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MEMORIE DI LUNIGIANA - Adriana G. Hollett · origine e del loro passato e col fascino delle...

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Page 1: MEMORIE DI LUNIGIANA - Adriana G. Hollett · origine e del loro passato e col fascino delle leggende fiorite attorno ad essi. Molti di loro sono ormai scomparsi e di alcuni non restano

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MEMORIE DI LUNIGIANAdi

ADRIANA G. HOLLETT

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Foto e disegni di A. G. Hollett©

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Page 5: MEMORIE DI LUNIGIANA - Adriana G. Hollett · origine e del loro passato e col fascino delle leggende fiorite attorno ad essi. Molti di loro sono ormai scomparsi e di alcuni non restano

a mio marito Reginald

che condivide l’amore per la mia terra.

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Lunigiana, terra di luna...

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SULLE TRACCE DI MEMORIE PERDUTE

Le storie di Lunigiana raccolte e raccontate da Adriana Giorgi

Hollett, sono il frutto di una lunga e laboriosa indagine nei luoghi

della memoria che costellano questa antica “zona di confine”,

arroccata e chiusa tra Liguria e Toscana.

L’idea di questo lavoro, svolto sul doppio registro della

documentazione fotografica e della scrittura, è nato nell’ambito

del corso di “Teoria e metodo dei mass-media” dell’Accademia di

Belle Arti di Carrara, nell’anno accademico 1994-95.

Il tema monografico di quell’anno era infatti “Le forme visive

del racconto”: come si può raccontare una storia attraverso una

sequenza di immagini, nel cinema, nel video, nella fotografia sia

documentaristica che artistica.

Da questo tema Adriana Giorgi Hollett, iscritta al corso, ha

ricavato lo spunto e una metodologia operativa per dare un corpo

organico, visivo e letterario, alla sua passione per la terra di

Lunigiana e le sue storie. Non tanto le storie ufficiali, quelle che

sono depositate nei documenti noti e celebrate nella memoria

storica collettiva, quanto piuttosto le vicende individuali, donne

soprattutto, che hanno vissuto all’ombra di un quotidiano spesso

doloroso, quando non addirittura tragico, segnato dalla fatica o

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dalla costrizione.

L’autrice descrive con tono discreto e un linguaggio semplice

l’umiltà silenziosa che accomuna creature di epoche diverse, di

nobile lignaggio o semplici contadini, facendo trapelare il mistero

di anime, delle quali oggi non si trova neanche più una lapide,

solo pochi, scarsissimi, indizi nella trasmissione orale e che solo

l’immaginazione può ormai riempire.

Sullo sfondo, un paesaggio oscuro e difficile, che non conosce

la soavità delle colline toscane, la ricchezza dei vigneti e degli

uliveti, il calore di quel sole e l’accessibilità di quel mare.

Una terra i cui frutti sono conquistati con il sacrificio più duro

e dove la miseria è compagna di strada.

Il tempo stesso scorre attraverso i secoli consumando le tracce

del passato ma lasciando immutata la durezza del vivere.

Ne sono emblemi - accuratamente scelti dall’occhio fotografico

dell’autrice - le austere fortificazioni, i palazzi e i vicoli di pietra,

con gli archi bassi, le prospettive labirintiche, i contrasti taglienti

tra luce e ombra.

Questo percorso a ritroso sulle tracce di memorie perdute è

allora un modo per evocare con le parole e le immagini quelle voci

di cui è ancora pieno lo strano silenzio della terra di Lunigiana.

ANDREA BALZOLA

Docente di “Teoria e metodo dei Mass Media”

all’Accademia di Belle Arti di Carrara

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...SE NOVELLA VERA

DI VALDIMAGRA, O DI PARTE VICINA SAI,

DILLA A ME, CHE GIÀ GRANDE LÀ ERA

DANTE - Purg. VIII

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Cenni storici sulla Lunigiana

La Lunigiana è una regione

storicamente situata attorno

al bacino della Magra. Abitata

fin dal paleolitico da popolazioni

liguri-apuane, sentì dapprima

l’influenza della civiltà etrusca fino al

177 a.C., quando subì la colonizzazione

romana e da Luni, caposaldo importante

e centro principale, prese il nome. Alla

caduta dell’impero romano passò sotto i bizantini e, unita alla

parte orientale della Liguria, formò la Provincia maritima

italorum.

Cedette poi all’invasione longobarda e venne aggregata al

Ducato di Lucca. Tale aggregazione si mantenne anche sotto la

dominazione dei Franchi nell’ordinamento della marca

carolingia.

Oberto I, entrato in possesso della marca orientale ligure,

staccò la Lunigiana dalla Toscana (951) per unirla ai comitati di

Genova e Tortona. Quando i possedimenti Obertenghi si divisero

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in quattro rami, Malaspina, Estensi, Pallavicini e Massa, la

Lunigiana nel secolo XI dipese dai marchesi di Massa.

Il dominio obertengo nella regione venne contrastato dai

Vescovi di Luni che avevano già conseguito da Berengario (900),

Ottone I (961), Ottone II (963), autorizzazioni sulle zone più

ricche e popolose. Ai vescovi venne riconosciuto il diritto di

coniare moneta e giurisdizione oltre che sulla Lunigiana,

sull’appennino parmense, sulle valli del Frigido e del Serchio,

sulle isole Capraia, Gorgona, Palmaria e Tino. Questi loro diritti

temporali, esercitati sin dall’inizio del secolo, furono sanciti

ufficialmente nel 1185 da Federico I.

A seguito di ciò, si acuirono i contrasti con i Malaspina,

finchè nel 1288 il vescovo

Gualtieri decise di spostare la

propria sede a Sarzana e ai

Malaspina venne riconosciuta

larga influenza su tutta la

Lunigiana. Nei secoli successivi,

XIII e XIV, si aggravò la crisi

dell’autorità politica dei vescovi e

a trarne beneficio furono le

numerose, seppur frazionate,

signorie malaspiniane.

Castruccio Castracani nel I322

tentò, senza successo, di unificare

la regione sotto un unico dominio politico, così pure Spinetta

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Malaspina attorno al I334 , finchè nel secolo XV si definì una

spartizione della Lunigiana tra i più forti stati confinanti: Milano

asservì il pontremolese, Genova giunse fin oltre la Magra a

Sarzana e Firenze ebbe Fivizzano, Bagnone e Castiglione del

Terziero.

Questa terra, pur essendo stata

frazionata e associata a molteplici

stati confinanti, conservò sempre

una identità propria e in ogni

borgo, in ogni paese rimasero usi e

costumi pressochè identici. Questa

terra verde di boschi come poche

altre, costituita in maggior parte da

zone collinari, si estendeva

dall’appennino sino al mare.

Durante la dominazione

malaspiniana venne divisa, seguendo il corso della Magra, in

Spino Secco alla sinistra e Spino Fiorito alla destra del fiume

stesso.

Sulle colline, sui dorsali selvosi, si creò un rosario di piccoli

paesi e solitarie pievi. Sulle alture e sui valichi, oltre

quattrocento tra castellari, torri e castelli sorsero a difesa del

piccolo territorio.

Di loro più che le vecchie carte, risparmiate dal tempo,

parlano ancora, con la voce dei secoli che li videro sorgere, le

costruzioni turrite su cui è passata l’ombra della storia.

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Dovunque, allo sbocco delle valli, alla confluenza dei fiumi o

lungo antichi percorsi, si levano ancora con la fierezza della loro

origine e del loro passato e col fascino delle leggende fiorite

attorno ad essi.

Molti di loro sono ormai scomparsi e di alcuni non restano

più che informi rovine, altri, rimaneggiati ad abitazioni private,

hanno perduto l’aspetto e la loro struttura antica; solo qualcuno

conserva ancora la massiccia solidità del tempo lontano con le

salde mura sostenute da barbacani o da speroni a sghembo a

difendere dall’alto le piccole umili case raggruppate ai suoi

piedi.

Solitarie torri mostrano i gravi danni del tempo e le belle case

torri, i borghi dai portali scolpiti, le piccole maestà ai crocevia

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delle mulattiere, oltre al degrado dovuto al tempo, mostrano

spesso gli insulti dell’uomo. Le belle pietre squadrate, gli

architravi modanati, i selciati

intelligentemente ideati per il

defluire delle acque sono stati, in

alcuni luoghi, indecentemente

ricoperti di cemento, così come gli

intonaci colorati hanno fatto

scomparire bellissime architetture

di pietra.

Il visitatore che percorre le

strette strade di Lunigiana, davanti

a quelle vecchie pietre, segnate dai

secoli, che conobbero storie di

terrore e di sangue, sogni di gloria e

prevaricazioni, prepotenze e umiltà, fatiche e speranze, dolci

episodi d’amore e poesia, si sente afferrare dal fascino delle

memorie che risorgono dalla lontananza con la preziosità delle

cose scomparse; ad ogni scorcio di panorama può trovare un

piccolo agglomerato di case, ora sulla sommità della collina ora

sulla sponda di un torrente; il primo mostra ancora

orgogliosamente i ruderi di un mastio o di una torre, e più spesso

quelli di un castello. L’edera avviluppa quelle antiche pietre, le

oltraggia e le sorregge. Ovunque finestre, come orbite vuote,

guardano il cielo attraverso i fitti rami dei rovi. Antichi cancelli,

dove la mano dell’uomo ha creato opere irripetibili, sembrano

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pendere esanimi dai cardini. Dai portali fatiscenti questi può

intravvedere giardini interni dove le palme svettano ancora tra

l’intrico disordinato del sottobosco che spesso ha cancellato

anche i vialetti e ricoperto le fontane. Sparsi sul territorio gli

ordini monastici hanno lasciato

nei secoli il loro segno: i Serviti,

gli Agostiniani, le Clarisse: i loro

conventi sono ancora ben

evidenti anche se spesso,

rimaneggiati a residenze private,

sono in completo abbandono; nei

chiostri interni gli uccelli

nidificano tra le volte e le acque piovane cadono in rivoli dai

coppi del tetto. Le alte finestre delle chiesette e delle pievi

mostrano, dai piccoli vetri rotti, i soffitti voltati e spesso

riammodernati con stili successivi.

Mentre percorre la Lunigiana, attraversando borghi e resti di

ruderi, il visitatore è pervaso da una suggestione strana. Nel

grande silenzio che regna ancora in questi piccoli paesi poco

raggiungibili e spesso del tutto deserti, negli stretti vicoli, in ogni

luogo dove l’occhio si posa può leggere i segni del tempo.

Osservando i castelli, le ville o le piccole case, il viandante non

può non avvertire la prepotenza dei primi, l’agiatezza nei

giardini delle ville e la disperata miseria nelle povere casupole.

Ovunque può trovare portali, stemmi, testine apotropaiche a

guardia dei morti nei cimiteri, protomi d’angelo o di demoni sui

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portali delle case posti a protezione dalle forze demoniache o dal

malocchio, monogrammi di famiglie scomparse anche dal

ricordo oltrechè dall’anagrafe, antichi stemmi araldici di casati

lombardi e fiorentini e molto più

frequentemente il cartiglio INRJ a

testimoniare la presenza di una

canonica, o una croce anche se inusuale

e strana.

Tutt’attorno la campagna

abbandonata mostra un intrico di alberi

aggrediti da liane rampicanti e piante

parassite, mentre il fitto sottobosco

impedisce la vista e ancor più il

passaggio dell’uomo. Chi si addentra

in questo strano mondo incantato

può ancora vedere il piccolo capriolo

che fugge e poi si ferma per

riguardare, così, come ai lati dei

sentieri, la sera, si trovano cinghiali

grufolanti, piccole volpi e grossi

rospi. I rami adunchi dei rovi

pendono sotto il carico delle more

assieme a quelli della rosa canina e

nei campi abbandonati vecchi alberi danno ancora qualche

frutto. Ma trova la meraviglia della natura incontaminata nei

fiori; specie quasi ovunque scomparse ammantano la Lunigiana

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in primavera: il croco azzurro che cerca di farsi strada tra le

foglie secche e i ricci delle castagne, poi primule, violette,

ciclamini e qualche piccola orchidea selvatica nei prati che

ancora rosseggiano di papaveri.

In questo contesto di luoghi, rimasti quasi inalterati, è stato

ancora possibile rievocare, anche attraverso le immagini, le

vicende umane di un tempo.

In quei borghi sulle alture,

costruiti con architetture

circolari e archi di contrasto

allacciati quasi sempre al

castello o alle fortificazioni e

negli stretti passaggi rettilinei

tra le case nelle cittadelle

fortificate di pianura, nelle

piccole aperture, difese da

poderose grate, dove oltre al

nemico non potevano entrare

nemmeno i raggi del sole,

rivivono piccole storie

quotidiane, in un contesto di usanze e di avvenimenti che nulla

hanno avuto a che fare con le mischie feroci tra turriti castelli e

ferrei signori della Lunigiana feudale, di cui molti hanno parlato.

In quelle povere dimore sembrano prender forma le ombre di

umili creature vissute in un contesto di grande miseria, di dure

fatiche quotidiane, di dolore, di rassegnazione e spesso

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Genoveffa e Anselmo Santini

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disperazione, che hanno segnato quell’epoca. Rivivono così la

modestia di Luisita, la dignità di Erina, la disperazione di

Margherita, la rassegnazione di Zefra, la saggezza di Paulo e

l’umiltà di tanta povera gente ormai scomparsa, di cui non si

ritrova alcuna traccia scritta e che trovo doveroso ricordare.

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LUISITA

Pi a Caterina, detta Luisita, questo è il nome dell’ultima

Mazzini, nasce in Liguria ma viene subito portata a

Castiglione del Terziero nella casa degli avi paterni,

sulla collina all’Annunziata, e lì trascorre l’infanzia. Nella prima

giovinezza, accompagnata dai genitori, va a Firenze per

frequentare l’Accademia di Belle Arti, appena istituita,

distinguendosi subito per le sue doti di pittrice forte e gentile.

Tutto ciò era da considerarsi disdicevole per una signorina di

buona famiglia che durante le lezioni avrebbe visto posare i

modelli nudi, ma lei non parve scandalizzarsi più di tanto.

Rientrata alla S.S. Annunziata, Pia Caterina, aveva aperto il

suo studio sulla terrazza panoramica della casa e,

quotidianamente, aveva ritratto il mondo che la circondava.

Nelle sue tele rivivevano i colori della Lunigiana: il verde cupo

dei boschi, quello chiaro dei germogli, le foglie arrossate delle

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vigne e quello argenteo degli ulivi, i suoi contadini al lavoro, “il

ritorno dai campi”, “ l’idillio autunnale ”, “ il primo frutto”.

Ma era nei colori del cielo che la sua pittura si esaltava.

I tramonti di Lunigiana hanno colori inusuali: l’azzurro si

fonde col rosa e scolora nell’oro del sole quando lungo tutto il

crinale degli Appennini, nel violazzurro delle vallate si stendono

le prime ombre della sera.

Aveva nella pittura un tocco forte, seppur delicato, come del

resto era la sua stessa persona: una figura piccola e minuta, i

capelli candidi, raccolti morbidamente dietro la nuca come di

costume alle donne di Lunigiana, incorniciano un volto non bello

ma fine e severo, il sorriso accompagna una voce garbata.

Prima e unica dichiarata “ Signora di Lunigiana” nell’anno

1990, non porta mai gioielli e veste sempre abiti sobri.

Amava molto la sua casa dalla quale si distaccava

malvolentieri. Questa era stata ricavata dalla ristrutturazione

dell’antico convento dei Serviti che giunti al Terziero con la

dominazione fiorentina, rientrando a monte Senario avevano

rivenduto i sedici poderi e l‘intera proprietà al governatore del

capitanato di giustizia Raffaello Mazzini, il quale, inviato dalla

repubblica fiorentina, non volendo abitare il castello aveva

creato nel convento una residenza considerata la più elegante e

meglio arredata di Lunigiana.

Da un doppio ordine d’archi in pietra una scala portava al

grande salone al centro del quale troneggiava un gran tavolo; un

armadio monumentale era collocato tra le due porte finestra che

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davano sulla terrazza panoramica dalla quale si dominava il

castello e la valle.

Ai quattro lati del salone si aprivano le porte di accesso al

salotto, alla sala da pranzo e alle altre stanze.

Nel salotto le specchiere settecentesche illuminavano divani e

poltrone dalle coperture un poco consunte, così come i tendaggi

apparivano molto sbiaditi.

In una pregevole cornice cinquecentesca una Maddalena

bambina sorrideva illuminata dalla luna.

Le cucine, di cui una con un grande camino in cui si poteva

entrare in piedi, erano molto ben attrezzate come si conviene ad

una comunità quale era stata ed intelligentemente il nuovo

proprietario non aveva voluto modificare.

I mobili della casa erano veramente ricchi e soprattutto le

pareti erano interamente ricoperte di pregevoli quadri.

La famiglia possedeva ricchi gioielli ma Pia Caterina non ebbe

mai ad indossarli.

La madre soleva acquistare abbigliamento e biancheria dai

cataloghi delle case di moda per cui ogni anno veniva

convenientemente informata dell’arrivo di nuovi modelli

parigini dalle più rinomate sartorie, ma Pia Caterina, priva di

vanità e ricca di modestia, non se ne era mai curata.

Il visitatore era con lei sempre a proprio agio; Pia Caterina

sapeva ascoltare, consigliare, confortare. Aveva uno sguardo

attento e intelligente e con gli anni aveva assunto pazienza e

sopportazione.

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Nella sua lontana giovinezza, Pia Caterina, aveva ceduto quasi

passivamente al buon matrimonio, come era di consuetudine. Il

marito, medico, di nobile famiglia genovese, proprietario di ville

e possedimenti, l’aveva lasciata presto vedova con un figlio.

Assennata e modesta, avrebbe conservato intatto per lui il

patrimonio familiare e ne avrebbe fatto un medico come lo erano

stati prima di lui il padre e il nonno nella tradizione della

famiglia.

Pia Caterina, nel lungo scorrere degli anni, aveva preso

l’abitudine di sedere in una poltrona del salotto e lì, come prima

di lei la nonna e poi la madre, soleva restare assorta a lungo e

con gli occhi chiusi. Di natura riservata non aveva mai rivelato

quali fossero i suoi pensieri. Nella sua grande modestia non

aveva raccontato mai delle splendide bambole di porcellana

possedute, delle sue vacanze al mare di bambina ricca, dei premi

e riconoscimenti avuti per la sua pittura e tantomeno del “ felice

notte signoria” che contadini e servitù le rivolgevano ogni sera.

Accennava talvolta ai suoi amici scultori, ormai celebri e

morti, ai suoi professori dell’Accademia che, ospiti alla

S.S.Annunziata, avevano ritratto i suoi genitori. La sua passata

esperienza di insegnante e preside era testimoniata dalle visite

dei suoi ex allievi divenuti ormai uomini adulti e maturi.

La generosità con la quale, in periodi difficili anche per lei,

aveva provveduto ad un piatto di minestra per i poveri le era

valsa stima e riconoscenza.

Il suo pensiero, nel volger del tempo, era andato sempre più

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spesso ai suoi cari ormai tutti sepolti nella grande tomba di

famiglia; solamente il padre era stato inumato nella loro chiesa

vicino all’acquasantiera e lì, ogni giorno, Pia Caterina Luisita,

dopo aver pregato la sua Madonna miracolosa, era andata ad

inginocchiarsi restando alcuni minuti in devoto colloquio filiale.

Le stagioni si avvicendavano e con lo scorrere degli anni ella

aveva smesso di dipingere; si avvicinava il suo compiersi del

secolo nella quiete di quella casa ricca di ricordi, arredi e

modestia.

Al tramonto, nei pomeriggi estivi, soleva sedere a lungo sulla

terrazza panoramica a riguardare il tramonto del sole e mentre il

suo sguardo spaziava sui dorsali appenninici, che scoloravano

nel viola, esprimeva tutto l’amore per la sua terra chiedendo di

essere sepolta nel piccolo cimitero del paese accanto al fratellino

morto un secolo prima.

Luisita, oggi, non siede più sulla terrazza dove aveva atteso lo

spegnersi del giorno e della sua vita, così come non esiste più il

salotto un poco stinto e la poltrona nella quale soleva rimanere

assorta nei suoi reconditi pensieri.

L’ombra della storia, scorrendo sotto le oscure volte dove si

dice che ancor oggi risuonino delle litanie dei Serviti, ha

cancellato, una dopo l’altra, le figure delle creature che lì hanno

vissuto.

La grande casa e i poderi sono stati venduti e nuove storie si

avvicenderanno dentro quelle antiche mura sulle quali la minuta

e forte Luisita volle farvi affiggere la scritta “ casa Mazzini ” nel

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ricordo devoto del padre che, inumato davanti all’acquasantiera,

nessuno mai potrà più disseppellire.

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ERINA

Il sole aggirava ormai la massiccia mole del castello sulla

collina. Le bifore orlate di bianco risaltavano sul grigio

scuro delle antiche pietre. Il piccolo cimitero, in basso, era

ormai immerso nell’ombra. Il silenzio avvolgeva la campagna e i

boschi lontani. Dall’arco, nei contrafforti, la stradina di accesso

al paese scendeva ripidamente a valle. In tempi ormai remoti,

una donna, Erina, giunta sposa al paese, aveva risalito la ripida

strada per raggiungere la sua nuova casa situata all’ombra del

castello.

Poco prima, passando davanti alla chiesa della S.S.

Annunziata, si era fermata un attimo a guardare, dalla piccola

finestra munita di grata, la dolce immagine della Madonna

miracolosa e un senso di pace e di serenità l’aveva pervasa. Aveva

sussurrato una breve preghiera e, svelta, aveva seguito il marito

verso la strada di casa. Erina, entrando per l’arco nell’ombra

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delle mura, aveva avvertito un certo senso di malessere nel

sentirsi nascostamente osservata. Sapeva che dietro i vetri delle

piccole finestre innumerevoli occhi stavano spiando incuriositi

la sposa che veniva da fuori.

Il suo promesso l’aveva raggiunta al paese dove il suo parroco

li aveva uniti in matrimonio e dopo una modesta festa alla

presenza di pochi amici, aveva seguito il suo uomo…

A metà del vicolo si era trovata improvvisamente davanti al

portone di una bella casa, in pietra intonacata, con finestre

regolari e stipiti scolpiti. Un ricco portale, anch’esso di pietra

tagliata a punte di diamante, incorniciava un robusto portone di

legno.

Gli architravi delle finestre erano in pietra scolpita. Una scala

in ferro battuto portava alla grande sala del primo piano che era

arredata con mobili solidi e lucidi. Nella sua camera c’era un bel

letto con incrostazioni di madreperla, due comodini, un comò e

un baule nel quale aveva riposto il corredo. Da questo aveva tolto

il copriletto di picchè bianco e le lenzuola tessute a mano coi

quali aveva subito preparato il suo letto nuziale.

Nella sua nuova casa Erina non aveva trovato i famigliari del

marito che erano morti da tempo e così la casa le era sembrata

molto grande e vuota. Si era consolata pensando che una

numerosa prole avrebbe riempito le molte stanze vuote. Ogni

mattina aveva pulito la casa, preparato il desinare e rigovernato.

Ogni domenica, al suono della campana della messa, Erina aveva

portato in sacrestia gli ori per la chiesa e si era poi andata a

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sedere nella panca della sua famiglia, mentre il marito

raggiungeva gli uomini dietro l’altare. Finita la messa riprendeva

calice, patena e pisside e li riportava a casa nel cassetto del comò

assieme all’ostensorio e al resto dei paramenti.

