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MENSILE DI INFORMAZIONE, CULTURA, ECONOMIA FONDATO …€¦ · Cube) un diario del suo confinamento...

Date post: 27-Apr-2020
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. . . . 88 PAGINE, CONTIENE E IL GIORNALE DELLE MOSTRE IL GIORNALE DELL’ARTE SPEDIZIONE IN A.P. - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N° 46) ART. 1, COMMA 1, DCB TORINO - MENSILE N. 4-APRILE 2020 PRIMA IMMISSIONE 4 APRILE 2020 MENSILE DI INFORMAZIONE, CULTURA, ECONOMIA FONDATO NEL 1983 SOCIETÀ EDITRICE ALLEMANDI TORINO WWW.ILGIORNALEDELLARTE.COM ANNO XXXVII N. 407 APRILE 2020 EURO 10,00 L’ARTE IN QUARANTENA IMBRIGLIATA NELLA RETE Nei giorni dell’emergenza il web è pieno di arte. Musei, gallerie, aste e artisti si rivolgono al digitale e al virtuale per dimostrare di esistere ancora, inventandosi progetti e proposte. Nessuno sa che cosa succederà: chi sopravviverà e come? Ma l’arte resterà (e non solo in rete) Un nuovo Stato «Noi siamo già tutti morti», dice Prigogine. Malgrado tale lucida asserzione, l’umanità continua i suoi banchetti, assistita da un dinamismo fomentato dallo sviluppo tecnologico. La fame di vita determina la continuità della storia, ci invita tutti e ancora a un «pranzo gratis», secondo un’ulteriore asserzione dell’ironico Prigogine. L’arte fa lo stesso: prosegue nelle sue libere traiettorie creative una strategia della sorpresa, puntando sulla sperimentazione e sulla citazione. Esperimento tecnico ed esperienza creativa intrecciano le proprie valenze per fondare la realtà lampante della forma. Insomma è evidente: l’arte vuole salvare la forma. Non per buona educazione, semmai per dimostrare a tutti la sua disposizione a essere socievole. Che non significa essere accomodante, piuttosto isolare lo spettatore nella contemplazione di un nuovo stato di conoscenza. Il tallone di Achille di ABO continua a p. 6, iv col. Il vizio ci manca Tutto chiuso, tutti a casa Ohibò, è arrivato un virus che non sai bene come immaginarti e la tua «comfort zone» salta per aria perché ti manca qualcosa da raccontarti nella testa. Che non sia una faccenda di un paio di settimane e poi basta e torna tutto uguale a prima l’hai capito subito, se non sei un imbesuito che crede a quello che raccontano i nostri reggitori. E la situazione di straniamento è accentuata dal fatto che da ogni parte si affrettano a spiegarti che il web può essere un sostituto pressoché onnipotente di ogni esperienza, e tu sei costretto a volerci credere. Anche perché è più o meno l’unica cosa che ti sia consentita in questa situazione così radicalmente anticapitalistica: il tuo capitale è il tempo a disposizione, pressoché illimitato (salvo quello che passi in coda per comprarti La perdita di introiti per chi lavora nel mondo dell’arte non è parziale. È totale. Economia di guerra è un eufemismo: il restauro del campanile romanico a cento metri dalla nostra redazione reca la data del 1940. Almeno si restaurava. Certamente anche qualcosa d’altro. Adesso niente. A differenza di un’alluvione o di un terremoto che distrugge tutto, tutto continua a esistere. Ma tutto è come morto. Immobilizzato e inaccessibile. Potrà apparire assurdo, ma questa copia del giornale che state leggendo sarà probabilmente, questo mese, una delle rarissime manifestazioni di attività «tangibili» del mondo dell’arte. Lo pubblichiamo forse irragionevolmente, in condizioni di assoluta non economicità, proprio come si sventola una bandiera. Per segnalare che c’è ancora vita, che la vita continua. Leggiamo appelli, ONLINE IL CONTAGIO di Flaminio Gualdoni continua a p. 6, v col. Dottori & C. Mostre & Musei LA CLASSIFICA MONDIALE 2019 Il 25 marzo le autorità egiziane hanno iniziato a liberare l’area attorno alle Piramidi di Giza e a sanificare il sito GIOIELLI MILANO | Costanza da Schio | Servizio Valutazioni | [email protected] | + 39 02 382 63 388 Valutazioni gratuite e confidenziali per le prossime aste di Milano, Genova e Monte Carlo MILANO | GENOVA | ROMA | MONTE CARLO
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88 PAGINE, CONTIENE

E IL GIORNALE DELLE MOSTRE

IL GIORNALE DELL’ARTE

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020

MENSILE DI INFORMAZIONE, CULTURA, ECONOMIA FONDATO NEL 1983 SOCIETÀ EDITRICE ALLEMANDI TORINO WWW.ILGIORNALEDELLARTE.COM ANNO XXXVII N. 407 APRILE 2020 EURO 10,00

L’ARTE IN QUARANTENA IMBRIGLIATA

NELLA RETE

Nei giorni dell’emergenza il web è pieno di arte. Musei, gallerie, aste e artisti si rivolgono al digitale e al virtuale per dimostrare di esistere ancora, inventandosi progetti e proposte. Nessuno sa che cosa succederà: chi sopravviverà e come? Ma l’arte resterà (e non solo in rete)

Un nuovo Stato«Noi siamo già tutti morti», dice Prigogine. Malgrado tale lucida asserzione, l’umanità continua i suoi banchetti, assistita da un dinamismo fomentato dallo sviluppo tecnologico. La fame di vita determina la continuità della storia, ci invita tutti e ancora a un «pranzo gratis», secondo un’ulteriore asserzione dell’ironico Prigogine. L’arte fa lo stesso: prosegue nelle sue libere traiettorie creative una strategia della sorpresa, puntando sulla sperimentazione e sulla citazione. Esperimento tecnico ed esperienza creativa intrecciano le proprie valenze per fondare la realtà lampante della forma. Insomma è evidente: l’arte vuole salvare la forma. Non per buona educazione, semmai per dimostrare a tutti la sua disposizione a essere socievole. Che non significa essere accomodante, piuttosto isolare lo spettatore nella contemplazione di un nuovo stato di conoscenza.

Il tallone di Achille di ABO

continua a p. 6, iv col.

Il vizio ci manca

Tutto chiuso, tutti a casa

Ohibò, è arrivato un virus che non sai bene come immaginarti e la tua «comfort zone» salta per aria perché ti manca qualcosa da raccontarti nella testa. Che non sia una faccenda di un paio di settimane e poi basta e torna tutto uguale a prima l’hai capito subito, se non sei un imbesuito che crede a quello che raccontano i nostri reggitori. E la situazione di straniamento è accentuata dal fatto che da ogni parte si affrettano a spiegarti che il web può essere un sostituto pressoché onnipotente di ogni esperienza, e tu sei costretto a volerci credere. Anche perché è più o meno l’unica cosa che ti sia consentita in questa situazione così radicalmente anticapitalistica: il tuo capitale è il tempo a disposizione, pressoché illimitato (salvo quello che passi in coda per comprarti

La perdita di introiti per chi lavora nel mondo dell’arte non è parziale. È totale. Economia di guerra è un eufemismo: il restauro del campanile romanico a cento metri dalla nostra redazione reca la data del 1940. Almeno si restaurava. Certamente anche qualcosa d’altro. Adesso niente.A differenza di un’alluvione o di un terremoto che distrugge tutto, tutto continua a esistere. Ma tutto è come morto. Immobilizzato e inaccessibile.Potrà apparire assurdo, ma questa copia del giornale che state leggendo sarà probabilmente, questo mese, una delle rarissime manifestazioni di attività «tangibili» del mondo dell’arte. Lo pubblichiamo forse irragionevolmente, in condizioni di assoluta non economicità, proprio come si sventola una bandiera. Per segnalare che c’è ancora vita, che la vita continua. Leggiamo appelli,

ONLINE IL CONTAGIO

di Flaminio Gualdoni

continua a p. 6, v col.

Dottori & C.

Mostre & MuseiLA CLASSIFICA MONDIALE 2019

Il 25 marzo le autorità egiziane hanno iniziato a liberare l’area attorno alle Piramidi di Giza e a sanificare il sito

GIOIELLI MILANO | Costanza da Schio | Servizio Valutazioni | [email protected] | + 39 02 382 63 388

Valutazioni gratuite e confidenziali per le prossime aste di Milano, Genova e Monte Carlo

M I L A N O | G E N O V A | R O M A | M O N T E C A R L O

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2 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

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NotizieIl settore «Notizie» è a cura di Alessandro Martini

Le due architette di Dublino Yvonne Farrell e Shelley McNamara (fonda-trici nel 1978 dello studio Grafton Architects) sono le vincitrici dell’edi-zione 2020 del Pritzker Prize di Archi-tettura. È la prima volta che il premio viene attribuito a due donne. Tra i loro lavori più noti l’Università Bocconi di Milano (2008), il campus universitario Utec di Lima (2015) e l’Institut Mines Télécom a Parigi (2019).

Novità alla Fondazione VAF, l’istituzio-ne tedesca istituita nel 2000 dall’im-

prenditore Volker W. Feierabend (nella foto), le cui oltre 2mila opere d’arte italiana moderna e contemporanea sono conservate al Mart di

Rovereto. Tre donne, per la prima vol-ta tutte italiane, entrano nel Consiglio d’amministrazione a fianco di Peter Weiermair: Elena Pontiggia, docen-te di Storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Brera e al Politecnico di Milano, Nicoletta Colombo, che ha maturato 45 anni di esperienza nel set-tore artistico e dal 1992 è titolare dello studio di consulenza d’arte a Milano che porta il suo nome, e Serena Reda-elli, che dal 2006 affianca la Colombo come consulente. Tutte nel loro curri-culum vantano esperienze di curatela per mostre temporanee e pubblicazio-ni d’arte. Lo storico presidente Klaus Wolbert sarà affiancato da Thorsten Feierabend, figlio del fondatore.

Marina Abramovic ha postato su You-Tube un videomessaggio rivolto alla popolazione italiana. Il video è parte del nuovo progetto digitale di Palazzo Strozzi «In Contatto», che offre conte-nuti online nel periodo di chiusura al pubblico dell’istituzione fiorentina. In-tanto sono molti gli artisti molto attivi sui social. L’artista britannica Tracey Emin, ad esempio, sta condividendo con i suoi follower su Instagram (tra-

mite l’account della galleria White Cube) un diario del suo confinamento in casa. «In questa epoca terrificante abbiamo bisogno di ogni genere d’ar-te», ha detto.

La prima edizione della Biennale di Yerevan, che si sarebbe dovuta tene-re nella seconda metà di quest'anno in diverse sedi nella capitale dell’Ar-menia e che è stata invece posposta al prossimo anno, dal 15 aprile al 13

giugno, ha scelto il pro-prio curatore: è Loren-zo Fusi, 52 anni, già curatore della Biennale di Liverpool nel 2010 e nel 2012.

Antonio Tarasco, direttore del Servizio I della Direzione generale Musei del Mi-bact, giudica «niente affatto felice l’im-patto del Covid-19 sui musei statali. Noi abbiamo una modalità di produzione dei ricavi basata principalmente sulla bi-glietteria: l’interruzione del servizio com-porta immediatamente la soppressione di circa il 90% delle entrate», spiega.

Dopo 6 anni e due mandati consecutivi, Claudia Perren (1973) lascia la guida della Stiftung Bauhaus di Dessau, in Germania,

per dirigere l’Università di Arti e Desi-gn di Basilea. Nata nell’ex Berlino Est, ha studiato architettura a Berlino, New York e Zurigo e ha insegnato all’Univer-sità di Sydney. Sotto di lei il Bauhaus Dessau ha rafforzato il suo profilo in-ternazionale e realizzato in tempo per il centenario del 2019 il nuovo Museo di Addenda Architects.

Dopo anni di pressione affinché resti-tuisse manufatti potenzialmente raz-ziati dal Medio Oriente, il fondatore del Museum of the Bible di Washington, Steve Green, con l’assistenza degli

esperti del museo che l’imprenditore aveva aperto nel 2017, riconsegnerà ai governi di Iraq ed Egitto 11.500 re-perti delle sue collezioni.

La nomina a direttore di Villa Medici a Roma, sede dell’Accademia di Francia, di Sam Stourdzé, direttore dei Rencon-tres di Arles e specialista di fotografia, mette fine a un interim di 18 mesi al vertice dell’istituzione romana.

Una giuria interamente femminile inti-tolata «Le donne per l’arte» ha nomi-nato Germano Celant «Reuccio della critica contemporanea» per l’attività svolta in nome di Prada. L’incorona-zione doveva avvenire l’1 aprile a Pe-schici, ma il critico ha declinato l’invito alla cerimonia che comunque sarebbe stata sospesa per i noti motivi.

L'ottava edizione del Max Mara Art for Women è stata assegnata all'artista inglese Emma Talbot (1969).

La candidatura della studiosa dell’an-tichità Mary Beard a nuovo membro del board del British Museum di Lon-dra è stata rifiutata dall’ufficio del pri-mo ministro inglese Boris Johnson a causa delle posizioni anti Brexit della storica britannica. Tuttavia il museo, che ha la facoltà di nominare cinque soggetti di propria iniziativa, potrà ac-coglierla autonomamente.

Era in prigione dal 2016 Fatos Irwen, artista curda nota per le sue performance e installazioni relative alle politiche di genere; ora è stata liberata. Era stata arrestata in un aeroporto turco con accuse di resi-stenza a pubblico ufficiale per una protesta del 2003.

