sostenere il Centro per la pace di Tel Aviv, promosso da Simon Peres, con i soldi rice-vuti per il Premio Nobel, insie-me ad Arafat e Sadat. Nono-stante le polemiche alimenta-te dalle mie amiche “Donne in nero “ di Torino, contrarie a qualsiasi aiuto a israeliani (arrivando al punto di negare l'8 per mille alla chiesa valde-se che sostiene il progetto), sono partita per rendermi conto di persona della realtà . Sono tornata a vedere Geru-salemme dieci anni dopo un primo viaggio con pacifisti europei e delegazioni di parla-mentari tra cui Luisa Morgan-tini. Allora, nel 2001, ci hanno fermato ai chek point e non abbiamo visto niente dei terri-tori palestinesi se non Ramal-lah e Betlemme e abbiamo passato il nostro tempo a protestare e ad essere insegui-ti da soldati israelia-ni. Ero e sono dalla parte dei palestine-si, come sempre dalla parte dei de-boli e dei perdenti. Un popolo che ha subito nei secoli e continua a subire soprusi, spogliazio-ni, e ingiustizie di tutti i tipi. Dalla oc-cupazione sionista del 78% della Pale-stina nel 1948 fino alla successiva oc-cupazione di Geru-salemme e del resto della Palestina nel 1967 vi sono stati sforzi crescenti per giudaizzare Gerusa-lemme e per colo-nizzare la Palestina. La città santa di Gerusalemme è chia-mata erroneamente da Netan-yahu e dagli altri leader sioni-sti “la capitale eterna di Israe-le non negoziabile”. Queste dichiarazioni e le azioni dei sionisti sono assolutamente incompatibili con tutte le riso-luzioni delle Nazioni Unite su Gerusalemme e contrarie ai principi del diritto internazio-nale. La soluzione finale pre-vista dai sionisti è quella di completare la pulizia etnica di tutti i palestinesi della Palesti-na storica, quindi l'attuazione di un sistema di apartheid.

Come l'apartheid in Sudafrica

è stato sconfitto per il boicot-taggio del mondo ai prodotti sudafricani, sono convinta che anche il boicottaggio dei prodotti israeliani potrebbe servire per convincere l'attua-

le governo a cambiare politica e a smetterla di costruire muri e fili spinati. Gerusalemme dovrebbe essere considerata patrimonio comune universale perché, come dice l'appello della Global marche to Jeru-salem (promossa da Zanotelli, Hanna Atallah rabbi Lynn Gottlieb, Hilarion Capucci e mons. Hesmond Tutu), que-sta ha simboleggiato l'unità e l'uguaglianza di tutti gli esseri umani e del messaggio d'a-more, misericordia e compas-sione. Milioni di persone che amano Gerusalemme sono preoccupate per la sicurezza e l'incolumità dei luoghi santi,

dalla moschea di Al Aqsa e la Cupola della roccia alla Chie-sa del Santo Sepolcro e tutti gli altri luoghi santi, minacciati

dal progetto sionista di cam-biare e smantellare la compo-sizione di Gerusalemme, di-struggendo l'identità araba e islamica, stravolgendo così il carattere della città. Gerusa-lemme e la Palestina devono essere liberate, redente e ristrutturate come luoghi di libertà e di convivenza, acces-sibili a tutti i cittadini del mon-do quali che siano le loro tra-dizioni religiose e culturali. Certo che la questione della capitale dei due Stati auspica-bili, insieme alla questione dei profughi sono i due nodi politi-ci ancora da risolvere ma fin che non ci saranno due Stati autonomi (Israele e Palestina) sarà difficile qualsiasi nego-ziato.

Ora in questo viaggio dal 22

aprile al 1° maggio 2012 ho

cercato di vedere più da vicino la realtà dello stato di Israele senza pregiudizi. Nel prece-dente viaggio, nel 2001 in un clima di guerra incipiente, ho avuto contatti soprattutto con palestinesi, tra cui Ara-fat, allora segregato a Ramallah e impedito a muoversi e pochi israe-liani ( donne in nero e obiettori ). Fermo re-stando il mio giudizio negativo sul governo israeliano che si è dimo-strato, oltre che corrot-to, inflessibile e imper-

meabile a ogni proposta di accordo, ho scoperto alcune figure di donne israeliane di cui voglio fare l'elogio. La

prima, Manuela Drivi, ebrea italiana, sposata con un israeliano, gior-nalista e scrittrice, spesso in Italia ospite di trasmissioni televisi-ve e di convegni impor-tanti. L'avevo già vista all' “Infedele” con Gad Lerner e mi era già piaciuta. Ho letto uno dei suoi libri e l'ho vista e conosciuta personal-mente in un albergo di Tel Aviv. Madre di tre figli, ha elaborato il lutto di un figlio venten-ne morto nella guerra in Libano partecipando a movimenti pacifisti, scrivendo, impegnan-dosi per il dialogo con gli arabi, promuovendo iniziative sanitarie e culturali per i bambini arabi. È autrice di alcu-ni libri affascinanti,

come “La guerra negli occhi“ (una sorta di diario che rac-conta con lucidità e anche ironia il conflitto in corso da anni, praticamente la raccolta degli articoli già apparsi su quotidiani italiani), “ Vita nella terra di latte e miele “ e “ Sha-lom, Omri, Shaom Ziaad “.

Un'altra donna conosciuta,

bellissima, elegante e trucca-ta, non si può credere che abbia 70 anni, è Yiudith Ro-tem, autrice del libro pubblica-to da Feltrinelli “Lo strappo”, in cui racconta la sua incredi-bile esperienza. Sposata a 20 anni con un ebreo ultraorto-dosso, ha avuto nove figli di cui due morti. Dopo vent'anni di matrimonio, vissuto in una comunità chiusa, gretta (dove gli uomini che sono esentati dal servizio militare e ricevono

sussidi dallo Stato studiano e pregano tutto il giorno alla sinagoga e solo le donne la-vorano, sia in casa che fuori), ha avuto il coraggio di sepa-rarsi e di vivere da sola con sei figlie, mentre l'unico ma-schio è rimasto col padre. Da allora è diventata un esempio delle donne che vogliono una loro autonomia e rivendicano le libertà fondamentali. Anche lei ha festeggiato la ricorrenza della nascita dello stato israe-liano, il 25 aprile, ma ricono-sce gli errori fatti dal suo go-verno, che lei attribuisce alla relativa giovinezza ( 63 anni) e soprattutto alla paura. Ha vissuto i suoi primi due anni in un campo di concentramento per ebrei e in un campo profu-ghi nell'est europeo e a tre anni è venuta in Israele con la sua famiglia scampata alla Shoa e da allora è vissuta a Gerusalemme e a Tel Aviv, con frequenti viaggi all'estero e in Italia dove ha fatto diver-se conferenze.

Altro incontro emozionante è

stato con una giovane israe-liana, Hetta Hazan. Figlia di sionisti di stretta osservanza, ha voluto conoscere la realtà della vita dei palestinesi lavo-rando con loro per iniziative concrete di dialogo e convi-venza. È venuta a un nostro incontro insieme al palestine-se Mohammad Avaida, en-trambi attivisti ed esponenti del Movimento “Combattenti per la pace”, uno dei vari gruppi impegnati per il dialo-go, la conoscenza reciproca, il disarmo, l'obiezione di co-scienza. I “Combattenti per la pace” lavorano in gruppi pro-ducendo video e cortometrag-gi che documentano la realtà dei vari territori e li fanno ve-dere sia a palestinesi che a israeliani, per sfatare pregiu-dizi e paure. Fanno anche spettacoli teatrali e organizza-

no manifestazioni di piazza che riscuotono molti consensi anche se ostacolati dalla poli-zia israeliana. Così nel giorno dei caduti, precedente i fe-steggiamenti per la nascita dello stato d'Israele, hanno ricordato che ci sono stati morti da entrambi le parti.

Per ultimo voglio ricordare

due dottoresse impegnate. Una palestinese nell'ospedale di Betlemme gestito da suore cattoliche e un'altra israeliana, Rachele, che lavora al Centro Simon Peres prodigandosi per salvare la vita di bambini palestinesi che nelle strutture dei loro territori non dispongo-no di servizi efficienti. Il Cen-tro Peres, un organismo pri-vato senza aiuti dal Governo e ormai senza contributi da parte di alcune Regioni italia-ne per limiti di bilancio, pensa di ridurre le spese assisten-ziali in campo sanitario e privi-legiare la formazione di per-sonale medico e infermieristi-co proveniente dai territori palestinesi. Lo stesso centro, ubicato in un palazzo avveni-ristico, costruito dall'architetto Fuksas, porta avanti diversi progetti oltre a quello sanita-rio. Infatti è soprattutto impe-gnato in iniziative culturali, sportive, formative, rivolte sia a israeliani che ad arabi, per favorire e approfondire la reci-proca conoscenza, stabilire relazioni positive e creare condizioni favorevoli per un fattivo dialogo dal basso. Gli israeliani che abbiamo contat-tato sono tutti pessimisti sul fatto che la politica governati-va possa cambiare e sperano solo in cambiamenti culturali nelle persone influenzate da propagande ideologiche fon-damentaliste. Gli obiettivi del Centro Peres mi sembrano concreti, realizzabili, tutt'altro che minimalisti o partigiani e quindi non condivido le criti-

che di chi vuole aiutare solo i palestinesi. Anche gli israelia-ni, che da soli non ce la faran-no mai a vincere la paura, hanno bisogno di essere aiu-tati a credere nel rispetto reci-proco, nel dialogo, nella con-vivenza pacifica . Certo i muri costruiti e quelli in program-mazione (anche se sembra abbiano diminuito gli attentati terroristici) sono orribili da vedere e da subire e non aiu-tano certo il dialogo.E poi, chi c'è da una parte e dall'altra di quel muro? Quel muro divide i buoni, tra i quali magari noi ci poniamo, dai cattivi? O forse attraversa ognuna e ognuno di noi, perché tutti abbiamo le nostre ambiguità e contraddi-zioni con cui fare i conti? Di certo quel muro divide gli e-marginati e le emarginate da chi con loro non si vuole mi-schiare, lasciandoli con un carico costante di solitudine e di sofferenza. Anche Gesù nella sua esperienza ha dovu-to fare i conti con quel muro, che divideva i poveri, gli impu-ri, i malati e i peccatori del suo tempo da coloro che, preoccupati di rimanere puri, mantenevano le distanze. Gesù ha una duplice attenzio-ne verso gli uni e verso gli altri. Li ama tutti ma il suo amore e la sua attenzione verso coloro che esigevano muri si manifesta andandoli a scomodare, mettendo in di-scussione le loro sicurezze. Hanna Arendt diceva che per fare dei crimini bastano pochi criminali ma c'è bisogno che tante persone siano disposte a stare a guardare, senza vedere e intervenire.