La sua nuova famiglia era tra le più abbienti del paese e, oltre

a essere la proprietaria degli ori della parrocchia, era anche

depositaria di un altro lasciato: “ il pane dei poveri ”. Questo

significava che, da secoli, la famiglia doveva mettere fuori della

porta di casa una cesta di pane per i poveri ed Erina, ogni

settimana, aveva cotto il pane e l’aveva posto fuori dell’uscio di

casa.

Ogni notte aveva giaciuto a fianco del suo sposo nel letto di

ferro e di madreperla, ma, con gli anni, aveva perso prima la

speranza di diventare madre e poi il marito.

Erina era alta e sottile. I suoi capelli castani, quasi biondi,

erano raccolti morbidamente dietro la nuca. La sua andatura era

naturalmente elegante. Molto riservata, ma sorridente,

rispondeva sottovoce e brevemente.

I suoi occhi azzurri avevano un’espressione dolce e dignitosa.

I suoi abiti un pò lisi tradivano una lontana raffinatezza.

Nel paese le altre donne non l’avevano mai accettata perchè “

era di fuori” e dopo la morte del marito, come del resto prima, la

si vedeva uscire solo per andare nei campi o alla messa. Nessuno

l’invitava in veglia o l’andava a trovare a casa. La solitudine

l’attanagliava, ma Erina non cercava nessuno; viveva vestita di

nero e di dignità.

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Dalla sua casa, dietro le finestre con le tendine ricamate, il

suo sguardo spaziava sopra la catena dei monti lontani e quando

arrivava alle cime rosate delle Apuane si soffermava a ricreare,

dietro di esse, l’immagine della sua casa paterna. In quei

momenti i ricordi la sommergevano, ma anche la sorreggevano:

la chiesetta del suo paese, il profumo dell’incenso bruciato nel

turibolo, le violaciocche sul muro dell’orto, la fiera del paese, il

ballo sotto la pergola, le serenate, i canti dei giovani nelle notti

d’estate, le prime gioie del cuore innamorato...

La sua felicità di giovane sposa era ormai un ricordo lontano.

Dentro quelle antiche mura, nell’ombra del castello, folate di

vento gelido le avevano spento il corpo e l’anima. La sera davanti

al camino acceso guardava le fiamme che, danzando, creavano

luci e ombre sulle pareti; silenziosi fantasmi testimoni della sua

solitudine. Mentre le mani sgranavano la corona, le sue labbra,

senza suono, recitavano il rosario.

Questo, interrotto da nuove folate di ricordi, veniva ripreso

più volte, finchè, occhi e mente cedevano lentamente alla

stanchezza ed Erina si assopiva. Il lume a olio sul camino

spandeva una luce talmente fioca che spesso Erina lo accendeva

solo per andare a letto.

Uno scalpiccio di passi sull’acciottolato talvolta la risvegliava;

era raro in quel paese quasi deserto sentire suoni di voci umane,

ma mai Erina aveva ceduto alla tentazione di scostare le tendine

od origliare poichè, educazione e dignità erano state compagne

alla solitudine della sua vita.

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Solo alla sua dolce amica, la Madonna miracolosa della

S.S.Annunziata, Erina confidava sempre i suoi pensieri.

Un tempo l’aveva lungamente pregata, Lei, miracolosa

Madonna del Parto, affinchè le concedesse la benedizione di un

figlio. Spesso, quasi ogni sera, tornando dal lavoro dei campi,

Erina si fermava alla chiesa del convento, posava il carico sul

muro della strada, si avvicinava alla finestrella e nella penombra

cercava il dolce volto dell’immagine santa come il giorno in cui

era giunta sposa e come allora si rinnovava in lei un senso di

protezione e di pace.

Nella chiesa del paese andava per il dovere impostole quale

custode degli ori, ma a quella della S.S. Annunziata si recava per

trovare conforto alla sua tetra solitudine.

Quando un giorno aveva sentito che era giunta ormai l’ora

della sua morte, Erina aveva rifatto il letto con cura, aveva steso

il copriletto di picchè bianco tessuto a mano, ultimo ricordo

tangibile della sua giovinezza, si era vestita con l’abito nero dei

dì di festa, la corona tra le mani, si era stesa sul pavimento della

cucina e invocando il nome della Dolce Amica si era coperto il

volto con un fazzoletto.

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MARGHERITA

In un passato molto antico le ombre della sera avevano già

imbrunito Castiglione del Terziero e la ripida stradina

acciottolata che portava all’arco del paese. Lo stemma dei

Malaspina dello ”Spino Fiorito” si intravvedeva appena quando

Margherita, avvolta in un ampio mantello, era scesa dal carro e

si era apprestata a salire al castello.

Correva l’anno 1288 e Alberto, figlio di Obizzino marchese di

Filattiera, le aveva offerto asilo e protezione. Il lungo viaggio

l’aveva stremata. Passando sotto l’arco di accesso al castello il suo

sguardo si era posato sullo stemma gentilizio dei Malaspina; una

rinnovata angoscia l’aveva riportata a quello della sua famiglia,

la fiera aquila, che in quei giorni veniva scalpellinata e distrutta

su ogni muro di Pisa mentre si spargeva sale sulle rovine della

sua casa.

Nella sua fuga, Margherita aveva trovato rifugio presso gli

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“Incappucciati dell’Assunta” al Duomo, e su quell’altare, grata,

aveva deposto la preziosa collana d’oro e ambra, dono di nozze

del marito; in seguito, non sentendosi più al sicuro in Pisa, aveva

accettato la mediazione e l’ospitalità di Manfredina, figlia di

Fiesca dei Fieschi e Alberto Malaspina, andata sposa a Bonduccio

della Gherardesca, figlio spurio del suo Ugolino, presso i signori

del Terziero in Lunigiana.

Margherita era nata “dei Pannocchieschi”, nobile famiglia

senese, e giovanissima era andata sposa a Ugolino della

Gherardesca, conte di Donoratico, proprietario di vasti feudi in

Maremma e in Sardegna.

La sua bella casa, allineata sul Lungarno tra quelle dei

Gambacorta e dei Lanfranchi, era stata presto allietata da

numerosa figliolanza. Le sue figlie erano già tutte accasate e

anzi, Gemma, moglie di Pietruccio da Lucca, si era offerta di

ospitarla nei possedimenti di Lucchesia, ma Margherita,

istintivamente, diffidando del genero, aveva rifiutato.

Correva l’anno 1288; l’autunno cedeva posto all’inverno.

Fredde folate di vento cominciavano a spazzare spalti e cortili del

castello del Terziero.

Margherita alzava gli occhi all’alta torre quadrata che

sovrastava il maniero e l’immagine della Torre della Muda si

sovrapponeva a questa.

La torre dei Gualandi, chiamata anche della Muda perchè vi

venivano rinchiuse le aquile del comune di Pisa al cambio delle

penne, l’orrenda torre racchiudeva nel profondo delle sue

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segrete il marito, i suoi figli, i suoi nipoti.

Avvolta dal vento e dall’angoscia aveva cercato di guardare,

dagli spalti, oltre l’ampia vallata della Magra e, seminascosta

ormai dalle brume invernali, a oriente, la catena degli

Appennini, imbiancati dalla neve, dietro i quali si stendeva la

piana con la sua città.

Correva l’anno 1288; i giovani pisani, dopo quattro lunghi

anni, erano rientrati dalle galere genovesi nelle quali erano stati

rinchiusi dopo la battaglia della Meloria. Molti di loro non erano

tornati, perchè, per la legge del contrappasso, quando i riscatti

non venivano pagati, i prigionieri erano destinati a morire di

fame.

Margherita sapeva; era stato il suo sposo, il conte Ugolino, ad

accettare la sfida dei Genovesi alla Meloria, sicuro della vittoria,

perchè il sei agosto era stato sempre un giorno fausto per i

Pisani, ma quando si era reso conto della sicura disfatta aveva

riparato in porto facendo tirare la catena, per cui aveva lasciato

fuori i genovesi sì ma anche “la miglior gioventù pisana”. E i suoi

concittadini non avevano sicuramente dimenticato.

Il tempo scorreva lento e doloroso, l’inverno era ormai

passato e poi la primavera e l’estate; da nove lunghi mesi i suoi

cari giacevano nell’oscurità di una cella. Lei stessa, sradicata

dalla propria casa e dalle sue abitudini di signora, esule in terra

straniera, era obbligata a mendicare un tetto e il pane.

La “gallina dalle uova d’oro”, di cui si parlerà nei secoli

successivi, perchè una leggenda vuole che sia stata sepolta con

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lei, era nascosta tra le sue vesti.

Ben sapeva Margherita che, se voleva aver salva la vita,

doveva tener celata la propria identità. I suoi ospiti, Fiesca e

Alberto Malaspina, avevano nascosto a tutti la sua presenza al

castello per cui ella intuiva che, se fosse morta in quel luogo,

nessuno mai avrebbe onorato la sua sepoltura senza nome.

Un giorno era corsa voce che il suo Ugolino fosse stato

imprigionato, quale traditore della patria, per aver ceduto a

nemici confinanti alcune castella della repubblica pisana, ma

Margherita avvertiva che il grande odio dei concittadini verso la

sua famiglia aveva ben altro motivo. Quell’odio, covato per quasi

un lustro, si era acuito in coloro che non avevano potuto

riabbracciare, tra i reduci, i propri figli morti di fame nelle

prigioni genovesi. Infatti, perchè imprigionare anche i figli e i

nipoti, se l’unico responsabile del tradimento era stato il conte

Ugolino?

Nel cuore, greve d’angoscia, di Margherita si affaccia un

dubbio che invano cerca di scacciare. E il presentimento si fa

certezza quando un messaggero arriva per riferire che la porta

della segreta nella torre della Muda è stata inchiodata.

“ Pisa vituperio delle genti...”. I suoi cari erano destinati a

morire di fame!

Mai nessuno potrà descrivere la disperazione di una madre

che, impotente, segue la lenta agonia dei propri figli. I suoi figli,

Gaddo e Uguccione, i suoi nipoti, Nino e il piccolo Anselmuccio e

Ugolino...

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La sua figura, notte e giorno, senza posa, appariva e

scompariva sugli spalti come un nero fantasma. Il suo corpo di

donna, ormai avanti negli anni, era del tutto scheletrico; i suoi

lunghi capelli biondi solo un ricordo. Avvolta nel suo mantello e

nel suo dolore, alla notizia che era giunto un emissario da Lucca,

fidando in una notizia di conforto, Margherita corre a

raggiungerlo nella grande sala del camino e cade trafitta da un

ferro rovente per mano dello stesso Pietruccio da Lucca.

Nessuna penna nel corso dei secoli ha speso una sola parola

per lei, Margherita della Gherardesca, e del suo

incommensurabile dolore di madre e di sposa.

Nessuno mai, nella storia, dirà più della sua morte, della sua

tomba.

Il suo spirito angosciato aleggerà per sempre nello spazio e

fuori del tempo a ricercar di sè e della sua ignorata sepoltura.

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MARIA

Il pianto della bambina riempiva per molte ore al giorno il

silenzio dell’aia. Forse aveva fame, forse freddo e quasi

certamente entrambe le cose. Aveva pochi mesi e già tanto

pianto.

Le galline, indifferenti, continuavano instancabili a razzolare

sull’aia alla ricerca del cibo. Il gatto pigro e sonnacchioso

seguiva con gli occhi gli insetti che gli passavano vicino.

Le persone che passavano per il vicolo compiangevano la

bambina ma tiravano oltre.

Anche la madre, che ogni mattina doveva lasciarla sola nel

grande letto, doveva ignorare quel pianto per andare a lavorare

nei campi. Erano una famiglia di mezzadri e il loro dovere era

custodire accuratamente le terre che il padrone aveva loro

assegnato, che se questi li avesse mandati via sarebbero finiti alla

fame.

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In quel paese le tre uniche condizioni sociali trascritte nei

registri della parrocchia al battesimo erano: possidente,

mezzadro e miserabile. I secondi lavoravano i campi dei primi e

ne abitavano le case, gli ultimi non possedevano nulla e vivevano

di elemosina.

I mezzadri si alzavano avanti dì per recarsi al lavoro nei

campi e a mezzdì, al suono dell’Angelus, posavano gli attrezzi e

si segnavano la fronte attendendo il cesto del desinare.

Solo la madre correva a casa, prendeva la secchia per andare

alla fonte ad attinger acqua e, con rassegnata tristezza, ascoltava,

in lontananza, il pianto accorato della sua bambina, che, bagnata

e infreddolita, reclamava il cibo.

Stranamente le stagioni per i miseri si riducono solo a due:

una brevissima e torrida estate e un lunghissimo e gelido

inverno. Il freddo tra quelle povere case sembrava regnare

perenne.

La madre affannata spingeva l’uscio di casa, che rimaneva

sempre aperto, si toglieva la secchia dal capo e correva ad

allattare quella che sarebbe stata la sua unica figlia.

Maria, questo era il nome della madre, aveva sposato un

uomo vedovo con due figli, già cresciuti che, presto, se ne erano

andati da casa.

L’aspetto della donna era indefinibile, così pure l’età. Un viso

senza bellezza e senza sorriso, i capelli, semmai avessero avuto

un colore, non erano stati mai visti da alcuno, perchè sempre

coperti da un fazzoletto un tempo nero. Il corpo appariva senza

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forme sotto un vestito scolorito e coperto in parte da un

grembiule che le serviva sia per proteggere la sporgenza del

ventre che per contenere le verdure che raccoglieva nei campi.

Ai piedi, d’estate, calzava zoccoli di legno intagliati a mano

dal marito e, quando faceva freddo, aggiungeva grosse calze fatte

ai ferri con lana di pecora. D’inverno, nelle lunghe ore di veglia,

sola accanto al fuoco, con la bambina che dormiva nella paniera,

Maria filava la lana con la conocchia infilata nella cintura e

quando il fuso era pieno raccoglieva la lana in un gomitolo per

continuare la maglia.

Quando il fuoco perdeva la fiamma e rimanevano solo

tizzoni, Maria non vi aggiungeva più legna, prendeva la corona

del rosario e la sgranava sino al rientro del marito dall’osteria.

La legna non doveva essere sprecata, così pesante da

trasportare dai campi sulla schiena, e spesso nascostamente.

Il padrone arrivava sulle terre a sorvegliare il lavoro e il raccolto.

Occorreva il suo benestare per tagliare una pianta e si doveva

comunque dividere con lui ogni cosa. Al padrone andavano le

primizie e la metà di ogni ricavato col buon peso.

Durante la breve estate, alla fine di ogni giornata, la madre

stava seduta sulla panca nell’aia a sgranare ceci, fagioli,

granturco e la bimba le stava aggrappata alle gonne. Quando era

stata in grado di reggersi da sola, la piccola, aveva cominciato a

gattonare dietro ogni cosa che si muoveva sull’aia: un piccione,

un cane o un gatto, spesso le lucertole.

Aveva anche preso l’abitudine di mettersi in bocca ogni cosa

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che le fosse capitata tra le mani, per cui spesso aveva inghiottito

foglie, incauti insetti e spesso i loro escrementi.

Dopo alcuni anni, forse quattro e non più di cinque, la bimba,

cessato il pianto, non era più uscita al sole sull’aia a giocare con

gli animali o guardare i fiori, perchè la madre, prima di andare

nei campi, accendeva il fuoco nel camino, attaccava il paiolo

pieno d’acqua alla catena, la faceva sedere su un panchetto e le

consegnava un cesto di verdure. Le piccole mani pelavano le

patate, sgusciavano i fagioli, accudivano al fuoco, per ore, finchè

la minestra non era pronta.

La bimba crebbe senza conoscere la spensieratezza

dell’infanzia, ma la madre non ebbe mai ad accorgersene perchè

lei stessa era passata dal latte alla fatica. Maria non aveva

conosciuto l’amore e neppure la giovinezza perchè, presto, era

stata accasata a un vecchio e una morte prematura le aveva

impedito poi di conoscere, seppure attraverso la figlia, la gioia e

la felicità della vita.

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MADDALENA

Ma ddalena era nata “dei Ventura”. La sua casa di

quattro piani, la più alta del paese, aveva spigoli

perpendicolari e i muri alla base si allargavano,

come diremmo ora, a scarpa. Due archi, sovrastando i due vicoli

del crocevia, l’allacciavano uno alla casa di fronte e l’altro, di

lato, a un alto resede di terreno sovrastato da un’antica torre

ormai quasi distrutta. Le finestre del primo piano erano protette

da robuste inferriate e quelle dei piani superiori erano ingentilite

da architravi scolpiti e tendine di pizzo. Sui davanzali di pietra

fiorivano gerani e negli angoli delle scale e sul pavimento di

mattoni rossi erano disposti molti vasi di aspidistra. Nel portone

d’ingresso, chiodato, uno spioncino in ferro consentiva di

guardare nel vicolo. Suo padre era nato possidente e

nell’infanzia era stato mandato per qualche anno a Firenze, dagli

Scolopi nel loro collegio della Badia Fiesolana, ad imparare a

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leggere e far di conto e, dopo un adeguato matrimonio, passava

la vita andando a caccia e sorvegliando i mezzadri nei campi.

Sua madre, una donna piacente e di carattere assai remissivo, si

era subito dedicata alla casa e, con l’aiuto di qualche fantesca,

accudiva le figlie.

Maddalena, la maggiore, aveva appena raccolto i capelli

dietro la nuca come si conveniva alle giovinette, mentre le

sorelle, piu piccole di lei, portavano ancora i capelli sulle spalle

legati da un nastro colorato. Gli abiti smessi da Maddalena

passavano regolarmente alle sorelle minori; solo quando si

doveva andare a messa o al vespro si poteva indossare l’abito

nuovo di velluto. La madre vestiva sempre di nero con un colletto

di pizzo bianco e quando usciva di casa portava sempre con sè

un bastoncino dal pomo d’argento.

Durante il giorno, assieme alle sorelle minori Marianna e

Margherita, Maddalena tesseva la tela di cotone per il corredo e

quando la pezza era terminata si tagliava la biancheria che poi

sarebbe stata ricamata dalle mani abili delle donne di casa.

In famiglia veniva conservato un anello d’oro che doveva

essere tramandato, di generazione in generazione, al

primogenito maschio e Maddalena già sapeva che, mancando

questi, l’anello sarebbe stato suo.

Le tre sorelle non sapevano leggere nè scrivere, perchè la

scuola nel paese sarebbe arrivata da lì a poco con l’Unità d’Italia

e quel poco che avevano imparato dal padre era il saper fare la

propria firma. Così negli anni avevano ignorato, e prima di loro i

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genitori e i nonni, un baule chiuso in soffitta pieno di libri

rilegati in cuoio.

Del resto, nella civiltà contadina, l’interesse primario era

sempre stato il possesso della terra. Con i terreni dati a

mezzadria le cantine della casa erano sempre ben fornite: botti

piene di vino, orci d’olio, scrigni di granaglie, formaggi e salumi

appesi ai ganci e poi tanti sacchetti bianchi pieni di fichi secchi,

di mandorle e nocciole.

Per carnevale, dopo l’imbrunire, nel vicolo anulare del paese

giravano i mascri e questi, quando ballando e cantando

bussavano alla porta chiodata, ricevevano i frutti dei sacchetti

bianchi. Gli stessi frutti erano regalati quando, legate le campane

durante la settimana di passione, i ragazzi passavano per il paese

agitando sgricciole di legno per segnare le ore.

Maddalena e le altre donne, per tempo, seminavano il grano

nei vasi, che, riposti in cantina al buio, avrebbero germogliato

bianchi steli per adornare il Sepolcro e i bambini si recavano nei

prati a raccogliere violette per decorare piccole croci devozionali

da porre ai piedi dell’altare. Quando al sabato santo le campane

suonavano a distesa la resurrezione di Cristo, Maddalena e le

sorelle andavano a lavarsi gli occhi.

La sua famiglia, in una generazione precedente, avendo un

avo abate di nome Bonaventura Peccini, aveva assunto l’obbligo

di provvedere a uno dei sei altari laterali della chiesa e

precisamente quello al quale diceva messa l’abate, il primo a

sinistra vicino al fonte battesimale. A tal scopo, il ricavato di un

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campo, detto poi da sempre il prato di S. Caterina, era stato

devoluto al fabbisogno di cera e tovaglie per quell’altare.

Una panca, allineata ordinatamente tra le altre nella navata della

chiesa, portava scolpito nel legno il cognome della sua famiglia e

la domenica Maddalena, assieme alla madre e le sorelle, vi si

andava a sedere.

Solo in chiesa si potevano ritrovare i cognomi delle persone

perchè per tutto il resto si apparteneva a precisi gruppi familiari

con il relativo soprannome: quelli dei Ventura, dei Capitani,

dell’Alfiere, dei Nibai... Solo a queste famiglie importanti era

riservato il diritto di far precedere il proprio corteo funebre

dalla croce d’argento. Questi nomi, sussurrati sotto gli archi di

pietra del paese, parevano ancora far risorgere ricordi di antichi

agguati, di armigeri, di soperchierie.

Un giorno il padre di Maddalena venne indotto da tal Picciati

di Licciana a giocare in borsa e ben presto, con operazioni

sbagliate, si ridusse in miseria. Perduto l’intero parimonio,

Maddalena lo aveva visto partire a piedi per la Corsica a fare la

stagione delle olive per ritornare, dopo un mese, con una quareta

di grano per paga.

Perduta anche la sua bella casa, nei registri della chiesa venne

scritto che “Maddalena, Marianna e Margherita erano emigrate

nella piana di Molesana.”

Il destino aveva riportato Maddalena, sposa, nel paese in cui

era nata e con lei era ritornato l’anello, testimone, tutt’oggi

tangibile, di questa antica storia. Maddalena non seppe mai che

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la sua casa natale era stata una casa-torre medioevale, che,

qualche secolo prima, il suo avo abate e poeta Bonaventura

Peccini da Panicale, aveva scritto, in versi latini, quei libri

d’coram, di cui rimangono copia di poche pagine al museo civico

della Spezia, perchè dopo la vendita della casa erano stati

bruciati sotto le mura del paese.

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ROMEO

Il sole non raggiungeva mai la misera casupola ai piedi

della casa-torre. L’ombra regnava perenne tra le alte felci

sotto gli alberi di noci. L’acqua del canale, scrosciando,

rompeva un silenzio profumato di muschio.

Dietro un uscio sconnesso, nell’unica stanza, in un angolo un

focolare spento, in un altro un mucchio di foglie che serviva da

giaciglio, viveva Romeo.

Apparteneva costui alla categoria dei miserabili.

Non possedeva casa nè campi, non aveva famiglia e gli unici suoi

stracci li portava indosso.

Nessuno conosceva la sua età, anzi, nessuno si era mai curato

di saperla e forse nemmeno lui; l’avevano conosciuto sempre con

la lunga barba bianca e i capelli incolti sulle spalle curve.

Nella buona stagione compariva sull’uscio di buon’ora e si

allontanava su per la mulattiera oltre il colle per raggiungere

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luoghi lontani; passava per borghi e pievi, di casa in casa, a

mendicare il pane.

Il suo unico tesoro era un organetto, col mantice molto

sciupato, che Romeo sapeva suonare. Nelle fiere di paese le sue

allegre musichette gli fruttavano qualche soldo e più spesso un

pò di cibo.

Quando cominciavano a cadere le foglie, che i venti gelidi

delle Alpi facevano turbinare lungo il vicolo, Romeo tornava al

paese. Durante il giorno si sedeva a suonare seduto su uno

scalino in un angolo riparato della piazzetta e subito il gruppo

dei bambini gli si raccoglieva attorno. Egli amava molto quelle

vivaci creature, quasi fossero figli suoi, e con gioia cominciava a

raccontare dei suoi viaggi, di cavalieri diretti alla città santa

sulla via francigena, del predominio del giglio rosso fiorentino

sulla rosa celtica, di agguati di ladroni, di assalti di lupi...