A 80 anni, l'ex ministro socialista fran-cese della Cultura Jack Lang sarà per la terza volta presidente dell'Institut du Monde Arabe.

Andirivieni

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Umberto Allemandi srl piazza Emanuele Filiberto, 13-10122 Torino, Tel. 011 8199111 - Fax 011 8193090

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Amministratore unico Umberto Allemandi

Consiglieri Alessandro Allemandi,Beatrice Allemandi, Anna Somers Cocks

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Vicedirettore Franco Fanelli

Caporedattore Barbara Antonetto

Redattori Vittorio Bertello, Anna Maria Farinato, Cristina Valota

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Art director Claudia Carello [email protected]

Curatori di Settore Alessandro Martini (Notizie, Musei e Turismo culturale), Arabella Cifani (Libri), Laura Giuliani (Archeologia), Walter Guadagnini (Fotografia)

Collaboratori Antonio Aimi (Arte precolombiana), Arianna Antoniutti (Roma), Carlo Avvisati, Camil-la Bertoni, Fabrizio Biferali, Emmanuele Bo (Piemonte), Roberta Bosco (Spagna), Bianca Bozzeda, Viviana Bucarelli (New York), Fede-rico Castelli Gattinara (Roma), Carla Cerutti, Chiara Coronelli, Elena Correggia, Micaela Deiana, Luana De Micco (Parigi), Giusi Dia-na (Sicilia), Jenny Dogliani, Federico Florian, Matteo Fochessati (Genova), Flavia Foradini (Austria), Elena Franzoia, Guglielmo Gigliotti, Laura Lombardi (Toscana), Melania Lunazzi (Friuli Venezia Giulia), Stefano Luppi, Luisa Martorelli, Ada Masoero (Lombardia), Mas-simo Melotti, Stefano Miliani, Francesca Ro-mana Morelli (Roma), Michela Moro, Bruno Muheim, Lidia Panzeri (Venezia), Giovanni Pellinghelli del Monticello, Francesca Petretto (Germania), Veronica Rodenigo, Luca Scar-lini, Olga Scotto di Vettimo (Napoli), Valeria Tassinari, Francesco Tiradritti (Egittologia)

InviatiTina Lepri, Edek Osser

OpinionistiFrancesco Bandarin, Achille Bonito Oliva, Giorgio Bonsanti, Dario Del Bufalo, Simo-ne Facchinetti, Gianni Gaggero e Rinaldo Luccardini, Flaminio Gualdoni, Giorgio Guglielmino, Fabrizio Lemme, Marco Ma-gnifico, Alessandro Morandotti, Anna Or-lando, Lucio Pozzi, Marco Riccòmini, Pierre Rosenberg, María Sancho-Arroyo, Salvatore Settis, Vittorio Sgarbi, Bruno Zanardi

Il fotogiornale «Vernissage»è a cura di Franco Fanelli Caporedattore Cristina Valota

Edizione onlinewww.ilgiornaledellarte.comEditore Alessandro AllemandiRedattore Vittorio Bertello

PubblicitàCinzia Fattori, 011 8199118([email protected])Piemonte e Lombardia Claire Pizzini [email protected] Valeria De Simoni 333 2778388; [email protected], Friuli Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna, Umbria, Marche e Abruzzo Valeria Riselli 335 6390119; [email protected] Luciana Cicogna, 347 6176193; [email protected] Benedetta Angioni, 348 3157377; [email protected] e Roma Antonio Jommelli 328 1042199; [email protected] Italia e isole 011 8199118Pubblicità internazionale Londra 0044 207 7353331; New York 001 914 2665105; Parigi 0033 1 42364597

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IL GIORNALE NON RISPONDE DELL’AUTENTICITÀ DELLE ATTRIBUZIONI DELLE OPERE RI-PRODOTTE, IN PARTICOLARE DEL CONTENUTO DELLE INSERZIONI PUBBLICITARIE. LE OPINIONI ESPRESSE NEGLI ARTICOLI FIRMATI E LE DICHIARAZIONI RIFERITE DAL GIOR-NALE IMPEGNANO ESCLUSIVAMENTE I RISPETTIVI AUTORI. CONTIENE I.P.

Che cosa fa la gente dell’arte

Il destino del critico Povero critico d’arte contemporanea: alle generazioni successive le sue opinioni parranno ridicole se erano false, e del tutto scontate se erano vere.

q Alan Bowness, per 10 anni direttore della Tate di Londra poi della Henry Moore Foundation, in «Il Giornale dell’Arte», n. 77, apr. 1990

Trent’anni fa

“”

Addii q Il 2 marzo, a 76 anni a Lubiana, all’artista te-desco Ulay (Frank Uwe Laysiepen), celebre an-che per il legame artisti-co e affettivo con Marina

Abramovic, dalla seconda metà degli anni ’70 per oltre un decennio. Di recen-te lo Stedelijk Museum di Amsterdam ha annunciato una mostra sull’artista.

q Il 15 marzo a Milano, a causa del Coronavirus, all’architetto e urbanista Vittorio Gregotti, 92 anni. Era nato a Nova-ra nel 1927. Con lui è

scomparso, secondo il presidente della Triennale Stefano Boeri, «un saggista, critico, docente, editorialista, polemista, uomo delle istituzioni che (restando sem-pre prima di tutto un architetto) ha fatto la storia della nostra cultura».q Il 18 marzo a Roma ad Angelica Sa-vinio, 92 anni, figlia del pittore Alberto. Nel 1964 fondò la Galleria Il Segno, poi diretta dalla figlia Francesca Antonini.q Il 19 marzo a Patrice de Vogüé, 91 anni, che più di 50 anni fa aprì al pub-blico il suo castello di Vaux-le-Vicomte, ogni anno visitato da 300mila persone.q Il 23 marzo, in Spagna, all’attrice Lu-cia Bosè, 89 anni. Aveva una passione speciale, gli angeli: vent’anni fa creò a Turégano il primo Museo degli Angeli, con rappresentazioni di angeli prove-nienti da ogni parte del mondo.

q Il 23 marzo a Paul Kasmin, 60 anni. Aveva aperto la propria galle-ria nel 1989 a Soho. Figlio d’arte (il padre, collezionista e mercante lon-dinese, fu il primo a esporre David Hockney), trattava artisti storicizzati del dopoguerra (Lee Krasner, Robert Motherwell, Stuart Davis) e nomi con-temporanei (Tina Barney, Walton Ford, James Nares, Mark Ryden, Bosco Sodi e Bernar Venet).q Il 23 marzo al critico Maurice Ber-ger, 63 anni, a causa di complicazioni determinate dal Coronavirus. Esperto di problemi legati al razzismo, era com-mentatore di «The New York Times».q All’età di 74 anni, allo storico dell’ar-

te Juan José Luna, capodipartimento del Prado di Pittura francese, inglese e tedesca dal 1986 al 2002 e di Dipinti del XVIII secolo dal 2003. q Il 24 marzo, per una crisi cardiaca nel-la sua casa parigina, a Albert Uderzo, 92 anni, il disegnatore che insieme all’a-mico René Goscinny ideò il personaggio di Asterix. Con suo «fratello», come lo chiamava lui stesso, aveva creato, con la saga del guerriero gallico, un modo di pensare, meglio: una filosofia. q Il 19 marzo a Franco Sottani, 82 anni, presidente del Salone dell’arte e del Restauro di Firenze. L’edizione del Salone, prevista a maggio, è ora stata riprogrammata dal 14 al 16 ottobre.q Per Coronavirus all’architetto Caloge-ro Rizzuto, 65 anni, direttore del parco archeologico di Siracusa, già soprinten-dente ad interim a Siracusa e Ragusa.q Il 26 marzo per Coronavirus a Michael Sorkin, 71 anni, tra i più acuti e ascoltati critici di architettura negli Stati Uniti.q Il 28 marzo, a 89 anni, all’architet-to e storico dell’arte francese Jean-Jacques Fernier, massimo esperto del pittore Gustave Courbet.q A Venezia a Bruna Aickelin, colle-zionista e fondatrice nel 1970 della storica Galleria Il Capricorno (negli spazi occupati dal 2013 dalla galle-ria dell’amica Victoria Miro), punto di riferimento per l’arte contemporanea internazionale, da Robert Rauschen-berg a Piero Manzoni.

In questo numero

1-13 Notizie 14-17 Opinioni e Documenti 18-20 Turismo culturale 21-22 Musei

27-29 Musei più visitati 30-33 Archeologia 34-38 Libri 39-40 Restauro

41 e 46-52 Economia 42-43 Gallerie 44-45 Antiquari

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Roma, 27 Aprile - Grafica Internazionale e Multipli d’Autore

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4 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

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Notizie

Il punto di vista italiano

Il virus dell’arte è la sfiduciaGalleristi e case d’aste attendono una ripresa in autunno. Intanto puntano sull’online, pur sapendo che in arte è insostituibile la visione diretta delle opere

Un’epoca tragicamente virale:

Milano. Titolo profetico, quello della 17. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia «How will we live together?». La risposta è: «Ognuno a casa propria lavorando in smart wor-king», tanto che la conferenza stampa di presentazione con il presidente Ba-ratta e il curatore Hashim Sarkis si era svolta in streaming già il 27 febbraio. L’arte è stata una delle vittime più pre-coci dell’inaspettata velocità con cui il Coronavirus si è abbattuto sull’Italia, sin dalle prime avvisaglie. La prima ordinanza è partita il 23 febbraio per il Nord Italia, e il lunedì seguente il Castello di Rivoli a Torino aveva can-cellato l’inaugurazione della mostra globale legata agli altri beni e quindi passi-

bile di variazioni. Come hanno reagito gli artisti? All’interno del nostro canale Insta-gram, per il primo dei progetti #socialeyes, Rebecca Moccia ha postato l’8 marzo “Sha-ring Losing”, in occasione della Giornata della Donna. L’immagine digitale, ancora online, copiata e condivisa più volte, perde progressivamente i pixel che la definiscono e da immagine in high resolution si trasforma in low resolution procedendo quindi come la nostra memoria. Dobbiamo trovare metodi nuovi per continuare a sognare attraverso l’espressione artistica, trovare risvolti positi-vi; io sono ottimista». Anche Giuseppe

Bertolami, ammi-nistratore unico dell’omonima casa d’aste con sede a Roma e Londra, è ottimista: «Passato tutto, la ripresa ci sa-rà per quelli che reste-

ranno, magari andrà anche meglio. Abbia-mo spostato le nostre aste, a Londra e in Italia, verso settembre e ottobre, prima non credo sia possibile, e abbiamo accelerato l’u-scita delle aste online. L’off line non esiste quasi più; chi entra in un negozio di anti-quariato oggi a Roma? Invece la via trasver-sale è il modo migliore per rilanciare la fa-scia media e trovare nuovi mercati; questa situazione porterà qualcosa di positivo, se adeguiamo i nostri sistemi correttamente, spalleggiando le vendite online con équipe di esperti accreditati al vetting: bisogna guardare al mercato globale, penso a realtà come 1stdibs e Artsy. Non faccio fiere, punto su altro e vedo questa crisi come un’oppor-tunità per riordinare le idee, se si affronta con ottimismo. È l’occasione per lo Stato di capire che i sistemi informatici esistenti van-no utilizzati. Gli Uffici Esportazioni che fan-no capo al Ministero hanno chiuso fino al 3 aprile, sarebbe ottimo in seguito affrontare il vecchio problema e accelerare per via in-formatica tutte le procedure di esportazione e importazione. Certo anche dopo l’estate il recupero sarà difficile non solo dal punto di vista sanita-rio, ma economico e psicologico, per riac-

quistare la fiducia nell’acquisto di oggetti certo di non prima necessità. Inoltre ci sarà un’incredibile concentrazione di aste ed eventi. Nel frattempo per noi piccole impre-se il problema è sostenere i dipendenti». Di diversa opinione la casa d’aste to-rinese Della Rocca, che ha deciso di «sospendere ogni attività di vendita all’asta anche online, con il fine di tutelare il valo-re dei beni che ci sono stati affidati. In un momento drammatico come questo siamo consapevoli che il mercato in cui ci trovia-mo a operare potrebbe essere fortemente penalizzato da situazioni di estrema incer-tezza e confusione mentre uno dei nostri primi doveri è proprio quello di valorizzare al massimo un patrimonio di eccellenza che in alcun modo va svalutato». «Abbiamo la fiducia di tutti, dice Clau-dia Dwek, presidente di Sotheby’s

Italia. Ci dedichiamo in remoto ai clienti che rispondono bene, convinti che lavorere-mo nel loro interesse; le aste online vanno bene, mentre la ven-dita di arte contem-

poranea che teniamo a Milano è conferma-ta per l’11 giugno; spero che allora vedremo la luce in fondo al tunnel».Ottimista anche Mariolina Bassetti,

presidente di Chri-stie’s Italia: «Sposta-re l’asta milanese a novembre è stata una decisione felice, al mo-mento non ci sono perdite. È un’asta im-portante e merita

una promozione adeguata, anche per tute-lare chi vende. Una delle nostre aste da re-cord assoluto è stata nel 2009 quella di Yves Saint Laurent, subito dopo il crac Lehman Brothers: la storia ci invita a pensare così. Per il resto non abbiamo registrato flessioni: le private sales procedono, lavoriamo da re-moto e la tendenza è molto stabile per opere desiderate». No al virus della sfiducia, dice il sindaco di Milano Beppe Sala: in Italia ci credono. q Michela Moro