Così noi, turiste non per ca-

so, vorremmo che le nostre esperienze diventassero con-tagiose, si trasformassero in virus capaci di minare dal di dentro il sistema di ingiustizie e sfruttamento in cui viviamo.

Di ritorno da Israele e dai territori occupati: in viaggio con le pacifiste

di MARTA GHEZZI

MARTA GHEZZI, AL CENTRO

HEBRON, UNA SCUOLA DI DONNE PALESTINESI

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Duecentomila anni fa Homo

sapiens ha iniziato, da una pic-cola valle dell’odierna Etiopia, il viaggio che lo ha portato a colo-nizzare l’intero pianeta e a con-vivere con altre specie umane, formando la grande varietà di popolazioni e culture che cono-sciamo. Per la prima volta un gruppo internazionale di scien-ziati appartenenti a diverse di-scipline ha ricostruito le radici e i percorsi del popolamento u-mano. Genetisti, linguisti, antro-pologi e paleoantropologi han-no unito i risultati delle loro ri-cerche in un meraviglioso affre-sco della storia dell’evoluzione umana, una storia di unità nella diversità.

Il risultato è stato “Homo sa-

piens, la grande storia della di-versità umana”, una mostra che si è svolta con grande successo a Roma e che tornerà in autun-no a Trento. La mostra è stata presentata a Pavia a “Socrate al Caffè”, domenica 20 maggio, da Luigi Luca Cavalli Sforza, Telmo Pievani, Francesco Ca-valli Sforza, scienziato e divul-gatore, e Antonio Torroni, pro-fessore di genetica. Luca Ca-valli Sforza è una delle massi-me autorità a livello internazio-nale in tema di genetica di po-polazioni e antropologia. Il grande scienziato ha curato il catalogo della mostra con Pie-vani, filosofo della scienza e uno dei più apprezzati saggisti e divulgatori italiani.

«Vorrei sottolineare - ha detto

Torroni nell’introduzione - l ’ a s p e t t o d e l r u o l o dell’ambiente. Noi siamo abi-tuati a pensare che controlliamo molto il nostro ambiente e sia-mo indipendenti da esso. La mostra sottolinea come la no-stra storia evolutiva sia stata model lata dal l ’ambiente. L’abbassamento del livello dei mari ha consentito all’uomo di spingersi fuori dall’Africa e in America. Un secondo aspetto è che negli ultimi due o tre anni si è scoperto che esistevano vari rami di nostri antenati, oltre all’uomo di Neanderthal, l’uomo dell’Indonesia, l’uomo della Si-beria. I nostri antenati si sposta-vano lungo le coste nelle fasi secche. Noi possiamo essere stati il risultato di un rimescola-mento genetico. A partire da 60 mila anni fa le popolazioni di Homo sapiens cominciano a

sviluppare un insieme di adatta-menti culturali e tecnologici che permettono loro di sfidare in un modo nuovo gli ecosistemi: si spostano a latitudini più estre-me, riescono ad attraversare zone freddissime, passano at-traverso corridoi lasciati liberi dai ghiacci. Diventiamo un’altra cosa, inizia una storia di intera-zione tra evoluzione culturale e biologica. Da un certo momento in poi siamo diventati dei co-struttori di nicchie in cui ci sia-mo adattati. Si sta studiando l’uomo siberiano di Denisova, come sia stata possibile la sua trasmigrazione dalla Siberia al Sud Est asiatico. Quante infor-mazioni si possono estrarre dal fossile di una falange vecchia tra i 30 e i 50 mila anni? Moltis-sime, come dimostra un articolo apparso sull’ ultimo numero di Nature del 2010, che svela al-cune interessanti novità circa il proprietario di questo dito: l’uomo di Denisova».

«Bisogna che le nuove genera-

zioni - ha detto Francesco Ca-valli Sforza - conoscano la no-stra storia. L’antica domanda da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo ha oggi una ri-sposta. Non si può più prescin-dere dal fatto che la storia di ciascuno di noi è il risultato di un processo che è cominciato circa tre milioni di anni fa. La mostra illustra magnificamente questo processo, i tipi umani che sono comparsi nel corso di due milioni e mezzo di anni. Le scoperte recentissime ci mo-strano che i tipi umani sono sta-ti molteplici, probabilmente più numerosi di quelli che siamo riusciti a individuare. E questi ci raccontano di popolamenti della terra che avvengono a più ripre-se, di popolazioni che si diffe-renziano, scompaiono. Una sto-ria che arriva fino a diecimila anni fa. Il secondo aspetto mol-to interessante della mostra è come essa documenta il pas-saggio, la grande svolta cultura-le, verificatasi nelle ultime deci-ne di migliaia di anni. Noi sap-piamo che l’Homo Sapiens compare con tratti relativamen-te moderni 150 mila anni fa, ma solo a partire da 60 mila anni fa comincia a mostrare tratti com-portamentali moderni: per cen-tomila anni questo uomo, che è anatomicamente uguale a noi continua ad usare lo stesso tipo di strumenti, ad avere lo stesso tipo di comportamenti degli uo-mini che lo avevano preceduto. A partire da 70 mila-60 mila an-ni fa si verifica un balzo in a-vanti improvviso per cui, in con-comitanza con l’espansione dell’uomo dall’Africa Orientale fino a coprire tutto il pianeta, comincia a comparire una va-rietà di nuovi strumenti: capan-ne, armi, utensili. È la grande invenzione del Paleolitico che ci porta fino a diecimila anni fa: l’uomo si è diffuso in tutto il pia-neta e si è diviso in qualche centinaio di tribù che parlano lingue diverse e hanno stili di vita più o meno simili con tante varietà locale, fino a che si veri-fica l’invenzione dell’agricoltura che cambierà il resto della sto-ria. Oggi pensiamo che la gran-de rivoluzione culturale del Pa-

leolitico sia stata dovuta allo sviluppo di un linguaggio perfe-zionato. Strutture cerebrali che già preesistevano hanno comin-ciato ad essere via via attivate e ci hanno permesso di rag-giungere un livello molto raffina-to di comunicazione, che intor-no a centomila anni fa doveva essere più o meno pari al livello di comunicazione che raggiun-giamo oggi con il linguaggio. Naturalmente l’enorme vantag-gio della cultura consiste nel

fatto che noi possiamo impara-re dagli altri e trasmettere agli altri ciò che abbiamo imparato».

«Tutte le differenze che osser-

viamo tra le specie diverse - ha detto Luca Cavalli Sforza - sono dovute a singoli avvenimenti. Il colore della pelle è quello che ci colpisce di più. Poche piccole mutazioni si sviluppano di più in certi ambienti che non in altri. All’inizio il colore della pelle mi dava un impressione profonda,

poi tanti anni di Africa mi hanno cambiato. È molto importante educarci a resistere agli effetti strani che possono darci le dif-ferenze visive, a essere indiffe-renti alle differenze, che non hanno quasi nessuna importan-za. È straordinario che oggi si possa leggere il Dna così anti-co, che si possa scoprire che pezzi di Dna siano rimasti in comune a noi e ad altri. Dobbia-mo mettere l’accento più sulle somiglianze che sulle differen-

La lunga avventura

del professor Cavalli Sforza alla ricerca del-le nostre origini e delle nostre differenze gene-tiche, cominciata a Parma, continua a Pa-via agli inizi degli anni ‘60 del secolo corso. L’attività si svolge presso l’Istituto di Ge-netica dell’Università all’Orto Botanico e presso il Centro di Cal-colo dell’Università do-ve è installato il primo grande calcolatore Oli-vetti. Il lavoro del pro-fessor Cavalli Sforza

coinvolge e trascina decine di studiosi in Italia e all’estero con i risultati che tutti cono-scono. Con la creazio-ne a opera sua dell’Istituto di Genetica Biochimica ed Evolu-zionistica (IGBE) del CNR di Pavia nel 1970, la nuova discipli-na (racchiusa nel ter-mine “Evoluzionistica”)

entra a far parte dei programmi di ricerca del CNR.

L’IGBE-CNR opera in

stretta collaborazione con il Dipartimento di Genetica e Microbiolo-gia dell’Università e sviluppa (fino ai giorni nostri) filoni di ricerca coordinati dal profes-sor Cavalli Sforza. Sa-rebbe troppo lungo ci-

tare i nomi e i contribu-ti delle persone coin-volte che sono facil-mente ricavabili dalle pubblicazione e dai libri di Cavalli Sforza. Mi preme solo sottoli-neare che Pavia ha un ruolo non secondario nella monumentale costruzione intellettua-le realizzata dal gran-de genetista. *Ex direttore dell’IGBE

(ora IGM) - CNR Presidente Fondazione

Adriano Buzzati- Traverso

di SILVANO RIVA*

di ANTONIO TORRONI

Presentata a “Socrate al Caffè” da Vigoni la mostra sull’origine dell’uomo.

Luigi Luca Cavalli Sforza: «Così siamo rimasti l’unica specie sulla Terra».

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Siamo in viaggio, da due mi-

lioni di anni. Da quando i primi esemplari del genere Homo, completamente bipedi, si diffu-sero a partire dal continente africano e colonizzarono l’Eurasia. Da quando - molto tempo dopo - piccoli gruppi appartenenti alla nostra spe-cie curiosa e intraprendente, Homo sapiens, uscirono anco-ra dall’Africa e affrontarono

l’esplorazione di vecchi e nuo-vi mondi. Oggi quell’avventura non è ancora finita e non esi-ste frammento delle terre e-merse che non abbia visto il passaggio o l’insediamento di esseri umani. Una popolazione che ha da poco superato i set-te miliardi si è generata da quegli sparuti pionieri del Cor-no d’Africa, forse non più di 25mila individui agli inizi (un quartiere di Roma). Come è avvenuta la straordinaria glo-

balizzazione di Homo sapiens? E a spese di chi?

Di tutto questo, e di molte al-

tre storie nascoste che la scienza ha di recente riportato alla luce, tratta la Mostra inter-nazionale ospitata a Palazzo delle Esposizioni di Roma del 10 novembre 2011 al 9 aprile 2012: “Homo sapiens. La gran-de storia della diversità uma-na”. Si tratta di un progetto inedito di comunicazione della scienza, per una volta ideato e

realizzato interamente in Italia: mettere in scena il programma interdisciplinare fondato dal genetista emerito della Stan-ford University, Luigi Luca Ca-valli Sforza, con l’ambizione di ricostruire l’albero genealogi-co dei popoli della Terra attra-verso le tracce genetiche, ar-cheologiche e linguistiche.