Le sue storie, sempre diverse, erano popolate di re, pellegrini,

frati e principi; i bimbi attorno a lui, con gli occhi sgranati,

vedevano passare principesse vestite di seta e soldati con le

lunghe spade, carrozze dorate tirate da cavalli bianchi, brutti

ceffi con la barba nera armati di pugnali.

L’Angelus del mezzogiorno interrompeva il suo racconto e i

bimbi correvano come rondini verso il desco vociando allegri; in

un momento la piazzetta risuonava dello scalpiccio di tanti

zoccoletti.

Romeo rimaneva lì, solo, col suo organetto.

Da lì a poco, ad uno ad uno, i bimbi ritornavano portando

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qualche frutto o una fetta di polenta per lui e ancora gli

venivano sollecitate nuove storie; trascorreva così buona parte

del giorno.

Verso sera, il suono dell’Angelus pareva diverso, più triste. Gli

armenti rientravano dal pascolo lentamente e in fila; i loro

campanacci ritmavano i passi dei mezzadri che, con gli arnesi in

collo, tornavano dai campi. Il profumo della solita minestra

riempiva il vicolo. Mentre le donne scodellavano, gli uomini,

volto lo sguardo al cielo per stimare il tempo del giorno dopo,

chiudevano l’uscio sulla notte.

Romeo non era mai dimenticato. Un povero meno povero di

lui gli offriva un posto accanto al ciocco.

Sotto la grada, sulla quale venivano messe la castagne a

seccare, si radunava la famiglia che spartiva con lui il misero

pasto. Al chiarore del fuoco si rimaneva seduti in veglia: si

raccontavano gli avvenimenti del giorno, si facevano previsioni

di semine e di raccolti. Alla luce dei tizzoni, il nero affumicato

delle pareti pareva lucido e le fiamme danzando creavano

immagini irreali. Le scintille balzavano vivide scoppiettando e il

vento soffiava contro l’uscio facendo frusciare le foglie secche

che creavano strani rumori.

In quell’atmosfera un pò magica, le storie di Romeo si

animavano di fantastiche creature che apparivano sui crocevia a

mezzanotte, di segni lasciati sulla pietra da diavoli beffati, di

fuochi fatui che seguivano i viandanti nella notte. Il Buffardel

era, tra i diavoli narrati, il più scherzoso perchè scombinava i

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calzini nei cassetti, intrigava le code alle vacche nella stalla,

soffiava via la farina dalla madia, portava via i cappelli dalla

testa e i panni stesi sul filo nell’orto.

Durante il racconto i bambini si rannicchiavano in grembo

alla madre, le donne filavano la lana o rammendavano.

Quando il vecchio dalla lunga barba bianca vedeva che gli

astanti cedevano al sonno, si alzava, si accomiatava e spariva

nella notte.

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IL PRETE

Qu ando scendendo per il vicolo rientrava in canonica

il suo passo quasi non si avvertiva. Solo il frusciare

della tonaca contro le gambe magre e nervose

rivelava, alle orecchie sempre tese ai rumori della notte, il suo

passaggio. Nell’interno delle casupole si udiva qualche pianto di

bimbo, l’acciottolare dei piatti, il miagolio del gatto.

La notte calava presto in quel paesino sperduto pieno di

ombre e di volte così basse e oscure che anche di giorno il sole

stentava a illuminarle. Le case, arroccate l’una all’altra, quasi

più a difesa dal freddo e dalla miseria che da antichi invasori,

parevano vive ma anche morte per i miseri lumi che filtravano

dalle finestrelle.

Il freddo lo attanagliava, anzi, pareva crearlo lui stesso,

mentre trascinava folate di vento con la sua tonaca. Rientrato in

canonica, mentre consumava il suo pasto di pane e formaggio, il

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suo sguardo frugava gli angoli bui e alla scarsa luce di una

lampadina, che fortunatamente lui aveva potuto permettersi da

quando in paese era arrivata la corrente elettrica, ritrovava le

solite crepe che, partendo dai travi del soffitto, solcavano le

pareti come una fitta rete di rughe.

Lontano, fuori dei vetri resi opachi dalla polvere, intravvedeva

ancora il profilo delle colline e più lontano quello dei monti. Tra

poco sarebbero apparse le stelle.

Dopo aver lavato il piatto e la posata si era messo, come al

solito, a leggere il breviario. Quando leggeva era sempre preso da

irrequietezza. I suoi occhi spesso si spaiavano e divergevano o al

contrario convergevano, ma nessuno pareva farci caso. Anche al

seminario quando lo avevano esaminato, non avevano dato gran

peso a quello che tutti avevano definito un ticchio.

Pareva ieri quando aveva visto per la prima volta il grande

palazzo vescovile col grande giardino, i cameroni col letto di

ferro dove, ogni sera, ciascun seminarista, dopo aver acceso il

lume, doveva andare a posarlo sul proprio comodino nel

dormitorio prima di andare a letto. Aveva accettato di fermarvisi

per alleggerire la sua famiglia di una bocca da sfamare e perchè

con la sua salute piuttosto cagionevole vedeva il sacrificio

compensato da un avvenire migliore.

Il suo pensiero andava spesso ai genitori lontani e ai suoi

fratelli che non vedeva da tanto tempo. Sembrava invece vicino il

giorno in cui era arrivato al paese.

Il suo accento dialettale e il suo latino erano linguaggi

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incomprensibili a quella povera gente, cionostante era entrato in

quella piccola comunità da rispettato protagonista.

Ogni domenica per celebrare la messa indossava pianeta e

stola di diversi colori: rosso per i martiri, verde per i confessori

della chiesa, viola per la settimana di passione, nero per i morti,

bianco e oro per le solennità. Ritto sui gradini dell’altare, a

braccia aperte o incrociate sul petto, si voltava, si inginocchiava,

s’inchinava. I chierichetti spostavano il messale sull’altare ora a

destra ora a sinistra, suonavano il campanello, porgevano

bianche pezzuole. Gli ori rilucevano al lume delle candele e il

profumo dell’incenso mitigava quello di sudore dei fedeli. Due

cartelli appesi al muro dicevano a grandi lettere: “Silenzio” e

“Non si sputa per terra”.

Solo le funzioni religiose a quel tempo distinguevano la

domenica dai giorni feriali. Il sabato pomeriggio le campane

davano i doppi chiocchi a festa e quello scampanio creava un

senso di sollievo al pensiero di un giorno di riposo.

Rimanevano però sempre impegni inderogabili; così il ragazzo

di turno, all’alba suonava il corno per chiedere di aprire le stalle

e far uscire le pecore che dovevano essere condotte al pascolo sul

monte, gli uomini riparavano il tetto o le botti, le donne

cuocevano un pane di grano, rammendavano sacchi e filavano la

lana.

In quel tempo era da considerarsi fortunato colui che

possedeva una pecora nera. Questa doveva esser ben custodita

perchè con la sua lana si potevano confezionare abiti da lutto.

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A quel tempo era usanza un mese di lutto per un parente, un

anno per i genitori e tutta la vita al marito; di lutto in lutto, le

donne finivano con l’esser sempre vestite di nero.

Durante le lunghe ore della giornata, il prete soleva recarsi

col suo breviario sul sagrato della chiesa. Questa era rivolta a sud

e sorgeva su un alto muro quasi a strapiombo sui campi.

Del resto, per tutto il paese, i muri delle case creavano un alto

recinto interrotto solo da due archi per l’accesso o l’uscita.

Su quell’altura lo sguardo spaziava, dall’Appennino alle Alpi,

giù per i dorsali sino alla Magra. I castagni dai colori mutevoli

con le stagioni, coprivano come un manto le colline a nord,

mentre a levante, degradavano verso la piana gli argentei ulivi.

Molto più lontano una chiostra di monti dalla vegetazione

indistinguibile chiudeva l’orizzonte.

La mente del prete passava oltre quelle cime e volava verso

terre lontane.

Aveva spesso provato a desiderare per sè una vita diversa, una

famiglia tutta sua, una donna, dei figli, il calore di un focolare.

Lontano, in un luogo dove nessuno lo conosceva, il tempo,

facendogli ricrescere i capelli, avrebbe cancellato la tonsura.

Provava a immaginare la sua partenza anzi, la sua fuga, ma poi

entrava in chiesa e l’immagine del Cristo Patiens sulla croce lo

faceva vergognare dei suoi sogni.

E così gli anni si erano susseguiti, tutti uguali, con la sola

eccezione di qualche notizia dalla sua famiglia lontana.

Nel paese i giovani, diventati ormai vecchi, narravano ancora,

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in veglia, della loro partecipazione alla presa di Caporetto, del

monte Grappa e del passaggio del Piave, quando un brutto giorno

arrivò il postino con la cartolina di precetto per i giovani e

quella di richiamo per gli adulti: era scoppiata una seconda

guerra mondiale.

Divise straniere occuparono il paesino, dichiarato zona di

rastrellamento, e il prete fu il primo a essere rinchiuso in una

stanza dalle finestre inchiodate.

La miseria aveva ceduto allora il posto alla fame ed erano

arrivati i Cavalieri dell’Apocalisse.

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LA BAMBINA

La bambina aveva rincorso il mercante che si

allontanava con le pecore che il padre gli aveva

appena venduto. Era sempre stata lei a condurle al

pascolo e quindi andava a rivendicare la sua bendiga. La bimba

non sapeva che il termine significava “Dio ti benedica”, ma felice

intascava il cavrin, e poco le importava che il soldo avesse preso

il nome dal conte di Cavour che ne aveva voluto il conio;

conosceva invece il valore del”cavurino” che le avrebbe

consentito di comprarsi alla fiera del paese un torroncino o una

scatoletta di liquirizie.

Per la festa del patrono, sulla piazzetta del paese e sul sagrato

comparivano gli ambulanti con le loro bancarelle; i vecchi si

compravano gli occhiali dopo averli ben provati, le donne un

velo nuovo per coprirsi il capo in chiesa, gli uomini il lattonzo

che, a loro parere, promettesse di diventare bello grasso e infine i

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bambini adocchiavano le stecche di zucchero colorate.

Non esisteva una bancarella con le bambole e la bambina se

ne era cucita una con degli stracci mentre pascolava il gregge.

La mattina andava a scuola nella pluriclasse del paese e con

vivo interesse e impegno aveva letto e imparato a memoria tutto

quanto c’era scritto nel libro, ma, giunta alla fine della terza

classe, solo ai suoi fratelli maschi era stato consentito di

frequentare la quarta e la quinta nel paese vicino; a lei, con

grande rammarico, era toccato di seguire le sorelle maggiori nel

lavoro dei campi.

Era una bella bambina dai capelli neri inanellati, era operosa

e intelligente, così, fin da piccola, le avevano accollato diverse

responsabilità; tenere le vacche lontane dall’erba medica e dal

trifoglio che, se lo avessero mangiato, si sarebbero gonfiate fino a

scoppiare; fare attenzione alle pecore che, se una fosse caduta

dal dirupo, le altre l’avrebbero seguita, riguardarsi dagli

sconosciuti e vagabondi che poteva incontrare nei campi; portare

a casa, la sera, legna per il fuoco e erba per i conigli.

La sua giornata era ritmata dal suono delle campane e a

queste faceva riferimento per alzarsi, mangiare e far ritorno a

casa con il gregge.

In Lunigiana le campane hanno sempre avuto un ruolo

speciale nell’informazione per chi le sa capire.

L’Angelus del mattino suona avanti dì per la sveglia, a

mezzogiorno la pausa per il desinare, quello della sera il ritorno

dai campi. Il sabato annunciano coi doppi chiocchi a festa la

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domenica e, prima di ogni messa, chiocchi e chiocchetti quando il

prete sale i gradini dell’altare. Ci sono poi i rintocchi a morto,

diversi da uomo a donna, l’allarme per una disgrazia, e infine,

usanza unica al mondo, lo scampanio a festa per la morte di un

bambino. Povera consolazione per una madre che crede così di

aver partorito un angelo.

E la bambina lo aveva visto, falciato dalla spagnola, un piccolo

angelo uscire dalla sua casa per essere sepolto con gli altri

bambini in un apposito angolo del cimitero.

La bambina crescendo si faceva sempre più bella e i suoi

coetanei l’invitavano al ballo e le facevano le serenate. I genitori

avrebbero voluto accasarla con un proprietario terriero di

Cassiolana che l’aveva chiesta in sposa, ma la ragazzina fuggiva

dalla porta dell’orto, quando questi arrivava, per non doverlo

incontrare. Ella non avrebbe mai acconsentito a sposare un

contadino nè tantomeno vivere in un paese di campagna.

Crescendo nel paese, aveva potuto sentire, poco a poco, quasi

impalpabile, avvolgerla un malcelato odio, forse dettato da

antichi rancori familiari o di faida, perciò, per il motivo inverso

a chi al paese era venuto da fuori, guardava alla cerchia dei

monti con un desiderio, sempre nuovo e forte, di fuga.

Nei giorni di festa, mentre la processione si snodava per la

stradina del paese, il suo sguardo era attratto dal gruppo di

uomini che anticipavano il baldacchino sotto il quale procedeva

il prete con l’ostensorio levato in alto. Gli appartenenti alla

confraternita del S.S. Sacramento, indossando una lunga cappa

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bianca legata in vita con un gran cordone, la mantellina rossa

sulle spalle, con grandi lanternoni accesi, aprivano il corteo.

La brillantina faceva rilucere i loro capelli. Gli sguardi dei

giovani incrociandosi portavano messaggi, ma lontano la

portavano i suoi desideri e altrove ella volgeva gli occhi.

Una mattina la ragazzina non aveva potuto alzarsi dal letto.

Una febbre altissima le bruciava le guance. Il medico non poteva

essere chiamato perchè mancavano i soldi; solo nei casi gravi

veniva chiamato il veterinario, che un animale valeva, per quella

povera gente, più di un cristiano.

Erano venute le esperte del paese che con la moneta d’argento

segnavano la torta e la risipola e col bianco dell’uovo

ingessavano le bende. Col chinino avevano calmato la febbre ma

la ragazzina non si era ripresa...

Ancora, dal suo letto, guardava verso quei monti che non

aveva potuto valicare, sognava la città tanto desiderata, vista solo

in cartolina, e il mare che qualcuno le aveva descritto grande e

azzurro come un cielo.

I suoi sogni rimasero con lei sotto un vestito bianco da piccola

sposa.

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LAURINA

Su l terrazzino prospiciente la piazzetta, Laurina sedeva,

come d’abitudine, in ogni pomeriggio della buona

stagione e da lì osservava il viavai delle persone che

animava il paese. Durante il giorno solo i ragazzini si

rincorrevano sull’acciottolato, qualche gatto vagava annusando

qua e là, i cani rimanevano sdraiati all’ombra del portico,

qualche gallina uscita dal pollaio razzolava alla ricerca del

chicco sfuggito dai sacchi.

La passiflora sul muro di fronte era già fiorita; la sua corolla

di petali bianchi circondava chiodi e corona di spine, simboli

della passione. Anche il melograno, simbolo di prosperità,

mostrava i suoi fiori oltre il muro del castello. Una bena già

carica di attrezzi, nell’angolo della piazza, stava per essere

aggiogata. Lontano, dai campi , arrivava il canto del cuculo.

Armida pensava che presto sarebbero arrivati gli stornellatori

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a cantar maggio. Sul balconcino nei barattoli della conserva il

basilico era già alto; sui gerani tutti in fiore ronzavano le api.

Di fronte alla sua si ergeva una casa gentilizia. Sotto l’arco,

un pilastro portava la data del 1114. L’incisione era stata fatta

con cura e scavata arretrata sulla superficie della pietra per non

consentirne l’usura alle intemperie.

Una potente famiglia, in secoli precedenti era venuta a

stabilirvisi. Dalle eleganti bifore, orlate di marmi, ogni tanto

appariva un viso coronato di capelli bianchi raccolti dietro la

nuca. La signora era venuta in sposa diversi anni addietro e ora,

rimasta vedova, viveva in riserbo e dignità.

Anch’ella, come Armida, non aveva conosciuto la gioia della

maternità.

I bambini si rincorrevano ancora sulla piazza e già qualche

donna appariva con la secchia appoggiata, sopra al renchingolo,

sul capo per andare alla fontana ad attinger acqua per il

desinare. Armida era contenta; lei era tornata ricca dall’America

e poteva permettersi di restare comoda e riposata sul balcone,

mentre una domestica provvedeva alla bisogna.

Non che fosse del tutto felice, perchè la mancanza di figli

metteva in crisi il suo matrimonio e la sua sterilità la faceva

sentire una donna menomata.

Spesso le venivano a raccontare che il marito era stato visto

ora con questa, ora con un’altra donna e la gelosia la

tormentava. Anzi, era la fedele domestica a provvedere di tenerla

aggiornata sugli spostamenti quotidiani del marito e delle sue

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scappatelle.

La sera, quando il marito tornava dal lavoro dei campi, sulla

piazza risuonava l’eco dei loro alterchi e spesso le urla della

donna stavano a testimoniare il dolore per le botte ricevute.

Durante il giorno, stando al balcone, quando Armida vedeva

passare le presunte rivali, le apostrofava con ira, e gli insulti e le

urla riempivano l’aria.

I litigi erano assai frequenti e nessuno ormai si meravigliava

più di tanto.

Un giorno la portatrice d’acqua, che non era sposata, aveva

cominciato a incedere nella piazza con un’andatura chiaramente

da donna incinta, anzi, quasi a esibizione della propria

gravidanza, soleva passare più volte, senza motivo apparente,

sotto il balconcino della padrona dalla quale aveva smesso di

lavorare.

Armida, insospettita per le menzogne subite e per

l’atteggiamento ormai del tutto strafottente della fantesca

gravida, preso il binocolo che aveva portato dall’America, dal

retro della casa, aveva cominciato a perlustrare il panorama e,

spaziando nella valle, aveva visto una cosa che l’aveva resa certa

della tresca e della ottenuta paternità del marito.

Quando l’uomo era rientrato in casa il litigio era scoppiato

violento come non mai. Le orecchie del paese si erano tese e

occhi indiscreti dietro gli infissi avevano spiato il balconcino.

Sulla piazzetta, buia e deserta, si avvertiva l’incombere di un

dramma. Come in una rappresentazione tragica le urla disperate

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della donna erano cessate di colpo quando si erano sentite

fronare le molli.

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ANNA MARIA

Ic ancelli della tomba di famiglia, chiudendosi dietro ad

Anna Maria, avevano concluso l’ultimo capitolo di una

grande dinastia antica di cinquecento anni. L’oblò,

colorato dallo stemma dei Medici di Lunigiana, lasciava

penetrare i raggi del sole che, durante il corso della giornata,

scorrendo sulle lapidi, andavano ad illuminare, uno dopo l’altro,

i volti dei componenti la nobile famiglia ormai riunita nel sonno

della morte.

Dal cimiterino sulla collina, volgendo il capo a occidente, si

poteva vedere il castello che era stata la dimora di questa

dinastia ormai estinta.

Il maniero, l’antichissima reggia degli Obertenghi, dopo il

900 era passato al marchese Adalberto I di Toscana; nel 1000 da

possedimento estense a feudo dei Malaspina, finchè, sotto

l’egemonia fiorentina, la rocca, rimaneggiata a palazzo signorile,

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era stata scelta quale residenza dei Medici di Lunigiana. Nel

salone del castello il frontespizio del grande camino recava

ancora un’incisione: “ANNIBAL MEDICES 1540 FECIT”.

Nel giardino pensile, a nord del castello, si intravvedevano

ancora i resti di un mastio gravemente degradato. Anche il

palazzo appariva trascurato e del tutto deserto. Chiuse le

imposte, niente fiori nei vasi della terrazza, non più il tubare dei

bianchi piccioni o il latrare dei cani da guardia. Solo nel trompe

l’oeil dipinto sotto la gronda del tetto era rimasta visibile

l’immagine di un gatto bianco sul davanzale di una finestra.

La rosa tea che saliva dal giardino al grande terrazzo non c’era

più, così pure, da tempo, erano seccati il melograno, il nespolo, le

due palme e la magnolia.

Il tempo e la morte avevano cancellato ormai ogni forma di

vita.

Rimaneva solo nel ricordo l’immagine di lei, Anna Maria,

quando ancora bambina con le treccine legate dal fiocco, gli

occhi vivaci ed un sorriso sempre allegro, scappava all’aperto

dopo le lezioni che la famiglia le imponeva.

Nel salotto rosso, durante quelle di pianoforte, dal ritratto a

olio, la nonna marchesa vigilava austera sulla nipote che tentava

ogni espediente per sfuggire alla maestra chiamata apposta per

lei dalla città vicina.

Anna Maria era nata secondogenita al fratello, che avrebbe

ereditato, come era sempre stato in uso nella sua famiglia, nome

e proprietà.

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La potente famiglia marchionale, ricca di vasti possedimenti

terrieri, usava lasciare indiviso il patrimonio famigliare, per cui

la bimba, crescendo, avrebbe difeso sicuramente i propri diritti,

rompendo la tradizione, se una morte prematura non avesse

falciato la giovane vita del fratello.

Anna Maria non era particolarmente bella, ma certo sapeva

essere gentile e simpatica. Il latino e la letteratura non le

andavano molto a genio, ma da una nonna maestra e soprattutto

dalla madre aveva ricevuto una buona educazione.

Alla morte del primogenito la famiglia aveva cessato ogni

rapporto col bel mondo che era usa frequentare, si era chiusa in

un lutto inconsolabile e lentamente aveva cominciato a isolarsi.

Solo lei, piccola e vivace, possedeva una gran voglia di vivere e

trovava sempre ogni pretesto per correre dove si festeggiava. Alle

sagre di paese, ai balli sotto la pergola o sulle aie la si poteva

vedere allegramente confusa tra i suoi contadini.

Molti furono i pretendenti alla sua mano: blasonati e plebei,

ricchi e poveri, professori universitari e modesti ambulanti. Ella

aveva sempre respinto ogni proposta e non si era mai capito cosa

l’avesse indotta ad avviarsi ad una vita solitaria senza volersi

costruire, come di consuetudine, una famiglia.

Rimaneva il ricordo del tichettio veloce di piccoli piedi, molto

spesso modestamente calzati da zoccoli come solevano fare le

donne del paese, nella penombra delle grandi stanze o nello

scaleo mentre usciva sulla piazzetta del paese.

Il suo paese. Non volle mai allontanarsene. Non ci furono

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viaggi, crociere o altri luoghi che avessero potuto attrarla.

Era stata una creatura semplice; modesta nel vivere e nel

vestire e questo faceva sì che gente ignorante, usa ad esibire

ricchezze e blasoni del tutto inesistenti, tentasse di sminuirla e

soprattutto criticarla per le sue scelte.

Con tutti si dimostrava socievole, ma sapeva anche imporsi su

coloro che tentavano di mancarle di rispetto.

Anna Maria rivelava la sua discendenza marchionale,

abituata al comando, quando, contrariata, nei suoi occhi neri

accendeva uno sguardo duro e prepotente.

Trascorso il tempo della giovinezza, nell’età matura, senza

mai lagnarsi, dopo la morte del padre, aveva accudito a lungo la

madre con grande dedizione e rispetto.

E i giorni erano scorsi; erano passati i mesi e gli anni nel

castello silenzioso e ormai vuoto. Dalle cornici, i suoi avi

continuavano a vegliare: la marchesa dallo sguardo altero, un

generale in divisa carico di medaglie, il giovane fratello dallo

sguardo dolce e sorridente.