Primum vivere

Non si respira, non si beve, non si mangia ma serve a vivere e non basta mai. Parliamo di arte e cultura, cibo per il pensiero senza il quale i soli nostri corpi sarebbero vuoti e inutili.La cura (delle persone e delle cose), l’agricoltura e la cultura (cioè salute, alimentazione e istruzione) sono il tripode della nostra esistenza: tre gambe strettamente legate e connesse che non restano in equilibrio se ne manca una. Il precetto «Mens sana in corpore sano» come quello «Ora et labora» riassumono i bisogni primari della vita. Del resto quasi cinquemila anni fa il primo soprintendente, per quel che ne sappiamo, era medico, vasaio, intenditore delle arti e scriba, addetto ad azioni creative e conservative al tempo stesso. Dalla cura dei canali per l’irrigazione a quella del lustro delle città e delle residenze reali. Dagli archivi ai progetti. Già in passato dei presìdi sono stati approntati a difesa dell’arte nei casi di conflitto armato: accanto alla salvezza dei vivi si cercava anche quella delle testimonianze dei predecessori. Vi sono stati talora segnali addirittura premonitori: le opere d’arte, che sono più fragili e sensibili di noi, ci hanno avvertito in anticipo di pericoli e insidie che abbiamo percepito prima su di loro che su noi stessi. Ad esempio i danni recati dallo smog sono stati avvertiti prima sui marmi antichi e dopo sui nostri polmoni. L’eccesso di affollamento era stato anticipato su questo stesso mensile in prima pagina sin dal giugno scorso con il titolo: «Allarme mondiale: pandemia di turismite». Non stupiscono il disorientamento e lo sconcerto nel quale questa improvvisa emergenza sanitaria possa aver gettato i cultori delle arti. Non solo per motivi di lavoro o di mercato. Chi ama l’arte non può rinunciare a condividerla, per farla vivere e per vivere meglio. Il nuovo necessario galateo della prudenza e della distanza non deve farci perdere, ma anzi impone di riscoprire l’idea

di Francesco Scoppola

di fraternità, di comunità e di società civile: «Fisicamente lontani ma umanamente vicini», per dirla con le parole di Andrea La Regina. Quello che questo piccolissimo virus sta rivoluzionando in tutto il mondo sotto il profilo culturale è un imperativo: rivedere le priorità. La distinzione tra cose essenziali e cose inessenziali, il discernimento tra interessi generali e cose indivisibili, come la salute d’insieme, e interessi particolari e cose divisibili, come il commercio. Un discorso di governo importante, addirittura cardinale, tra i tanti che si sono ultimamente uditi e letti, perché non afferma più il primato dell’interesse pubblico in senso statalista in opposizione ai pur legittimi interessi privati, ma come responsabilità d’insieme. Benché siano il più delle volte invisibili o impercettibili, esistono i beni indivisibili, alla conservazione dei quali tutti dobbiamo concorrere. A metà marzo Emmanuel Macron ne ha chiaramente indicato la priorità. Conviene riportarne qui le parole, liberamente tradotte: «Dovremo domani trarre la lezione dal presente che stiamo attraversando, interrogare il modello di sviluppo nel quale siamo ingaggiati da decenni e che svela alla resa dei conti le sue falle, interrogare la fragilità delle nostre democrazie. Quello che questa pandemia già rivela è che le azioni per la sanità gratuita senza condizioni di ricavo, senza distinzioni di provenienza o di professione, per il nostro sistema statale assistenziale non sono costi o gravami e oneri, ma beni preziosi, risorse indispensabili quando il destino bussa alla nostra porta. Quello che questa pandemia rivela è che si tratta di beni e servizi che devono essere collocati al di fuori delle leggi di mercato. Delegare ad altri e non amministrare noi stessi la nostra alimentazione, la nostra protezione sanitaria, la nostra salute, la nostra capacità di curare in profondità il nostro quadro complessivo di vita è una follia. Dobbiamo riprenderne il controllo, costruire più ancora di quanto già non facciamo una Francia e un’Europa sovrane, una Francia e un’Europa che tengano fermamente in mano il loro destino. Le prossime settimane e i prossimi mesi richiederanno decisioni di rottura in questo senso. Le assumerò».

programmata per aprile, è scivolata all’11-13 settembre, portando con sé la Milano Art Week, dal 7 al 13 settembre. Fulminea la decisione del Salone del Mobile, primo a pospor-re la fiera e gli eventi legati al design dal 16 al 21 giugno, per poi spostarli nelle date classiche del 13-18 aprile 2021. Christie’s ha scelto novembre per «Thinking Italian Milan», la sua unica asta italiana, e Sotheby’s ha spostato la vendita di arte moderna e contemporanea all’11 giugno. La ricognizione sulla situazione italiana trova gli interlocutori concordi nel privilegiare la salute e la sicurezza di addetti ai lavori e clienti, cercando soluzioni intermedie per la quarante-na, più lunga del previsto, e nel con-siderare un danno la chiusura delle fiere in cui gli scambi con curatori, musei e artisti sono sempre fruttiferi. La Galleria Continua è stata tra le prime ad affrontare il virus chiudendo la sede di Pechino: «È stato uno choc, ma l’esperienza ci è servita per affrontare l’Occi-dente e siamo meno sorpresi, dice uno dei titolari, Lorenzo Fiaschi, da Parigi, altra sede della galleria. Abbiamo capito che la Cina è vicina, che i flussi non si ferma-no e che il problema degli altri è anche il vostro e il nostro. Bisogna rispettare la Ter-ra, che è piccolissima e dà degli avvisi preci-si: il virus è senza frontiere. È difficile per noi che abbiamo sempre privilegiato gli scambi personali ai pdf, ma bisogna rispettare le ordinanze ripensando le modalità di lavoro. Lavoriamo bene nelle fiere e con la cancella-zione di Dubai, Hong Kong, Tefaf, e Miart spostata a settembre possiamo preventivare ad oggi un giro d’affari con un 20% in meno. Ci sarà poi l’imbuto dell’autunno: Art Basel a settembre, la mostra di Chen Zhen alla Bicocca, i progetti a Cuba, in Brasile e a Ro-ma, la speranza che la Cina riparta. L’arte che rappresentiamo è l’antidoto al passa-porto. In settembre avremmo dovuto cele-brare a San Gimignano, nella nostra casa madre, il nostro 30mo anniversario; forse festeggeremo il 31mo l’anno prossimo». Il gallerista di Milano Gió Marconi ha chiuso Fondazione e Galleria: «Ripro-grammiamo le mostre, calcolando che il fatturato dalle fiere si riduca del 10-15%; ve-dremo come andrà il mercato internaziona-le, per ora la situazione è grave ed è tutto sospeso». Jose Graci, direttore della gal-leria Mazzoleni, valuta la doppia esposizione della galleria tra Londra e Torino: «Ci muoviamo secondo le indica-zioni governative in entrambe le sedi; non possiamo fare stime, ma la mancanza del mercato delle fiere non può che portare a un ridimensionamento. È vero che l’arte ha sempre risentito in misura minore di tanti scossoni mantenendo valore e solidità, ma il mercato dell’arte è inserito in un’economia

Un fotogramma dell’opera «Sharing Losing», postata da Rebecca Moccia l’8 marzo, Giornata della Donna, sul canale Instagram della Galleria Mazzoleni (Torino e Londra) per il primo dei progetti #socialeyes

«Di fronte al collezionista. La collezio-ne di Uli Sigg di arte contemporanea cinese»; la galleria Raffaella Cortese di Milano aveva optato per un opening solo su appuntamento per «Yael Bar-tana. Patriarchy is History», mentre altri musei e istituzioni come Hangar Bicocca avevano scelto di chiudere al pubblico. Le decisioni sono state pre-se molto rapidamente e altrettanto velocemente l’arte, o almeno la fru-izione classica dell’arte, è finita fuori dai radar degli appassionati e degli addetti ai lavori. Le fiere e gli appun-tamenti internazionali sono stati spostati, e i galleristi hanno chiuso i battenti. Miart, la fiera milanese

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Le mostre del mondo hanno il loro giornale. Su carta e online

www.ilgiornaledellemostre.com

Questo mese:Le mostre che aspettiamo di vedere e rivedere.

Visite a porte chiuse.La classifica mondiale 2019 delle mostre più visitate.

IL GIORNALE DELLE MOSTRE

A cura di Franco Fanelli (Arte contemporanea e Gallerie)Anna Maria Farinato (Arte antica) Laura Giuliani (Archeologia)Walter Guadagnini (Fotogra a)

«IL GIORNALE DELL’ARTE» | APRILE 2020

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Le mostre che aspettiamo di vedere e rivedere.

Visite a porte chiuse: i catalogue de poche di Raffaello a Roma, del Barocco a Venaria e di Artemisia a Londra

La classi� ca mondiale 2019 delle mostre più visitate

IL GIORNALE DELLE MOSTRE

A cura di Franco Fanelli (Arte contemporanea e Gallerie)Anna Maria Farinato (Arte antica) Laura Giuliani (Archeologia)Walter Guadagnini (Fotogra a)

«IL GIORNALE DELL’ARTE» | APRILE 2020

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Le mostre che aspettiamo di vedere e rivedere.

Visite a porte chiuse: i catalogue de poche di Raffaello a Roma, del Barocco a Venaria e di Artemisia a Londra

La classi� ca mondiale 2019 delle mostre più visitate

5IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

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Notizie

Riflessioni e propositi sui virus del nostro tempo

Ma domani? Prima e soprattutto, direi, queste tre coseL’epidemia è un altro dei virus che hanno dominato il nostro tempo. Di colpo ha sancito definitivamente che la cultura sarà digitale, come prevedevamo. Anche se appena finito probabilmente dimenticheremo tutto con altrettanta fulmineità, ci sarebbero almeno tre utopie da realizzare, ricorda Paolo Verri

Ottimisti o pessimisti? Apocalittici o integrati? Il mondo della cultura umanistica (quello legato alla fru-izione da parte del pubblico, ovvero musei e spettacoli dal vivo) si interro-ga su quando finirà la sciagura del Co-ronavirus che impedisce ogni attività, mentre il mondo della scienza e della tecnologia combatte con ogni mezzo l’epidemia. Che legame c’è e ci sarà tra i due mondi? Il post 2020 vedrà un legame più stretto e più pro-ficuo fra le due culture oppure la diva-ricazione, come suggerisce il giovane (bravissimo) filosofo italiano Federico Campagna in Technic and Magic. The Reconstruction of Reality (Bloomsbury, 2018), sarà ancora più profonda e pro-durrà macerie della civiltà indu-striale e basi per una nuova società ancora ignota?Dopo un inizio alquanto burrascoso, quando molti di noi minimizzavano il possibile impatto sulla vita quotidia-na e quindi sull’offerta di consumo culturale a essa collegato, la situazio-ne si è presto drammaticamente chia-rita. Ogni attività andava fermata. Le filiere economiche cultura, spetta-colo e turismo sono state azzerate. Qualcuno ha sperato di poter andare nei musei come al cinema in maniera razionata, ridotta, con distanze defi-nite. Ma così non è stato: a differenza del «cibo per il corpo», il «cibo per la mente» non ha più potuto essere consumato. I negozi fisici sono stati chiusi, aperti solo quelli virtuali. Li-brerie e biblioteche chiuse, serrande abbassate su teatri, cinema, musei. Tutta la conoscenza di colpo è di-ventata solo digitale; rafforzando una tendenza in atto e provocando un salto in avanti in un futuro che stava già per essere palese ma in cui nessuno voleva ancora veramente «entrare», stile Harry Potter. Alla fine abbiamo invece capito gli incubi tec-nocratici di Orwell e di Zamjatin e la paura della fine della stirpe di Morsel-li e di Cassola. Yuval Harari nel suo Homo Deus: Breve

storia del futuro (Bompiani, 2018) ci ave-va avvertito che la sfida più grande che l’uomo contemporaneo è dispo-sto a combattere non è quella per la pace, ma per l’immortalità. Leg-gendo su «Time» l’ultimo intervento di uno dei più lucidi e ascoltati guru contemporanei, non possiamo non cadere nella tentazione di elencare che cosa potremmo fare di buono do-po questa crisi globale.Sarà azzardato, ma qui di seguito proporrò tre utopie positive, basate su una speranza concreta, e anche su una certa consuetudine con gli eventi nel contemporaneo: appena la vita riprenderà il suo corso, dimen-

ticheremo con estrema velocità quanto è successo e con estrema probabilità torneremo a fare molti degli errori che facevamo prima che tutto questo si avverasse. In fondo la facoltà di dimenticare è innata nel ge-nere umano.