La narrazione della Mostra è

rivolta a un pubblico di ogni età e fa leva su linguaggi espo-sitivi differenti: reperti originali preziosi da tutto il mondo, fos-sili antichissimi, tra i quali i resti del primo ominino uscito dall’Africa e trovato in Geor-gia, a Dmanisi, manufatti di specie umane diverse, le pri-me forme di arte; e poi calchi e modelli in 3D di ominini e di grandi animali estinti; mappe planetarie, preparate da De Agostini; video e foto da colle-zioni storiche. Per i ragazzi (e non solo), alcuni exhibit hands-on e interattivi permettono di scoprire giocando che siamo cugini di ogni essere vivente, compresa la banana, e che le razze umane esistono sì, ma stanno tutte racchiuse nella nostra testa e nei nostri pre-giudizi, non certo nel mondo là fuori. Inutile, insomma, cercar-le nei nostri geni: essendo la diversità genetica fra gli esseri umani bassissima e distribuita in modo continuo, le cosiddet-te “razze umane” non hanno alcun fondamento biologico.

Ma le sorprese per i visitatori

sono molte di più, a comincia-re dal fatto che siamo figli di un ambiente capriccioso e che nell’albero frondoso della fa-miglia umana non siamo mai stati soli: fino a una manciata di millenni fa esistevano più specie umane. Se un extrater-restre fosse caduto sulla Ter-ra 40mila anni fa ne avrebbe incontrate altre quattro, oltre a noi. L’uomo di Neandertal, la cui intelligenza non smette di stupirci, fa bella mostra di sé nell’esposizione di Roma e ci svela i suoi lati nascosti. Il cu-gino “hobbit”, Homo floresien-sis, rimpicciolitosi nella sua isola indonesiana di Flores insieme a ratti e cicogne gi-ganti, ci guarda un po’ diso-rientato dal basso in alto. All’affollata compagnia di u-mani si aggiungono il misterio-so ominino della grotta di De-nisova, sui Monti Altai, e un tardo Homo erectus soprav-vissuto sull’isola di Giava. Poi siamo rimasti soli, non prima, forse, di esserci accoppiati con alcune di queste forme “diversamente sapiens” (lo testimonierebbero alcune tracce di dna neandertaliano e denisoviano in una parte delle popolazioni moderne).

Capire da dove veniamo ci

permette di comprendere qua-li innovazioni ci hanno reso ciò che siamo, prime fra tutte il linguaggio articolato e le ca-pacità di astrazione (in Mostra una tavoletta babilonese con il teorema di Pitagora spiegato dodici secoli prima di Pitago-ra!), e in che modo siamo stati capaci di produrre un venta-glio meraviglioso di diversità culturali. Homo sapiens nasce prima anatomicamente, in A-frica, intorno a 200mila anni fa, e poi mentalmente, intorno

a 50mila anni fa, in coinciden-za con l’ultima ondata di e-spansione planetaria, quella che più recentemente ci con-durrà anche nei “nuovi mondi” dell’Australia e delle Americhe in epopee appassionanti che la Mostra racconta attraverso reperti, ricostruzioni e imma-gini. I primi europei autoctoni dunque non siamo noi. Anzi, dato che i geni connessi allo schiarimento della pelle sono molto recenti, a volerla dire tutta i primi immigrati di colo-re in Europa siamo proprio noi, Homo sapiens. C’è sem-pre qualcuno più “nativo” di te.

La rivoluzione agricola scom-

paginerà poi le carte del popo-lamento umano, portando all’estinzione molti stili di vita del passato, ma anche animali e piante in grande quantità. Siamo dunque una giovane specie africana, assai mobile e promiscua, sopravvissuta per un pelo a svariate cata-strofi ambientali, divenuta poi una presenza invasiva: una “specie prepotente”, come ha scritto Cavalli Sforza. Una moltitudine di storie affasci-nanti viene dunque molto pri-ma della Storia con la maiu-scola che si studia a scuola. Siamo umani perché non ab-biamo mai smesso di esplora-re nuovi mondi, di muoverci, di guardare cosa c’era dall’altra parte della collina. Le civiltà di oggi non sono monoliti senza tempo, ma organismi con le radici intrecciate. All’Italia co-me laboratorio di molteplici diversità, e al contempo di una profonda unità culturale, è de-dicata una sezione speciale della Mostra. Ma pensiamo al Medio Oriente, al Caucaso, ai Balcani, all’Afghanistan, allo stesso Corno d’Africa: la coin-cidenza è sorprendente e rive-latrice, perché tutte queste regioni martoriate sono state i più antichi e maggiori labora-tori di diversità umana, cultu-rale e linguistica. Sono stati i più ricchi, frequentati e tor-mentati crocevia del popola-mento umano del pianeta. Una specie africana giovane, in-ventiva ed espansiva, a partire dalla sua unità ha saputo ge-nerare la diversità. Ora pro-prio dalla storia della diversità può imparare a riscoprire la sua unità.

La Mostra sarà ospitata a

Trento, come seconda tappa italiana, presso il Museo Tri-dentino di Storia Naturale, dal 21 settembre 2012 a gennaio 2013.

Nel pomeriggio del 25

gennaio un gruppo di amici, colleghi ed estimatori collegati in videoconferenza da quattro continenti ha offerto a Luca Cavalli Sforza una sorta di “festschrift” parlato (orale?): ciascuno a suo mo-do ha raccontato come ha conosciuto Luca e il ruolo che questi ha avuto nell’indirizzare, guidare e plasmare la loro personalità scientifica. Non sono un genetista né sono stato un allievo o un collaboratore di Luca. Il mio unico titolo è quello di avere la presunzione di essere un suo “amico di lunga data”. Forse proprio a questo titolo ho avuto il privilegio, del tutto immeritato, di salutarlo durante quell’evento e mi limiterò qui a trascrivere quanto allora

dissi. “Come si dice in queste occasioni, cento di questi

giorni ma, arrivati alla nostra età, si può scendere di un

ordine di grandezza. Quin-di, dieci di questi anniver-sari e conservati lucido e

sereno, per te, per la tua famiglia (Pupa in primis) ma anche per tutti noi. Per me sei stato la stella più brillante di quella piccola costellazione, composta da te, Adriano Buzzati-Traverso, Joshua Lederberg e Giovanni Magni, che ha guidato il mio itinerario scientifico e illuminato la mia vita di ricercatore. Buon compleanno, Luca, e tanti auguri per ancora molti anni sereni e felici tal che, quando arriverà la signora vestita di nero con la falce sulla spalla, rimanga anche lei affascinata da te e decida, come si dice, di tornare un’altra volta”…

*Professore emerito di Microbiologia, Università di Pavia

di ORIO CIFERRI*

di TELMO PIEVANI

Presentata a “Socrate al Caffè” da Vigoni la mostra sull’origine dell’uomo.

Luigi Luca Cavalli Sforza: «Così siamo rimasti l’unica specie sulla Terra».

A SINISTRA, IL GENETISTA LUIGI LUCA CAVALLI SFORZA. AL CENTRO, IL TAVOLO DEI RELATORI. IN ALTO DA SINISTRA: SISTO CAPRA, ANTONIO TORRONI, TELMO PIEVANI

E LUIGI LUCA CAVALLI SFORZA; IN BASSO DA SINISTRA, ANTONIO TORRONI, TELMO PIEVANI E FRANCESCO CAVALLI SFORZA.

QUI SOPRA, LA COPERTINA DEL CATALOGO DELLA MOSTRA

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Pagina 1 0 Numero set tantotto - Giug no 2012

All’inizio, nell’Africa di 200 mila-150

mila anni fa, fu Homo sapiens. Ciò che distingueva la nostra specie era un’anatomia slanciata, la faccia piat-ta, la fronte alta, un’infanzia allunga-ta, una buona tecnologia di lavora-zione della pietra, una promettente organizzazione sociale e una spicca-ta attitudine alla dispersione in altri territori. Eravamo una novità nella storia dell’umanità, ma non proprio una rivoluzione. Poi però succede qualcosa. Le prime avvisaglie sono in una grotta presso Città del Capo, in Sudafrica: alcuni pezzi di ocra di 75 mila anni fa presentano per la prima volta segni regolari incisi.

LA PRIMA RIVOLUZIONE

La rivoluzione arriva 45-40 mila

anni fa: diventiamo non più soltanto anatomicamente ma anche mental-mente moderni. E restiamo l’unica specie umana sulla faccia della ter-ra. Fiorisce l’intelligenza simbolica e capace di astrazione. Ecco le pitture rupestri, le sepolture rituali sofistica-te, gli ornamenti per il corpo, i primi strumenti musicali, i primi calendari lunari intorno a 32 mila anni fa. Le caverne decorate come quelle di Lascaux, Le Cap Blanc, El Castillo, Altamira. Oggi grazie alla conver-genza di discipline come la genetica delle popolazioni, l’archeologia e la linguistica è possibile ricostruire l’albero genealogico delle diversifica-zioni dei popoli della Terra. Ma come è cominciato tutto questo? Una splendida cavalcata è nel volume “Homo sapiens: la grande storia della diversità umana”, di Luigi Luca Cavalli Sforza e Telmo Pievani, cata-logo della omonima mostra presen-tata a Roma dall’11 novembre 2011 al 12 febbraio 2012. Lo abbiamo letto per voi e ne esponiamo qui di seguito alcune delle parti più affasci-nanti. Oggi vive un’unica specie u-mana sulla Terra, Homo sapiens. Ma fino a non molte migliaia di anni fa di specie umane ce n’erano cinque: Homo sapiens, Uomo di Neander-thal, Uomo di Denisova, Uomo di Flores, Uomo di Giava. Le ultime quattro specie si sono estinte.

LUCY

Tutto comincia con Lucy. Il più anti-

co scheletro ritrovato, completo al 40 per cento, è quello della celebre Lucy, scoperta nel 1974 e che visse in Etiopia 3,2 milioni di anni fa. Il suo arco plantare dimostra che era bipe-de. Nel 2010 viene annunciata la scoperta, in una grotta a nord di Jo-hannesburg, nell’odierno Sudafrica, di Australopithecus sediba, probabile individuo del genere Homo.