Nella camera nuziale dei suoi genitori delicate tende di tulle

ricamato erano diventate ogni giorno più fragili; gli stemmi

scolpiti sui mobili sempre più coperti dalla polvere, gli orologi

fermi, le pendole silenziose, gli arredi stinti.

I grandi corredi di lino ricamati, i gioielli di famiglia, le

posaterie d’argento e le stoviglie d’epoca erano chiusi negli

armadi e inutilizzati.

Anna Maria ormai si accingeva a concludere l’ultimo capitolo

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della storia della sua famiglia consapevole che non avendo figli

propri e non ritenendo alcuno degno di assumere il suo antico

nome, questo si sarebbe estinto.

Della sua grande solitudine, nelle lunghe notti silenziose e

forse anche paurose, nel vuoto castello, mai nulla aveva lasciato

trapelare.

Forse in gioventù qualche amante l’aveva raggiunta da uno

dei tanti ingressi del palazzo, forse molti, oppure nessuno. Certo

si era vociferato spesso di incontri amorosi notturni ma nessuno

lo aveva potuto mai affermare con certezza.

Forse nel piccolo nascondiglio, così impensabile da passare

inosservato, sarebbero rimaste per sempre nascoste le sue cose

più care, come i primi bigliettini del suo biondo amore dagli

occhi azzurri, e forse alcuni tra i suoi più bei gioielli che in

seguito non furono mai più ritrovati.

Anna Maria aveva preso coscienza da tempo che ogni suo

avere sarebbe andato disperso e che per lei sarebbe bastato ormai

l’ultimo posto nella tomba di famiglia, per cui, lentamente, aveva

cominciato a disinteressarsi delle sue proprietà. Passati gli anni

degli amorosi sensi era vissuta sempre più innamorata della

propria casa, del suo paese, dei suoi animali, quasi ignara dello

stato di abbandono delle proprie cose e del grande nome che

portava.

Il tempo scorreva inesorabile mentre si protendeva verso di

lei il suo amaro destino.

Nessuno capì lo stato d’animo dei suoi ultimi giorni perchè,

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com’era suo costume, ella non aveva mai gridato apertamente al

vento la disperazione e il dolore che provava. Non potendo più

difendersi dall’inelluttabilita` del fato, aveva ceduto al male

incurabile in un tormento di sentimenti.

Quando infine la malattia l’aveva condotta alla morte e la sua

salma era rientrata al castello, improvvisamente i suoi cani,

quasi in segno di rispetto, avevano taciuto e quando ne era uscita

per le esequie, latrando all’unisono affacciati al grande balcone,

parvero salutarla per l’ultima volta.

Anna Maria riposa ormai tra i suoi e i raggi del sole, nel

volger del giorno, scorrono sugli antichi ritratti come seguendo l’

ordine del tempo, sin quando al tramonto sfiorando il viso di lei,

l’ultima della grande famiglia, si spengono dietro i monti.

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LA SERVA

St ava seduta su una sedia e alla luce di una lampada

cercava di specchiarsi nei vetri della finestra che,

chiusa sul buio della notte, le rimandava l’immagine di

una brutta vecchia grassa. Aveva tirato una lunga boccata di vino

dalla bottiglia e aveva considerato che finalmente avrebbe potuto

adornarsi dei gioielli che, sino a pochi giorni prima, poteva solo

guardare, e da lontano.

Era andata a prendere la scatola che la famiglia costudiva

dietro l’antica cassapanca nel salone in un buco del muro.

L’aveva aperta e per un poco era rimasta in soggezione davanti

alle gioie che brillavano nei loro castoni, poi con circospezione e

avidità, vi aveva affondato le mani e aveva cominciato a provarsi

le parures: zaffiri, rubini, diamanti…

Erano suoi! Certo avrebbe dovuto dividerli, ma ben sapeva

che da sola non sarebbe mai riuscita ad impossessarsene, così

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aveva accettato l’aiuto di un complice che era riuscito a

completare il raggiro del padrone ormai defunto.

Nella notte attorno a lei nella grande casa si sentiva solo lo

scandire delle ore dal pendolo nell’anticamera. Attraverso i vetri

solo l’oscurità della notte e un gran silenzio. Aveva continuato a

infilarsi gli anelli tenendo le mani discoste per meglio ammirarli

e intanto non aveva potuto fare a meno di constatare come le sue

dita fossero rovinate. Povere mani sformate dai troppi bucati

nell’acqua fredda, mani use alla scopa, alla vanga, ai rovi. I

geloni avevano lasciato il segno; comparivano a novembre e

andavano via con l’acqua di maggio. Mani che avevano sempre

lavorato; piccole mani che lavavano i piatti nella grande casa

dove la sua famiglia l’aveva mandata per serva a pochi anni;

piccole mani che pulivano i tanti pavimenti e i molti camini,

mani che erano cresciute svuotando i vasi da notte e i secchielli

dei lavamani delle camere da letto.

Mentre le donne della grande casa restavano a poltrire nei

caldi letti dai materassi di lana, lei aveva dovuto riposare le

poche ore su freddi giacigli di crine; crescendo con poco cibo e

niente affetto, aveva covato anche una certa invidia verso i

padroni e rabbia per la sua cattiva sorte.

A lei si rivolgevano sempre con arroganza, le erano state

addossate colpe che non aveva, e talvolta aveva ricevuto anche

delle botte dalle signore di casa.

Erano trascorsi gli anni e lei si era ritrovata da adulta a

vecchia. Aveva continuato a vivere nella grande casa, perchè così

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aveva voluto il suo destino, il destino delle serve che muoiono

nella casa dove hanno servito.

A poco a poco i visi austeri che la controllavano mentre

svolgeva il suo umile lavoro avevano finito con l’osservarla solo

dalle cornici appese ai muri. Erano facce sempre molto serie,

talvolta dignitose, ma con sguardi autoritari.

Con piacere si era indotta a pensare che, per sua fortuna, i

suoi padroni erano ormai tutti morti. Uno ad uno se ne erano

andati dopo essere stati deposti nella bara ed esposti nel salone

all’omaggio dei notabili del circondario e del piccolo volgo.

Questa era l’usanza e dal grande salone, durante la veglia

funebre, nella notte, si sentivano recitare rosari e giaculatorie

dalle persone che vegliavano accanto al catafalco; gli specchi del

palazzo venivano velati, gli orologi fermati, le finestre socchiuse,

la porta d’ingresso spalancata alle visite di circostanza.

La serva era rimasta sola nella grande casa: il portone chiuso

e la bottiglia tra le mani ingioiellate per ubriacarsi in pace. I suoi

padroni se ne erano andati, uno ad uno, ma lei era sopravvissuta.

Così aveva pensato mentre aveva portato la bottiglia alla bocca e

continuato a tracannare quel vino che da sempre le era stato

misurato; anzi a lei era toccato solo il vino di botte e mai quel

buon spumante e biondo vermentino riservato ai padroni e ai

loro ospiti. Ora le bottiglie nere con lo stemma della famiglia

fuso nel vetro sarebbero state tutte sue. Aveva già cominciato a

vuotarle; infatti, non riuscendo più a specchiarsi distintamente

nei vetri della finestra, aveva cominciato ad osservare con

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attenzione, ora che era sua, la grande casa e solo ora aveva

notato come stesse per cadere a pezzi grazie all’incuria dei suoi

proprietari che l’avevano sempre trascurata.

Di padre in figlio mai nessuno aveva riparato il tetto,

sostituito un vetro alle finestre, imbiancato una stanza.

Tutti sapevano che la grande famiglia si sarebbe estinta,

anche i suoi padroni, e forse era stato per questo che avevano

cominciato a disinteressarsi di ogni proprietà.

I detti dei vecchi trovano sempre puntualmente riscontro e di

quel casato si era sempre detto che non sarebbe scampato alla

malasorte. Un loro antenato, sconsacrando una chiesa, aveva

avviato la maledizione sulla famiglia che da quel momento aveva

cominciato a estirparsi con tragici lutti.

Lei l’aveva constatato, e, mentre beveva, aveva continuato a

rimirarsi riflessa nei vetri provando coralli e granati.

Ormai erano suoi e così pure i bei mobili che aveva spolverato

da sempre sotto gli occhi superbi delle nobildonne. I gioielli che

ora aveva in mano, in altri tempi, li aveva visti da vicino

solamente quando andava a servire le signore a tavola durante i

pranzi di circostanza; a lei non era stato mai consentito toccarli e

nemmeno le era dato sapere dove venivano riposti.

E quanto al cibo, ricordava molto bene come ospiti e padroni

si rimpinzassero e per lei spesso non rimanesse nulla o le venisse

concesso di mangiare un uovo.

Certamente nella sua famiglia di origine non stavano meglio;

si raccontava di un suo fratellino di tre anni che, nudo su un

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albero di fichi, per potersi sfamare, ne mangiava con tutta la

buccia, maturi e acerbi, fin dove arrivava a raccoglierli.

Con gli anni le era stato concesso, dopo aver servito i

commensali, di sedere a tavola, un pò in disparte, e questa le era

parsa una conquista sociale.

La pendola in anticamera aveva continuato a scandire il

tempo e lei a bere.

Il lugubre verso della ciuetta l’aveva riscossa e le aveva

snebbiato un poco la mente riportandola alla realtà.

L’uccello del malaugurio si avvicinava sempre attratto

dall’odore di morte. Questa volta era venuto per il suo padrone,

l’ultimo della grande famiglia, che, disgraziatamente per lui,

gravemente malato, era stato da lei obbligato a lasciarla erede di

ogni suo bene. Da quel momento, serva ormai padrona, aveva

potuto infierire su di lui con ogni tipo di umiliazione e per

ultima grave ingiuria, nel grande palazzo, niente catafalco nel

salone, nè visite o veglia funebre; la povera salma era stata

collocata al buio in una stanza chiusa a chiave in attesa della

sepoltura.

Il verso della ciuetta si era fatto più distinto e il silenzio nella

casa era parso ancor più profondo. Ora la serva aveva

cominciato a sentire, oltre al tichettio del pendolo in anticamera,

un lieve frusciare sullo scaleo che portava in giardino.

Ripensando a quanti avevano assicurato che in passato molti

membri della famglia si fossero rivisti in castello e nel salone

accanto al camino, cominciò ora anche lei a vedere le ombre

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degli antichi defunti sfilarle davanti agli occhi, come in una lenta

processione, per recarsi a vegliare, con l’orgoglio e la dignità del

casato, l’ultimo dei loro congiunti.

Nessuno di loro l’aveva degnata.

In un crescendo di sensazioni e terrore per quel che le era

apparso, la serva aveva capito che, da quel momento, assieme

alle ricchezze, la maledizione della famiglia era passata su di lei.

Per chi aveva usurpato quei beni non ci sarebbero mai stati

discendenti.

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L’INFAME

Un a calura insopportabile avvolgeva il paese che

pareva intorpidito. Mentre i contadini nei campi si

concedevano una breve sosta prima di riprendere il

lavoro, le poche persone che erano rimaste in paese cercavano

un pò di refrigerio nell’ombra degli anditi o sotto le volte del

vicolo. I gatti sonnecchiavano all’ombra, i cani si mordevano le

pulci. Solo i bambini, incuranti del caldo, si rincorrevano

vociando sulla piazzetta del paese. Le loro grida festose

ricordavano quelle delle rondini, quando in primavera,

tornavano ai vecchi nidi sotto la gronda del tetto del castello.

Il portale della chiesa era aperto; in fondo, a fianco

dell’altare, un lume sempre acceso davanti al S.S.Sacramento

rischiarava la semioscurità della navata. I Santi, dalle loro

cornici, osservavano impassibili il riflesso colorato che il sole

disegnava, attraverso le vetrate, sul pavimento della chiesa.

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Lui stava rannicchiato nel buio del confessionale, le tendine

un pò accostate, lo sguardo attento del felino, mentre, attraverso

la porta della chiesa, continuava ad osservare un gruppo di

bambini che si rincorrevano festosi.

Dapprima aveva cercato di resistere a certi ignobili pensieri

che ormai affollavano quotidianamente la sua mente, aveva

anche tentato di chiudere gli occhi per non guardare, ma il

vociare dei fanciulli era un richiamo così allettante che non

aveva potuto resistervi, così aveva ripreso ad osservarli.

Si era nascosto nell’ombra per poter facilmente ricreare

eccitanti ricordi; un ossessivo desiderio l’aveva portato ad

appostarsi, ancora, come un animale, in attesa della preda.

Aveva un aspetto piacevole e l’espressione sorridente; non

guardava mai negli occhi il proprio interlocutore. Era diventato

esperto a nascondere le sue brame ed anche terrorizzato che

qualcuno potesse leggere i suoi pensieri.

Da sempre era sembrato un diverso, anche se non si sarebbe

potuto spiegarne la ragione; per parte sua, crescendo aveva

lottatto per essere normale, aveva cercato di fare quello che

facevano gli altri bambini e quando infine aveva preso una

decisione per la sua vita, un conoscente gli aveva espresso la

propria sorpresa e incredulità per la scelta che aveva fatto.

Lo gratificava essere protagonista ed era conscio di avere un

bell’aspetto. Sapeva, anche, come ipocritamente convincere le

persone per ottenere cose che potevano fargli comodo, e come

circuire le giovani donne lusingate dalle sue attenzioni.

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Aveva ignorato ogni scrupolo morale e aveva ottenuto

facilmente favori femminili; spesso erano le donne stesse che gli

si concedevano felici nel ritenersi prescelte.

Un giorno aveva passato un brutto momento quando era stato

scoperto in un luogo e con una persona proibiti per lui ma poi

tutto era stato ignorato e, in ogni modo, la sua vita era scorsa

come se niente fosse accaduto.

Quell’episodio però lo aveva reso prudente, non avrebbe più

dovuto rischiare.

Dalle donne adulte era sceso ad intrallazzare con ragazze

sempre più giovani per poi spostare le sue attenzioni sui

bambini. Aveva cominciato a rimanere più a lungo, anche per

molte ore al giorno, a giocare con loro. Nelle sere d’estate aveva

proposto giochi come il nasconderello, così non si poteva

valutare se, al buio, ne avesse trattenuto uno troppo a lungo tra

le braccia.

Anche adesso che li vedeva correre e ridere avrebbe voluto

essere con loro. Acchiapparli, stringerli a sè…trascinarne uno

nell’ombra…

Un lungo brivido di piacere gli aveva percorso la schiena.

Quelle tenere membra profumate, quelle carni delicate e

morbide…

I rintocchi del campanile lo avevano riportato al presente.

Un refolo di vento faceva leggermente ondeggiare le tovaglie

degli altari; dalla parete, un angelo di marmo col braccio alzato

sembrava minacciarlo.

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Aveva trattenuto il respiro e chiuso gli occhi per la vergogna,

poi si era lasciato andare con la testa abbandonata contro lo

schienale.

Si era rilassato e aveva cercato di ricordare quando fosse stata

la prima volta che era stato assalito dal desiderio di possedere un

bambino: non avrebbe potuto dirlo. Forse era successo quando,

inconsciamente o forse per gioco, ne aveva chiuso uno in una

stanza. Il piccolo era riuscito a scappare ma lui, per un

momento, aveva provato una strana sensazione di possesso e

quasi di piacere. Poi aveva voluto riprovare con un altro

bambino per verificare se avesse potuto ancora assaporare quella

piacevole e strana sensazione della volta precedente; aveva

scoperto così, come fosse facile ed eccitante approffittarsi di una

creatura che fiduciosa, non osa opporsi a quello che crede

semplicemente un gioco.

Aveva anche scoperto che i bambini non si confidano

facilmente con i genitori perchè era ormai passato molto tempo

da quando aveva messo a segno la sua prima infamia e ancora

nessuno lo aveva accusato; comunque, se lo avessero fatto,

pensava che avrebbe potuto facilmente smentire un bambino...

Ricordava spesso gli occhi azzurri di uno di loro che, dopo

una sua carezza, l’aveva guardato intensamente come per

ottenere una spiegazione. Quegli occhi innocenti erano per lui

un tormento che, ostinatamente, cercava di ricacciare in fondo

alla sua abiezione.

Dall’ombra in cui stava nascosto i suoi occhi, sempre avidi,

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continuavano ad osservare i bambini che passavano nello

specchio di luce della porta come un volo di rondini.

L’infame aveva continuato a crogiolarsi nei suoi turpi pensieri

e, come sempre, stava cercando una buona occasione che gli

permettesse di mettere le mani su uno di loro. Non sempre gli

riusciva, troppe volte aveva fallito per l’intervento di qualche

estraneo che inopportunamente gli aveva rovinato l’agguato.

Spesso le stesse madri arrivavano tempestivamente a

riprendersi i piccoli, talvolta un vecchio andava a sedersi sulla

panchina della piazza e passava il tempo intento ad osservare.

Questi, specialmente un vecchio, sarebbe stato un testimone

difficile da ingannare; ben sapeva quanto spesso i suoi stessi

bramosi pensieri erano passati per la mente di un vecchio

maschio.

Improvvisamente, come materializzato dal nulla, il bambino

era apparso davanti a lui. Forse si era distratto e il piccolo era

entrato per giocare a nascondino o forse era già all’interno

prima che lui si fosse nascosto nel confessionale. Il piccolo era

rimasto immobile a guardarlo senza parlare o sorridere.

Sicuramente lo aveva osservato durante tutto il tempo in cui la

sua mente elaborava pensieri infami.

Sembrava che quegli occhi innocenti arrivassero a leggergli

l’inferno che aveva nell’anima.

Non aveva osato toccarlo.

Dopo un tempo che non avrebbe saputo definire ma che gli

era parso senza fine, il bambino aveva puntato un dito contro di

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lui e gli aveva detto: “tu andrai all’inferno”. Poi si era voltato

verso la porta ed era uscito nella luce per associarsi al volo di

rondini dei suoi piccoli amici.

L’infame aveva tremato; le parole del bambino sembravano

evocare quelle del Vangelo sulla macina da mulino da

appendersi al collo per coloro che abusavano dei fanciulli.

L’innocenza l’aveva condannato e gli aveva detto che per lui si

stava preparando una giustizia divina.

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LA MAESTRA

La Maestra aveva vissuto in una grande e solida casa

che sorgeva fuori delle mura del paese. La costruzione

aveva belle inferriate alle finestre del pianterreno e

una ricca ringhiera al balcone centrale del primo piano.

Sopra l’arco di marmo che incorniciava il portale, lo stemma

della famiglia riproduceva le iniziali del parroco, PLG, che aveva

voluto apporvela nei secoli passati. Sulla linea del marcapiano

un’iscrizione latina diceva:”… questa casa sarà alloggio al

pellegrino…” Le parole erano appena percettibili poichè le

lettere incise sulle due fasce di marmo erano molto consunte e la

pietra, negli anni, aveva assunto il colore grigio del resto

dell’intonaco. Nel corso del tempo qualcuno poteva averla notata

e forse non avendo saputo tradurla era stata presto ignorata.

Certo è che un lato della casa era stato ingrandito con le

pietre che i contadini avevano dovuto portare per contribuire

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alla costruzione, anche se non c’è traccia che in seguito, questa

fosse stata mai usata quale alloggio ai pellegrini.

Le genti del contado, la domenica, avanti dì, col lume in

mano, passando a guado il canale per andare ad ascoltare la

prima messa , avevano dovuto raccogliere ciascuno una pietra e

avevano dovuto deporla in un bel mucchio che presto avrebbe

ampliato la costruzione.

Queste poveri cristiani, pur di santificare in qualche modo la

festa, avevano accettato questa ulteriore fatica ben sapendo che

al termine della messa li avrebbe attesi ancora per tutto il giorno

il duro lavoro dei campi. Diversamente da coloro che essendo

meno bisognosi si vestivano dalla festa e andavano alla messa

cantata nella tarda mattinata, questi vestivano gli abiti da tutti i

dì e non possedevano il soldo da mettere nel sacchetto delle

elemosine che il chierichetto a metà messa raccoglieva passando

tra le panche.

Quando la Maestra era venuta sposa al paese, la grande casa

era stata ormai ultimata, gli arredi interni erano ricchi e solidi,

nel sottotetto fioriva una piccola industria di allevamento di

bachi da seta e lei, al pianterreno in una piccola stanza, aveva

cominciato a insegnare ai bimbi.

In seguito, con la proclamazione del regno d’Italia, era stata

costruita una vera scuola con una pluriclasse nella quale

venivano riuniti bambini dalla prima alla terza e spesso erano

stati ammessi anche molti adulti, cosicchè lei , essendo stata la

maestra di tutti, era ormai chiamata unicamente la signora

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Maestra.

Era buona e generosa e il suo unico figlio ne aveva ereditato

l’intelligenza e l’amore verso il prossimo. Ella ne aveva seguito lo

sviluppo intellettivo e lo aveva accudito con dedizione.

Quando bambino si allontanava su per la stradina chiamata la

crosa per andare in collegio prima e all’Università dopo, la

madre usciva fuori dal portoncino della casa a guardarlo salire

verso il santuario sulla sommità della collina e lì il figlio, era uso

salutarla prima di sparire oltre il crinale. Lo aveva visto medico

stimato uscire per andare nelle campagne innevate a curare i

contadini e clinico illustre raggiungere in città il dispensario

antitubercolare che recava il suo nome a lettere cubitali sulla

facciata.

“Mamma…”

Il grido era sceso lungo il crinale sfiorando le cime dei

castagni fino a raggiungere la madre che, come sempre,

immobile sulla soglia della casa guardava il figlio che si

allontanava. Quel grido, quasi un ultimo saluto, aveva

comunicato alla madre il dolore, la disperazione e l’ amore che il

figlio provava in quel momento terribile.

La Maestra sapeva che non lo avrebbe più rivisto!

Nel tempo che precede una tragedia pare che la natura e la

vita si arrestino. Ogni cosa sembrava tacere, un silenzio irreale

sembrava avvolgere la natura. Occhi spaventati avevano spiato

tra le piccole imposte socchiuse; orecchi attenti avevano

ascoltato l’affievolirsi dei passi chiodati del plotone di esecuzione

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dei nazisti che, risalendo la mulattiera, avviava il dottore al luogo

dell’esecuzione. Si intuiva il verificarsi di un crimine, perchè la

fucilazione non veniva effettuata sulla piazza del paese, ma al

riparo delle fronde di un bosco.

A mani giunte la madre era rimasta a guardare il suo unico

figliolo, mentre al centro del plotone di esecuzione saliva su per

la crosa per andare a morire. Mentre si raccomandava alla

Madonna aveva pensato che anche il Figlio Suo aveva dovuto

subire la Crosa e come l’altra Madre anche lei ora avrebbe

dovuto soffrire un immenso dolore.

“Mamma…”

Alla seconda invocazione, sulla sommità della collina, il figlio

si era voltato e si era fermato un attimo a riguardar la madre,

prima di sparire nel folto del bosco, come per attingere da lei la

forza per proseguire sino ai colpi degli spari che gli avrebbero

stroncato la vita.

Sul sagrato antistante la chiesa un gruppo di donne vestite di

nero avevano guardato con occhi impauriti e stravolti

alternativamente la povera madre e il piccolo drappello che si

allontanava su per la crosa.

Nome più appropriato la piccola strada non avrebbe potuto

avere, e la scena pareva apparecchiata per un venerdì santo.

Attraverso le lacrime e la disperazione la madre aveva

continuato a guardare il punto in cui era sparito il figlio.

Le donne vestite di nero avevano allora circondato la madre,

anzi la loro Maestra, che tanti anni prima, era venuta giovane

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sposa da un paese al di là della Civiglia e avevano pianto con lei.