Il sostegno alla letturaPrima utopia, copiata al 90% da quan-to scritto da Thomas Piketty in Il Ca-pitale nel XXI secolo (Bompiani, 2014): un’imposta nazionale per la lettu-ra. È evidente infatti che serve rico-

struire un legame di base all’interno della comunità e che la divaricazione tra i saperi è così ampia che per in-formarci non possiamo contare sul digitale come unica fonte. Il tema del-la lettura dei quotidiani, dei setti-manali, dei mensili, dei libri deve essere vissuto come prioritario. Dice-va benissimo La Rochefoucauld nel 1665: non si tratta di far leggere ma di far pensare. Tuttavia oggi la nostra soglia di attenzione deve essere asso-lutamente ricalibrata. Chi presiederà alla qualità dell’offerta informativa? Gian Antonio Stella in un recente commento sul «Corriere della Sera» ha scomodato Elias Canetti, ricordan-

do come «nell’oscurità le parole pesino il doppio»; molti soggetti si sono resi disponibili a lavorare contro le fake news. Ma è proprio l’esercizio del leg-gere che oggi viene meno. Come ave-va intuito Walter Ong nel 1974, è in atto un definitivo ritorno all’orali-tà, basato sugli strumenti contempo-ranei del comunicare. Ci basta vedere per sapere? Il lavoro sul vocabolario collettivo esige la costruzione di com-petenze settoriali. In Italia si legge troppo poco, sia a livello di narrativa che di saggistica. Nelle regioni del Sud legge meno di una persona su tre; so-lo una persona su 12 in Italia legge più di un libro al mese; come è dram-maticamente noto, in Europa siamo quintultimi! Come abbiamo provato a fare nel turismo, possiamo tranquil-lamente copiare la Spagna, che dal 2007 ha avviato un «Plan de fomento de la lectura» e in meno di quindici anni è passata dalle nostre percentua-li a quelle dei Paesi con più lettori, come Germania (79%) e Danimarca (82%), senza ancora raggiungere le vette di Svezia e Paesi Bassi (rispetti-vamente 90 e 86% di lettori!). Qui non c’è lo spazio per scendere nei dettagli, ovviamente, ma lo sforzo principale andrà fatto a livello scolastico. In re-altà, si tratta proprio di uno stile di vita, per troppi decenni squalificato e che bisogna invece far tornare «di moda». Perché il problema non è tan-to il leggere, quanto il capire. Ci sono problemi serissimi di analfabetismo di ritorno, di comprensione dei testi e riconoscimento delle fonti. La cultu-ra e la lettura sono tutt’oggi visti come elementi elitari, e c’è addirit-tura una porzione di popolazione che si dichiara orgogliosa di non leggere, di non andare nei musei, di non an-dare a teatro. Il nostro è un problema di «cultura della cultura», sempre per pochi che snobbano gli altri. Il giorno in cui la gente non si doman-derà più come ci si veste per andare a teatro, avremo vinto.continua a p. 7, iv col.

Roma

Tentativi anticollassoLe cure di «Cura Italia» e una campagna mondiale di promozione per la cultura e il turismo italiani

Roma. Prime mosse incerte del Gover-no fino agli inizi di marzo: riapertu-ra provvisoria e, subito dopo, chiusura totale di tutti i luoghi di spettacolo e cultura. Misure necessarie per can-cellare le mille occasioni di contatto tra persone e quindi di contagio da Coronavirus. Un primo decreto leg-ge aveva quindi stabilito la sospen-sione dei versamenti di contributi e previdenza per alberghi, agenzie e tour operator e invitava le agenzie di viaggio a rimborsare i clienti con un voucher. È poi arrivato un secondo decreto promosso dal Mibact per sostenere due settori cruciali per la nostra economia: cultura e turismo. Quest’ultimo, avverte la Confindu-stria, «rischia il collasso» da mancati in-troiti nel 2020 di oltre 29 miliardi e coinvolge 3 milioni di lavoratori. Il 16 marzo è stato quindi approvato dal Consiglio dei Ministri un pacchetto di

«aiuti concreti» concordati con le asso-ciazioni di categoria. Sono interventi straordinari che cercano di rendere possibile una resistenza di qualche mese alla mancanza di lavoro e di de-naro creati dalla pandemia. Questo in sintesi il contenuto dei provvedimenti previsti dal decreto «Cura Italia» per cultura e turismo, che possono man mano essere verificati e se necessario rafforzati. Rappresentano un primo importante intervento del Governo nei due settori:q indennità straordinaria, ad alcu-ne condizioni, di 600 euro per il mese di marzo a chi lavora nei settori del tu-rismo, della cultura, dello spettacolo e dell’audiovisivo estesa anche a chi non gode di ammortizzatori sociali, quindi anche ai tanti stagionali del turismo e dello spettacolo e speciali interventi destinati ad artisti, autori, interpreti ed esecutori;

q versamenti sospesi per ritenute, contributi previdenziali e assistenzia-li e del pagamento per assicurazione obbligatoria a carico di coloro che gestiscono o organizzano teatri, sale da concerto, cinema, fiere ed eventi artistici e culturali, musei, biblio-teche, archivi, monumenti storici, bar, ristoranti, terme, parchi di di-vertimento, servizi di trasporto, no-leggio di attrezzature sportive e per spettacoli, ma anche per guide e as-sistenti turistici;q fondo emergenza per spettacoli dal vivo, cinema e audiovisivo di 130 milioni di euro per il 2020 destina-to a operatori, autori, artisti, interpre-ti, e per investimenti in questi settori. Entro 30 giorni verranno stabiliti i cri-teri di ripartizione;q rimborsi con voucher per viag-gi e pacchetti turistici annullati ed estesi a contratti di soggiorno in al-berghi e strutture turistiche; voucher e rimborso entro 30 giorni anche per biglietti di spettacoli, cinema, teatri, musei e altri luoghi della cultura. Il decreto sancisce anche l’impegno a realizzare una campagna straordi-naria mondiale di promozione per l’Italia del turismo e della cultura. q Edek Osser

l’arte inCoronata

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In previsione della pubblicazione di

PIERO DORAZIOCatalogo ragionato di dipinti e scultureProgetto di Enrico Crispolti a cura di Francesco TedeschiRedatto da Luca Pietro Nicoletti

I proprietari di opere sono invitati a far pervenire fotografie e documentazione relativa all’Archivio Piero Dorazio all’indirizzo: [email protected].

L’Archivio Dorazio offre inoltre il servizio di archiviazione delle opere. Tutte le informazioni sono disponibili sul sito: www.archiviopierodorazio.it.

Piero Dorazio nel suo studio, 1965. Foto di Vincenzo Pirozzi. Per gentile concessionedell’Archivio Piero Dorazio

Archivio Piero Doraziovia Andrea Appiani 2220121 MilanoTel./fax +39 02 36720099www.archiviopierodorazio.itsegreteria@archiviopierodorazio.it

6 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

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Notizie

L’opera del 1999 di Martin Creed «Everything is going to be alright» (Andrà tutto bene)

Gli operatori internazionali

In autunno diventeremo nevrotici«Quando ti preoccupa la salute, non compri». Eppure molti colgono nella crisi un’opportunità per riportare il mercato dell’arte a ritmi meno frenetici e per ripensare l’intero sistema: vendita digitale, aste online e affari low cost

Londra. Lo racconta la storia: la ma-lattia è portata dai poveri. Ma la dif-fusione del Coronavirus dimostra il contrario. «Sono le persone ricche, quelle che viaggiano, i vettori di questo virus», afferma Marc Glimcher, presidente e amministratore delegato della Pace Gallery. Come testimoniato dalle rica-dute di Tefaf Maastricht (cfr. articolo a p. 44), è un monito per il mondo dell’arte: mentre il virus si propaga anche tra le pareti delle fiere d’arte più glamour, non ci sono ostriche, champagne e disinfettanti che tenga-no per rendere immuni i privilegiati. A Maastricht l’atmosfera era «feb-brile», dichiara Martin Clist della galleria antiquaria di Londra Charles Ede, «come se la fiera si stesse svolgendo sott’acqua, attutita». Lo spiega in modo pertinente Georgina Adam, editor at large per il mercato dell’arte di «The Art Newspaper»: «Ora abbiamo una datazione a.C. e d.C.: prima e dopo il Coronavirus». Il suo enorme impatto sul mer-cato dell’arte è senza precedenti, con la chiusura dei due colossi

Wirth «una crisi sistemica», come quel-la del 2008. «Ricorda più l’11 settembre che il 2008. Cambierà la nostra società», sottolinea Glimcher. La gente sempli-cemente non compra».«Quando sei preoccupato per la tua salute, la sicurezza ecc. è difficile pensare di fare acquisti di alto livello per ragioni estetiche. Anche se non avrà un impatto finanziario diretto su alcuni collezionisti, l’aspetto psi-cologico filtrerà il mercato», dichiara l’e-conomista Clare McAndrew.

Battuta di arrestoIl Coronavirus potrebbe aggravare la tendenza alla minor mobilità interna-zionale, come conseguenza di un ac-cresciuto protezionismo, delle tariffe ecc., aggiunge la McAndrew: «Il com-mercio internazionale e la varietà globale di acquirenti e compratori è il fattore che ha guidato la crescita proteggendo il mer-cato da un calo negli ultimi dieci, vent’anni; quindi se il mercato diventa più locale è una minaccia per la crescita».Con lo stop ai voli, «i prezzi [per il tra-sporto aereo di arte] stanno andando alle stelle», dichiara Adam Fields, fondato-

re e chief executive della compagnia di spedizioni Arta. I trasporti su strada continuano per ora ma, con le cre-scenti limitazioni ai confini tra i Paesi europei, anche qui ci saranno ben pre-sto delle conseguenze. Il 26 marzo Art Basel, in programma

a giugno, è stata ufficialmente postici-pata, dal 17 al 20 settembre. Come di-ce Wirth, sono stati costretti a «spostar-la perché non si possono ottenere le licenze all’esportazione per le opere e il costo dei trasporti aerei è aumentato di venti volte».

Christie’s e Sotheby’s, quasi tutte le aste posticipate e migliaia di di-pendenti che lavorano da remoto, una cosa prima impensabile. Ma come affrontano le persone questa situazione e quali saranno le conse-guenze una volta che, come afferma Iwan Wirth, presidente e cofonda-tore di Hauser & Wirth, «saremo usciti dall’occhio del ciclone»? Wirth prevede una «nuova taratura e un consolidamento delle fiere, con un rallentamento del rit-mo del mercato dell’arte». Ma con tante fiere spostate all’autunno, è uno sce-nario improbabile: «Questa program-mazione isterica, con due fiere alla volta, non è il modo giusto per riprender-si», afferma Glimcher.

La paura finanziaria È ancora troppo presto per quantifi-care l’impatto finanziario sulle loro attività, ma Glimcher e Wirth con-cordano sul fatto che la sfida è del tutto nuova. «Sarà un anno molto, mol-to duro per il settore, dichiara Wirth, perché è un virus, ha un elemento essen-ziale: infetta tutti». Non è, prosegue

il pane e il companatico, chiedendoti perché sia diventato un must collettivo accumulare riserve smisurate di carta igienica), ma non sai bene a che cippa serva, visto che quello che vorresti fare non lo puoi fare. E poi ce l’hanno tutti, quindi non c’è gusto. Comunque, visto che piuttosto che niente va bene piuttosto, il tuo consumo minimo garantito di arte te lo procuri così. Il web è pieno di arte, nel bene e nel male. E qui sta il bivio ultimativo, che ricordo mi venne rivelato tanti anni fa da un personaggio bizzarro e geniale, Ruggero Guarini, il quale spiegava che le iniziative per avvicinare virtuosamente il pubblico alla pratica negletta della lettura non servivano a un bel niente, dal momento che leggere per davvero è un vizio, mica una virtù. L’arte, l’arte che ti serve, è una virtù o un vizio? Virtuoso è seguire ordinatamente un percorso, quello virtuale del museo, una mostra web ad hoc, che giovani funzionari per bene hanno omogeneizzato e confezionato per te, allegando didascalie che non ti affatichino troppo i neuroni, pastorizzando dei saputi che puzzano lontano un miglio di luogo comune, così che la prossima volta che incontri un Michelangelo o un Raffaello, un Picasso o un Miró, ti senti a posto perché «li sai». Scopri comunque delle cose. Se per esempio bighelloni un po’ puoi capitare all’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston e impari che è una collezione strepitosa: e lì, oltretutto, già un po’ di opere sarebbero virtuali anche se ci andassi di persona, dal momento che qualcuno se le fregò nel 1990 e non sono più riapparse e ora te ne esibiscono delle copie immateriali. Oppure trovi il tempo (!) per fare un giro alla National Portrait Gallery di Londra, posto dove mai nella vita ti saresti sognato di andare perché non è neanche chic dire di esserci stato. Ma il vizio, quello manca. Più ancora del libro, l’arte, a volerne fare esperienza, è un vizio pesante, comporta che tu sia disposto a farti schiantare dentro, ad accarezzare e palpare e godere (con gli occhi, ça va sans dire, ma gli occhi toccano, eccome), e anche corteggiare, annusare, possedere e farti possedere. Sanamente vizioso è concentrarsi su un’opera, anche se la didascalia dice Lazzaro Bastiani o Franciabigio o chiunque altro non hai mai sentito nominare, ma tu te ne freghi perché sei capace di eccitarti, perché ti scatta la voglia di avere con lei un’avventura. La fregatura delle iniziative web, tutte, è che ti spacciano l’arte come una virtù, disinnescandone l’erotismo implicito.