LA PIÙ ANTICA CAMMINATA

Due australopitecine della specie

Australopithecus afarensis, forse un maschio e una femmina o forse una madre con un giovane a fianco, pro-babilmente anche un terzo individuo, imprimono nella cenere vulcanica fresca di Laetoli, in Tanzania setten-trionale, le loro tracce, poi pietrifica-tesi a futura memoria, della più anti-ca “camminata” di un nostro antena-to mai scoperta finora, risalente a 3,75 milioni di anni fa. Si tratta di s e t t a n t a o r m e . S c a p p a n o dall’eruzione del vulcano Sadiman. La locomozione è certamente bipe-de. I primi rappresentanti del genere Homo fanno la loro comparsa in Africa intorno a 2,5 milioni di anni fa con alcuni fossili scoperti in Etiopia, attributi a Homo habilis, e con altri fossili appartenenti alla specie Homo rudolfensis ritrovati in Kenya e nel Malawi.

OUT OF AFRICA 1. LA PRIMA DIASPORA FUORI

DALL’AFRICA COMPIUTA DA HOMO ERGASTER

Homo ergaster, la specie cammina-

trice, la cui comparsa è datata intor-no a 1,9 milioni di anni fa, durante il Pleistocene, comincia a espandere i propri territori di insediamento a par-tire dalle sedi originarie nel Corno d’Africa, in un’epoca che coincide con i suoi primi ritrovamenti fossili: leve lunghe, cervello in espansione, dieta onnivora, accampamenti più organizzati, forse già il dominio del fuoco (i primi focolari accertati risal-gono a 1,5 milioni di anni fa, in Su-dafrica, poi non se ne trova più trac-cia per un tempo lunghissimo). Si sposta in piccoli gruppi di una trenti-na di individui e si diffonde nelle val-late e negli altipiani africani. Per la prima volta nella storia un ominino, Homo ergaster, valica i confini dell’Africa. Lo ritroviamo, con data-zioni che sfiorano i due milioni di

anni, nel Piccolo Caucaso in Geor-gia, a Ubeidiya in Medio Oriente, lungo le coste dell’Asia e nell’attuale Pakistan a Riwat. A partire da 1,5 milioni di anni è a Renzidong e poi a Zhoukoudian in Cina, a Sangiran nell’isola di Giava, dove prende avvi-o la ramificazione del genere Homo che chiamiamo Homo erectus. Nel frattempo gli Homo ergaster riman-gono comunque anche in Africa, dove la loro presenza è attestata (in Etiopia, Eritrea, Tanzania, Sudafrica) fino a un milione di anni fa. Inizia un processo di espansione ramificata. In centinaia di migliaia di anni, i primi rappresentanti del genere Homo, partiti da una vallata del Corno d’Africa, si affacciano sul Pacifico. L’espansione umana in tutto il piane-ta è resa possibile dalla grande gla-ciazione, che occupando le parti settentrionali del globo abbassa il livello degli oceani nella parte meri-

dionale e consente agli Homo di percorrere le coste spingendosi in ogni dove.

OUT OF AFRICA 2. LA SECONDA DIASPORA:

VERSO L’EUROPA, PROTAGONISTA

HOMO HEIDELBERGENSIS

All’inizio del Pleistocene medio (che

va da 780 mila a 135 mila anni fa) fa la sua comparsa una nuova specie, apparentemente diffusa anch’essa in tutto il Vecchio mondo (Africa ed Eurasia) e piuttosto diversa da Ho-mo ergaster. Presenta una notevole espansione cranica e adotta la tec-nologia della scheggiatura bifacciale. È chiamata Homo heidelbergensis, dal sito di Mauer vicino ad Heidel-berg, nell’odierna Germania, e i suoi resti vengono riportati alla luce in Europa (Spagna, Francia, Gran Bre-tagna, Italia, Grecia e Germania), in Africa (Etiopia, Zambia e Marocco) e in Cina (siti di Dali e Jinniushan). Gli

studiosi ipotizzano che gli Homo heidelbergensis siano stati i protago-nisti della seconda grande ondata di popolamento umano a partire dall’Africa e che poi, a causa della separazione geografica, abbiano iniziato a dividersi in più varianti, le quali in alcuni casi hanno sostituito le specie diffusesi precedentemente. In Europa sono presenti in siti come Petralona in Grecia, Arago in Fran-cia, Sierra de Atapuerca in Spagna settentrionale e Ceprano nel Lazio meridionale. Intorno a 500 mila anni fa, in Europa il fuoco addomesticato ricompare in maniera assidua. A Terra Amata, vicino a Nizza, in Fran-cia, gli Homo heidelbergensis co-struiscono 400 mila anni fa le prime capanne con una struttura ellittica di rami intrecciati. La vita sociale è elaborata: si riuniscono attorno a un focolare per macellare gli animali e lavorarne le pelli. A Roccamonfina,

nella Campania nordoccidentale, si trova forse la più antica camminata di individui del genere Homo, datata fra 385 mila e 325 mila anni fa: 56 impronte lasciate nella cenere da tre individui bipedi in fuga sul fianco del vulcano. Homo heidelbergensis si trovano anche a Creta, in Africa e in Cina.

OUT OF AFRICA 3. I PRIMI HOMO SAPIENS IN AFRICA E EURASIA

Ottomila generazioni fa (circa 200

mila anni fa) i primi Homo sapiens compaiono in Africa Subsahariana, in una fase di ulteriore inaridimento in concomitanza con la penultima glaciazione quaternaria. È una popo-lazione circoscritta, che porta novità salienti sia nell’anatomia slanciata e nella capacità cranica, sia nelle tec-nologie di lavorazione della pietra. Il prolungamento ulteriore delle fasi di crescita, che durano di più che in tutte le altre forme di Homo influisce sull’espansione e sulla riorganizza-

zione del cervello, sulle capacità di apprendimento, sull’organizzazione sociale e del linguaggio. I primi ritro-vamenti di Homo sapiens africani provengono dalla valle dell’Omo in Etiopia: risalgono a circa 195 mila anni fa. I successivi, scoperti a Herto Bouri, sono datati 160-154 mila anni fa. In Sudafrica le prime presenze risalgono a 100 mila anni fa. In Eri-trea la presenza data da 125 mila anni fa: ad allora datano le prime dispersioni multiple dal Corno d’Africa all’attuale Arabia, con il pas-saggio dello stretto di Bab el-Mandeb. Tra 60 mila e 50 mila anni fa, gli Homo sapiens completano la diffusione in tutto il vecchio mondo. Dalla Galilea si espandono verso est, lungo le coste dell’Oceano India-no. Da 45 mila-40 mila anni fa le tecnologie di lavorazione della pietra in Europa subiscono un rapido affi-namento. Da 50 mila-45 mila anni fa

gli Homo Sapiens fanno il loro in-gresso per la prima volta in Europa, dove danno origine a una popolazio-ne molto avanzata battezzata nel 1868 Cro-Magnon, dal nome del sito francese di uno dei primi rinvenimen-ti. Già 67 mila anni fa gli Homo sa-piens arrivano a Zhoukoudian in Cina. Il popolamento del vecchio mondo, dal Sudafrica alla Francia, dalla Spagna alla Cina, avviene con una rapidità senza precedenti. I cac-ciatori-raccoglitori della specie Homo sapiens penetrano in Europa a più riprese, provenendo anche dall’Asia centrale.

HOMO NEANDERTHALENSIS

All’arrivo dei primi Homo sapiens,

l’Eurasia è già abitata da altre specie umane, derivanti dalle precedenti ondate migratorie. La più nota è l’Uomo di Neanderthal, il nostro alter ego evoluzionistico per eccellenza, quello che conosciamo meglio e da più tempo: una specie umana oggi

estinta. L’antenato comune di Homo sapiens e Homo neanderthalensis è ritenuto essere l’Homo heidelbergen-sis, vissuto 500 mila anni fa. Si sono studiati i resti fossili di oltre 200 e-semplari neanderthaliani, il primo dei quali venne scoperto nella valle di Neander, in Germania, nel 1856. È il nostro cugino ominino più stretto, discendente come noi Homo sapiens da una forma di Homo heidelbergen-sis. Era diffuso in un territorio vastis-simo, che va dalla Spagna al Galles, dalla Francia alla Russia, dall’Italia ai Balcani e al Medio Oriente, e da qui fino al Kazakstan. Robusto e ben adattato a climi diversi, anche rigidi, ottimo cacciatore, onnivoro, con una formidabile capacità cranica, più tozzo degli Homo sapiens, troviamo nei fossili la sua inconfondibile mor-fologia a partire da 250 mila-200 mila anni fa. La forma del cranio è caratteristica: più schiacciata e svi-luppata in orizzontale, con un robu-sto e sporgente osso sopraorbitale, la fronte più sfuggente e una tipica

(Continua a pagina 11)

di SISTO CAPRA

I PRINCIPALI SITI DEI NEANDERTHAL E LA DIFFUSIONE DELLA SPECIE SAPIENS (IN L. L. CAVALLI SFORZA - T. PIEVANI, HOMO SAPIENS LA GRANDE STORIA DELLA DIVERSITÀ UMANA)

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Pagina 1 1 Numero set tantotto - Giug no 2012

protuberanza posteriore. La nostra fu una lunga coesistenza: per decine di migliaia di anni abbiamo abitato in parte negli stessi ambienti, dalle steppe dell’Asia fino all’Europa meri-dionale, in un mondo assai scarsa-mente popolato; a volte ci siamo persino alternato negli stessi rifugi, in tempi diversi. Per lungo tempo abbiamo usato gli stessi artefatti litici e cacciato le stesse prede.