Nel punto in cui il figlio l’aveva invocata per l’ultima volta la

madre aveva piantato una rosa e per lunghi anni, anche dopo la

morte della Maestra, essa aveva continuato a fiorire; pochi

ricordarono e presto dimenticarono il motivo per cui essa era

stata piantata.

Oggi la rosa non c’è più, rivive solo in queste righe a

testimoniare l’amore di una madre.

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GENOVEFFA

“Do v sev stà brut furmigon?” Genoveffa non

aveva dato molto peso alle parole del marito

che pazientemente l’aveva aspettata nella

piazza in fondo al paese. Col suo solito sorriso bonario si era

accostata a lui e, soddisfatta, gli aveva fatto l’elenco delle cose

che aveva appena acquistato con i soldi delle loro pensioni

appena incassate: una sedia a sdraio, un nuovo colapasta,

qualche pacco di biscotti… Il marito si era così reso conto che

per lui in quel mese non ci sarebbe stato piu` un soldo da

spendere.

Da quando lo Stato aveva erogato una piccola pensione

sociale, i vecchi si erano sentiti veramente ricchi e l’uomo poteva

finalmente comprarsi i toscani ed il tabacco da pipa senza dover

fare grossi sacrifici.

Un altro motivo di soddisfazione per Genoveffa era dovuto al

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fatto che al momento della riscossione della pensione lei, con

orgoglio e diversamente dalla maggioranza che soleva firmare

con una croce, aveva saputo apporre la propria firma sul modulo

per la ricevuta.

Dopo l’Unità d’Italia al suo paese era diventato obbligatorio

per i bambini frequentare la scuola sino alla terza classe e per

lei, adulta, imparare a leggere e scrivere era stato un privilegio

dovuto alla generosa maestra dei suoi figli che l’aveva accettata

in classe ancorchè adulta.

Sempre brontolando sul suo libretto della pensione

desolatamente vuoto e ripromettendosi di non consentire più a

Genoveffa di metterci sopra le mani il mese seguente, l’uomo si

era avviato alla mulattiera per tornare a casa.

La moglie lo aveva seguito come sempre, anche se da tempo, il

seguirlo era diventata una normale abitudine e non una

condizione di inferiorità. Per tutta la vita non gli aveva mai

camminato a fianco, sempre un passo indietro.

Quel giorno, mentre il marito la precedeva come al solito, un

passo dietro l’altro con ritmo regolare, ma un pò lento,

Genoveffa si era messa a considerare che il suo uomo era

diventato veramente vecchio: i calzoni un pò sformati

mostravano gambe piuttosto magre, così come la giacca

sembrava un poco ciondolargli dalle spalle ossute.

Era stato sempre un bell’uomo, alto, biondo e forte e lei

l’aveva sempre amato tanto e ne era anche sempre stata gelosa

nei confronti delle altre donne. Un giorno si era anche sentita

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dire da una di loro: “brutta malattia la gilosia Ginoefa…” Anche

ora che era vecchio se lo riguardava con gli occhi innamorati di

sempre.

Era un pò risentita e anche un pò offesa per essere stata

definita da lui brut furmigon; lei lo capiva bene di somigliare ad

una grossa formica nera, ma il sentirselo dire da lui le aveva

procurato un certo malessere.

Da sempre, cioè da quando si era fatta adulta, il solo colore

dei suoi abiti era sempre stato il nero come si conviene alle

donne di Lunigiana dopo maritate, così pure i capelli che da neri,

con gli anni, potevano solo diventare grigi. Bella poi non era

stata mai, forse graziosa, buona, semplice, laboriosa e generosa;

questo sì, e chiunque si fosse rivolto a lei avrebbe dovuto

riconoscerle una grande disponibilità e una rara onestà.

Ora poi con gli anni e le molteplici gravidanze i suoi fianchi

si erano fatti larghi e sformati e quel pò di grazia che aveva

posseduto era sparita.

Genoveffa veniva da una buona famiglia che abitava una casa

di quattro piani con una bella terrazza antistante, un balconcino

sul retro con vista sulla vallata e un’antica meridiana sulla

facciata verso il sole. Quando era stata chiesta in sposa, ne era

stata molto felice, anche se la condizione di mezzadro del suo

futuro marito non lo faceva ritenere adatto alla sua famiglia che

era invece possidente.

Dopo le nozze il suo uomo aveva voluto emigrare nel Nuovo

Messico per far fortuna e ricomprare le proprietà che il suocero

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si era giocate in borsa ed ella lo aveva seguito negli States

dividendo con lui ogni esperienza. A lei era toccato andare in

banca a depositare il denaro, poichè per strada mai sarebbe stata

rapinata e anzi, qualsiasi poliziotto, a manganellate, avrebbe

fatto scendere dal marciapiede il malcapitato che non avesse

ottemperato all’uso di cedere il passo ad una signora, e così in

banca la fila degli uomini, allo sportello, si sarebbe scansata per

far posto a una donna onorata.

Là era nata la prima bambina che, avendo ereditato la

straordinaria bellezza del padre, aveva scatenato il malocchio

dalle altre madri. Là il suo uomo per anni era sceso in miniera e

quando era miracolosamente scampato al grisou, avevano

contato i risparmi e avevano deciso di tornare al paese.

Genoveffa era una moglie felice. Aveva una bella casa con

accanto la stalla e il fienile. L’ovile e il pollaio erano vicino ai due

orti annessi all’aia. Il marito le aveva costruito anche un piccolo

cess che era stato molto invidiato e spesso anche usato dai vicini.

Accanto alla finestrella della grada, usata solo al momento

della raccolta delle castagne, si apriva quella del pozzo e questo

era stato veramente un gran regalo, poichè la fontana era assai

lontana e il marito glielo aveva realizzato per alleviarle qualche

fatica dopo che la casa era stata rallegrata dall’arrivo di altri

sette figli.

Con il denaro faticosamente risparmiato avevano comperato

molti campi e anche una seconda casa che veniva genericamente

definita la cà vecchia.

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In questa erano costudite le scorte alimentari della famiglia:

una stanza con gli scrigni delle granaglie, una con ceci, fagioli,

fave e piselli, ben divisi sul pavimento per qualità, mentre dai

travi pendevano collane di pomodori secchi, agli e cipolle.

Un’altra stanza aveva la frutta appesa ai travi: i fichi secchi nei

grandi sacchetti bianchi, le mele sulle tavole o a fette in collane, i

sacchetti con le noci e le nocciole. Le patate erano distese sul

pavimento di un’altra stanza che conteneva, allineate su tavole

sospese al soffitto, le formagette che Genoveffa preparava e poi

accudiva mentre stagionavano.

Il vino era invece custodito dal marito, il quale provvedeva

anche a travasare l’olio dalla preda di pietra agli orci di

terracotta per evitare che inacidisse.

Mentre seguiva il suo uomo, Genoveffa pensava alla sua vita

trascorsa con lui e considerava che ormai, paragonandosi ai loro

vecchi, pochi anni ancora sarebbero rimasti loro da vivere.

In quanto alla sua figura, Genoveffa rimuginava ancora sul

discorso del marito, sapeva bene di somigliare ormai al furmigon,

non fosse altro che per il suo incedere col corpo un poco obliquo

in avanti, ma sentirselo dire l’aveva proprio offesa.

Presa da questi pensieri, giunta sulla sommità della collina,

Genoveffa si era fermata un momento a riguardare da un lato il

santuario che l’ aveva vista sposa felice, si era segnata e volgendo

il capo al cancello del piccolo cimitero nel quale erano sepolti

ormai tutti i suoi cari, compreso il suo piccolo Emilio morto di

spagnola, con un sospiro che lei stessa non avrebbe saputo

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spiegarsi, aveva oltrepassato il dosso e si era avviata verso la sua

casa pensando che presto, forse molto presto, avrebbe, come

sempre, seguito il suo uomo anche dentro quel cancello.

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ANSELMO

Qu ando rientrava la sera era abituato a passare dal

cadr dell’orto per non sporcare il pavimento della

casa con gli zoccoli infangati. Passava sotto la pergola

davanti alla stalla delle pecore e saliva fin sulla terrazza davanti

alla casa dove sua moglie aveva già preparato per lui la bolia

piena d’acqua. Anselmo si sedeva sullo scalino della porta, si

toglieva gli zoccoli, le pezze dai piedi e li immergeva nell’acqua.

Ritornava da un paese lontano dove si recava avanti dì per fare il

muratore percorrendo a piedi molti chilometri.

Gli zoccoli che calzava li preparava un suo figlio che li

intagliava in un ceppo di cerro e fissava la tomaia, cucita dalla

moglie, con una strisciolina di latta ritagliata dai barattoli della

conserva. L’acqua fresca dava un incredibile sollievo ai suoi

piedi stanchi e, mentre si asciugava, pensava che dopo il piatto di

minestra della cena avrebbe potuto distendersi nel suo letto per

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un breve sonno e troppo presto avrebbe dovuto alzarsi per una

nuova e lunga giornata di lavoro.

L’orario di lavoro era da “sole a sole” e poteva dirsi fortunato

se poi il padrone lo avrebbe pagato. Infatti Anselmo che

possedeva una piana vicino al cimitero, avendogli chiesto la

famiglia del dottore di costruirgli una cappella mortuaria sulla

sua proprietà, aveva addirittura regalato loro la terra sperando

di vedersi almeno pagato il lavoro, ma, trascorsi gli anni,

ciascuno, per ragioni diverse, aveva preferito dimenticare.

Anselmo era un bell’uomo, alto e biondo, ma soprattutto era

forte e molto saggio. Discendeva per parte di madre dai Ventura,

una ricca famiglia proprietaria della casa torre, e dal poeta

Bonaventura Peccini da Panicale che aveva scritto un poema in

versi latini, oggi introvabile.

A causa dei debiti contratti dal padre, che amava giocare in

borsa, diventato mezzadro aveva dovuto lavorare duramente per

mantenere la sua famiglia.

Raramente andava all’unica osteria del paese, perchè il suo

vino era migliore di quello di Sarafin d’ l’ost però, ogni tanto, gli

piaceva andare per ritrovarsi tra uomini e parlare di argomenti

legati alle semine o al governo; stava seduto tra gli altri con la

pipa tra i denti e ascoltava più che parlare.

I suoi abiti erano lisi e sformati ma aveva sempre la camicia

pulita e il gilè abbottonato sotto la giacca. Portava sempre il

cappello, come era in uso all’epoca, e sapeva soprattutto quando

doveva toglierselo.

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Era considerato un uomo educato e riservato e sapeva farsi

rispettare, da potenti e prepotenti. Una volta era riuscito a

disarmare un delinquente che nella notte era entrato nella sua

camera per sgozzarlo con un rasoio e da quel momento Anselmo

l’aveva usato ogni mattina per radersi ringraziando la

provvidenza di averlo lasciato in vita. Ma l’episodio si riferiva al

periodo in cui viveva nel nuovo mondo dove era andato per

guadagnare i soldi per comperarsi una casa e nuova terra dopo

che la sua casa natale, la casa torre, era stata venduta per i debiti

contratti dal padre.

Anselmo rimboccandosi le maniche, aveva acquistato e

ricostruito una vecchia casa ben esposta al sole con una bella

vista verso il santuario e, dopo la morte del padre, aveva accolto

nella propria casa, la madre, i suoi due fratelli e una sorella

ancora nubile. Aveva comprato terre da semina e da foraggio,

vigneti e uliveti sufficienti a mantenere la sua grossa famiglia. In

un suo castagneto di fronte alla casa tre grossi tumuli segnavano

le tombe delle sue vacche morte di malattia e quando i fuochi

fatui danzavano la notte tra quegli alberi, Anselmo pensava alla

grave perdita economica subita e al supplemento di lavoro subito

per comprarne altre.

Le vacche, la mora e la bionda venivano aggiogate e per arare

la terra e per trasportare con la bena e la viola ogni tipo di carico

dai campi. Nella bena potevano trovare posto attrezzi pesanti,

sacchi, botti e fasci di legna mentre sulla viola si potevano

caricare materiali voluminosi che si potevano comprimere come

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foraggi, paglia o fieno.

Anselmo amava la sua casa e i suoi campi.

Nelle sere di maggio sedeva sulla terrazza e restava a

guardare nel buio le lucciole che silenziose animavano la notte

oppure si perdeva ad ascoltare l’unisono dei grilli o il gracidare

dei rospi. Al tramonto guardava le rondini che volavono alte nel

cielo a significare il bel tempo e, quando queste volavano basse,

Anselmo si preparava un lavoro al coperto per l’indomani. Egli

amava tutti gli animali fuorchè le cicale che, di giorno, con il

loro frinire parevano aumentare la calura dell’estate.

D’inverno, quando la terra dormiva, andava dove era

chiamato a fare opere di muratura nelle quali era molto bravo.

Era altrettanto ricercato per conciare le carni di maiale che, sotto

le sue mani, diventavano salami, salsicce e prosciutti. Accudiva

personalmente anche alla sua cantina; sapeva quanto doveva

durare la fermentazione del mosto, prima di svinare, a seconda

della temperarura e del grado di maturazione dell’uva.

Nessuno l’aveva mai sentito cantare, neppure da giovane e

anche il suo conversare era raro. Poteva all’occorrenza

intervenire per dare un consiglio o fare qualche esclamazione di

disappunto per un lavoro fatto male, ma niente più.

L’espressione del suo viso era molto seria e gli occhi

impenetrabili per cui istintivamente i figli crescevano rispettosi

ed educati e gli estranei gli usavano molto riguardo. Se nella casa

regnava la moglie, lui era il padrone della cantina: due grosse

botti su pilastri servivano per la pigiatura dell’uva e nell’angolo

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lo strengin era pronto coi suoi fiscoli impilati e puliti; due brevi

scalini portavano alla cantina sotterranea dove da un lato erano

allineate le botticelle col vino a maturare e la spina innestata a

quello che man mano veniva vuotato, mentre dall’altro lato

erano allineate le damigiane col loro bel barattolo capovolto sul

tappo a difesa dai topi. Molte bottiglie nere di vino spumante

erano nelle loro rastrelliere e in un angolo c’erano prede di

pietra piene d’olio coperte da una tavola su cui posava una

grossa pietra. Anselmo amava il vino e non beveva mai liquori;

anzi a quel tempo il solo liquore conosciuto era il cognac, e

semmai che ce ne fosse stato in casa, sarebbe servito soltanto a

rinfrancare un malato; questo perchè la povertà di quel tempo

non avrebbe mai permesso a nessuno di comperarne anche solo

una piccola bottiglia.

Anselmo ricordava spesso, ai figli e ai nipoti, quando nella sua

infanzia non si giocava a biglie, ma coi tappi da birra, e chi

perdeva pagava i debiti la sera a cucchiai di minestra e come

puntualmente il vincente si presentasse a riscuotere.

La salute di Anselmo era sempre stata buona, anzi amava dire

che per lui tutti i dottori potevano anche morire di fame, perchè

nella sua vita non ne aveva avuto mai bisogno, e così era stato

sino al momento in cui aveva cominciato, durante il giorno, a

restare seduto a lungo e in silenzio. Gli occhi sembravano

guardare lontano; forse pensava alla sua trascorsa gioventù

oppure al duro lavoro in miniera, nessuno sapeva perchè

Anselmo non amava parlarne.

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Talvolta teneva gli occhi chiusi fingendo forse di dormire e

spesso pareva assopito. Un giorno una vecchia del paese

osservandolo, con un sospiro rassegnato, presagì per lui

“durmindo murindo”; la sua ora era vicina.

Era stato chiamato il dottore che, con un grosso spillone, gli

aveva bucato le piante dei piedi per sincerarsi che fosse morto,

ma Anselmo non lo aveva potuto vedere nè soffrire perchè era

già andato a raggiungere i suoi vecchi nel piccolo cimitero sulla

collina.

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LAURA

Il carro funebre sostava davanti al grande portale. La bara

aveva disceso lo scaleo in marmo, aveva traversato l’atrio

ed era stata deposta dentro il carro. Un tappeto di gerbere

bianche con lunghi bianchi nastri inanellati scendendo dal

tappeto fiorito aveva incorniciato la bara. Era gennaio e i rari

passanti si erano fermati a riguardare il funerale con l’aria di

non capire.

Dall’atrio del nobile palazzo, abitato da sempre da donna

Laura, era uscita una piccola salma. La signora del palazzo aveva

da tempo compiuto i cento anni e col tempo si era fatta

veramente minuscola, ma i fiori bianchi erano inspiegabili.

Il portale era stato aperto completamente cosicchè dalla via si

poteva osservare il grande atrio dalle volte incrociate poggianti

su colonne, col pavimento in pietra e le grandi inferriate alle

finestre. Un grande arco sul fondo apriva ad un giardino interno

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con aiuole, grandi palme e piccoli cespugli verdi che in

primavera dovevano coprirsi di fiori. Tutt’attorno un alto muro

lo racchiudeva nascondendolo agli occhi indiscreti anche se

qualche finestra, nei secoli, aveva osato affacciarsi su questo

angolo recondito.

Lo scaleo portava al primo piano dove un grande portone

introduceva a un appartamento che si affacciava sul giardino e

sulla via principale di fronte al Duomo.

L’appartamento era molto grande. Una teoria di salotti con

mobili d’epoca e soffitti affrescati portava alle stanze della

famiglia altrettanto riccamente arredate. I tendaggi e le

coperture erano di fine damasco e broccati di seta, nei vari

colori, ricoprivano sedie e poltrone nelle diverse stanze.

La policromia dei vetri alle finestre alternava ai grandi tappeti

disegni multicolori sui pavimenti. Ricami a piccolo punto

decoravano gli arazzi dei parafuochi e delicate trine

arricchivano le tovaglie distese sui lucidi mogani.

Donna Laura raramente aveva abitato questa parte della casa

preferendole il piano superiore, dove abitualmente viveva, e vi

scendeva solo quando i suoi innumerevoli nipoti venivano a farle

visita e si trattenevano da lei per qualche tempo. Anche il piano

superiore era riccamente arredato: quadri, stampe e mobilia

erano di grandissimo valore. Le argenterie splendevano dentro le

cristalliere e le sovrapporte erano decorate con la foglia d’oro.

Nella zona di servizio un lungo terrazzo coperto si affacciava

sul giardino, un tempo chiostro, e consentiva di sciorinare al

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coperto il bucato. Sempre da una zona riservata si poteva

accedere alle stanze della servitù che erano collocate all’ultimo

piano nel sottotetto e da queste si accedeva ad un enorme

stanzone aperto e voltato, dal quale si poteva godere un

magnifico panorama sulla città.

A questo punto dal pavimento sembrava fuoruscire un’ampia

cupola e ci si rendeva allora conto di essere sulla sommità di

quella che doveva essere stata la cappella del convento e così era,

poichè diversi secoli prima, nel Seicento, il palazzo era stato un

convento delle Clarisse.

La millenaria famiglia Magni Griffi, da cui donna Laura

discendeva, ascritta nel 1528 nell’albo d’oro della nobiltà

italiana e imparentata con papa Niccolò V Parentuccelli, lo aveva

acquistato agli inizi del settecento, lo aveva rimaneggiato e

adattato a propria dimora.

Donna Laura era nata a Napoli perchè il padre, generale

dell’esercito, era di stanza in quella città, e del fatto di non esser

nata in Lunigiana si era sempre dispiaciuta; diversamente da lei,

i suoi fratelli, la sorella e così pure il padre erano venuti al

mondo nel palazzo di Sarzana. La marchesa sua madre era una

discendente degli Spinola e di questa grande famiglia genovese

Laura aveva ereditato, attraverso la madre, un prezioso velo da

sposa che, non avendo mai potuto indossare, religiosamente

aveva conservato sino alla morte.

Laura era cresciuta timida e riservata e, sebbene avesse

frequentato il liceo, a causa di una salute un poco cagionevole, il

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padre non le aveva permesso di frequentare l’Università. Aveva

avuto lezioni di piano e di ricamo come di consuetudine e in più

da un professore dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, spesso

loro ospite, aveva imparato a dipingere.

Nell’arco della sua vita aveva visto i fratelli e la sorella,

sposati, con la loro numerosa prole, invadere nei giorni di festa il

grande palazzo che i genitori avevano lasciato in eredità a lei,

rimasta nubile.

Aveva amato la lettura e per questo aveva passato molto del

suo tempo nello studio dove una ricca biblioteca raccoglieva

opere di vario genere: dai classici, al teatro, alla narrativa. Aveva

amato anche scrivere; di lei rimane una pubblicazione della

storia della sua famiglia ultimata alcuni mesi prima della morte.

Aveva trascorso il suo tempo tra le visite delle nobili signore,

il ricamo e il pianoforte. Solo quando aveva ormai superato il

secolo di vita, aveva confessato che nella sua ormai antica

giovinezza si era innamorata di un professore del liceo, ma aveva

tenuto a precisare che mai la cosa era stata palesata. In seguito,

un suo corteggiatore, ufficiale dell’esercito, l’unico che le avesse

manifestato affettuose attenzioni, le era stato allontanato dal

padre perchè dedito al gioco.

Il tempo scorreva nel grande palazzo allineato tra quelli dei

notabili; tanto ne era passato che Laura era riuscita a conoscere

tre secoli. Ma nella sua lunga vita non aveva mai conosciuto la

gioia dell’amore, mai una carezza di innamorato sui suoi capelli

nè un casto bacio maschile sulle sue labbra.

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Nell’antico convento delle Clarisse, si era compiuto il suo

destino di donna che senza essersi votata a Dio, aveva vissuto

come le antiche consorelle in solitudine, castità e in preghiera.

Laura, come loro, aveva vissuto vergine nel corpo e nello

spirito e quando era venuto il grande momento per lei di passare

ad altra vita, un’anima gentile, forse interpretando il muto

desiderio del suo cuore, ricoprendole il feretro di fiori e nastri

bianchi, aveva voluto onorare la sua purezza.

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PAULO

Er ano i giorni della merla. L’ultimo intensissimo freddo

dell’inverno. La brina imbiancava l’erba e i rovi.

Ancora un poco e poi il gelo sarebbe sparito sotto la

prima pioggia. Il tempo sarebbe andato in dolciura e sui poggi si

sarebbero affacciate le primule e le viole.

Già le prime giunchiglie cercavano di fiorire a ridosso del

muro del cimitero nell’angolo dove di consuetudine venivano

sepolti i bambini.

A ridosso delle siepi cristallizzate dal ghiaccio sarebbero

sparite le piagnole, perchè gli uccelletti, trovando più facilmente

cibo altrove, non si sarebbero lasciati schiacciare dalla pietra

mentre andavano a beccare il chicco ingannatore.

Il paese pareva addormentato, immerso com’era, in una

ferrea cortina di ghiaccio che, negli angoli appena illuminati dal

sole, si trasformava in un triste umidore. Per lo stretto vicolo

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anulare, prima di inoltrarsi in una lunga galleria, si poteva

accedere ad un’aia chiusa da un portone ormai molto fessurato e

usurato dal tempo. Una bella scala in pietra, con una pensilina

sorretta da colonne anch’esse di pietra, portava al piano

padronale.

Al limitare dell’aia un basso muro fungeva da parapetto allo

strapiombo sottostante.

Sul fondo tra le pietre del canale si intravvedeva una cortina

di ghiaccioli, mentre l’acqua scorreva con un piccolo gorgoglio

liberando un sottile odore di muschio. Le piagne umide del

selciato lucevano al pallido sole.

Da un lato dell’ara una porta sconnessa dava accesso al luogo

in cui da sempre viveva Paulo. Una finestrella inferriata, nei

giorni di sole, disegnava sul pavimento della stanzetta una nitida

croce. In un letto di legno con le sponde, su un giaciglio di

scarfuglia, giaceva da tempo Paulo.