Poi lo stesso web, e questo lo sanno bene tutti, è una prateria sterminata di erotismo «in luogo di», ma appunto in una misura di falsificazione irrevocabile. Almeno questa astinenza, dall’impurità e imprecisione della pittura, dalle rughette del tempo che si porta addosso, dai sentori di materia che ancora emana il suo corpo vissuto, ti accorgi forse che ti manca, anche se la turistizzazione dei musei ha fatto molto per privartene. E rimpiangi di aver visitato, quando si poteva, la grande mostra, ma di non aver mai messo piede in un luogo non cool dove però potevi godere davvero. Uscendo dall’antologica della Abramovic a Palazzo Strozzi potevi traversare la strada e intrecciare un’intensa love story, da solo e in silenzio, con il Ghirlandaio in Santa Trinita. E da una mostrona in Palazzo Reale a Milano, un salto a San Satiro non solo per Bramante ma anche per la Pietà di Agostino de Fondulis, valeva altroché la pena. Per dire. Avere il vizio, ora ti accorgi, è davvero una virtù. Ma per il momento, contentati del web. q Flaminio Gualdoni

Dear SirItalia Nostra è ancora Italia NostraL’associazione è viva e non più posizionata su opportunismi o personalismi

Volentieri pubblichiamo quanto la presidente di Italia Nostra, Ebe Giacometti (nella foto), ci scrive in merito all’articolo «Italia non più Nostra» di Stefano Miliani, pubblicato nello scorso numero a pagina 16.

Roma. Italia Nostra accoglie persone che hanno a cuore unicamente la tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico della Nazione. Il senso di appartenenza a questa comunità non è dettato da un «credo politico» (di destra, centro o di sinistra), ma è unicamente riconducibile alla determinazione con cui i soci portano avanti azioni per ostacolare la devastazione delle campagne, salvaguardare i centri storici, impedire che musei e aree archeologiche divengano strumenti di speculazione e non garanzia di una funzione formativa e identitaria nazionale ed europea. Essere socio di Italia Nostra è un impegno etico più che ideologico: vogliamo consegnare ai nostri figli e ai nostri nipoti quanto di bello e prezioso abbiamo ereditato dalle generazioni

passate, a prescindere da chi votiamo. Da dicembre 2019, quando il Consiglio nazionale ha ritenuto di affidarmi la presidenza, Italia Nostra ha assunto quale obiettivo primario il recupero del senso di condivisione nazionale sui temi che accomunano idee e preoccupazioni delle sue 200 Sezioni e 16 Consigli regionali e smussare una contrapposizione campanilistica alimentata dal «divide et impera». L’obiettivo è lavorare per contenuti condivisi territorialmente e linee culturali di un’Associazione che si interfaccia con le istituzioni governative con autonomia di pensiero. Le nostre osservazioni al provvedimento sulle Olimpiadi invernali 2026 inviate al ministro dell’Ambiente, le preoccupazioni sulla seconda Riforma del ministro Franceschini, il rilancio del dibattito interassociativo sulla semplificazione Via per le Rinnovabili, proposta del Governo che zittirebbe definitivamente le Soprintendenze sugli impianti di produzione elettrica hanno coinvolto i nostri esperti sia a livello di Consiglio nazionale che locale. Le idee e le discussioni si sono riaccese sull’agenda del Governo e oggi producono un confronto dialettico che coinvolge anche professionalità esterne a Italia Nostra, che arricchiscono i contenuti e aiutano a mettere a fuoco i problemi senza rendere autoreferenziale l’Associazione. Questi confronti producono contenuti che, in condivisione con il Direttivo nazionale, aggiornano la posizione dell’associazione in materia di beni culturali e ambiente. Un percorso partecipativo e apprezzato già sulla riforma del Titolo V della Costituzione, che era stato interrotto e andava semplicemente riavviato. Che ciò sia avvenuto conferma che l’istituzione è viva e non posizionata su opportunismi né personalismi. Se il Covid-19 non avesse stravolto il nostro Paese, avrei avuto il piacere di raccontare dei contenuti sui quali Italia Nostra sta lavorando: fervente il dibattito interno sullo stravolgimento in atto del paesaggio storico e di quello naturale del Belpaese, anche collaborando con Anci in tema di orti e vigneti urbani e la nostra Lista Rossa, avviando un costruttivo dialogo con Icomos con cui condividiamo molti obiettivi. Un virus ci impone di riprogrammare il nostro lavoro. Ma è una pausa nella quale l’associazione con il suo personale continua a lavorare. Un’ultima considerazione: come nei partiti, anche nelle associazioni di volontariato, in specie quelle che spesso si raffrontano con la politica, approdano persone che non lavorano per la giusta causa, ma per se stesse. Come nei partiti, queste possono approdare nelle formazioni sociali e, con scaltrezza, può succedere che riescano anche a giungere ai vertici di tali organizzazioni, alle volte ingannando con abilità chi lavora da una vita, ispirato soltanto dalle ragioni della causa comune e nella buona fede. Oramai la politica nazionale, non più o non sempre ispirata a sani valori etici, ci mostra continuamente lo spettacolo di «uomini guida» (ma che «guida» non sono) che addirittura conformano un partito alla propria immagine. Anche Italia Nostra lotta contro questa malattia, ovunque incalzante, però ha la fortuna di avere anticorpi giusti e in quantità adeguata per farvi fronte, evitando in tempo che si trasformi in «epidemia». Non è vero, dunque, che Italia Nostra cambia presidenti per via di una crisi della sua compagine apicale. Il cambiamento ha riguardato due presidenti in quattro anni e nel merito è bene sapere che la presidente che mi ha preceduta è stata eletta con solo 12 voti (su 23 votanti) ed è stata sfiduciata da 14 consiglieri nazionali (su 19 votanti), proprio per l’accertata scarsissima propensione a condurre in maniera collegiale questo compito di «Primus inter pares». Rispetto ai partiti, Italia Nostra dimostra di saper rapidamente isolare i personalismi proprio grazie ai suoi efficaci «anticorpi», ma ciò è possibile solo e perché Italia Nostra è ancora Italia Nostra. q Ebe Giacometti presidente di Italia Nostra, 18 marzo 2020

Il vizio ci mancasegue da p. 1, i col.

Tutto chiuso, tutti a casasegue da p. 1, ii col.suppliche, lunghi elenchi di richieste, liste circostanziate del fabbisogno. Tutto vero. L’arte vive di sovvenzioni. Lo Stato appare l’unico soccorritore. In effetti non se ne possono immaginare altri. Ma è impensabile che uno Stato possa sostituirsi di colpo all’intera economia dell’intero Paese, che possa sovvenzionare milioni di persone e aziende disattivate di qualsiasi settore operativo o produttivo congelato, compreso anche il settore dell’arte (mica tanto micro). Noi alimentiamo il nostro Stato con le risorse del nostro lavoro. Con quale altro denaro lo Stato potrebbe darci ora il denaro che non produciamo e non gli diamo? Lo Stato deve assicurare il pane quotidiano a milioni di persone rimaste prive di qualsiasi risorsa e di qualsiasi provento. Deve finanziare l’implacabile lotta contro la demoniaca malattia invisibile. Deve salvare migliaia di moribondi. Perciò l’implorazione del mondo dell’arte non è sostenibile. L’unica richiesta seria e realistica, quel che possiamo (e dobbiamo) vigorosamente pretendere, è che il patrimonio artistico, chiuso e sigillato, sia mantenuto in condizioni di sicurezza assoluta. Infatti domani sarà proprio il patrimonio d’arte, di nuovo e sempre, la fonte di sopravvivenza per quanti potranno ancora sventolare la loro bandiera.

continua a p. 43, iii col.

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L’allestimento della mostra «Raffaello 1520-1483», magnifica e oggi invisibile, aperta al pubblico il 5 marzo alle Scuderie del Quirinale

E se domani?

Seconda utopiaInsieme cultura dal vivo e digitaleSeconda utopia, non meno importan-te ma forse più realizzabile: una forte integrazione tra offerta culturale dal vivo e in digitale. Da tempo si parla anche in Italia di Di-gital Humanities, ma la sfida non è mai davvero cominciata. È il momen-to di un grande e corretto dialogo tra pubblico e privato, tra i grandi player del web e il sistema del patrimonio culturale europeo. Con una leva an-che in questo caso basata su una tassa-zione ad hoc e studiando corretti inte-ressi reciproci si potrà promuovere al meglio la qualità artistica e architetto-nica dei territori grazie a soggetti co-me Google, Facebook (che vuol dire anche Whatsapp), Airbnb e molti altri. Il rapporto tra locale e globale è appena avviato e necessita sempre più analisi e proposte. Guardando per un attimo al solo sistema italiano, va rilanciato con fiducia il ruolo della Rai: la recente nomina di Maria Pia Ammirati (come ha ben notato Aldo Grasso) può facilitare una straordi-naria convergenza tra le Teche Rai e l’Istituto Luce. Leggere è importante, ma leggere correttamente le immagi-ni ancora di più!

Terza utopiaUn piano strategico nazionaleTerza utopia, forse la più necessaria oggi e non così difficile da realizzare: un piano strategico della cultura nazionale. Con non troppi sforzi, e qualche buon risultato, si è sviluppato un piano strategico del turismo, che andreb-be assolutamente rivisto e anche in fretta visto che cosa sta accadendo all’offerta mondiale di settore proprio a causa del Coronavirus. Ma se il turi-smo soggiace inevitabilmente a trend globali che è importante saper valu-tare per cavalcarli opportunamente (in questo momento si potrebbe per esempio combattere proficuamen-te l’over tourism e ripensare il si-stema fieristico), il settore culturale è proprio una «policy». È determi-nante oggi definire le 10 priorità dei prossimi 10 anni, ascoltando Regioni, aree metropolitane, esperti,

segue da p. 5, v col.

dirigenti e operatori privati, e lavora-re da qui al 2035 per inserire le prime due utopie (e le molte altre che na-sceranno da una discussione aperta e qualificata) in una visione strategica di insieme che manca da troppo tem-po. Come in tema di sanità e sicurezza chiediamo nuove strategie internazio-nali, così possiamo imporre alcune idee strategiche sulla cultura di livello mondiale, ma solo se saremo i primi a declinare un’operatività de-finita in ogni dettaglio, a livello legi-slativo, economico, formativo e comu-nicativo. Perché il 2021 potrebbe essere un anno eccezionale in cui lavorare a tutte queste tre utopie insieme? Ebbene, perché sarà un anno in cui avremo anche la fortuna di poter ri-cordare una figura eccezionale come Dante Alighieri. Dante è lingua e let-tura. Dante è immagine e narrazione visuale. Dante è anche struttura orga-nizzativa, idea di forma dello Stato e di ruolo del cittadino in esso.Se nel 2019 il coordinamento di pro-gettazione e promozionale che ci po-teva essere intorno alla figura di Le-onardo è stato relativo (va detto con sincerità!), il grande orgoglio naziona-le nato dagli sforzi per combattere il virus da parte di istituzioni e di me-dici, riconosciuto a livello mondiale, può ora trasformarsi in una grande azione collettiva.La data è ottimale: 13 settembre 2021. C’è il tempo per progettare un evento mondiale che faccia della cul-tura italiana il centro di un’attività di tutti gli Stati del pianeta intorno a uno dei massimi poeti della storia mondia-le. Come per Shakespeare o per Cer-vantes, non si tratta solo di celebrare localmente Dante, con quanto si sta progettando a Ravenna e a Firenze, ma di chiedere a tutte le più impor-tanti istituzioni mondiali di costruire un palinsesto unico e memorabile. Ol-tre al Dantedì, istituito dal Ministro Franceschini il 25 marzo, oltre ai 400 diversi eventi coordinati da Carlo Ossola, serve un momento unico nel-la storia della Nazione. Per noi l’«Apo-calisse» è quello che sempre deve esse-re: «Rivelazione» di un mondo nuovo, possibile, in cui si lavora insieme. Perché il futuro è fatto di supercoo-perazione e di momenti simbolo in cui far convergere tutti gli sforzi col-lettivi. Siamo la Nazione più desidera-ta al mondo, nemmeno il Coronavirus potrà spostare questa classifica.q Paolo VerriÈ un manager specializzato nell’organizzazione culturale; nel 2019 ha diretto gli eventi di Matera Capitale europea della Cultura

Le opere «sequestrate» nelle mostre

Sigillate, invisibili, inamovibili L’incerto destino delle opere bloccate nella serrata delle mostre. Potrebbero essere restituite, ma chi può maneggiarle?