HOMO SAPIENS E NEANDERTHAL:

TRACCE DI COABITAZIONE. ENTRAMBI DERIVATI

DA HOMO HEIDELBERGENSIS

È difficile stabilire se vi sia stata

coabitazione prolungata nelle stesse regioni, ma è importante riflettere sul fatto che la storia degli Homo sa-

piens sia stata caratterizzata, in tem-pi recenti, dalla presenza di un “altro da sé”, dalla coesistenza di un’altra specie umana. Le splendide sepoltu-re neanderthaliane di Shanidar, nel Kurdistan iracheno, risalenti a 80

mila-60 mila anni fa, rivelano una complessità sociale elevata e un ricco mondo interiore. I Neanderthal assistevano i malati e i vecchi. Le ossa dell’individuo maturo, dai qua-ranta ai cinquant’anni di età, presen-tano i segni di interventi di cura dopo lesioni, traumi e fratture. Ci sono tracce di riti funebri, con corpi co-sparsi di fiori e semi di diverse pian-te medicinali. Alcune conchiglie trat-tate e dipinte a uso decorativo dei Neanderthal risalgono a un periodo che va da 50 mila a 45 mila anni fa e sono state trovate vicino a Cartage-na, nella Spagna attuale. Avevano monili e ciondoli, si dipingevano il viso e il corpo. Le presunte pratiche di cannibalismo sono state da tempo smentite. Erano, come gli Homo sapiens, probabilmente cacciatori che vivevano in piccoli gruppi. Pa-droneggiavano il fuoco e vivevano in accampamenti ben organizzati. Uti-

lizzavano tecnologie litiche avanzate simile a quelle usate dagli Homo sapiens coevi. Dal 2008 conosciamo il Dna nucleare degli Homo neader-thalensis: il sequenziamento è stato completato al Max Planck Institut di

Lipsia, estratto dai resti ossei di tre esemplari di Neanderthal vissuti in una grotta in Croazia tra 44 mila e 38 mila anni fa. Il genoma degli Ho-mo sapiens e dei Neanderthal sono identiti al 99,84%: eravamo cugini stretti, quasi fratelli. Che cosa con-tiene quello 0,16% di Dna differen-te? Lo sviluppo dei Neanderthal era più veloce: diventavano adulti prima di noi. Forse non eravamo due spe-cie distinte e agli inizi non c’era una barriera genetica completa: accop-piamenti sporadici tra Sapiens e Neanderthal erano possibili. Dove potrebbero essere avvenuti gli incro-ci tra le due specie? Nei siti israelia-ni di Skhul e Qafzeh. È ormai dive-nuta plausibile l’ipotesi che il nostro genoma contenga al suo interno, come un mantello di arlecchino, tracce di parziali fusioni con altre specie umane oggi estinte, che po-trebbero aver rafforzato il nostro

sistema immunitario. Forse c’è qual-che impronta di Neanderthal nel sangue di alcuni di noi. Un ipotetico ibrido tra Sapiens e Neanderthal è ritenuto da alcuni studiosi il cosid-detto bambino di Lagar Velho in

Portogallo, i cui resti fossili risalgono a 25-24 mila anni fa.

L’ESTINZIONE DI NEANDERTHAL

Le ragioni dell’estinzione dei Nean-

derthal restano da comprendere. Dopo un’epoca di grande diffusione in Europa tra 50 mila e 40 mila anni fa, a partire da 32 mila anni fa, la specie arretra in enclave sempre più piccole fino a scomparire. Se sa-piens e Neanderthal non si sono fusi insieme e se prima avevano convis-suto per circa 170 mila anni, non sono probabili scenari violenti di sterminio fisico o la trasmissione di malattie infettive. Forse è subentrato un problema di adattamento am-bientale per i Neanderthal oppure, più probabilmente, la nostra specie ha avuto un maggior sviluppo demo-grafico. Gli ultimi esemplari proven-gono dal Caucaso e dalla Rocca di Gibilterra, datati circa 29 mila anni fa. Alcuni pensano che il divario demografico tra la nostra specie e la loro sia stato determinato dalle diffe-renti capacità di comunicazione lin-guistica. I Neanderthal non usavano le vocali i, a, u e le consonanti g, k. A fare la differenza è stata la parti-colare conformazione di laringe, corde vocali e faringe, che ha con-sentito alla nostra specie di modula-re l’ampia gamma di suoni. In Nean-derthal l’adattamento a climi più rigidi e la necessità di proteggere la gola fecero sì che il collo fosse trop-po collo rispetto all’allungamento in orizzontale del cranio. Imparare a parlare è un processo cognitivo, ma anche biologico. Per poter parlare, il bambino deve rimodellare una parte importante del suo corpo. Tutti noi nasciamo con una sorta di predispo-sizione a parlare, ma come parliamo non dipende da chi ci ha messo al mondo, bensì da dove cresciamo.

IL MISTERIOSO HOMO DI DENISOVA

Nella grotta di Denisova, sui Monti

Altai, in Siberia meridionale, gli stu-diosi nel 2008 si aspettavano di tro-vare altre prove interessanti di coe-

sistenza tra Sapiens e Neanderthal, invece a partire da un dito mi-gnolo scoprirono una nuova specie Homo. I genetisti del Max Planck Institut di Lipsia sono riusciti a ricostruire la sequenza del Dna mito-condriale di un individuo che abitava quella grot-ta tra 48 mila e 30 mila anni fa. Apparteneva a una terza specie Homo, contemporanea per poche decine di migliaia di anni a sapiens e Ne-anderthal. Il Dna mito-condriale si trasmette solo per via femminile. I mitocondri sono le “batterie biologiche” che azionano le nostre cel-lule e un tempo erano batteri autonomi, inglo-bati poi per simbiosi nelle cellule con nucleo oltre un miliardo di anni fa. I denisoviani potreb-bero essere un’altra ramificazione della se-conda out of Africa (uscita dall’Africa), quel-

la di Homo heidelbergensis, che abbiamo già visto, risalente a 500 mila anni fa. Nel sito di Denisova, fra vallate montane, steppe e praterie, tra mammut e rinoceronti lanosi, vivevano ben tre specie distinte del genere Homo: Sapiens, Neanderthal e Denisoviani.

LA QUARTA E LA QUINTA SPECIE HOMO: IN INDONESIA

E NELL’ISOLA DI GIAVA

Ma non è finita. In Indonesia, nel

2003, sull’isola di Flores, nella grotta di Liang Bua è stato trovato quello che è poi stato chiamato Homo flo-resiensis: una specie umana pigmea dai grandi piedi, nascosta nella fore-sta tropicale, che non superava il metro di altezza. I nove individui studiati sono simili a Homo erectus nani, ma posseggono alcuni caratte-ri così primitivi da far supporre in uno studio del 2010 che possa trat-tarsi di discendenti di una forma africana assai antica. Alcuni utensili fanno risalire il primo popolamento di Flores nella grotta di Mata Menge a circa 900 mila anni fa. Con scarsi-tà di risorse e in assenza di predato-ri, questa specie Homo poté diventa-re piccola. Si sarebbe estinta 12 mila anni fa, non sappiamo perché: in pratica sarebbe arrivata a una manciata d i mi l lenni pr ima dell’invenzione dell’agricoltura e della nascita delle prime civiltà della scrittura. Incontrò mai la specie Sa-piens? Poiché i Sapiens sono giunti in Australia ben prima di 12 mila anni fa e la catena di isole della Sonda era un passaggio obbligato, è probabile che ci siano stati incontri ravvicinati anche tra Sapiens e Flo-res. Per completare il quadro delle specie Homo, resta da parlare di una quinta: una specie di Homo erectus oggi estinta, discendente dalla prima diaspora dall’Africa risa-lente a poco meno di due milioni di anni fa, cioè dagli Homo ergaster, e che avrebbe trovato condizioni favo-revoli per svilupparsi nell’isola di Giava. Si sono scoperte affinità con popolazioni attuali della Nuova Gui-nea e della Melanesia, che discen-dono da espansioni di popolazioni asiatiche di Sapiens. Potrebbero esserci state ibridazioni con i Sa-piens in Medio Oriente e i denisovia-ni in Asia Centrale. Homo sapiens ha trascinato con se impronte gene-tiche di possibili accoppiamenti, i quali secondo uno studio del 2011 avrebbero rafforzato le difese immu-nitarie. Ciò che emerge è l’esplosione finale di Homo sapiens, la sola specie umana rimasta sulla Terra a partire da 12 mila anni fa e a diffusione planetaria. Ciò che oggi noi chiamiamo umanità è sempre stata rappresentate da una moltepli-

(Continua da pagina 10)

DUE ABITATORI DELLA SIBERIA (IN L. L. CAVALLI SFORZA - T. PIEVANI, HOMO SAPIENS, LA GRANDE STORIA DELLA DIVERSITÀ UMANA)

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Pagina 1 2 Numero set tantotto - Giug no 2012

Fa una certa impressione questo

cambiamento di scenario; rimania-mo sempre comunque nell’ambito degli studi su popolazioni umane. Ma l’impressione è anche più forte quando si scopre che l’interesse iniziale di Luigi Luca Cavalli Sforza era la genetica dei microrganismi dove egli ottenne risultati che val-sero a J. Lederberg, con il quale condivise alcuni lavori, il Premio Nobel. In una delle sue note auto-biografiche egli spiega così il pas-saggio dallo studio della sessualità nei batteri a quello dell’evoluzione umana: pressione e competizione insostenibile nel campo della gene-tica dei microrganismi a livello in-ternazionale, in definitiva limitazio-ne della libertà di ricerca e, vice-versa, ampi spazi per lo studio della genetica umana di popolazio-ni affrontato con metodi statistici, secondo gli indirizzi di Sir R. A. Fisher, suo maestro.

Tema dominante delle ricerche di

Cavalli Sforza è la variabilità gene-tica dell’Uomo come risultante del-la sua storia evolutiva, che può essere ricostruita dall’analisi delle

popolazioni attuali. L'intuizione che portò al successo di questo grande progetto fu quella di associare ai dati genetici quelli demografici, storici, archeologici e antropologici. Nello studio dell’evoluzione biologi-ca particolare attenzione è stata rivolta alla deriva genetica, ovve-rossia all’effetto delle fluttuazioni casuali delle frequenze geniche in una popolazione, che dipende dal numero di individui che la compon-gono.

Una delle prime indagini del grup-

po di ricerca di genetica di popola-zioni dell’Università di Pavia è

stata condotta all’inizio degli anni Sessanta su campioni di individui di una settantina di parrocchie della Val Parma. Per l’elaborazione della gran-de massa di dati ricavati dai libri parrocchiali su un periodo che va dal 1400 ai giorni no-stri, fu creato un Centro mec-canografico con macchine IBM che poi divenne, con l’arrivo dei primi computer, il Centro di Calcoli Numerici istituito per un’iniziativa congiunta di Ca-valli Sforza con i professori Magenes di Matematica e Mazzi di Mineralogia; la sede era nell’Università centrale e vi operavano ricercatori e tecnici dell’Istituto di Genetica dell’Università e del Laboratorio Internazionale di Genetica e Biofi-sica del CNR.

Per le ricerche sulle popolazioni

della Val Parma, era stato fonda-mentale, per il non facile accesso ai libri parrocchiali e la rilevazione dei dati, il contributo del professor don Antonio Moroni, ora Emerito di Ecologia presso l'Università di Par-

ma, insieme al compianto profes-sor Franco Conterio. Lo stesso vale per la ricerca sulla consangui-neità in Italia, avviata negli stessi anni; la fonte maggiore delle infor-mazioni in questo caso erano gli Archivi Vaticani, dai quali furono tratte le dispense che riguardavano i matrimoni tra consanguinei cele-brati in Italia nel periodo 1780-1970.