Rimaneva disteso per tutto il giorno, poichè le sue gambe per

vecchiaia o per malattia non lo reggevano più, ma, pur non

potendo uscire, poteva stabilire le ore della giornata dall’ombra

della croce che scorreva sul pavimento e, dalla intensità

dell’ombra stessa, conoscere anche le condizioni del tempo.

Spesso i bimbi per curiosità o per gioco spingevano

quell’uscio, sempre aperto, per cercare di vederlo e il vecchio

non li sgridava mai, rimaneva a guardarli in silenzio o forse

neanche più li vedeva.

Da tempo immemorabile, nella buona stagione, fin quando ne

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era stato capace, nei giorni di festa era andato a sedersi sul lungo

gradino di pietra posto appena fuori dell’arco di accesso al

paese, e lì rimaneva assorto, le palpebre molto abbassate, quasi

socchiuse, una pipa spenta tra i denti, a riguardare lontano.

Paulo non amava parlare, anzi preferiva ascoltare senza

intervenire nei discorsi altrui.

Il suo aspetto era severo, l’espressione quasi impassibile non

rivelava i suoi pensieri.

Durante la sua infanzia la povertà era stata così terribile che

spesso ricordava quando i bambini, giocando ai tappi sul

selciato, andavano la sera in casa dei perdenti a reclamare i

cucchiai di minestra vinti al gioco.

Paulo era nato miserabile; nel paese chi non era possidente e

non era stato assunto mezzadro, nei registri della parrocchia

veniva definito di condizione miserabile.

Della sua famiglia non era rimasta notizia e nessuno si era

mai interessato del suo cognome.

Nel paese si apparteneva ad una razza e, spesso, si

riconoscevano in tutti coloro che ne facevano parte, le

peculiarità o il mestiere che avevano determinato il soprannome:

quei di barbota, mengota, barca , scaletta, biasin, marangon.

Di lui non si conosceva nulla, forse era stato un trovatello

preso all’ospizio e allevato per qualche soldo. Eppure Paulo era

stato un uomo di un certo rilievo, aveva una profonda saggezza e

un grande riserbo e la particolare caratteristica di ricordare con

precisione le date degli avvenimenti. Era la memoria vivente del

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paese.

Durante le varie stagioni, sempre all’alba, si recava nei campi

altrui, dopo che i mezzadri avevano terminato il raccolto e, con

pazienza e umiltà, raccoglieva le poche spighe sfuggite ai covoni,

qualche frutto rimasto sull’albero, un grappolo d’uva nascosto

da una foglia, qualche grana d’uliva rimasta tra l’erba. Questa

era una legge non scritta che consentiva anche ai miserabili di

sopravvivere.

Sui suoi vestiti le pezze si coprivano di ulteriori rammendi e i

suoi piedi erano sempre scalzi. Durante l’inverno si metteva sulle

spalle e attorno al collo un vecchio scialle nero smesso da una

qualche vecchia. Non aveva mai posseduto un cappello e spesso

guardando il lavoro dell’ombrellaio che veniva apposta al paese

per cambiare le stecche rotte agli ombrelli, aveva tanto

desiderato possedere almeno un ombrello per ripararsi dalla

pioggia, invece, quando era necessario, gli toccava farsi un

cappuccio con un vecchio sacco ripiegato che gli faceva anche da

mantello.

Nella buona stagione, una volta all’anno, arrivava al paese un

carro carico di paglia e di ragazzi dalla testa rasata e denutriti; a

cassetta sedeva un uomo ben pasciuto con una catena d’oro che

gli traversava il panciotto. Il cavallo veniva alloggiato in una

stalla e i ragazzi nel fienile.

La mattina all’alba cominciavano ad arrivare le sedie da

rimpagliare e sulla piazza del paese i poveri ragazzi si

adoperavano alacremente ad attorcigliare la paglia nuova o sfare

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la vecchia, il tutto sotto lo sguardo non certo paterno

dell’ambulante.

Paulo sapeva bene interpretare nei loro grandi occhi straniti

la paura, la fame, il ricordo della loro famiglia, ma nulla poteva

perchè i suoi piedi erano scalzi come i loro con la differenza che

la loro giovinezza poteva ancora farli sperare in un futuro

migliore.

Alla fiera del paese Paulo avrebbe voluto comperarsi, come

tanti altri, un paio di occhiali e una volta aveva avuto anche il

coraggio di avvicinarsi alla bancarella e nel provarsene

velocemente un paio aveva scoperto un mondo di piccole cose.

Quanto avrebbe desiderato possederli poter osservare tante

piccole meraviglie!

La cosa più difficile per lui era infilare il filo nella cruna

dell’ago, quando doveva rammendare qualche strappo e per

questo chiedeva sempre aiuto a qualche bambino che gli passava

accanto.

Oggi i piedi scalzi di Paulo non lasciano più orma sulla neve

fresca, così come i gusci delle pannocchie non gli fanno più da

giaciglio; i bambini, nel volger degli anni dopo la sua scomparsa

non si sono mai più avvicinati a quella porta rimasta socchiusa,

anzi timorosi e impauriti hanno imparato a sorpassare di corsa il

portone di accesso all’aia nel timore di vederlo forse

ricomparire.

Nel piccolo cimitero sulla collina non c’è traccia della sua

sepoltura, nessuno ricorda quando sia morto e quale fosse stato il

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suo cognome. Nella grande storia stanno scritti tutti i nomi di

coloro che nel corso dei secoli si sono avvicendati nel possesso

del paese, dagli antichissimi Obertenghi ai grandi Malaspina e ai

più recenti Medici.

Molti possidenti, talvolta arroganti e presuntuosi, sono vissuti

con la prepotenza del danaro o del casato ma di nessuno è

rimasta traccia nella piccola storia, quella che non è scritta sui

libri ma rivive nel cuore e nella memoria dei semplici.

E mentre il viandante percorre il vicolo anulare del paese,

chiunque ancor oggi, col dito, gli sa indicare l’ara di Paulo.

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LA SIGNORA

C’ era stato un tempo in cui la signora del castello, nei

pomeriggi estivi, nel ricevere le amiche, amasse

condurle nel giardino all’ombra degli alberi, dove, in

un luogo riparato alla vista degli estranei, era stato costruito nel

bosso, un piccolo bersò.

Anche quel giorno ella le aveva fatte accomodare sotto gli

alberi, poichè l’estate inoltrata tormentava ancora con

un’insopportabile calura, e l’ombra scura di quel recesso

ombroso era molto invitante.

Il giardiniere con arte e pazienza aveva potato i rami del

bosso sino a formare un capanno fresco nel quale erano

sistemate diverse panche e sedili di ferro; le signore strette nei

busti, i colletti chiusi da nastri in velluto, chiusi i ventagli, si

erano sedute a godersi la frescura del luogo.

Dalle piccole finestre aperte nel verde esse potevano,

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nascoste, sorvegliare i figli che le avevano seguite in visita.

I maschietti correvano dietro i cerchi che sospingevano con una

bacchetta, mentre le bambine, dai fiocchi di taffetas tra i capelli,

cullavano le loro bambole di porcellana. Talvolta, giocando, i

fanciulli si scambiavano tra loro, lanciandoli con due

bastoncelli, dei piccoli cerchi di legno che dovevano essere

raccolti e infilzati al volo come nelle antiche giostre tra cavalieri.

Nessuno si era mai saputo spiegare perchè i figli dei ricchi

fossero anche sempre così belli.

Quel giorno la signora era particolarmente felice, perchè

erano state ormai fissate le nozze del suo primogenito. Questo

era quindi l’argomento che interessava le signore; per l’erede

della casata ci sarebbero stati grandi festeggiamenti e sarebbero

intervenuti anche molti ospiti blasonati.

La signora si sarebbe preoccupata delle toilettes e del

ricevimento, mentre il marito avrebbe calcolato quante quarete

di grano avrebbe dovuto distribuire ai poveri per questi sponsali,

come era in uso in Lunigiana presso le famiglie ricche.

La signora amava la futura nuora che era bruna ed elegante,

di buona famiglia, anzi era l’erede di ricchi possedimenti

nell’alta Lunigiana; era anche bella e, quando a fianco del suo

promesso cavalcava per i sentieri e le fratte, i contadini si

fermavano a guardare la giovane coppia con muta ammirazione.

Erano veramente due belle creature. La signora era

innamorata del suo ragazzo che rispecchiava i canoni della

bellezza maschile del tempo: alto, una bella testa di capelli, la

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faccia bianca e rossa dall’espressione buona e sorridente,

somigliante in tutto alla madre.

La signora ne era fiera e, mentre preparava per il suo

primogenito uno sposalizio degno del nome che portava,

ritornava col pensiero a quando era giunta lei stessa al paese,

giovane sposa in una grande famiglia. Aveva sedici anni quando

aveva conosciuto colui che avrebbe sposato di lì a qualche mese.

Amici comuni avevano presentato il giovane bene alla

famiglia di lei e, anche se li divideva un certo numero di anni,

quando la sposa era entrata felice nella cappella del proprio

palazzo per passare dal braccio del padre a quello dello sposo,

aveva portato con sè una ricca dote fatta di palazzi, terre e

gioielli.

Quando la fanciulla fu giunta alla strada mulattiera per

arrivare al paese dove avrebbe vissuto nella nuova famiglia, i

contadini, che lavoravano come mezzadri le loro terre avevano

fatto ala ad una bellissima sposa dall’aspetto quasi di bambina.

La voce della sua bellezza si era sparsa in tutta la Lunigiana, e

nessuno mai si era stupito che, contrariamente all’uso dei maschi

della famiglia, il marito le avesse portato sempre grande amore e

rispetto.

Dopo le nozze, la sposa era entrata come di consuetudine in

casa dei suoceri che l’avevano ben accolta e ben trattata.

La giovane coppia aveva preso possesso del piano nobile, mentre

i suoceri si erano ritirarati al piano superiore, chiamato

genericamente “in castello”, perchè le stanze avevano le finestre

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con le bifore e un avanzo di mastio era rimasto accanto alla

cappella di famiglia nel giardino pensile.

La camera da letto della nuova signora aveva un’ anticamera,

nella quale trovavano posto il lavamani e la commode, che si

apriva sul salotto rosso attorno al quale erano distribuite la altre

camere da letto destinate ai loro futuri figli. Era stata arredata

con mobili lussuosi che avevano sostituito quelli con lo stemma

di famiglia che i suoceri avevano traslocato “in castello”. Il

corredo era stato riposto nel grande armadio e leggerissime

tende di tulle ricamato erano state appese davanti alle finestre.

Il fotografo aveva immortalato le due coppie, la giovane e la

vecchia, entrambe sedute; alle loro spalle, in piedi, avevano

posato gli altri membri della famiglia che, per tradizione, non

avevano potuto sposare per non dover dividere il patrimonio.

La giovane sposa aveva avuto in dono di nozze due orecchini di

brillanti dalla marchesa sua suocera la quale, a sua volta, li

aveva portati in dote preferendoli ad un podere.

Il nuovo signore si alzava all’alba per andare a caccia o a

sorvegliare i mezzadri nel lavoro dei campi e, quando rientrava

in casa, coglieva una rosa tea dal giardino per omaggiare la

giovane moglie. Questa, dopo essersi accudita nella persona,

andava a sorvegliare che le domestiche facessero bene il loro

lavoro, cucinava il pranzo consultando il libro di ricette, l’Artusi,

avuto dalla madre, e nel pomeriggio raggiungeva la suocera che

viveva ormai in compagnia del suo pappagallo, mentre il suocero

cercava di rincorrere le domestiche più prosperose.

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Con la suocera la sposina ricamava i grandi corredi di lino

che sarebbero serviti per il primogenito già grandicello e per la

bambina che pur piccola mostrava già un carattere forte e

prepotente come quello del padre.

La signora era una sposa molto felice e molto invidiata.

Col prossimo matrimonio, sapeva che anche lei avrebbe

dovuto lasciare il piano nobile per lasciar posto alla nuova

generazione di sposi, il fotografo avrebbe immortalato di nuovo

entrambe le coppie e gli orecchini di brillanti sarebbero passati

ai lobi della giovane nuora.

Il problema invece sarebbe stata la presenza dell’antica

signora, sua suocera, che, sopravvissuta al marito, occupava

ancora “in castello”; tra l’altro, questa aveva anche assunto, negli

ultimi tempi, un comportamento riservato, anzi schivo e triste.

Non sarebbe stato facile, con lei, la coabitazione.

Sua suocera da qualche tempo non aveva voluto più ricevere

visite, non era più uscita di casa per le funzioni religiose e non

aveva più frequentato il suo salotto.

Da qualche tempo aveva preso a osservare a lungo il nipote, e

quando le veniva chiesta una qualche spiegazione per questo

strano comportamento, la nonna abbassava tristemente lo

sguardo e si ritirava. Questo atteggiamento, che la impensieriva,

la signora avrebbe voluto commentarlo con le amiche, ma

temendo che potessero sorgere spiacevoli chiacchiere, non ne

aveva fatto parola continuando a dialogare e a scambiare con

loro sorrisi e complimenti.

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Quando le amiche si furono accomiatate, la nuora era salita

“in castello” per una breve visita alla suocera e l’aveva trovata

seduta ad un tavolo davanti al mazzo dei tarocchi.

Nel piegarsi per baciarla, aveva gettato lo sguardo alla distesa

delle carte, poi, allarmata per quanto aveva potuto leggervi,

aveva guardato gli occhi spaventati dell’anziana signora che

velocemente aveva cercato di raccogliere le carte.

La signora si era messa allora a sedere e, con apprensione le

aveva chiesto di stendere un nuovo giro: ecco nuovamente la

casa, la sventura, il picchiotto della porta, un uomo giovane della

famiglia, la malattia, la morte.

Ora conosceva il motivo della tristezza della suocera.

Poco tempo sarebbe passato che una fulminea mortale

malattia avrebbe cancellato le nozze e la vita del giovane erede e

lei sarebbe diventata la signora più commiserata di tutta la

Lunigiana.

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ZEFRA

Ze fra si era alzata come ogni altra mattina dopo aver

scavalcato nel letto il bambino che le aveva dormito a

fianco. Era abituata a tenere il suo ultimo nato dal lato

esterno del letto anzichè all’interno, nel timore che il marito,

girandosi durante la notte, inavvertitamente lo soffocasse. Ciò

non era del tutto inusuale; lei aveva sentito parlare spesso di

simili disgrazie.

Aveva indossato il vestito che la sera aveva appeso ai piedi del

letto e su questo aveva messo lo scialle che, incrociato sul

davanti, veniva fermato dietro i fianchi. Preso il mazzetto di

foglie secche che la sera avanti aveva posto vicino al fuoco ad

asciugare l’ aveva posto nel fornello e col furminant aveva

cercato di accenderlo per ottenere un pò di fuoco per scaldare il

latte ai figli più grandicelli, che, grazie a Dio, quello piccolo

prendeva ancora il suo.

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Anche quella mattina, l’umidità aveva reso inservibili i

fiammiferi, per cui Zefra sarebbe dovuta andare dalla vicina a

chiedere in prestito un tizzo e sventolarlo per strada perchè

potesse arrivare ad accendere le foglie secche nel suo focolare.

Scaldato il latte, la donna aveva preso il piccolo lume ad olio

e, dopo aver allungato con le dita il paver perchè facesse più

luce, lo aveva appeso al trave per rischiarare la stanza. Il paver

era diventato troppo corto e Zefra doveva ricordarsi di

sfilacciare un poco la coperta di cotone per procurarsene uno

più lungo e anche di aggiungere altro olio al lume.

Col prossimo raccolto, se la stagione fosse andata bene, il

marito le avrebbe comperato alla fiera un lume nuovo, diverso da

quello a olio: uno che aveva una rotellina, girando la quale, si

sarebbe potuto ottenere più luce quando serviva.

Preso il piccolo, la madre lo aveva sfasciato e aveva cercato di

pulirlo con gli stessi drapisei che gli aveva tolto, l’aveva avvolto

in un grande rettangolo pulito di cotone che aveva ottenuto

lacerando vecchie lenzuola, l’aveva riavvolto da capo a piedi con

una fascia asciutta e, diversamente dalla consuetudine, gli aveva

lasciato libere le braccia. Il piccolo, attaccato al petto, suggendo

avidamente con la manina appoggiata al seno, gli occhi fissi in

quelli della madre, aveva avviato il solito scambievole colloquio

d‘amore.

Zefra aveva voluto lasciare i suoi bambini con le braccia

libere e non costrette dentro la fasciatura; era per lei una gioia

osservarli mentre giocavano con le loro stesse mani e quando si

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succhiavano un dito in attesa del pasto.

Dopo la fasciatura, Zefra aveva baciato lo scapolare e con una

spilla a balia lo aveva attaccato alla maglietta del bambino, lo

aveva sdraiato nella piccola cuna per portarlo nei campi dove

avrebbe dovuto andare a vangare nella mattinata. Intanto i bimbi

più grandicelli si erano svegliati, ma non avevano alcuna voglia

di scendere dal letto, malgrado la fame, perchè amavano stare

nel tepore delle coperte e anche perchè sapevano che ci

sarebbero stati anche per loro dei piccoli lavori da sbrigare: le

pecore o la vacca da portare al pascolo, la legna da raccogliere

per il focolare o l’erba per sfamare i conigli.

I suoi figli avrebbero desiderato essere ricchi per poter

dormire sino a tardi la mattina come solevano fare quelli che

vivevano nella casa più bella sulla piazza del paese, loro invece

avevano una casa piccola, posta nel vicolo e dovevano alzarsi

all’alba per andare a lavorare. Sul portale, proprio sulla pietra

che faceva da chiave di volta all’arco stesso, qualcuno, chissà

quando, vi aveva scolpito un omino, forse un paggio o un

guerriero, così loro avevano sperato che fosse proprio lo stemma

di un ricco cavaliere che, tornando da terre lontane, li avrebbe

resi favolosamente ricchi.

Avevano viste spesso, scolpite in pietre più grandi, queste

figure stilizzate e talvolta rozze, uomini con pugnali e donne con

seni e collane, poste qua e là nei muri e nei campi; dissotterrate

dall’aratro, quelle figure un secolo dopo, sarebbero finite nei

musei col nome di Statue Stele.

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Spesso i suoi bambini puntavano il dito sull’omino del portale

e chiedevano spiegazioni che lei non sapeva dare, così Zefra

inventava per loro qualche piccola storia o recitava a memoria

una filastrocca imparata a sua volta dalla nonna, una storia di

numeri progressivi in cui il primo era:” uno è il nome di Gesù

Cristo di casa Emanuele evviva questo regno e sempre sia lodà,

due sono i testamenti di casa Emanuele…., tre sono le persone

dello Spirito Santo…, quattro gli evangelisti, cinque i profeti, sei

le strade di Betlemme, sette le lampade di Gerusalemme…” e i

suoi bimbi con gli occhi sgranati imparavano i numeri con le

storie di luoghi lontani, di personaggi straordinari che avevano

ricevuto le Tavole della Legge, che erano vissuti eremiti nel

deserto o avevano riconosciuto in un pastore un grande re. Zefra

aveva la corona del rosario appesa al chiodo e tutte le sere,

durante la veglia, seduta accanto al fuoco coi suoi figli, recitava

il rosario mentre attendeva il marito che, per vendere spille e

rocchetti di refe, girava di borgo in borgo fin oltre l’ arpa e

quando rientrava raccontava loro sempre nuove storie di

briganti che incontrava sui valichi delle Apuane.

Quel giorno i figli più piccoli tossivano, perchè si erano

raffreddati cadendo nell’acqua.

Era accaduto che tenendo il piccino nella cuna sotto il braccio

e quello più grandicello per mano, nel cercare di passare a

guado il canale per andare a vangare nel campo, scivolando sulle

pietre brinate, Zefra li aveva trascinati entrambi in acqua.

Faceva freddo ed era corsa a casa a cambiarli col risultato di

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averli fatti ammalare e di aver anche perduto lei stessa mezza

giornata di lavoro. Ma ormai era cosa fatta e Zefra sapeva che

non si doveva piangere sul latte versato, così aveva deciso di

profittare della restante parte della giornata per stare a casa e

fare il bucato.

All’aperto, sull’angolo dell’aia, un grosso concone era alzato e

appoggiato su due grosse pietre per consentire al ranno che

fuorusciva dalla spina di essere raccolto in un secchio. Il ranno

veniva scaldato nel grande lavegg che stava sul fuoco e, quando

era caldo, doveva venire ripetutamente versato dall’alto sulla

cenere che copriva i panni dentro il concone, finchè il bucato

fosse pronto per essere sciacquato. L’aria era fredda ma il tempo

aveva l’aria di mantenersi bello, così, posti i panni strizzati in

una panera Zefra aveva pensato che all’indomani, sciacquati

all’acqua corrente del canale e stesi sull’erba ad asciugare,

avrebbero profumato di pulito il suo povero letto di foglie.

Mentre le campane suonavano l’Angelus della sera la polenta

era già scodellata sulla povera mensa. Nel vicolo si sentivano i

campanacci delle vacche che passavano per rientrare nelle stalle

e il vociare allegro dei ragazzi che si rincorrevano facendo

scalpitare gli zoccoli sulle pietre del selciato.

I figli, accorsi al primo richiamo, con le loro belle guance

rosate, si erano seduti davanti alla scodella in attesa della fetta

fumante della polenta che la madre tagliava col filo di lana.

Zefra li osservava con amore e, mentre la luce del sole si

affievoliva, pensava che un altro giorno era passato e

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sicuramente quelli a venire avrebbero portato sempre più gioia e

serenità.

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GIULIETTA

La madre le aveva dato il nome di una delle sue sorelle

così come, prima di lei, aveva chiamato le altre figlie

coi nomi delle donne della sua famiglia.

Giulietta era alta e bionda, perchè, diversamente dalla madre

che era bruna, aveva ereditato la bellezza e i colori del padre. Era

cresciuta assieme alle sue sorelle, ne aveva diviso il pane e il

letto; ogni sera le aveva sentite bisbigliare, loro che erano più

grandi, dei loro pretendenti, degli sguardi che mandavano

messaggi, degli appuntamenti al ballo la domenica.

Durante la settimana, lei che era la più piccola, aveva il

compito di portare, dopo la scuola, a pascolare le due vacche, la

bionda e la mora, e mentre quelle lentamente brucavano l’erba

con la loro lunga lingua nera, doveva preparare un piccolo fascio

di legna da portare a casa la sera.

Aveva con sè l’abecedario da leggere e il quaderno sul quale

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scriveva i compiti con una matita copiativa.

La mattina la madre le preparava il cavagnin con le fugazzine

o le pattone che dovevano essere il suo pasto del mezzogiorno;

Giulietta alle prime che erano fatte di farina di granturco

preferiva le altre che erano di farina di castagne e quindi dolci.

La madre impastava la farina di castagne con l’acqua,

prendeva due foglie di castagno dal mazzo che aveva preparato

nella stagione primaverile, le appaiava, vi versava la pasta molle,

le ripiegava e le metteva accostate l’una all’altra nei testi di ghisa

che aveva precedentemente fatto arroventare al fuoco sulle

fascine. Quando i testi venivano scoperchiati il profumo delle

pattone si spandeva nell’aria e Giulietta, pur scottandosi le dita,

ne prendeva subito una e dopo averla liberata dalle foglie la

mangiava golosamente.

Questo accadeva la sera quando la famiglia si riuniva per la

cena e queste venivano servite calde con dentro la ricotta che la

madre ricavava dal siero del latte quando faceva il formaggio.