Il 31 gennaio il Governo decreta lo stato d’emergenza nazionale. Il 23 feb-braio la Lombardia chiude i battenti di musei, gallerie e spazi di interesse cul-turale, lockdown poi esteso a tutto il territorio nazionale. Ma se tanto ci si è preoccupati di chiudere subito mostre e musei, poco se non addirittura nulla è stato scritto nei mille decreti circa la sorte delle opere chiuse, come noi, sottochiave. Oggi le mostre sono inaccessibili al pubblico per un tempo di fatto indefi-nito, legato all’evolversi dell’emergen-za sanitaria in corso; ma nel frattem-po scadono i prestiti, le polizze assicurative, le sponsorizzazioni, le licenze di temporanea importa-zione e i calendari espositivi, per-ché una mostra non è solo un even-to, e nemmeno soltanto un progetto culturale, ma anche il prodotto ultimo di numerosi e complessi accordi na-zionali e internazionali, pubblici e privati. E tra le domande che ci ponia-mo oggi c’è anche se riusciremo a ve-dere la mostra per il quinto centena-rio della scomparsa di Raffaello alle Scuderie del Quirinale (cfr. questo numero di «Il Giornale delle Mostre», p. 10) o Banksy al Chiostro del Bra-mante, e i capolavori di Georges de La Tour e dei maestri della luce a Pa-lazzo Reale a Milano. Per l’arte, il Covid-19 rappresenta, per ora, motivo di temporanea impossibilità sopravve-nuta per causa non imputabile al debi-tore ex art. 1256 Codice Civile, almeno per gli accordi conclusi prima del 31 gennaio 2020.Abbiamo buone speranze, però, che le opere di Raffaello del Louvre possa-no restare in Italia in caso di proroga dell’esposizione poiché nella sentenza del Tar Veneto del 16/10/2019, n. 426, emessa a seguito dell’impugnativa del provvedimento con cui si concedeva al Louvre il prestito dell’«Uomo Vitruvia-no» di Leonardo, è ritenuta lecita l’«usci-ta temporanea prevista dall’art. 67, comma 1, lett. d), del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, che la ammette qualora sia “richiesta in attua-zione di accordi culturali con istituzioni mu-seali straniere, in regime di reciprocità e per la durata stabilita negli accordi medesimi” data “l’eccezionale rilevanza mondiale dell’e-sposizione, l’aspirazione del Paese a valoriz-zare al massimo le potenzialità del suo patri-monio, il valore di collaborazione e scambio tra Stati espresso nel Memorandum, il ritor-no di immagine e di riconoscibilità, anche identitaria, delle Gallerie dell’Accademia di Venezia (omissis), l’implementazione dei rap-

porti culturali e museali nonché il vantaggio conseguito in forza del prestito per lo scambio con opere di Raffaello Sanzio destinate a una mostra presso le Scuderie del Quirinale, dif-ficilmente fruibili nel territorio nazionale”». Motivazione che diventerebbe a po-steriori alquanto stridente se il Louvre pretendesse la restituzione delle sue opere («Ritratto di Baldassare Casti-glione» e «Autoritratto con amico») alla data di scadenza programmata della mostra, vieppiù poiché nell’e-quilibrio di reciprocità dell’accordo, non potrà non tenersi conto del fatto che l’«Uomo Vitruviano» è stato espo-sto a Parigi sino al termine dell’espo-sizione, mentre i dipinti Raffaello sol-tanto per pochi giorni.Buone speranze anche per quanto concerne un’eventuale proroga del prestito del «Ritratto di Leone X» poiché nonostante si tratti di bene che non può uscire temporaneamente dal territorio italiano ex art. 66 com-ma 2 Codice dei Beni Culturali, e figuri nella lista delle 23 opere «inamovibili» della Galleria degli Uffizi, la querelle che si è conclusa con le dimissioni del Comitato Scientifico degli Uffizi ha permesso di chiarire che si tratta di un prestito «quasi di Stato» per un evento culturale epocale e identitario, affermazione che sarebbe completa-mente confliggente con un eventuale diniego. Trattandosi di eventi culturali anche per i loans tra istituzioni muse-ali, oltre alle clausole contenute nel contratto, sarà certamente di rilievo la circostanza dirimente se l’esposizione sia o meno di particolare interesse cul-turale e valore scientifico e permette anche una valorizzazione culturale dell’opera prestata. Per i prestiti con-cessi da privati, invece, non si hanno certezze poiché per prassi non si stipu-lano dei veri e propri contratti, e men che meno delle clausole di hardship, ma vengono solo fatte sottoscrivere poche righe di un formulario (scheda di prestito) che non contengono clau-sole vincolanti né per il proprietario, né per l’organizzatore della mostra e quindi tutto sarà rimesso alla loro di-screzionalità. Si nutrono, tuttavia, seri dubbi sulla possibile estensione del prestito qualora il prestatore abbia già preso ulteriori accordi con altre istitu-zioni culturali.Ciò nondimeno, se il prestito è one-roso dovrà essere restituito il corri-spettivo e ciò poiché l’«obbligazione si estingue se l’impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo

dell’obbligazione o alla natura dell’og-getto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato ad eseguire la pre-stazione, ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla». Quello dei musei che si vedono co-stretti a non esporre al pubblico le opere concesse loro in prestito è tut-tavia un inadempimento incolpevole poiché l’impossibilità non è una mera difficoltà, ma un impedimento assolu-to, tale da non poter essere rimosso. Nel caso in cui le opere d’arte non potessero, invece, essere restituite ai proprietari entro il termine originaria-mente convenuto potrebbe venire in soccorso contro eventuali richieste di danni il Decreto Cura Italia n. 18/2020 che attenua la severità dell’art. 1218 C.C. rimettendo alla valutazione del giudice la situazione emergenziale qualora il debitore non sia in grado di provare «che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impos-sibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile». Questa precisazione è d’obbligo, poiché nel momento in cui scriviamo logisti-ca e licenze doganali non sono state fermate o sospese né dal virus né dai molti decreti susseguitisi e quindi le merci sono astrattamente in grado di circolare, quanto meno in Europa, ma i dipendenti pubblici delle istituzioni museali ad eccezione degli addetti al-la sicurezza e di pochi altri non sono nelle condizioni di sovraintendere alle operazioni di disallestimento e imbal-laggio delle opere. q Gloria Gatti avvocato

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Un’epoca tragicamente virale: l’arte inCoronata

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8 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

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Qui Berlino50 miliardi di euro e una gara per chi è più smart

Berlino. In Germania tutte le istituzioni culturali rimarranno chiuse (almeno) fino al 19 aprile. Su accorata richiesta del ministro federale alla Cultura Monika Grütters (nella foto, terza da destra all’inaugurazione del cantiere del Neues Bauhaus Museum di Berlino) il Governo ha

stanziato l’incredibile cifra di 50 miliardi di euro per piccole imprese e lavoratori autonomi sotto forma di sovvenzioni/prestiti, per ora ottenibili per 6 mesi. Per garantire un’assicurazione contro la disoccupazione e la liquidità necessaria a pagare gli affitti di case e atelier, si prevedono altri 10 miliardi di euro di sostegno «affinché tutti possano rimanere nelle proprie case». «Conosciamo le difficoltà, conosciamo la disperazione, ha dichiarato la Grütters. Il settore culturale in particolare è caratterizzato da un’alta percentuale di lavoratori freelance che ora hanno seri problemi di sostentamento. Ma il Governo è consapevole dell’importanza dell’industria creativa, sa bene che non è un lusso decorativo per momenti più favorevoli». Il Governo è quindi corso ai ripari prima che avvenga il collasso, a poco più di due settimane dall’inizio della crisi in Germania. Il pacchetto di aiuti prevede anche prestiti per aiutare le aziende a colmare le strozzature finanziarie e interesserà oltre alle singole persone, ai piccoli collettivi di creativi e alle organizzazioni legate all’arte anche il mondo dei media, giornali inclusi. Per quanto concerne le istituzioni museali che già dal weekend del 14 marzo hanno disdetto le mostre e altri attesissimi eventi, il panico e lo shock iniziale del lockdown sono stati metabolizzati nel giro di poche ore: con entusiasmo trasversale, dai colossi di Berlino, Monaco o Dresda alle realtà minori, è iniziata la gara a chi è più smart, a chi riesce a catturare online il maggior numero di utenti di ogni età. È un po’ un banco di prova per chi già da tempo si era lanciato con successo nel mondo dei social network e chi puntava invece su un’offerta più tradizionale e si trova ora costretto ad adeguarsi ai nuovi linguaggi della rete. L’offerta è già amplissima su piattaforme come Google Arts & Culture, i canali YouTube e Spotify, i social come Facebook, Twitter e soprattutto Instagram. Chi sceglierà l’hashtag più giusto? Se il virus ci costringe alla lentezza, c’è chi pensa e realizza alla velocità della luce un’offerta sempre più ampia per gli amanti di arte e cultura, da poter fruire da casa. Alcuni musei hanno già iniziato a pubblicare offerte di lavoro per figure capaci di coniugare all’indispensabile conoscenza dei linguaggi IT (Information Technology) una solida preparazione umanistica. q Francesca Petretto

Qui LondraFino a 2.500 sterline al mese per gli artistie la Bbc allestisce un palinsesto da record

Londra. Musei, gallerie, case d’asta, università e scuole: tutti chiusi. Le conseguenze per i musei non saranno gravi quanto negli Usa, ma perfino un gigante come la Tate con le sue quattro succursali avrà presto problemi finanziari, perché è sovvenzionato solo al 31% dallo Stato. Nel 2018-19, con un budget in pareggio di 112 milioni di sterline, aveva ricevuto 35 milioni di fondi pubblici, 20 da donazioni e 59 milioni da attività commerciali: queste ultime ora azzerate dal «lockdown». Il Governo non si è pronunciato, ma il 26 marzo ha annunciato che avrebbe aiutato le piccole aziende, tra cui molte gallerie d’arte, con sovvenzioni una tantum di 10mila sterline (25mila in Scozia) e il rinvio al 2021 del pagamento delle tasse. I lavoratori autonomi, tra cui molti artisti, riceveranno una sovvenzione tassabile uguale all’80% dei loro utili dell’ultimo triennio fino a un massimo di 2.500 sterline al mese. Il cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak ritiene con questo di poter aiutare il 95% di quelli che perderanno il loro reddito, ma è improbabile che basterà a mantenere in vita le medie e piccole gallerie che rendono Londra una fucina dell’arte così vivace. Su come affrontare questa emergenza e dove rivolgersi per gli aiuti finanziari, la Artists Information Company ha pubblicato un’ utile guida online. Il mercato dell’arte è congelato, le aste importanti rinviate all’autunno e la fiera Masterpiece al 2021, ma la chiusura delle fiere internazionali, come Tefaf Maastricht a fine marzo, Art Basel Hong Kong e Art Basel sarà un colpo altrettanto duro per Londra, secondo mercato artistico al mondo. Musei e gallerie stanno tutti investendo nei loro siti per fare mostre virtuali e programmi culturali. La galleria online di David Zwirner iniziata nel 2017 è particolarmente ricca e la sezione per bambini della Tate è autenticamente creativa ed istruttiva, per citarne solo due. La Bbc ha creato in tempi record un palinsesto culturale intitolato «Culture in Quarantine». La Bbc spera così di convincere il Governo a non «castigarla» per non avere appoggiato la Brexit. «Culture in Quarantine» dimostra l’eccezionale capacità della Bbc di stimolare la creatività e coinvolgere enti culturali in tutto il Paese, come l’Arts Council England con cui commissionerà opere virtuali a 25 artisti sull’isolamento. L’Arts Council ha annunciato la donazione di 160 milioni a istituzioni artistiche. Molto attivi anche gli artisti: Keith Tyson, Turner Prize nel 2002, ha creato @isolationartschool su Instagram dove artisti caricano suggerimenti per bambini e i loro genitori per progetti da eseguire a casa, mentre Matthew Burrows ha creato ArtSupportPledge, dove artisti possono caricare le loro opere e venderle direttamente al prezzo massimo di 200 sterline, ma si impegnano anche a comprare un’opera di un altro artista non appena venduto per mille sterline. Dal 17 marzo, sono state caricate 9mila opere. Infine, un’esortazione altamente politica è venuta dalla Museums Association che comprende i musei non nazionali: annullare il festival progettato dal Governo per il 2021per celebrare le glorie del Regno Unito e la Brexit e destinare invece i 120 milioni di sterline alle istituzioni artistiche. q Anna Somers Cocks

Qui BarcellonaEsplodono tutte le carenze del sistema e molti temono chiusure definitive

Barcellona. «Vi diamo il benvenuto al nostro diario di clausura. A volte l’arte anticipa la vita e gli artisti della #ColleccióMACBA ci offrono esperienze di distanziamento dal mondo con una proposta d’azione implicita»: si apre così il sito lanciato dal Museu d’Art Contemporani de

Barcelona (Macba) per nutrire di nuovi contenuti l’isolamento forzato dei suoi visitatori. Musei, fondazioni e gallerie private hanno moltiplicato la loro presenza sul web, scoprendo molte potenzialità che avrebbero potuto adottare ben prima: podcast, conferenze e incontri in streaming, visite guidate a capolavori e mostre, attività per bambini e adolescenti e addirittura videogiochi, come quello sull’evoluzione dell’Istituto Catalano di Paleoecologia. Le gallerie già attive sul web per pubblicizzare le mostre e poco più, di colpo sembrano aver scoperto che c’è vita al di là dei social network, che comunque continuano a fare la parte del leone. Da quando il 13 marzo le istituzioni culturali hanno chiuso, il web è diventato la nuova terra promessa. Nascono nuovi siti come quello dedicato all’architettura catalana del Collegio degli Architetti che con 1.679 edifici di 1.115 autori si propone come l’embrione di un futuro museo virtuale. Nonostante l’iperattività, il settore culturale (2,5% del Pil nazionale) era già in crisi e lo sarà molto di più quando l’emergenza sarà rientrata. José Manuel Rodríguez Uribes, neoministro della Cultura, ha chiesto agli enti culturali una lista delle maggiori necessità, ma è sembrata una presa in giro considerando che gli ospedali mancano di tutto, dalle mascherine ai camici. La Generalitat, il Governo autonomo della Catalogna, ha annunciato 10 milioni per la cultura e il Comune di Barcellona 2 milioni, oltre a chiedere allo Stato di ridurre allo 0% un’Iva culturale che è tra le più alte d’Europa, il 21%. La Fundación Miró ha licenziato tutti i 57 lavoratori e cancellato tutti servizi esterni, conservando solo le dotazioni minime per sicurezza e conservazione. Lo spettro della chiusura definitiva aleggia su molte istituzioni e dopo il primo boom di arte e cultura virtuale gratuita e in abbondanza, molti iniziano a parlare di nuove forme di guadagno e di nuovi modelli di consumo non solo legati all’emergenza. iI Padiglione Victoria Eugenia che doveva ospitare il prossimo ampliamento del Museo Nacional d’Art de Catalunya (cfr. n. 405, feb. ’19, p. 29) è diventato un rifugio per i senza tetto e un ospedale da campo per i malati di Covid-19. q Roberta Bosco