L’ingente quantità di dati e il raf-

fronto con i dati “ambientali” delle zone e dei periodi esaminati ha permesso di stimare l’effetto delle

varie componenti demografiche, socioeconomiche e culturali sulla variazione della consanguineità nel nostro Paese. Nel periodo 1961-63 Cavalli Sforza sviluppò un nuovo metodo di analisi filogenetica nell’Uomo, avvalendosi della colla-borazione di Anthony Edwards, divenuto poi professore di Statisti-ca a Cambridge. La disponibilità dei potenti mezzi di elaborazione

presso il Centro di Calcolo permise di ricostruire, attraverso i dati ge-netici di numerose popolazioni del mondo, il primo albero evolutivo delle popolazioni umane la cui struttura di base è ancora oggi valida. Alberi filogenetici perfetta-mente corrispondenti sono stati ottenuti successivamente utiliz-zando dati antropometrici ricavati da antichi crani.

Nella seconda metà degli Anni

Sessanta i modelli di ricerca gene-tica erano stati estesi a un gruppo di cacciatori-raccoglitori della fore-

sta africana, i Pigmei Babinga, una delle poche popolazioni esistenti in una condizione abbastanza para-gonabile a quella paleolitica. Tra le diverse analisi eseguite a Pavia, quelle effettuate sui cromosomi crearono qualche problema legato al trasporto dei campioni di sangue raccolti durante le spedizioni afri-cane: infatti, le cellule del sangue, i linfociti in particolare, dovevano

arrivare a Pavia vivi e in grado di moltiplicar-si per consentire l'os-servazione dei cromo-somi. La ricostruzione del corredo cromoso-mico effettuata da Fiorella Nuzzo in 5 maschi e 7 femmine - per i risultati di questa analisi, non nascondo, c’era una certa curio-sa attesa da parte nostra - mostrò un assetto regolare privo di varianti, evidenzia-bili con le tecniche di analisi non raffinate allora disponibili.

Negli anni settanta

nell'ambito di un più ampio interesse rivol-to all'evoluzione cultu-rale dell'uomo è sta-ta avviata un'analisi comparativa di dati relativi ai costumi famigliari e comunitari e alle attività economi-

che in diverse popolazioni africa-ne.

Un’altra parte importante degli

studi sulla diversità genetica di popolazioni umane è rappresenta-ta dalla ricerca di variazioni protei-che, prevalentemente in enzimi dei globuli rossi. L’analisi, che si è ap-profondita sempre più con il cre-scere del numero e della varietà di enzimi caratterizzati biochimica-mente, è stata eseguita in numero-se popolazioni: europee, principal-mente italiane (da varie regioni), africane (Pigmei della R.C.A., Ca-

merun e Zaire e Pigmei Twa), asia-tiche (Indiani non tribali, Nepalesi Sherpa e del Sikkim) e altre.

Le diverse ricerche hanno fatto

capo o sono state condotte a Pa-via, presso il Centro di Calcolo nell'Università Centrale e il Labora-torio di Genetica Umana dell’Istituto di Genetica in via S. Epifanio, dai gruppi "storici" di cui facevano parte Gianna Zei, anco-ra oggi una delle più strette colla-boratrici di Cavalli Sforza, Silvana Santachiara, Rosalba Guglielmino, Italo Barrai, ora Professore Emeri-to di Genetica presso l'Università di Ferrara, Laura Zonta, Paola Astolfi, Suresh Jayakar, allievo di J.B.S Haldane, prematuramente scom-parso,

All’era dei marcatori classici, es-

senzialmente proteine-enzimi e caratteri immunologici, negli studi di popolazioni degli anni Sessanta, è seguita l’era del DNA, che ha reso più puntuale e articolata l’analisi della diversità genetica e ha aperto nuove prospettive alla conoscenza della storia delle po-polazioni umane. Ciò è coinciso in larga parte con un cambio genera-zionale tra i ricercatori. Il testimone è stato passato ad Antonio Torroni e Ornella Semino, che continuano a dare contributi originali agli studi sulla diversità genetica delle popo-lazioni mediante analisi molecolari sul DNA, con particolare attenzio-ne a quello ereditato esclusiva-mente per via materna o paterna.

di LUIGI DE CARLI*

RAGAZZE BATWA IN BURUNDI

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Numero set tantotto - Giug no 2012 Pagina 13

Si ritiene spesso, a torto o a

ragione, che le province siano i luoghi ideali per ambientare film a sfondo intimistico e privato. La nostra provincia vanta in merito un discreto background: ha offerto più volte infatti le sue location a registi per lo più italiani, di diversa provenienza: da Al-berto Lattuada che proprio a Pavia negli Anni’50 ha girato il celeberrimo “Il cappotto”, ispirato al racconto di Gogol, demistificando i valori della burocrazia borghese cittadi-na, a Giuseppe De Santis che fuori città qualche anno prima aveva ambientato alcune scene di “Riso Amaro”: a guerra da poco conclusa (1948) non fu facile per lui, regista di credo comunista, incontrare padroni disponibili a mettere a disposizione le loro risaie. Li ha trovati nel vercellese e in Lomellina, appunto. Portando sul luogo un cast di tutto rispetto: Silva-na Mangano, Vittorio Gas-sman e Doris Dowling. Ma non sono le uniche celebrità a essere approdate a Pavia: Marcello Mastroianni ha pas-seggiato per via Porta, giran-do le indimenticabili scene di “Fantasma d’amore” di Dino Risi, ispirato a un racconto di Mino Milani. E sempre lui, a Bereguardo, ha recitato a fianco di Sophia Loren nei “Girasoli”, il melodramma intimistico di Vittorio De Sica ambientato durante e dopo la seconda guerra mondiale. Angoli prediletti, oltre alle vie del centro, sono stati gli argini del Ticino e l’università: qui in anni più recenti (1988) sono passati Fanny Ardant, Valeria Golino e Sergio Castellitto. E Monicelli che sette anni dopo ha riunito un cast d’eccezione: Margherita Buy, Moni Ovadia, Lello Arena e Philippe Noiret in “Facciamo paradiso”. Alla pari di metro-poli come Roma, Napoli e Milano anche Pavia inoltre ha il suo poliziesco Anni ’70 con tanto di sparatorie nelle vici-nanze del Castello Visconteo e inseguimenti per le vie della città: “Squadra volante”. I fan hanno messo in luce la pre-senza non troppo mascherata di Annabella, sponsor del film, che non caso inizia proprio all’interno della pellicceria. Ma ça va san dire: gli sponsor erano un marchio di fabbrica imprescindibile di quasi tutti i polizieschi, girati spesso con mezzi di fortuna e budget ridotti.

Ecco una panoramica dei

principali film ambientati nella nostra provincia.

RISO AMARO

Italia, 1949. Bianco e nero. Durata 100 minuti. Regia Giuseppe De Santis. Con Silvana Mangano, Vittorio Gassman, Doris Dowling, Raf Vallone, Checco Rissone, Nico Pepe, Adriana Sivieri, Carlo Mazzarella. Ambientato per lo più nel Ver-cellese, il film capolavoro

neorealista di De Santis, ha alcune sequenze girate nelle risaie della Lomellina. Rac-conta di Francesca (Doris Dowling), cameriera in un albergo, che su consiglio di Walter (Vittorio Gassman) ruba una collana e poi si na-sconde tra le donne in parten-za per la raccolta del riso. Il suo amante corteggia poi la mondina (Silvana Mangano) che a sua volta ha derubato Francesca del gioiello - intan-to rivelatosi falso. Per rifarsi decidono di impossessarsi del riso accumulato nei magazzi-ni e allagano le risaie, nella speranza di distrarre l’attenzione del personale. Ma il piano si conclude tragica-mente.

IL CAPPOTTO

Italia, 1952. Bianco e nero. Durata 95 minuti. Regia Alberto Lattuada. Con Renato Rascel, Yvonne Sanson, Giulio Stival e Antonella Lualdi. Sullo sfondo di una Pavia Anni ’30 una rievocazione del “Cappotto”, uno dei più cele-bri “Racconti di Pietroburgo” di Gogol. Il modesto impiega-

to Carmine De Carmine (Renato Rascel) ha un sogno: farsi fare un cappotto di sarto-ria. Quando finalmente, con un espediente, è in grado di acquistarlo, eccitato e semiu-briaco per i festeggiamenti per il Capodanno, ne viene derubato in una memorabile sequenza girata proprio sul Ponte vecchio. Vagherà fino all’alba morendo poi di freddo e dolore. Ma le disavventure continueranno anche dando vita a situazioni tragicomiche che coinvolgono l’intera città Pavia.

SOGNI NEL CASSETTO

Italia, 1956. Bianco e nero. Durata 106 minuti. Regia Renato Castellani. Con Lea Massari, Enrico Pagani, Cosetta Greco, Lilla Brignone, Sergio Tofano. Sullo sfondo di una Pavia Anni ’50 un giovane medico (Enrico Pagani), onesto e anticonformista, sposa la ra-gazza che ama (Lea Massa-ri), studentessa di chimica, contro il volere dei genitori della ragazza. Lui si laurea ma, proprio mentre assiste

una partoriente, Lucia muore di parto. Al destino tragico lui risponderà scegliendo di vive-re con il figlio nella famiglia dei genitori di Lucia.

I GIRASOLI

Italia, 1970. Colore. Durata 107 minuti. Regia Vittorio De Sica. Con Sophia Loren e Marcello Mastroianni. Ambientato in parte nelle campagne vicino a Bereguar-do, a Boscaccio, il film rac-conta la storia di Giovanna (Sophia Loren) che scopre che il marito Antonio (Marcello Mastroianni), dato per disperso in Russia, è vivo e si è rifatto una vita in Unio-ne Sovietica. I due riusciran-no a incontrarsi, ma i loro destini sono ormai diversi. Il Ticino è protagonista delle scene iniziali, che mostrano anche un sensazionale bom-bardamento del ponte delle barche di Bereguardo durante un’incursione aerea.

SQUADRA VOLANTE

Italia, 1974. Colore. Durata 92 minuti.

Regia Stelvio Massi. Con Mario Carotenuto, Stefania Casini, Gastone Moschin, Tomas Milian, Enzo Andronico, Raymond Lovelock, Luca Sportelli, Carla Mancini, Guido Leontini. Un noir poliziesco insolita-mente ambientato a Pavia. Protagonista un marsigliese (Gastone Moschin) a capo di una banda su cui indaga l'i-spettore della Interpol Ravelli (Tomas Milian): da un esame balistico, scopre che è proprio lui che cinque anni prima ha ucciso la moglie. Inizia una lenta e inesorabile vendetta che ripropone tutti i clichè del genere: dalle indagini nei luoghi della malavita alle fu-ghe a rotta di collo per i vicoli della città.