La madre, che sapeva quanto le piacessero, gliene conservava

alcune per il pranzo dell’’indomani.

Giulietta nel cestino, assieme al cibo, metteva i calzetti o gli

scapinei con i ferri che la madre le aveva iniziato e che lei doveva

finire entro sera; talvolta metteva anche calze bucate da

rammendare.

Un giorno, che aveva lasciato incostudito il cestino, aveva

visto una vacca che si era mangiata il gomitolo di lana nel quale

lei aveva infilato il grosso ago da rammendo. Le aveva preso il

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panico.

Ben sapeva che entro poco tempo l’ago avrebbe perforato

l’intestino dell’animale e suo padre, dovendolo sotterrare

avrebbe cercato e trovato la causa della morte.

Lo spavento della punizione era pari alla preoccupazione del

danno che avrebbe subito la sua famiglia con la perdita della

vacca.

Si era buttata in ginocchio sulle ricce delle castagne e con le

ginocchia sanguinanti aveva fatto solenne voto che ogni sera, se

l’animale non fosse morto, avrebbe recitato tre pater ave gloria

alla Madonna di Loreto. L’animale non era morto e dopo poco la

vacca era stata anche venduta ma lei aveva deciso di perseverare

nel suo voto fino alla morte.

Era iniziato forse da questo episodio il particolare

comportamento di Giulia che aveva vissuto, la sua giovinezza

prima e il resto della sua vita poi, con un comportamento quasi

maniacale. Alla vita spensierata scelta dalle sorelle aveva scelto

quello della compostezza e della riservatezza.

Aveva cercato di dimenticare l’amore che nutriva per un

giovane che, innamorato, le faceva dolci serenate dall’aia vicina

e a dormire accanto alla nonna con la quale ogni notte diceva il

rosario e che le aveva anche assicurato, che se fosse stato

possibile, sarebbe ritornata a lei dal mondo dei morti per farsi

rivedere.

Assieme alla nonna aveva recitato le preghiere, frequentato la

chiesa del paese per mettere fiori sull’altare, spazzato il

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pavimento, lavato le tovaglie degli altari e lucidato i candelieri.

Assieme avevano preparato il presepe ed il sepolcro e

naturalmente avevano assistito alle messe e fatto penitenza in

quaresima.

Giulietta era diventata rigorosa nell’osservanza religiosa:

comunicarsi il primo venerdi del mese, mangiare di magro nei

giorni prescritti e osservare il digiuno.

Forse avrebbe scelto la strada del convento se qualcuno avesse

potuto darle indicazioni. La madre, intuendo in quella tendenza

un possibile pericolo, era riuscita a indirizzarla al matrimonio,

l’aveva spinta a sposare un cugino, figlio di una sorella, che

viveva nel paese vicino.

Giulia si era lasciata convincere e dopo il matrimonio aveva

cominciato una vita di sposa in casa della suocera che,

ovviamente, le voleva bene per il duplice motivo di esserle anche

zia.

La sua vita appariva serena e così sarebbe parsa agli occhi di

tutti, se non fosse stato per l’eccessivo ardore che metteva nella

frequentazione delle funzioni religiose e che lasciava indovinare

quello che mai Giulietta avrebbe rivelato ad alcuno: una totale

infelicità.

Non frequentava nessuno, non aveva amiche. Usciva per fare

la spesa e subito ritornava a casa.

Nei giorni di primavera aveva preso l’abitudine di salire sulla

collina verso il santuario e, mentre percorreva la mulattiera,

recitava il rosario.

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Talvolta si univano a lei le ragazze che recitavano novene per

trovare marito; altre volte andava a trovare la madre e, in

alternativa, al piccolo cimitero per pregare sulla tomba di quella

nonna che, dopo morta, non le era riapparsa mai, nemmeno in

sogno.

In tutti gli altri giorni stava seduta davanti alla porta di un

piccolo terrazzo che spaziava alto sul fiume e sulla pianura

antistante.

Nessuno lassù poteva vederla. Nessun testimone della sua

disperazione. Mentre guardava l’acqua scorrere sotto il ponte,

avrebbe voluto essere trascinata via lontano, dimenticare,

morire.

Tali erano state per lei le delusioni nel matrimonio, la

solitudine che si era imposta e il rigore delle penitenze, che,

quando era giunta per lei l’ora della morte, l’aveva accettata con

sollievo, quasi con la certezza che la vita nell’aldilà non avrebbe

potuto essere peggiore di quella che aveva vissuto.

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MARIA e VERGIÒ

Ar rivavano, la domenica mattina, dalla corte vicina per

assistere alla messa cantata. Erano entrambi alti e

molto magri, quasi allampanati; due grandi ombre

scure.

Maria vestiva di nero, estate e inverno, con abiti dalle

maniche lunghe. Nessuna donna di Lunigiana sarebbe andata a

messa con abiti dalle maniche corte, assolutamente mai si

sarebbe presentata in chiesa con la men che minima scollatura e

senza velo in testa.

Anche le ragazze dovevano mettersi uno scialle sulle spalle

per coprirsi le braccia nude, ed era tollerato per loro un velo

bianco e anche un piccolo fazzoletto, ma il capo scoperto mai,

perchè il prete le avrebbe vergognosamente fatte uscire dalla

chiesa.

Maria portava calze di lana nera fatte in casa, scarpe col

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tacco basso, stringate e nere, che parevano da uomo e forse erano

proprio del marito. Un fazzolettone, anch’esso nero, cercava di

raccogliere e trattenere i suoi lunghi capelli che, sempre folti e

inanellati, ancora adesso, ai lati del viso, fuoruscivano

ostinatamente in grossi boccoli grigi.

L’abito nero era stato scelto con piccoli puntini grigi proprio

con l’intenzione di impedire allo sguardo di rilevare segni di

polvere o qualche rammendo.

Tra le mani, quando veniva in chiesa, aveva sempre la corona

del rosario e il libro della messa.

Forse Maria non sapeva leggere e il messale era del tutto

superfluo, ma la domenica era d’obbligo portarlo assieme al velo

nero, col quale si sarebbe coperta il capo, come tutte le altre

donne.

Vergiò le camminava accanto. Anzi si potrebbe dire che Maria

camminava, contrariamente all’uso di quel tempo, a fianco del

suo Vergiò.

L’uomo era straordinariamente alto e ossuto. Il cappello nero

e sformato copriva una candida capigliatura folta e arricciata; i

suoi lunghi baffi, con le punte rivolte all’in sù, denotavano la

cura con cui egli sapeva custodirseli.

Anche lui indossava l’abito della festa; il panciotto

rigorosamente nero, anzi lo era stato, ma ora era diventato molto

stinto e consumato negli orli. Nei calzoni erano modellati i segni

delle ginocchia e la sua camicia chiara, ma senza un colore

definito e piuttosto stropicciata, era decorosamente abbottonata

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al collo.

Quelli erano gli abiti che avevano indossato al momento del

matrimonio e in circostanze particolari, ed entrambi sapevano

che sarebbero stati anche quelli che avrebbero indossato dentro

la bara. Farsi una muda di drappi nuova era stato impossibile in

tutti gli anni passati e per il futuro del tutto impensabile.

Quando si erano conosciuti, tanto tempo prima, era stato in

un paese piuttosto lontano in una fiera importante.

La chiamavano la fiera di San Ginesio e si svolgeva d’estate

sotto le frasche di un grande castagneto che tutti dicevano che

fosse sempre esistito e dove popoli antichi si riunivano per

combinare matrimoni e svernare.

Nella Selva di Filetto sarebbero stati poi rinvenuti reperti

archeologici che avrebbero avvalorato i detti dei vecchi, e le

Statue Stele del museo del castello del Piagnaro sono oggi

contrassegnate coi nomi di Filetto primo, Filetto secondo…

I castagni che tutt’oggi costituiscono la Selva appaiono più

che centenari; ve ne è poi uno, in particolare, che viene chiamato

“il castagno di Dante”.

Quando si erano conosciuti Maria era giovane e snella e i suoi

capelli neri le ricadevano sulle spalle in morbide volute. Vergiò

era alto e forte e quando rideva i suoi baffi incorniciavano una

bella chiostra di denti.

Nel bosco ombroso i due giovani si erano cercati con gli occhi

e quando Vergiò si era persuaso dell’interesse che suscitava in

Maria, aveva cercato di sapere da quale paese provenisse e subito

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era andato a chiederla in moglie.

Allora non c’era tempo da dedicare agli svaghi amorosi, si

doveva guardare se la donna aveva una dote, se l’uomo sarebbe

stato in grado di mantenerla, se viveva sui suoi campi o se era

mezzadro e di chi, poi si andava dal parroco del paese per

informazioni, e per finire il giovane si presentava alla famiglia

della ragazza e la chiedeva in sposa.

Dopo il loro matrimonio nessuno più aveva ricordato di quale

paese Maria fosse originaria nè quale fosse stato il suo cognome,

quindi, per distinguerla dalle innumerevoli omonime, venne

chiamata semplicemente la Maria di Vergiò.

Di lui sapevano tutti che possedeva un asino che gli serviva

per trasportare la legna e il carbone dai boschi mentre lei

accudiva i campi, l’orto e le galline.

Vergiò faceva il taglialegna; andava sui monti col suo asinello

e per qualche tempo si fermava a dormire nei boschi per

accumulare la legna tagliata e per fare il carbone.

Egli sapeva come si disponeva la legna nella carbonaia,

perchè una volta ricoperta di terra la catasta,questa, bruciando

in assenza di ossigeno, si sarebbe trasformata in carbone da

portare al mercato. Egli sapeva lasciare liberi giusti spazi interni

per creare fumarole dalle quali sarebbe fuoruscito il fumo e

quanto tempo sarebbe occorso al carbone per raffreddarsi prima

di togliere la terra che lo ricopriva. Quando il carbone era

pronto, per venderlo, lo trasportava in paese e talvolta anche in

città chiuso dentro sacchi legati al basto del suo asinello.

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Passava molto tempo lontano da casa; sui monti per accudire

le carbonaie e in viaggio per andare a vendere in città, ma

quando era a casa, ogni domenica, Vergiò con la sua Maria,

arrivava lungo la mulattiera; entravano in chiesa, lui dalla parte

degli uomini dietro l’altare, lei con le donne nelle panche,

assistevano alla messa e all “ite missa est” si ritrovavano nella

piazzetta del paese; insieme andavano all’osteria dove Vergiò

offriva alla sua Maria un bicchiere di vino prima di rientrare a

casa.

Quello era stato l’unico lusso, l’unica concessione alla loro

vita grama fatta di fatica e di stenti.

Quando apparivano, sempre insieme, era una gioia constatare

come una coppia, ancorchè senza figli, potesse vivere un

rapporto di costante serenità e reciproco affetto, ed ancor più

stupefacente era stato risapere che Maria, dopo le nozze e in

seguito per sempre, alle richieste maritali di Vergiò, si era

rifugiata di corsa nel fienile e col forcone in mano, puntato al

suo Vergiò, gli aveva ripetuto: “ven su se t’ghe coragh”.

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FILOMENA

Tu tt i la chiamavano Filomena, ma il suo nome era

Maria.

Al tempo in cui era nata era quasi sempre il prete a

decidere il nome al battesimo e quello per non sbagliare

imponeva il nome della Madonna.

Talvolta le madri protestavano:” a lu, a go già una fiola cla s’

chiam Maria” e il prete concedeva allora un altro nome pur che

fosse semplice e di famiglia. Così, per distinguerla dalle altre, e

non essendo ancora maritata, avevano cominciato a chiamarla

Filò.

Abitava con la sua famiglia in un paese sperduto tra le colline

che si susseguivano, sempre più indistinte, fino ad un’alta catena

di monti.

La sua casa era tra il vicolo del paese e l’angolo della piazza.

Su un esiguo ballatoio, davanti all’ingresso, poteva trovar posto

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una sedia; dietro una stalla, la cantina e l’orto.

In un basso muricciolo che recintava l’aia, vi era stata murata

una piccola maestà marmorea.

Era un piccolo bassorilievo e, diversamente da quasi tutte le

icone che rappresentavano invece la Madonna, questo portava

scolpita la passione del Golgota col Cristo morto, Maria e

S.Giovanni. Filomena a causa dell’abbigliamento, aveva

scambiato il santo con un altra Maria, era quindi stata lieta del

proprio nome che, nella vita, pensava, le avrebbe portato bene.

Filò passava le giornate a lavorare i campi come il resto dei

suoi famigliari; quando ritornava a casa la sera, e sempre che il

tempo lo avesse permesso, sedeva su una sedia sul terrazzino a

guardare le persone che che si aggiravano sulla piazza.

Da tempo aveva adocchiato un bel ragazzo che si era

trasferito dalla Toscana in Lunigiana e a lei era piaciuto, perchè

le era parso, oltrechè bello, anche intraprendente, poichè,

diversamente dai suoi famigliari, che avevano accettato di fare i

mezzadri ad un ricco proprietario terriero, di lui si sapeva che

era andato a cercare lavoro in città.

Francesco, questo era il nome del ragazzo, era un giovane

robusto con un bel paio di baffi e due grandi occhi neri. Erano

proprio gli occhi a fare di Francesco un tipo affascinante. Aveva

nelle iridi il colore mutevole dei castagni, dal verde al marrone, a

seconda dell’umore e del tempo e nello sguardo una vivacità di

interesse per ogni cosa che lo circondava.

Filò era alta e magra; i suoi capelli, raccolti in un nodo dietro

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la nuca, erano castani e lisci; il naso un tantino aquilino. Non era

certamente una bellezza e, per fortuna, nella sua discendenza

non era rimasta traccia della sua fisionomia, mentre gli

straordinari occhi di Francè si potevano riconoscere sin dalla

prima volta che il neonato apriva gli occhi.

La donna aveva anche il difetto di possedere un cattivo

carattere tant’è vero che, in seguito, il nome di Filò era stato

usato per definire un carattere impossibile.

Certo in un qualche modo e per un qualche merito era

riuscita a farsi sposare dal bel ragazzo e con lui era emigrata in

città; era andata a vivere in una zona collinare, e lì erano nati i

dieci figli che Filò aveva accudito durante la giornata, durante il

duro lavoro dei campi che la famiglia aveva a mezzadria.

Francesco lavorava come operaio alla costruzione di un

grande porto che sarebbe stato, nel secolo successivo, di grande

importanza militare; Filò, per guadagnare qualche soldo in più,

quando il marito rientrava la sera, era solita andare con lui, per

qualche ora, in una cava di pietre a cielo aperto in una zona

vicina.

Era una donna forte e volitiva, laboriosa e straordinariamente

pulita.

La prima figlia era stata chiamata, come al solito, Maria e la

seconda per non ripetere il nome della primogenita e della

madre era stata battezzata Assunta.

I figli maschi, nati uno dopo l’altro, avevano avuto i nomi di

famiglia.

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Il carattere particolare di Filò faceva sì che, spesso, gelosa

dell’avvenenza di Francè, senza ragione alcuna, gli si scagliasse

contro e lo picchiasse con un bastone; riusciva ad essere gelosa

anche delle sue stesse figlie ed in particolare della sua stessa

primogenita così come, poco maternamente, era solita

manifestare la propria predilezione e la forte antipatia per uno o

l’altro figlio.

Durante la sua lunga vita e dopo la morte del marito, alcuni

dei suoi figli non le sopravvissero: il giovane Umberto, che aveva

ricevuto da lei più botte che pane, le era venuto a mancare a

causa della tubercolosi e delle notti passate all’addiaccio quando

lo chiudeva fuori di casa, e Dante il suo ultimogenito, da lei

invece adorato, che era morto in guerra.

Filò aveva passato gli ultimi suoi anni ora con uno, ora con un

altro dei suoi figli, sempre mal sopportata a causa del suo

terribile carattere.

Il giorno della sua morte, alcuni parenti che circondavano il

suo letto d’agonia, l’avevano sentita salutare Umberto, il figlio da

lei tanto esecrato, e dopo un lungo colloquio, avevano capito che

Filomena si era avviata con lui per un altro spazio.

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TELLIO

Av eva atteso la notte prima di rientrare in casa per

non mostrare in paese il viso pesto dalle botte.

L’umiliazione lo rimordeva assieme alla rabbia

impotente dell’uomo, ormai privo di forze, alle soglie della

vecchiaia.

Si erano appostati fuori al buio e quando Tellio gli era passato

davanti lo avevano aggredito e malmenato.

Antichi rancori avevano concorso ad armare le mani, vecchi

ricordi di soprusi e violenze subite un tempo da parte del signore

del castello; quei tempi erano ormai lontani, ma la memoria era

rimasta e la vendetta era spesso consumata su “un piatto

freddo”.

Era nato signore del castello e di tutte le terre che a vista

d’occhio circondavano il paese. Alto e fisicamente molto forte,

dal padre, prima di ogni proprietà, aveva ereditato la

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prepotenza. Adulti e bambini al suo passaggio si scostavano

velocemente, apparentemente per rispetto, col timore invece di

subire qualche inaspettata punizione.

Senza motivo alcuno il malcapitato che gli fosse arrivato a tiro

avrebbe certamente subito una soperchieria. Era del tutto degno

del padre che arrivava direttamente a rapinare i propri mezzadri

e cercava di appropriarsi con ogni mezzo dei beni altrui.

Quando vendeva un pezzo di terra ad un contadino, si

limitava a firmare soltanto un compromesso con la promessa di

farne fare trascrizione da un notaio, ma in seguito si rifiutava di

presentarsi a sottoscriverlo e, alle ragionevoli proteste, il

malcapitato era rabbonito con botte e ritorsioni varie per cui le

proprietà, con gli anni, ritornavano sempre a lui.

Quando trovava un individuo che sapeva resistergli, cercava

di colpirlo a tradimento colpendolo dall’alto, quando gli passava

sotto le finestre, con un mattone o una tegola. Se poi finiva col

rompere i denti a qualcuno con una scarica di botte gli era

sufficiente tacitarlo con una damigiana d’olio, specialmente se il

ferito aveva una famiglia numerosa.

Era certamente un individuo temuto e pericoloso.

Nella notte usciva di casa col fucile a tracolla per recarsi nei

propri campi apparentemente a controllare i raccolti, ma in

realtà a spostare i testimoni sui confini per ingrandire i suoi

campi.

Diversamente dalla Toscana in cui era in uso piantare un

cipresso ai confini di ogni proprietà, era abitudine in Lunigiana

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sistemare, al posto dell’albero, una pietra centrale con altre due

ai lati, orientate verso il testimone del lato opposto.

Tellio aveva sposato, un pò in là negli anni, una moglie molto

giovane e ricca, ma in compenso ancor più esperta di lui a

derubare del giusto compenso chi lavorava per quella casa.

Viveva nel castello con la coppia dei vecchi genitori: la madre

marchesa, in compagnia dell’antico pappagallo che sapeva

avvertire la padrona quando un estraneo si presentava fuori

della sua stanza, e il padre, vecchio satiro che rincorreva le

servotte e strappava le corde dalla spinetta secentesca quando

aveva bisogno di un pezzo di filo.

C’era Sante, lo zio, che non aveva mai potuto sposare perchè

non poteva disporre dei beni della famiglia e non aveva di che

mantenere una moglie; l’asse patrimoniale non doveva essere

diviso, il primogenito maschio diventava di fatto l’unico erede

per cui Sante, secondogenito, in casa, aveva solo il diritto di una

stanza e del puro mantenimento.

Valter, il fratello più giovane, studiava agraria all’Università

di Pisa e, anche se, come voleva la tradizione di famiglia, non

avrebbe mai potuto vantare diritti sulle proprietà e tantomeno

sul castello, non ebbe a competere con Tellio perchè, ancor

giovane e scapolo, era morto dissanguato in un incidente di

caccia.

Tellio, unico erede di un grande nome e di un cospicuo

patrimonio, la mattina prima dell’alba, era già in piedi e coi cani

al seguito se ne andava a caccia; nel pomeriggio, assieme al

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fattore, si occupava della conduzione dei campi.

Sapeva che era importante avere alla propria tavola il prete, il

dottore e il maresciallo dei carabinieri, perciò li invitava spesso.

Quando gli era morta la madre, aveva combinato in fretta un

nuovo matrimonio per il padre con una maestra, gentile ma in là

negli anni, onde evitare che l’arzillo vecchietto, pronto invece a

sposare una giovane servotta, gli regalasse numerosi fratelli

bastardi, certamente pronti, coi tempi che cambiavano, ad

esigere una qualche parte di eredità.

Astuto e prepotente, aveva l’abitudine di uccidere, con la

fionda, piccioni e galline, non suoi, che gli fossero venuti a tiro.

Senza il rumore dello sparo che avrebbe potuto mettere in

allarme il proprietario, dopo averli colpiti, attendeva la notte per

andare ad appropriarsene.

Un maledetto giorno, per sbaglio, o per lo meno è preferibile

pensarlo, con una pietra della fionda aveva colpito in un occhio

una contadina e l’aveva quasi accecata.

Naturalmente la natura malvagia di Tellio aveva considerato il

fatto del tutto trascurabile, ma così non era stato: la donna, c’è

chi ancor oggi può ricordare, aveva maledetto colui che l’aveva

colpita e gli aveva augurato la completa cecità.

Poco tempo dopo aveva cominciato a non uscire più di casa; la

famiglia non aveva fatto mai commenti, ma i rari ospiti che lo

frequentavano avevano notato che l’uomo restava quasi sempre

seduto e qualcuno doveva leggergli i documenti scritti.

Se “la vendetta è un piatto freddo” c’è un proverbio che dice:

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“ciò che è fatto è reso”.

Tellio era diventato cieco.

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Angiolina

La pergola gettava un’ombra invitante sull’aia dove

Angiolina sedeva in quel caldo pomeriggio estivo; il

suo pensiero andava al suo amato marito che

quest’anno non era piu’al suo fianco a godere la frescura estiva

della vigna; erano ormai sei mesi che giaceva sotta una lastra di

marmo nel piccolo cimitero poco lontano dal paese. Una

fulminea malattia l’aveva sottratto alla loro semplice

quotidianeita’ fatta di stagioni, di annate buone e cattive, di

raccolti abbondanti e grami, di tetto da riparare ed estimo da

pagare.

Durante l’ultimo inverno forti temporali avevano spostato le

piagne del tetto e quando pioveva l’acqua entrava a rovesci

soprattutto nella prima stanza, quella d’angolo che dava verso il

borgo, dove gli antichi travi, fortemente incurvati, lasciavano

intravvedere il cielo attraverso le sconnessure.

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Quella stanza era stata per lei il rifugio e il soggiorno di tutta

la sua lunga vita di sposa. Una delle due finestre dava sulla via

antistante la casa e l’altra direttamente verso il borgo cosicche’

lei, pur non uscendo di casa, da quell’altezza, vedeva e sentiva

ogni cosa che avveniva nel paese.

Dopo che le era morto il marito Angiolina aveva fatto

chiudere quelle finestre con mattoni e grosse tavole di legno e

mai piu’ aveva voluto abitare quella bella stanza che, si diceva,

fosse stata quella di una certa Irene, donna bellissima arrivata

come lei da Treschietto ad abitare il palazzo che era stato la

prima e piu’ bella casa di Jera.

Nel corso dei secoli, ogni persona che transitava per il

sentiero acciottolato di la’ dal fosso che costeggiava la casa,

alzava gli occhi a guardare le strane pietre scolpite che avevano

inserito nelle mura durante la costruzione del palazzo. Queste

epigrafi erano innumerevoli e chiaramente di epoche diverse:

piu’ recenti quelle di forma quadrata, piu’ antiche quelle

rettangolari disposte simmetricamente sul prospetto della casa.