Qui New YorkUn appello del Met a Washington per tutti i musei senza precedenti nella storia USA New York. Negli Stati Uniti non perdono tempo: all’inizio di marzo, tutto sembrava andare perfettamente nel mondo dei musei americani; il 24 marzo il Museum of Contemporary Art (Moca) di Los Angeles annunciava ai suoi 97 dipendenti part-time il loro licenziamento, il Cleveland Museum of Art tagliava dell’11-15% gli stipendi del personale fisso e il Metropolitan Museum di New York annunciava che dal 4 aprile avrebbe cominciato a ridurre il personale. In un Paese dove rischi letteralmente la vita se non hai i soldi per pagari un’assicurazione sulla salute, il crollo delle finanze dei musei a causa del Covid-19 rappresenta una tragedia umana ben più grave che la restrizione dell’accesso all’arte. Non per niente la Robert Rauschenberg Foundation ha annunciato che sovvenzionerà fino al 5mila dollari le persone attive nel campo dell’arte che dovranno affrontare un’emergenza medica. The American Alliance of Museum prevede che il 30% dei musei negli Usa non sarà in grado di riaprire i battenti alla fine della crisi. Max Hollein, l’energico direttore austriaco del Metropolitan, ha lanciato un movimento in favore di tutte le istituzioni per ottenere 4 miliardi di dollari dal Governo federale, contro i 2 mila miliardi appena votati per affrontare l’emergenza. Questa richiesta è una rottura drastica con l’intera storia americana, perché Washington ha sempre giocato un ruolo minimale nella vita delle istituzioni culturali del Paese, lasciando il loro finanziamento a Stati, Comuni e soprattutto ai privati. Hollein, che non riaprirà il Metropolitan fino a luglio, prevede un buco di 100 milioni nel suo budget del 2020. Con l’economia mondiale in subbuglio non crede di poterlo colmare con i soldi dei ricchi mecenati che normalmente sostengono il museo e invita alla partecipazione «social» con l’hashtag #CongressSaveCulture. Il mercato fisico dell’arte è fermo. Le fiere Frieze e 1-54 Contemporary African Art sono cancellate per 2020, mentre Tefaf Ny è posticipata da maggio a ottobre. L’evento della primavera che eccitava maggiormente il mercato dell’arte, cioè la vendita da parte delle megagallerie Acquavella, Pace e Gagosian della collezione «blue chip» del defunto finanziere Donald Marron (stimata 450 milioni di dollari), è stata definitavamente rinviata. Le gallerie medie e piccole non sanno come pagheranno gli affitti e cercano, grazie alle piattaforme online, di portare avanti i propri affari e di sostenere i loro artisti. Chi non se lo può permettere, espone la sua arte sul sito della potente piattaforma Artsy, che però ha scelto proprio marzo per aumentare il costo: da 375 dollari al mese a 650. Una veterana dei galleristi newyorchesi come Marianne Boesky ha deciso che in questo momento epocale le pretese devono ridimensionarsi. Ha «casa e bottega» sulla 24ma strada e ha dichiarato che farà visite guidate online in vestaglia nella sua galleria. q A.S.C.

Qui ParigiFerma anche Notre-Dame e aiuti per gli artistiParigi. Primo marzo, il Louvre resta chiuso: i dipendenti del museo sono stati i primi a dare l’allarme per i rischi legati all’epidemia di Covid-19 nel mondo dell’arte in Francia. Si sono riuniti in assemblea per chiedere misure di protezione per il personale dopo che il Governo ha vietato gli eventi con più di 5mila persone. E ogni giorno 30mila persone si sono accalcate davanti alla Gioconda. Il museo ha riaperto dopo tre giorni, limitando gli ingressi, ma il 13 ha di nuovo chiuso e questa volta «a tempo indeterminato». Oggi il museo più visitato del mondo, sfiorando i 10 milioni di visitatori all’anno (cfr. la Classifica mondiale dei Musei più visitati nel 2019, nella sezione Musei), è quasi vuoto. Vi circolano solo gli agenti che assicurano la sicurezza delle opere. La chiusura del Louvre «mostra simbolicamente la gravità della crisi sanitaria», ha detto il suo presidente Jean-Luc Martinez a «Le Figaro». Nel giro di poche ore hanno chiuso anche il d’Orsay, la Fondation Vuitton, il Palais de Tokyo, il Musée Picasso; a Marsiglia il Mucem, a Saint-Paul la Fondation Maeght. Hanno chiuso anche luoghi turistici come la Tour Eiffel e, per la prima volta, la basilica del Sacré-Coeur. L’attesa mostra «Christo e Jeanne-Claude», prevista per il 18 al Centre Pompidou, il cui allestimento era già terminato, non ha mai aperto. Anche l’inaugurazione della mostra immersiva «Pompei», attesa per il 25, è stata rinviata. Il Grand Palais aspettava 3mila visitatori al giorno, ma le casse dei preziosi reperti arrivati dall’Italia sono rimaste chiuse e per ora la mostra si può «visitare» solo online sul sito del Grand Palais. Molti eventi sono stati rinviati. Così la riapertura del Palais Galliera, chiuso dal 2018 per lavori, prevista per il 31 marzo. Il Salon du Dessin, edizione numero 29, che si tiene tradizionalmente a fine marzo, è stato annullato. L’epidemia ha anche avuto un impatto sui grandi cantieri culturali in corso. La Collection Pinault, che avrebbe dovuto inaugurarsi a giugno nella restaurata Bourse de Commerce, aprirà ormai a settembre. Il 17 marzo è stato sospeso anche il cantiere di restauro della cattedrale di Notre-Dame, già faticoso. A fine marzo si stava studiando un modo per riprenderlo, almeno parzialmente, e nel rispetto delle norme d’igiene. L’impatto del Covid-19 per il mondo dell’arte potrà essere enorme. Il ministro della Cultura, Franck Riester (lui stesso risultato positivo al virus), ha annunciato il 18 marzo una prima batteria di misure di sostegno al settore, di sicuro insufficiente, stanziando un primo fondo d’urgenza di 2 milioni di euro per le gallerie e i centri d’arte. Sono allo studio anche misure di aiuto diretto agli artisti. Come si sta facendo anche in altri Paesi, il Ministero ha anche aperto sul suo sito una piattaforma, #Culturechezvous, che raccoglie le iniziative online di un centinaio di istituzioni culturali. Tra le più belle, le visite virtuali in 3D delle sale della reggia di Versailles (sulla piattaforma Poly) e della grotta di Chauvet, con le sue pitture rupestri di 36mila anni fa (via Google Arts). q Luana De Micco

Un’epoca tragicamente virale: l’arte inCoronata

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Alberto Arbasino (1930-2020)

L’illuminista lombardo. Istruzioni per l’uso di mostre e musei

Non solo grandissimo scrittore, ma massimo visitatore italiano di mostre, viaggiatore dell’arte infaticabile che viveva e descriveva con lo spirito

del Grand Tour. Un’intervista esclusiva nell’estate di 35 anni fa

Nel luglio-agosto 1985 «Il Giornale dell’Arte» pubblicava una lunga con-versazione con lo scrittore scompar-so il 23 marzo: era uscito un libro con 88 articoli del suo incessante «Grand Tour» per le mostre di tutto il mondo e stava per inaugurare una sua mo-stra sul «Grand Tour che non potremo mai più fare». Ecco alcuni stralci.Se visitare le mostre può essere una professione, lei è un visitato-re professionista. Perchè si defini-sce «dilettante»?«Dilettante» nel senso del XVIII secolo. Come quando si diceva anche «virtuoso». Uno che fa le cose per diletto intellettuale, e non per obblighi burocratici o di carrie-ra. Ma c’è poca ironia in giro.Viaggiare per mostre non è sem-pre di più una fatica?Negli anni ’50 abitavo a Milano e agli spettacoli della Callas, già allora celebra-tissima, non si prenotava mai, ci si andava come al cinema, e così alle mostre. Adesso disturba non solo la coda enorme (la si può anche sopportare) ma la ressa davanti ad ogni quadro: ci si sente come su un tapis roulant affollato. E i quadri importanti so-no diventati inaccessibili all’occhio.Ha dei consigli pratici per i visi-tatori?Solo consigli terra terra, proprio consigli di sopravvivenza: cercare di andare nelle controre, quando non c’è troppa gente, e i gruppi e le scolaresche stanno mangian-do. Fuggire le inaugurazioni, tradizio-nalmente affollatissime. [...] La marea di teste rende invisibili le opere. Essenziale, anche per memorizzare, è rifare il giro due o tre volte, magari nel senso contra-rio, a costo di alterchi con i custodi, come in quei musei americani dove ogni ora viene ammesso un numero fisso di visita-tori, e quindi, usciti da una sala, non vi si può rientrare. Ma certe scelte sono dure: a Napoli, in una sola giornata, si fa prima Caravaggio o prima Cavallino?È meglio visitare le mostre da soli o in compagnia?Qualcuno diceva che le massime stupidag-gini si sono sentite davanti a capolavori esposti nei musei. Le peggiori credo che siano le esclamazioni dei francesi quando si sforzano di dire la battuta intelligente.Perché la gente va alle mostre ma non nei musei?Non si può non notare la differenza smac-cata fra le code enormi, le file, le folle smi-surate per mostre anche pregevolissime e il deserto nei musei. Lo scorso giugno, un sabato pomeriggio, sono andato a Firenze per la mostra di Arnaldo Pomodoro. Avevo sentito, per mesi e mesi, di queste folle paz-zesche davanti a Palazzo Pitti per vedere la mostra dei Raffaello restaurati, per il cen-tenario, in cui non si faceva altro che riuni-re in una sala i 9 o 10 Raffaello di Firenze. Una domenica mattina, da un albergo che era vicino all’autostrada, con alcuni amici ci siamo detti: andiamo a Firenze. Pensa-vamo che entrare in Firenze sarebbe stato difficilissimo, che ci sarebbero state delle file pazzesche agli Uffizi, che non avremmo né parcheggiato né mangiato... insomma,

avevamo fatto previsioni catastrofiche. In-vece, siamo entrati agli Uffizi ed era vuoto, non c’erano code, abbiamo rivisto benissi-mo gli Uffizi, abbiamo trovato tutti i Raf-faello, uno dopo l’altro e anche altri quadri appena restaurati. Evidentemente i fioren-tini erano al mare, però si paventavano i turisti. A Pitti si è ripetuta la stessa cosa, si è parcheggiato dove si voleva, abbiamo visto in grande pace tutti i Raffaello, che invece, proprio lì a Pitti, avevano richiesto fatiche, code e file, e alla fine per andare a colazione abbiamo addirittura potuto scegliere se parcheggiare in via Tornabuo-ni nel lato del sole o nel lato dell’ombra. I quadri, nei loro musei, spesso si visitano benissimo; nella loro sede naturale, a po-sto, restaurati, senza tanta gente che corre all’avvenimento.Non pensa che questa voga delle mostre sia transitoria come tutte le voghe?Resto allibito di fronte a questi entusiasmi così smisurati, di massa e di culto. Quello che si può pronosticare è che le gite sco-lastiche, con degli insegnanti entusiasti, ma anche dementi, che sospingono questi ragazzini, che non ne vogliono sapere, a vedere mostre anche abbastanza difficili e noiose, porterà a un disinteresse per l’arte, a un distacco totale, nelle prossime genera-zioni. L’infelicità smisurata di questi bam-bini sospinti dagli insegnanti, non può non allontanarli per sempre dall’arte. Non c’è una specie di imperativo morale sotterraneo: bisogna an-darci perché ci vanno tutti? La sindrome del gregge?A Castelfranco c’è quell’unica Madonna di Giorgione, che secondo certi esteti di altri tempi stava così bene dov’era in quella chie-sa, con una tendina di rayon giallo limone. Per le celebrazioni, l’hanno tolta dalla chie-sa, le hanno fatto attraversare la piazza e l’hanno messa in una casa del Giorgione, appena restaurata, da sola, circondata di fotocopie, di diapositive di atti notarili in veneto antico, relativi alla compravendita di stabili e di fondi rustici. Le folle arriva-vano colossali e una anziana signora mia amica diceva: «Ma per forza. Tutti i miei conoscenti ritornano entusiasti perché di-cono: c’è una coda di macchine lunga 10 chilometri, abbiamo dovuto lasciare la Panda in un fosso, abbiamo fatto una fila di tre ore e per di più non c’era posto nel ristorante e siamo tornati con i bambini che non avevano mangiato». Questo dà la sensazione di essere nel posto giusto, dove