FANTASMA D’AMORE

Italia/Francia/RTF, 1981. Colore. Durata 96 minuti. Regia Dino Risi. Con Marcello Mastroianni, Romy Schneider, Eva Maria Meinecke, Victoria Zinny.

Ispirato all’omonimo romanzo di Mino Milani il film racconta con tonalità drammatiche, il surreale ritorno di un amore: Anna (Romy Schneider) mor-ta in seguito a una malattia, compare su un autobus (in Borgo Calvenzano). E poi nelle nebbie intorno a Pavia, risvegliando l’antica passione nel maturo commercialista Nino (Marcello Mastroianni) che dopo averla rivista in altre insolite occasioni se ne mette alla ricerca scoprendo che la donna è in realtà un fanta-sma, una proiezione della memoria. Un tentativo di goti-co all’italiana con musiche di Riz Ortolani.

PAURA E AMORE

Italia, RFT, Francia, 1988. Colore. Durata 113 minuti. Regia Margarethe von Trotta. Con Fanny Ardant, Greta Sacchi, Valeria Golino, Sergio Castellitto, Paolo Hendel, Agnes Soral, Guido Alberti, Peter Simonschek. Liberamente ispirato alle “Tre sorelle” di Checov con dialo-ghi scritti a quattro mani con Dacia Maraini, il film è un dramma sentimentale che racconta la storia di tre sorelle pavesi: la professoressa uni-versitaria Velia (Fanny Ardant) si innamora di un uomo spo-sato, uno scienziato che però la tradirà con Maria (Greta Sacchi), l’ingenua sorella, mentre un incidente del fidan-zato cancellerà le speranze di matrimonio della terza, la gio-vane Sandra (Valeria Golino). Non meno sfortunato il fratello Roberto che sposa una donna volgare ed egoista che lo co-stringe ad abbandonare il vio-lino per lavorare in banca con il cui direttore sospetta la mo-glie lo tradisca.

Facciamo PARADISO

Italia, Francia 1995. Colori. Durata 108 minuti. Regia Mario Monicelli Con Margherita Buy, Lello Arena, Aurore Clément, Philippe Noiret, Moni Ovadia, Dario Cassini, Mattia Sbragia, Gianfelice Imparato. Film amaro ispirato a un rac-conto tratto da “Vite di uomini non illustri” di Giuseppe Pon-tiggia. Pavia è sullo sfondo, compare in una sequenza: l’occupazione dell’università statale di Milano, girata in realtà a Pavia. Monicelli mette in scena la vita di un’immaginaria Claudia Ber-telli (Margherita Buy) nata a Milano nel 1949 da genitori borghesi (Philippe Noiret e Aurore Clément), educata in Inghilterra, ribelle contestatri-ce e disinibita, ragazza madre, femminista e infine moglie. La donna si separa con il denaro ereditato alla morte del padre realizza un progetto umanita-rio in Africa, poi fonda una comunità new age, per con-cludere dopo diverse avversità la sua vita nel 2011.

Ricerca iconografica a cura di Pinca-Manidi/Pavia Fotografia

di GIULIANA ROTONDI

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Pagina 14 Numer o settan to tto - Giug no 2012

“Tra scienza, coscienza e

conoscenza", così s’intitola il ciclo di incontri che il Collegio degli Ingegneri e Architetti della Provincia

di Pavia ha in programma

presso la libreria Feltrinelli di via XX Settembre. La serie di appuntamenti proseguirà dopo la pausa estiva nel corso di tutto il prossimo autunno. La for-

mula è quella leggera de-gli incontri tipo "caffè scientifico", cioè di appro-fondimenti su specifiche tematiche scientifiche di particolare interesse o attualità, ognuna delle

quali verrà presentata e trattata da un esperto in materia, spesso identifica-to da un docente della nostra Università.

Le differenze, rispetto a

una tradizionale conferen-za o lezione accademica, consistono soprattutto nei modi e nel luogo. I modi sono, infatti, quelli della conversazione amichevo-

le, la più adatta per piace-voli occasioni di incontri informali e volti unica-mente a sviluppare inte-resse, conoscenza e con-sapevolezza per le diverse tematiche trattate. E ad

offrire, nel groviglio infinito di rotte cittadine, un punto

di sosta, lo spazio per una ricca serie di argomenti scientifici da affrontare in compagnia di persone esper-te. Un'offerta rivolta a chiun-

que passi o sia interessato: non occorrono infatti né invi-ti né iscrizioni e gli incontri sono aperti a tutti.

Quanto al luogo, anch'esso

è invitante e informale come solo una libreria sa esserlo, a maggior ragione se ravvi-vata, oltreché dai colori (e dal profumo) delle migliaia

di libri esposti, dalla bellissi-ma pala dell’altare dell'anti-ca chiesa di San Rocco, che qui sorgeva. L'affresco è riapparso dopo lo smantel-

lamento del vecchio cinema Roma. Al centro raffigura

una Madonna in gloria con alle spalle la veduta di Pavia e a destra San Rocco con il suo cagnolino che gli reca la pagnotta. Dunque, prima

chiesa, poi cinema e ora li-breria: viene quasi da pen-sare che il destino del civico 21 di via XX Settembre sia determinato da una spiccata

vocazione pubblica nella vita della città. Il che, a ben pen-

sarci, è intento affine a quello in cui si colloca quest'interessante operazio-ne culturale del Collegio degli Ingegneri e Architetti:

nella città e per la città.

Il primo di questi incontri

(nella foto) si è tenuto lo scorso giovedì 17 maggio,

dalle 17.30 alle 19.00 (che sarà l'ora consueta di tutti gli appuntamenti in programma). La pre-sentazione del professor Ferdinando Auric-

chio, Direttore del Di-

partimento di Ingegne-ria Civile e Architettura dell'ateneo pavese, ha illustrato le sorpren-denti proprietà di alcuni materiali innovativi

massi a punto dalla moderna ingegneria. I quali, peraltro, possono trovare un prezioso impiego in molti ambiti, come le scienze biome-diche o, ancor più di-

stintamente, la chirur-gia vascolare. È il caso, ad esempio, dei cosid-detti materiali a memo-ria di forma, una parti-colare classe di leghe metalliche in grado di

presentare a livello ma-croscopico comporta-menti inusuali, come la capacità di subire de-formazioni permanen-ti”, per poi tornare alla

forma primitiva con una semplice sommini-strazione di calore. Queste proprietà si prestano a molte appli-cazioni in più settori, e rappresentano anche

una palestra, una sfida con-tinua, per giovani ingegneri

con idee brillanti.

Una presentazione snella e

leggera che ha indubbia-mente rafforzato la convin-

zione secondo cui ogni argo-mento, anche il più difficile, può essere reso fruibile da chiunque, se introdotto con semplicità e chiarezza.

Incontri organizzati dal Collegio degli Ingegneri e Architetti della Provincia di Pavia

Il Gruppo di studio di neuroteoretica e teorie

della mente è una unità di ricerca costituitasi nell’anno 2009 presso l’Istituto Neurologico “Mondino”. L’attività del gruppo è volta, sul piano teorico, sia a elaborare nuovi criteri e modelli di interpretazione del rapporto mente/cervello, sia a valutare l’impatto delle scoperte nel campo delle neuroscienze sulla epistemologia delle scienze umane. Esso lavora in parallelo con il Brain Connectivity Center, il cui ambito di ricerca è volto a ripro-durre, con il sussidio di strumenti informatici e matematici, la fitta complessità del sistema cerebrale.

La costituzione di queste unità risponde a

sollecitazioni provenienti dal mondo scientifico che vede le neuroscienze proporsi come luogo di aggregazione di attività multidisciplinari. Grazie all’impiego di nuove tecnologie di inda-gine non invasive, possiamo osservare cosa accade dentro questa “scatola magica” quan-do pensiamo, proviamo emozioni di gioia o di dolore, operiamo una scelta, eccetera. Miliardi di led si accendono e spengono, come un fir-mamento di stelle, formando disegni e configu-razioni sempre diverse. Queste costellazioni sono il ritratto dei nostri stati soggettivi ripro-dotti sulla tela cerebrale: una tela cerebrale che può a sua volta essere tradotta in una rete digitale, in algoritmi eseguibili da un software.

Il fatto che ci sia data l’opportunità di compiere

questo tipo di trascrizione - a cui lavorano i costruttori di reti neuronali - non autorizza affatto a considerare il cervello come un tipo di computer, pur di avanzatissima generazione. Una distinzione importante! Un’interpretazione di questo tipo costituirebbe un’interpolazione ideologica, ossia una teorizzazione di natura “filosofica”.

Questo rilievo ha la sua importanza perché ci

mostra, in una battuta, quanto imponderabile sia il terreno di scivolamento che confonde scienza e ideologia. Proprio per questo, ritor-nando a considerare il ruolo del Gruppo di Neuroteoretica, si dimostra indispensabile, in un concerto di sviluppo della ricerca scientifica, la presenza di una costante riflessione critica sulle proiezioni ideologiche che inevitabilmente confondono gli orizzonti entro i quali si nuove la scienza stessa.

Appare pertanto questo, oggi, uno dei princi-

pali punti di supporto della filosofia nel campo delle neuroscienze, le quali si trovano davanti a problemi teorici di formulazione di modelli e di organizzazione dei risultati, .

Di fronte alla complessità della macchina ce-

rebrale - complessità che va sempre più emer-gendo proprio nel corso delle esplorazioni del cervello - noi sperimentiamo tutta la precarietà e la povertà del nostro “comprendere”. Noi sperimentiamo l’inadeguatezza dei modelli, delle formule, del nostro stesso concetto di “sistema”; in sintesi: sperimentiamo il limite della nostra capacità rappresentativa.

Noi non riusciamo a capire non per difetto di

ragione, ma addirittura per difetto di immagina-zione. Sembra paradossale, ma esiste un pun-

to dove la scienza, per progredire, ha bisogno non solo della filosofia, ma anche dell’arte - della fantasia dell’artista e del sognatore. Filo-sofia e arte sono le potenze in grado di affron-tare le sedimentazioni ideologiche che sonnec-chiano dentro il sapere e di dissolverle, contri-buendo così a liberare la nostra immaginazio-ne. Il semplice dubbio filosofico, se mette in crisi le nostre concezioni del mondo e i lin-guaggi con cui catturiamo il mondo, sarebbe sterile senza l’immaginazione che subentra a produrre un mondo nuovo. Sono necessarie entrambe le cose: filosofia, arte e scienza de-vono ritornare a camminare insieme.