Incomprensibilmente le pietre erano state poste cosi’ in alto che

era impossibile dalla strada leggervi anche una sola parola.

Nell’ultimo secolo, dopo che il canale era stato ricoperto, era

stata appoggiata una lunga scala per poter arrivare a vedere cosa

vi fosse inciso; si disse che fosse scritto in latino, ma a causa della

scarsa conoscenza delle abbreviazioni, si decreto’ che fosse una

lingua sconosciuta. In seguito si preferi’ dimenticarle del tutto e

nessuno se ne curo’ mai piu’.

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Angiolina aveva subito visto quelle memorie di pietra e aveva

accettato, come gli altri, la loro presenza senza aver potuto mai

sapere, per tutto il corso della sua vita, cosa vi fosse scritto e chi

ve le avesse collocate.

Un tempo, i genitori del marito, le avevano detto che in quella

casa vi aveva abitato un prete, il quale aveva voluto aggiungere

due epigrafi alle diverse gia’ presenti sulla facciata, proprio ai

due lati della stanza che a lei era sempre piaciuta, ma lei non

aveva potuto mai vederle da vicino neanche sporgendosi dal

parapetto dell’aia posta al terzo piano a fianco alla stanza. Certo

era che le memorie di pietra sul prospetto erano diverse da quelle

due che si diceva fossero state aggiunte, anche perche’ le prime

erano nate incastonate, mentre le ultime erano state ingraffettate

e incorniciate da un decoro in stucco. Tutta la facciata della casa

verso il canale mostrava ancora un intonaco molto stinto ma

colorato in azzurro con affreschi attorno alle finestre e gli stessi

architravi in facciata apparivano piu’ riccamente scolpiti,

mentre il lato a est della casa sembrava reintonacato a malta solo

al terzo piano attorno alle ultime memorie di pietra ingraffettate.

Angiolina, malgrado l’eta’ avanzata, aveva conservato un

aspetto dolcissimo; era garbata nei modi e nel parlare. Portava

un fazzoletto legato attorno al capo alla maniera contadina per

cui i capelli non si potevano vedere ma due grandi occhi azzurri

le illuminavano il viso. La sua persona, coperta da un abito lento,

stinto, con le maniche lunghe dimostrava oltre ottant’anni.Il suo

corpo era molto magro e si faceva fatica a pensare che lei sola,

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cosi’ piccola e minuta, avesse potuto accudire un marito che nei

mesi della malattia era diventato molto grasso e pesante.

Angiolina non aveva avuto figli ma nessuno l’aveva mai

sentita dolersene. Aveva accettato la sorte cosi’ come il Signore

aveva voluto.

Era arrivata a ca’ Brunelli giovane sposa; era entrata in

famiglia come di consuetudine, aveva visto sposare i fratelli del

marito i quali, in seguito, si erano allontananati dalla casa

paterna che era destinata a suo marito, il primogenito.

Aveva convissuto con i suoceri col rispetto dovuto, li aveva

accuditi con pazienza nella loro vecchiaia e nella morte, ne

aveva curate le tombe a fianco dell’oratorio di S.Biagio nel

piccolo cimitero del paese e infine aveva sepolto il marito a

fianco ai suoceri.

Da oltre sessant’anni, da quando aveva sposato, aveva

faticosamente lavorato per sostenere quella grande casa, pur

sapendo che, a suo tempo, avrebbe dovuto lasciarla ad altri.

Angiolina non aveva mai saputo che in una delle memorie di

pietra JOSEPH BRUNELLI invocava: “POSTERI SISTITE LOCO

HAEDES HAS ET MAENIA LABORIOSE CONSERVATAS SUSTINETE

EGOMET NO MIHI SIC VOS NON VOBIS [AD OMNES]

CALAMIT~ MDCCCIX”

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MICHELE

Il vecchio sedeva sul poggio erboso con lo sguardo rivolto

alla stretta e lunga gola che saliva fino a raggiungere la

cima dell’alpe.

A destra e a sinistra il pendio ripido dell’Appennino, ricoperto

da un manto verde scuro di alberi, convergeva verso un ripido

torrente che, malgrado fosse molto in basso e lontano, si sentiva

distintamente rombare.

In certi punti, sui dorsali della costa, si distingueva

nitidamente dove gli alberi, più piccoli e meno verdi, avevano

ricoperto le frane antiche.

Piccoli nembi punteggiavano un cielo sereno.

Michele quella mattina aveva attraversato il paese, come al

solito, per recarsi alla fontana delle tre cannelle che distava

qualche centinaio di metri dall’ultima casa del paese. Un tempo

era usata dai pastori per abbeverare le greggi, ora era diventata

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la meta quotidiana della sua passeggiata.

Giunto alla fontana, aveva visto questi tre potenti getti

d’acqua che, tracimando dal lungo abbeveratoio, avevano

allagato tutta la strada e si perdevano lungo il pendio fino al

torrente; aveva pensato, con tristezza, che un tempo lontano

quell’acqua fresca e chiara era stata la fortuna per le mandrie

che a primavera ritornavano all’alpe per la transumanza.

Con una certa fatica, data la ragguardevole età, Michele si era

chinato per bere; non aveva sete, ma l’acqua aveva un richiamo

molto invitante ed egli aveva voluto immergervi anche le mani.

Avrebbe voluto proseguire per il sentiero fino al vecchio mulino,

ormai abbandonato, ma il torrente d’acqua che attraversava la

strada glielo aveva impedito, così era tornato sui suoi passi e, per

passare il tempo, si era fermato a esaminare la maestà posta sul

ciglio della strada.

Una dolce Madonna col Bambino scolpita nel marmo era

incassata in un volo di angeli intagliati nella pietra.

Un profumo di erba nuova, di margherite e violette, di fresche

foglie sui rami degli alberi denunciavano una primavera

inoltrata.

Michele aveva un ricordo vivido del giorno in cui era arrivato

in quel paese, l’ultimo sull’alpe, dove la strada moriva e si viveva

come nella Bibbia; il suocero, proprietario di greggi, la sera

riempiva alcuni stazzi con le pecore e a lui, appena era arrivato

giovane sposo in una famiglia di pastori, aveva chiesto di

mungerle.

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Era stato felice di poterlo accontentare perchè a casa sua

l’aveva fatto fin dall’età di sei anni, in quanto anche al suo paese

al di là del costone appenninico si viveva di pastorizia.

Non era mai andato a scuola, ma il prete ricambiava, con una

specie di servizio scolastico che gli aveva permesso di imparare a

leggere e scrivere, un aiuto per la conduzione delle proprietà

della parrocchia.

Era ancora bambino quando aveva visto il fratello maggiore

riparare un muro della chiesa e inaspettatamente trovare una

tomba col morto e un sacchetto di marenghi d’oro nella cassa.

Il parroco aveva fatto immediatamente sparire nelle sue tasche il

sacchetto coi marenghi, ma al ragazzo era sempre rimasto in

mente la bellezza del luccichio dell’oro.

Nato sull’ arpa era diventato alpino e sui monti aveva

combattuto quando la patria glielo aveva chiesto. Aveva visto i

suoi compagni uccisi dal fuoco del nemico. Li aveva visti cadere

durante la drammatica ritirata di Russia e morire nei lunghi anni

della prigionia ai confini della Mongolia.

Si moriva di fame, di dissenteria, di tifo petecchiale e di botte,

ma Michele era sempre riuscito a sopravvivere.

Quando finalmente era riuscito a tornare a casa, si era

guardato attorno; i tempi erano cambiati e non si poteva più

vivere come al tempo della sua prima giovinezza. Quindi,

abbracciata nuovamente la moglie, era ripartito per andare a

lavorare in Francia; da là poi era passato in Argentina e in

seguito, come Dio volle, il figlio cresciuto e la vecchiaia

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assicurata, era rientrato nella sua casa, al fianco della sua donna,

al suo paese. IL suo bel paese dai portali scolpiti, dagli architravi

modanati, dalle Madonne marmoree nelle nicchie di pietra.

Questo era il paese dei più bravi scalpellini di tutta la

Lunigiana e non vi è un altro paese così riccamente arredato da

queste straordinarie opere d’arte: ovunque protomi d’angelo e di

demoni, Madonne e cornucopie, angeli e simboli di rose celtiche

o gigli fiorentini, a seconda che la dominazione del momento

fosse lombarda o fiorentina.

Michele era stato molto felice di tornare a passare gli ultimi

giorni della sua fortunosa vita di uomo errante e già assaporava

il piacere di vivere il resto dei suoi giorni nella sua casa, accanto

al camino, coi nipoti tra le ginocchia ai quali raccontare della

sua lunga marcia nella neve, dei fiumi che aveva attraversato,

della prigionia ai confini della Mongolia.

Stava seduto, coi suoi pensieri, sul ciglio del sentiero e

guardava il cielo solcato da qualche piccolo cumulo bianco. In

alto sulle vette ancora qualche ombra di neve. L’aria un poco

frizzante, un grande silenzio.

Ora, uscendo di casa, aveva attraversato come ogni mattina il

paese; un paese silenzioso dalle porte sprangate e sulle quali un

residuo di cartello portava la scritta “vendesi”. Di alcuni cartelli

rimaneva qualche lembo strappato dal vento o dai proprietari

quando, andandosene, avevano anche perduto la speranza di

trovare un compratore. Nello stretto borgo non c’era più ombra

di vita e non solo umana. Non più il chiocciare delle galline nel

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pollaio o l’abbaiare di un cane alla catena. Ma neppure l’ombra

di un gatto o qualche altro segno di vita. Anche ora che sedeva

sul ciglio del sentiero, Michele, non sentiva la presenza di altri

animali, nè lo sfrecciare di rapaci e nemmeno il solito cinguettio

degli uccelli.

Da tempo questi suoni usuali avevano abbandonato la

campagna circostante.

Il piccolo cimitero del paese, nel quale avrebbe voluto

riposare per sempre, stava franando sulla bella chiesa che,

almeno per ora, non mostrava ancora segni di cedimento, come

pure il solido campanile di pietra sembrava ancora sfidare con la

sua perpendicolarità ogni cattiva sorte.

La chiesa, un tempo con le porte sbarrate, era ora aperta in

ogni ora del giorno, i fiori freschi dei campi sull’altare a

testimoniare la devozione delle due uniche famiglie rimaste

ancora in paese.

Due grosse frane avevano abbracciato il paese come in una

morsa e lentamente lo facevano sprofondare.

Michele aveva sempre visto le grandi voragini che

inghiottivano grandi superfici di boschi sul crinale dall’altro lato

del torrente, ma non avrebbe mai pensato che delle

straitificazioni di gesso fossero presenti anche sotto il suo paese.

Camporaghena, l’ultimo paese sull’alpe, era abitato dai più

bravi scalpellini di tutta la Lunigiana; ogni casa aveva finestre e

portale di pietra scolpita, in ogni casa, sulla facciata,

un’immagine sacra e la data della costruzione. Per tutta la

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lunghezza del borgo una fila di bellissimi portali stavano a

testimoniare la bravura e l’amore che gli abitanti dimostravano

al loro paese.

Michele aveva avuto le prime avvisaglie del disastro

incombente, quando in un suo bosco improvvisamente gli alberi

erano seccati. Le radici, rimaste nel vuoto di una caverna

formatasi per il degrado di uno strato sottostante, avevano fatto

rinsecchire gli alberi in superficie; poco dopo tutto ciò che vi era

sul suolo era stato inghiottito nella voragine.

Michele sapeva che avrebbe dovuto andarsene molto presto e

forse sperava di poter morire, lui che aveva tanto lottato per

vivere, prima di assistere alla totale distruzione di quelli che

erano stati tutti i ricordi della sua vita.

Nessuno più poteva essere sepolto nel cimiterino che stava

sprofondando; chiusi i portali del borgo, quelli non puntellati

con il cartello “vendesi”e il paese deserto.

Sempre seduto sulla sponda erbosa, Michele aveva continuato

a fissare l’ultima casa del paese. La montagna le incombeva sopra

paurosamente e gli abitanti, andandosene per sempre, nell’orbita

vuota di una finestra, avevano posto il simbolo di Colui che,

Unico ormai, avrebbe potuto fermarne la distruzione.

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COLOMBA

St ava seduta sulla grande terrazza e, in attesa che

arrivassero gli ospiti, aveva tolto il portacipria dalla

piccola borsa, si era specchiata e incipriata il viso.

Annoiata, osservava con indifferenza il panorama. Laggiù, un pò

più in basso, il piccolo paese dominato dal castello e tutt’attorno

la grande vallata della Magra solcata dal fiume. Le alture

circostanti punteggiate da piccoli agglomerati di case che

parevano stringersi l’una all’altra, qualche pieve solitaria e i

ruderi di una torre quasi sepolti dal verde. Il panorama di

sempre.

Ogni mattina svegliandosi aveva ritrovato le stesse immagini,

gli stessi boschi, la stessa grande solitudine, e ogni notte sognava

del suo bel mare e della vita elegante che aveva condotto sino al

momento del matrimonio.

Riandava col pensiero a quando con la sorella passeggiava sul

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lungomare, ai suoi vestiti di taffetas, ai cappellini guarniti di

fiori e al parasole.

Sognava la riviera, dove la primavera inoltrata portava

sempre tiepidi refoli di vento dal mare, e dai muri dei giardini la

mimosa traboccava prepotente con i suoi tralci solari. Il mare

increspato era di un turchino acceso e piccole onde si

infrangevano sulla barriera di scogli appena sotto la passeggiata.

Colomba ricordava il momento in cui aveva preso coscienza

di dover lasciare quei luoghi, così ameni e solatii, per relegarsi in

un luogo sperduto di Lunigiana e ne era amareggiata, ma sapeva

anche di doversi ritenere fortunata, per aver trovato marito, lei

che si avviava ormai a rimaner zitella.

Certamente la sorella era stata più fortunata di lei che

sposando un ingegnere era rimasta a vivere in città e avrebbe

condotto un’ elegante vita sociale.

Colomba era decisamente brutta; era molto bassa di statura

come se in lei la crescita si fosse arrestata sui dodici anni. Il suo

viso era allungato e gli occhi avevano un’espressione dura. Il suo

carattere si era fatto sempre più difficile e arrogante quando, col

tempo, si era evidenziata tra le due sorelle una notevole diversità:

brutta e sgraziata la prima quanto graziosa e garbata la seconda.

Quando passeggiavano, accompagnate da una domestica che

le seguiva a rispettosa distanza, non poteva non notarsi la

grandissima differenza per cui le due sorelle in città erano

commentate e conosciute da tutti.

Colomba apparteneva ad una ricca famiglia ligure e per parte

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di madre vantava anche un’ importante parentela: Giuseppe

Mazzini; casualmente, dal matrimonio con un fiorentino

trapiantato in Lunigiana, lei ne avrebbe ripreso il cognome.

La sua famiglia era felice che il matrimonio fosse stato

concluso, poichè trovare un marito a una figlia così brutta, era

stata cosa non facile. Dopo ripetuti ripensamenti si era cercato in

un’altra regione una persona adeguata e inconsapevole della

notoria bruttezza di Colomba e dopo un certo tempo si era

trovata la soluzione.

Enrico era un ricco discendente di una nobile famiglia

fiorentina trapiantata in Lunigiana al tempo della dominazione

medicea, praticava l’arte del notaio, era buono e scapolo, ma era

soprattutto miope.

Si racconta ancora che era stato invitato da conoscenti

comuni a casa della fanciulla e al posto di Colomba gli fosse stata

fatta conoscere Luigia la bella sorella minore; la fanciulla era

piaciuta e il promesso sposo era ripartito.

Dopo poco la presentazione si era parlato di dote e fissata la

data delle nozze che sarebbero state, per sicurezza, celebrate in

Lunigiana, nella chiesa del palazzo dello sposo.

Il gioco era fatto.

Quando la sposa era arrivata all’altare coperta da candidi

veli, celebrati gli sponsali, il buon uomo aveva capito di essere

stato ingannato ma aveva preferito tacere e anzi, mai più aveva

voluto commentare l’accaduto.

Colomba aveva aveva apprezzato quella cerimonia sfarzosa. Il

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marito non aveva badato a spese, come si conveniva ai signori del

tempo e soprattutto perchè la chiesa era grande e non una

semplice cappella gentilizia. Costruita al tempo della

dominazione medicea in Lunigiana, era stata eretta da un ordine

monastico, i Serviti, che aveva privilegiato le dimensioni della

chiesa rispetto a quelle del convento annesso.

Quando questo era stato trasformato in residenza signorile,

del convento era rimasta la struttura, che, non essendo stata

ampliata, aveva reso al confronto la chiesa monumentale.

Per la cerimonia erano stati ordinati fiori e cere dalle più

premiate ditte italiane e un allestito nel salone del palazzo un

sontuoso banchetto.

Colomba aveva apprezzato subito la ricchezza della famiglia,

le molte domestiche, il “felice notte signoria” che le rivolgevano i

contadini alla sera, i numerosi poderi e la grande bontà del

marito.

Col matrimonio la coppia aveva ottenuto la stanza da letto più

grande, come in uso a quel tempo, mentre i suoceri erano andati

ad occuparne un’altra, sempre al piano nobile, ma meno

sontuosa.

La stanza da letto degli sposi comunicava direttamente con

quella destinata alla balia e ai bambini piccoli.

Colomba aveva presto partorito il suo primogenito ma, sorda

alle richieste del marito che avrebbe voluto usare per il neonato

un nome della tradizione famigliare, aveva imposto quello di

Pierino.

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Il carattere prepotente di Colomba non era il suo unico

difetto. Ella, con la conquista del matrimonio e la mancanza del

diretto paragone con una donna più bella o più giovane nella

casa, era diventata molto vanitosa.

Possedeva uno splendido corredo di lino fatto ricamare dalla

sua famiglia: camicie da notte e da giorno, corsetti, sottogonne e

biancheria varia; le lenzuola di lino portavano addirittura il

numero ricamato in rosso in un angolo, come pure era stato

ricamato il numero nelle tovaglie e nei tovaglioli. Possedeva

magnifici centri ricamati a punto inglese e a punto rinascimento

e per le finestre aveva tendine di organdis ricamato.

Tutto questo a Colomba non era bastato; la sua sete

insaziabile di eleganza la portava ad ordinare tele di lino dalle

più rinomate fabbriche italiane e straniere che venivano poi

mandate ad un convento di monache perchè fossero ricamate.

Ordinava un numero incalcolabile di prodotti di bellezza

dalle più reclamizzate case di cosmetici; crème, ciprie, colonia e

profumi, prodotti contro la caduta dei capelli.

Arrivavano figurini di moda da Parigi dove Colomba si serviva

per il proprio abbigliamento e cataloghi che proponevano un

ampio assortimento di calze.

Da Bologna le arrivava un invito personale da un atelier di

moda che le comunicava l’arrivo da Parigi delle ultime novità in

fatto di cappellini per signora e signorine.

Il marito non ebbe mai a rimproverarla per la grande

quantità di denaro che Colomba dissipava a piene mani, semmai

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era ella stessa che, annoiata della vita poco brillante che

conduceva, aveva preso l’abitudine di rimproverarlo e anche di

umiliarlo con il termine “piccagiun“ che, dalle sue parti al mare,

aveva il significato di “buono a niente.”

Colomba aveva anche un gran desiderio di frequentare il bel

mondo per cui in ogni momento la grande casa era allietata da

molti ospiti che vi soggiornavano a lungo e rallegravano con la

loro presenza la sua monotona vita di padrona di casa.

Tra gli ospiti che frequentavano quotidianamente la casa

erano da annoverarsi il parroco della parrocchia e gli altri del

circondario, i quali, quando per una qualche festa religiosa si

allestiva la grande chiesa, erano invitati a officiare cerimonie

solenni alle quali usavano partecipare anche mezzadri e contado.

Anche le feste e i ricevimenti privati erano assai frequenti e

ben se ne rendeva conto il buon marito quando arrivavano i

conti dai diversi fornitori.

Ma a Colomba non bastava la devozione del marito, nè il

confuso parlottio del suo piccino perchè, sempre annoiata da

quotidiane mansioni domestiche, preferiva oziare nei ricordi del

passato.

Non era una buona madre; il suo bambino era accudito da

una balia e lei quasi si dimenticava della sua esistenza, presa

com’era ad agghindarsi e profumarsi. E forse non ebbe a soffrire

neanche quando il piccino, morì prima ancora di riconoscere in

lei la mamma.

Di Colomba oggi rimane un ritratto che per la sua bruttezza

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nessun erede ha mai voluto; rimangono i resti del suo buon

marito, sepolto vicino all’acquasantiera della grande chiesa e

quelli del piccolo Pierino, che giace sotto una lastra bianca, al

fianco della sorella, Pia Caterina detta Luisita.

Sotto le arcate di pietra, ombrose e fresche, dove si dice che si

risentano i Salmi dei Serviti, disperse le proprietà, le tradizioni e

le memorie, solo il vento sussurrerà ormai “ felice notte

Signoria…”

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stradine quasi abbandonate portano ai piccoli cimiteri

sperduti nei boschi di Lunigiana

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qualche gradino di pietra e un vetusto cancello di ferro

appaiono davanti a noi

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alte file di cipressi ci accolgono sulla soglia

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una croce leggera pare danzare nell’aria

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l’alta erba e l’oblio nascondono ormai le tombe di molte

creature scomparse anche dalla memoria

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dignitose croci di ferro, senza nome, che il tempo consuma, si

confondono quasi tra le alte erbe

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antiche lapidi, dove i secoli sono riusciti a cancellare ogni

traccia di nome, restano mute testimoni di umili vite, di fatiche,

dolore e povertà, di antiche storie e di tradizioni perdute.

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E L’OCCHIO SCORRE QUESTA DI CASTELLI

ERMI TURRITA NOBIL TERRA; IL MAGRA

PER UN GREMBO DI MONTI IN SINUOSO

ARCO SI ADIMA

E LA RISPECCHIA.

Ceccardo Roccatagliata Ceccardi

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BibliografiaE. Branchi: Storia della Lunigiana Feudale – Forni Editore

Bologna, vol.III, pp.20,21,22,23.

I Castelli della Lunigiana. A cura di P. Ferrari – Edizione

Cavanna -Pontremoli 1927. Tav.6,pp.20,21,22.

L’Araldica, fonti e metodi. A cura di Laura Galoppini – Editore

– La Mandragora, ( Giunta Regionale Toscana) edizione fuori

commercio da G. Sercambi.

Le illustrazioni delle Croniche Lucchesi, commenti di O.Banti,

E. Cristiani e De Simoni :Medaglioni Storici Pisani. 1932.

Mappa planimetrica della Lunigiana ricordata da Almagia`:

“Monumenta Italiae Cartographica”pag. 60-Acquerello su carta-

Piante antiche dei confini del 1643- rappresentante i vari feudi

lunigianesi.

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INDICE

Cenni storici sulla Lunigiana pag. 11

Luisita ” 21

Erina ” 33

Margherita ” 43

Maria ” 53

Maddalena ” 61

Romeo ” 71

Il prete ” 79

La bambina ” 89

Laurina ” 97

Anna Maria ” 105

La serva ” 117

L’infame ” 129

La Maestra ” 141

Genoveffa ” 151

Anselmo ” 163

Laura ” 175

Paulo ” 185

La signora ” 197

Zefra ” 209

Giulietta ” 221

Maria e Vergiò ” 231

Filomena ” 241

Tellio ” 249

Michele ” 259

Colomba ” 271

Bibliografia ” 301

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Prima edizione agosto 2002

Seconda edizione settembre 2009

Tipografia Digitale - Carrara

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