Come detto, proprio navigando sulle frontiere

aperte dalle neuroscienze, sembrano emerge-re, dure, le lacune della nostra capacità rap-presentativa. Non solo la questione secolare del rapporto mente/cervello, nonostante gli espedienti adottati e i proclami di vittoria, non ha compiuto molti passi avanti dopo Cartesio, ma anche nell’interpretazione dei processi cerebrali vediamo irrompere ovunque un lin-guaggio, una terminologia, che trasporta con sé visioni del mondo precostituite. Anche la complessa alchimia sinaptica infine viene i-scritta in un orizzonte di senso espresso dal motto “passaggio della informazione”. Noi ab-biamo dunque prelevato dalla teoria della co-

municazione del materiale ideologico - un “linguaggio” - utilizzandolo per “spiegare” il significato della sinapsi.

Per carità! Non intendiamo affatto sostenere

che questa spiegazione sia sbagliata! Abbia-mo solo voluto mostrare quale tipo di operazio-ne è stata compiuta. Si tratta di un’operazione ideologica. Nello stesso tempo, riconoscendo la provenienza ideologica delle nostre attribu-zioni, noi siamo autorizzati anche a dubitare che il fenomeno possa non essere stato com-piutamente interpretato. Siamo così chiamati a mettere sempre in dubbio le nostre visioni del mondo e a domandarci: “E se non fosse pro-prio cosi?”

È un interrogativo che riterremmo a pieno

titolo “filosofico”, per quanto la filosofia si è sempre distinta per avere gettato ombre di dubbio anche su ciò che appariva fin troppo ovvio. Le grandi rivoluzioni scientifiche sono sempre nate da grandi dubbi filosofici. Ciò è valso indubbiamente per le rivoluzioni epocali nella fisica che hanno infine dato via a nuove rappresentazioni dell’universo. Forse anche le neuroscienze - e perciò le scienze dell’uomo - si trovano nelle condizioni per affrontare una nuova grande rivoluzione.

di PIER GIUSEPPE MILANESI

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Numer o settan to tto - Giug no 2012 Pagina 15

FONDAZIONE SARTIRANA

ARTE

L'espressione un tempo

usata “vale un perù” ben si addice al combinato disposto di una triplice sinergia, inconsueta, tra altrettanti motori di ener-

gia collaborativa, quali si sono dimostrati l'Amba-sciata d'Italia, l'Istituto Italiano di Cultura e lo splendido Muse-o Pedro De O-sma che ha o-

spitato mostra e sfilata della no-stra collezione di gioielli. Orna-menti per il cor-po disegnati da grandi artisti

italiani, fusi nell'oro o nell'argento da pari maestri orafi.

Il contesto tra i più raffi-

nati ha dato rilievo ulte-riore agli oggetti in vetri-na, circondati da dipinti e sculture dell'arte peruvia-na "coloniale", del XVII e

XVIII secolo, nel palazzo

storico in Barranco, quar-tiere sulle rive del Pacifi-co, un tempo esclusiva sede delle vacanze della

buona società limegna. Prossimo a quelli di Mira-flores e San Isidro, quar-

tieri eleganti di ville e giardini, palazzi lussuosi, isole di qualità abitativa. Ben diverse dalla gran

parte del resto della immensa città, anonima e grigia, soffocata da un traffico infernale e av-

velenatore. Non ci sono infatti per i 14 milioni di abitanti servi-

zi di trasporto pubblico (un solo megabus chiama-to metropolitano, su un

unico percorso ...), ma tanti vecchi pullmini su tratte limitate. Ma tante, troppe auto.

Confronto stridente, co-

me spesso in Sudamerica,

tra grandi ricchezze e po-vertà abissali. Nei pochi momenti liberi ho visitato alcuni musei in città, qua-

si tutti gestiti da fondazio-ni private senza alcun contributo dallo stato.

Ma con quali strabilianti collezioni quelli dedicati alla cultura pre-ispanica! Ceramiche e tessuti, va-

sellame e ornamenti ritua-li in oro e argento, pietre dure, piume e conchiglie

... Da far impallidire i no-stri, testimonianza este-nuata di un vuoto quasi totale di valori comunica-tivi. Culture e civiltà plu-rali di almeno un paio di

millenni, distrutte dalla cattolicissima avidità fero-ce dei conquistadores. Che per dispetto della sor-

te - si trovarono le fanta-stiche strade degli Inca, lastricate e ben mantenu-

te con sistemi invidiabili per modernità e tecnologi-a, dall'Equador al Cile, da percorrere in un baleno.

Facilitazione mici-diale per i nativi che le avevano costruite con lo stesso spirito e fini della Grande Ro-

ma Imperiale. Bel risultato fu la rapi-dissima caduta dell’impero incaico con la progressiva cancel-lazione di un patrimonio di culture che gli scavi ar-

cheologici svelano con il proseguire recente delle ricerche e degli studi. Per la prima volta non sono tornato orgoglioso del contributo portato con

i nostri oggetti. Devo am-metterlo.

Ad essi abbiamo delegato

il compito di raccontare qualcosa della nostra i-dentità personale dentro il

gusto di un'epoca, persino affidandolo a firme insigni del tempo che viviamo. Duole dirlo ma la sensa-

zione è di aridità e impoverimento. Modestia, anche

nei vertici, dei pez-zi più belli, che sembrano balbet-tare, pur con lin-guaggio colto ed essenziale, se pa-ragonati alla ric-

chezza lessicale del racconto fatto dai pez-zi antichi. Evidentemente i loro autori, seppur in mo-do ripetitivo, avevano del-le cose da dire, informa-

zioni o messaggi da co-municare. Tant’è vero che anche oggi ci parlano di relazioni e valori, di con-

cezioni e visioni persino cosmologiche, favolistiche e affascinanti.

Che ci succede oggidì?

Quando a parlare di noi sono gli achrome di Man-

zoni, le strisce di Noland, le colonne di Brancusi. Dio mi perdoni, i tagli di Fon-tana … Interrogativi che

personalmente mi turba-no. Ma il fascino del de-sign made in Italy sembra tenga, non sia ancora sva-nito. Per questa volta ci è andata ancora bene, spe-

riamo che duri. Che non si alzi un fanciullo a dire che il re è nudo.

IMMAGINI DI LIMA.

A SINISTRA: PANORAMA DELLA CITTÀ DAL CERRO SAN CRISTOBAL. ACCANTO, IN ALTO: IL QUARTIERE BARRANCO DI NOTTE; IN BASSO:

IL QUARTIERE MIRAFLORES

Ovvero: Lima 2012, arte da indossare di GIORGIO FORNI

A SINISTRA, CASE COLONIALI AL BARRANCO DI LIMA. AL CENTRO, IL MUSEO PEDRO DE OSMA. A DESTRA, L’INTERNO DEL MUSEO

ACHROME DI MANZONI

STRISCE DI NOLAND

COLONNE

DI BRANCUSI TAGLI DI FONTANA

Page 16: ITAsocrate.apnetwork.it/blog/wp-content/uploads/2012/06/socrate78.pdf · Marta Ghezzi A PAGINA 7 *** SE PAVIA SALE SUL SET Giuliana Rotondi A PAGINA 13 La scienza in libreria Neuroscienze

Pagina 1 6 Numer o settan to tto - Giug no 2012

1928-2012

FRANCESCO GUCCINI

DIARIO DELLE COSE

PERDUTE

MONDADORI

C’era una volta …

già, cosa c’era una volta? Con un poco

di nostalgia, ma soprattutto con la po-

esia e l’ironia della sua prosa, France-

sco Guccini, cantautore, poeta, scritto-

re, posa il suo sguardo sornione su

oggetti, situazioni, emozioni di un pas-

sato che è di ciascuno di noi, ma che

rischia di andare perduto, sepolto nella

soffitta del tempo insieme al telefono

di bachelite e alla pompetta del Flit.

Una volta, c’era la banana: non il frut-

to amato dai bambini, bensì

l’acconciatura arrotolata che proprio i

bimbi subivano e detestavano ma che

veniva considerata imprescindibile dai

loro genitori. I quali, per bere un buon

espresso, dovevano entrare in un bar

e chiedere un “caffè caffè”, altrimenti

si sarebbero trovati a sorbire un caffè

d’orzo. Un viaggio nella vita di ieri che

si legge come un romanzo: per scopri-

re che l’archeologia “vicina” di noi

stessi ci commuove, ci diverte, parla di

come siamo diventati.

ALESSANDRO BARICCO

TRE VOLTE ALL’ALBA

FELTRINELLI

Nell’ultimo romanzo che ha scritto, Mr

Gwyn, si accenna a un certo punto a

un piccolo libro scritto da un angloin-

diano, Akash Narayan, e intitolato Tre

volte all’alba. Si tratta naturalmente di

un libro immaginario, ma nelle imma-

ginarie vicende là raccontate esso ri-

veste un ruolo tutt’altro che seconda-

rio. Il fatto è che mentre Baricco scri-

veva quelle pagine gli è venuta voglia

di scrivere anche quel piccolo libro, un

po’ per dare un lieve e lontano sequel

a Mr Gwyn e un po’

per il piacere puro di

inseguire una certa

idea che aveva in

testa. Così, racconta

Baricco, “finito Gwyn,

mi sono messo a scrivere Tre volte

all’alba, cosa che ho fatto con grande

diletto”. “Venga, le ho detto. Perché?

Guardi fuori, è già l’alba. E allora? E’

ora che lei torni a casa a dormire. Co-

sa c’entra che ora è? Sono mica una

bambina. Non è questione di ore, è

una questione di luce. Che cavolo di-

ce? È la luce giusta per tornare a casa,

è fatta apposta per quello. La luce?

Non c’è luce migliore per sentirsi puliti.

Andiamo”.

MASSIMO GRAMELLINI

FAI BEI SOGNI

LONGANESI

È la storia di un segreto celato in una

busta per quarant’anni. La storia di un

bambino, e poi di un adulto, che impa-

rerà ad affrontare il dolore più grande,

la perdita della mamma, e il mostro

più insidioso: il timore di vivere. Fai

bei sogni è dedicato a quelli che nella

vita hanno perso qualcosa. Un amore,

un lavoro, un tesoro. E rifiutandosi di

accettare la realtà, finiscono per smar-

rire sé stessi. Come il protagonista di

questo romanzo. Uno che cammina

sulle punte dei piedi e a testa bassa

perché il cielo lo spaventa, e anche la

terra. Fai bei sogni è soprattutto un

libro sulla verità e sulla paura di cono-

scerla. Immergendosi nella sofferenza

e superandola, ci ricorda come sia

sempre possibile buttarsi alle spalle la

sfiducia per andare al di là dei nostri

limiti. Massimo Gramellini ha raccolto

gli slanci e le ferite di una vita priva

del suo appiglio più solido. Una lotta

incessante contro la solitudine.


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