bisogna essere. L’unica, veramente l’unica cosa da vedere, era la Madonna di Castel-franco: averla spostata aveva provocato le code, prima non ci andava nessuno e ades-so di nuovo non ci va nessuno.Per quanto lei sia un critico non «dilettante» bensì atipico, come si sente nei panni dello scrittore «facente funzione»?Leggo più volentieri i critici scrittori, come Diderot e Baudelaire, e fra gli ita-liani Longhi, maestro (come Contini) di tali malizie stilistiche, invenzioni lessi-cali, arguzie di linguaggio, da farsi leg-gere come letteratura squisita. In fondo, spesso la miglior prosa italiana è stata così: estremamente ricercata, elegante, fantastica, aristocratica, intraducibile. E Longhi si gusta come un piacere, come una pietanza meravigliosa. Credo anche di dovere moltissimo alla metodologia, all’espressività, all’eclettismo di Mario Praz, di Bruno Barilli, di Alberto Savinio. La nostra società è piena di conversatori eccellenti che si ascoltano con piacere, e che si esprimono con aneddoti e con pa-ragoni. Qualcosa che cerco di fermare sulla pagina è questo tono di conversa-zione intellettuale italiana che ha lascia-to poche tracce nella nostra letteratura, così povera di diari e di epistolari. Forse tutto lo spirito veniva impiegato o sper-perato nella conversazione colta.Lei ha più volte espresso il suo ap-prezzamento per gli artisti italia-ni degli anni ’60, per esempio per Schifano. Ma non trova che nelle mostre all’estero siano normal-mente sottorappresentati?Mi sembra che siano state consumate del-le iniquità nei confronti dei nostri artisti degli anni ’60, e dei favoritismi nei con-fronti degli artisti degli anni ’80. Questo da un punto di vista di politica culturale dei musei, delle fondazioni e ovviamente dei galleristi e dei mercanti prima di tut-to, e possiamo vedere quali erano le ra-gioni: negli anni ’60, un certo gruppo di gallerie aveva tutto l’interesse a spingere un’arte soltanto americana, soltanto na-zionalistica e patriottica oltre che pop. Ai non americani, per esempio a Pistoletto e a Schifano, si chiedeva di «nazionalizzar-si», di andare a New York e di lasciarsi assimilare. Ho l’impressione che allora esponessero soprattutto coloro che face-vano mappe degli Stati Uniti, bandiere, prodotti industriali americani e altri em-blemi di patriottismo. Non so fino a che

punto questo programma fosse lucido e voluto o invece pulsionale e istintivo. Col senno del poi, però, chi faceva un certo ti-po di arte patriottica veniva lanciato, gli altri no.Adesso la situazione è rovesciata: l’arte è più nazionalista. La Tran-savanguardia italiana…Tutte le volte che vedo una mostra di Cha-gall, ritrovo molta Transavanguardia ita-liana o tedesca. Ho visto la recente mostra di Chagall alla Royal Academy. Al vente-simo violinista sul tetto si aveva la stessa sensazione di monotonia e di ripetitività suscitata dall’altra mostra contempora-nea di Renoir, di fronte alla cinquantesima bagnante fatta con gli stessi colori, con le stesse pennellate e con la stessa modella nel medesimo atteggiamento.Quando morì de Chirico nel ’78 lei scrisse: «E insomma, ecco qui, senza più dubbi, il massimo pit-tore del Novecento. Giù il cap-pello! E non avendo il cappello: giù la testa! E non avendo nean-che testa: giù tutto il resto!». Tra tanti encomi funebri nessuno fu altrettanto assoluto e tutto som-mato chiaroveggente.Ma io l’ho sempre trovato affascinante. Né più né meno come amavamo alcuni maestri del ’900 nella letteratura, Gad-da e Palazzeschi, che anche se non hanno riconoscimenti all’estero rimangono dei punti di riferimento altissimi per la no-stra generazione. Non ho mai avuto dubbi sulla grandezza di de Chirico: bastavano le opere importanti per sorvolare sere-namente gli ultimi decenni, in attesa di ritornarci sopra.Ora, da spettatore lei diventa at-tore: in settembre a Torino alla Mole Antonelliana lei firmerà una sua mostra.Quando ero studente di diritto inter-nazionale, passavo dei lunghi periodi nelle Università straniere, a Parigi o ad Harvard o a Londra e bastavano alcune letterine gentili per provocare incontri con personaggi oggi leggendari come Edmund Wilson in America, a Londra Eliot o Forster o la Compton-Burnett, a Parigi Céline, Mauriac, Jouhandeau, Cocteau; in Germania Adorno. Ora non esistono assolutamente più personaggi di questo tipo, perché tutti sono ormai esposti da giornali, da riviste, da tele-visioni, si sa tutto di tutti, non c’è più nessuno che si ha un vero interesse ad in-

contrare e se si fa uno spoglio delle perso-nalità più interessanti del mondo, uno sa già dai mass media quello che se ne può ricavare. Quindi, la prima idea per una mostra poteva essere la testimonianza fotografica dei personaggi della cultura, letterati o artisti, grandi personalità a tutto tondo che non esistono più nella società omogeneizzata. Allora l’idea è stata di fare «i viaggi perduti», di rico-struire un «Grand Tour» europeo e nel Vicino e Medio Oriente, magari anche in Estremo Oriente, dei luoghi belli che non si potranno mai più visitare perché non sono più gli stessi o sono talmente trasformati e degradati, che non è più possibile trarne una fruizione estetica. [...] Lo spirito con cui oggi noi facciamo questi repêchages di luoghi non era quel-lo dei fotografi dell’epoca, degli Alinari in Italia, oppure dei fotografi di monu-menti in Francia che si preoccupavano di fotografare la cattedrale, il monumen-to, il palazzo, il palazzetto, la chiesa, la chiesina, mentre oggi visiteremmo quei posti per vedere quel monumento an-che nel suo contesto di case vecchie, dei quartieri storici, di scenette di strada. È difficilissimo recuperare in Italia non Venezia, che è rimasta più o meno quello che era, oppure la Roma sparita, che è stata ben documentata, da Primoli e al-tri, ma, per esempio, una certa Genova, una certa Napoli, e le «città del silenzio», oppure quei giri, nell’Italia Centrale, che faceva Berenson quando andava per quadri o i vecchi inglesi dell’800. Del cen-tro Italia, di Cortona, Città di Castello, Recanati, della Romagna, delle Marche e della Toscana minore, forse esistono poche testimonianze: ci sono tante foto-grafie Alinari che sono delle belle cartoli-ne frontali, i monumenti di Gubbio sono rimasti tali e quali, ma quasi nulla di quello che era il tessuto minore dell’Ita-lia, dei suoi monumenti ma anche delle strade, della vita italiana, la provincia fra Leopardi e Landolfi. Una certa Fran-cia provinciale è stata fotografatissima, ma sono rari i paesini e le spiagge di Proust, per esempio Combray e Balbec. Nella pittura tedesca, francese e danese si trovano tanti paesaggini urbani ma nella fotografia molto meno. Per fare un altro esempio, le piramidi sono rimaste le piramidi, ma ai tempi di Flaubert e di Maxime Du Camp, stando al Cairo, per fare il giro delle piramidi che oggi i tu-risti fanno in una giornata, ci volevano 5 giorni, c’era un certo avvicinamento fra gli orti, poi la Sfinge ancora semi se-polta e il mistero della notte nel deserto intorno, e un’alba pittorica, splendida, nel deserto. Ormai invece la città ha cir-condato le piramidi, su tutti i lati ci so-no strade, la parte ghiaiosa del deserto è stata trasformata in parcheggio con mille macchine e mille radioline, banca-relle di ricordini turistici e piccoli musei costruiti a ridosso di Cheope, che non permettono più di vedere solo Cheope. Il nostro tentativo è di recuperare quel Grand Tour che avremmo voluto fare, ma che non potremo mai più fare. ©

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La Concessione italiana di Tianjin, l’unica delle otto realizzate all’inizio del XX secolo a essere rimasta in piedi, insieme a parti di quella inglese

La Cina ci stupisce?

Dopo 70 viaggi e permanenzevi racconto la Cina com’è: sei «casi»

Il curatore della Biennale di Shenzhen/Hong Kong, Michele Bonino, spiega un Paese sempre più vicino benché ancora troppo lontano, che ammiriamo e temiamo. Ma che non capiamo. Per i cinesi, invece, è importante conoscersi dal vivo

In questi mesi di forzata distanza fisica tra Cina e Italia, ho ripensa-to al ritmo ormai mensile con cui, fino a dicembre dello scorso anno, mi sono spostato in Cina per segui-re progetti, accordi e iniziative del Politecnico di Torino. Ora, «a bocce ferme», mi chiedo se il mio compi-to necessitasse davvero di tutti quei viaggi (oltre 70 in un decennio, con fatiche lavorative e personali) o se stiamo finalmente capendo come molte cose si possano fare a distan-za, con il vantaggio di un ritmo più cadenzato invece che spezzato da continue partenze e ritorni. Ma penso che quei viaggi siano stati necessari, e lo saranno ancora in fu-turo una volta conclusa l’emergen-za Coronavirus. I cinesi vogliono guardarsi in faccia: fortunatamen-te questo vale un po’ dovunque, ma nel loro caso vedo una ragione specifica. Una società meritocra-tica secondo tradizione confu-ciana, in particolare nei campi che più mi interessano della ricerca e della creatività, appare organizza-ta perfino spietatamente in livelli di competenza. «Guanxi», parola sulla bocca di tutti che si riferisce alle «relazioni personali», è diffi-cile da tradurre in modo letterale: è piuttosto un concetto sfumato, che prevede una condivisione del livello acquisito di esperienza e capacità, e un consolidamento di fiducia e co-esione al suo interno. Da qui l’im-portanza per i cinesi di incontrarsi dal vivo, per scambiarsi conoscenza e avanzamenti in forma conviviale, mai nella freddezza di una comu-nicazione a distanza seppur dotati delle migliori tecnologie per farlo. Così, invitato a raccontare «la mia Cina», il modo più adatto mi è par-so attraverso gli incontri, attraverso sei personaggi che mi hanno parti-colarmente aiutato, nelle relazioni intessute con loro, a capire il «Re-gno di mezzo». Doreen Heng Liu è una talentuosa

progettista di Shenzhen, fondatrice dello studio di ar-chitettura Node a Oct Loft, cuore crea-tivo della giovanissi-

ma città che ha festeggiato i suoi primi 40 anni nel 2018: da un insie-me di villaggi si è trasformata in una megalopoli di oltre 12 milioni di abitanti, nonché fulcro della Gre-ater Bay Area, la regione urbana più estesa del pianeta, che oggi è al centro delle politiche di innovazio-

ne del Governo cinese. Nello studio di Doreen discutiamo spesso gli avanzamenti della Biennale di Ar-chitettura e Urbanistica di Shenzhen/Hong Kong 2019, di cui al Politecnico di Torino siamo stati curatori insieme a Carlo Ratti e al-la South China University of Technology. Dalla prima edizione del 2005, la Biennale di Shenzhen è concepita come un esercizio di tra-sformazione urbana, destinato a du-rare anche dopo la mostra. Nelle ultime edizioni ci sono stati esempi importanti: nel 2015, ad esempio, Doreen ha progettato da curatrice un’affascinante riqualificazione di una ex fabbrica di farina. Noi cerca-vamo uno spazio per mettere in sce-na il tema «Città e tecnologia», in-dicatoci dal Comitato organizzatore e da noi interpretato nel titolo «Gli occhi della città». Che cosa succe-de se la città, attraverso nuove tec-nologie come il riconoscimento fac-ciale e l’intelligenza artificiale, diventa capace di vederci e ricono-scerci? E se ogni edificio o spazio pubblico può, di conseguenza, rea-gire in diretta a nostri bisogni e aspettative? Queste le domande che poniamo ai 65 architetti e urbanisti invitati da tutto il mondo. Li ospitia-mo nella nuova stazione dell’Alta Velocità di Futian, che collega Shenzhen a Hong Kong in quindici minuti, progettando 5mila metri quadrati di spazio espositivo all’in-terno di uno dei più grandi nodi di interscambio dell’Asia. Ci troviamo in una lobby frequentata da miglia-ia di persone, viaggiatori magari non interessati a una Biennale ma che vengono a trovarsi immersi fisi-camente nel tema della mostra: tra-dizionalmente le stazioni sono state i luoghi della folla e dell’anonima-

to, oggi attraverso le tecnologie so-no invece tra gli spazi pubblici dove la presenza umana è più tracciata. Opportunità di migliori servizi, ma anche possibilità di sorveglianza e controllo: le due controverse facce degli «occhi della città». Brian Zhang Li è un professore di

Architettura alla Tsinghua University e architetto capo del-le Olimpiadi inverna-li di Pechino 2022: la capitale sarà la prima

città ad avere ospitato entrambi i Giochi, estivi e invernali. Mentre il Governo affronta un’energica lotta contro l’inquinamento, Brian im-magina i luoghi olimpici come un’occasione per stimolare la cre-scente classe media a un nuovo sti-le di vita, basato sulla vita all’aria aperta e il movimento fisico. Gli spazi pubblici possono avere un ruolo nel promuovere questa idea di «salute attiva»: ospitare in città il più importante evento sportivo può fare da volano. Brian sta pro-gettando nuovi spazi che per con-formazione fisica, materiali e at-trezzature invitino alla ginnastica, al gioco, alla danza: allo stare insie-me in movimento. Nella realizza-zione di questo manifesto su «cor-po umano e spazio urbano», coinvolge anche il Politecnico. A Shougang, già sede dell’acciaieria di Stato trasferita fuori città per ri-durre l’inquinamento nella capita-le, oggi ha sede il Comitato Orga-nizzatore di Pechino 2022 ed è in corso una riqualificazione urbana di 8 milioni di metri quadrati, di cui una parte sarà sito olimpico. Al nostro Dipartimento di Architettu-ra e Design, anche grazie all’espe-rienza dimostrata da Torino nel re-

cupero dell’architettura industriale dal Lingotto in avanti, va il compi-to di riprogettare una navata indu-striale. Diventerà una struttura di accoglienza per gli spettatori e, do-po le Olimpiadi, un centro di ricer-ca sullo sport. Il piano terreno è lasciato vuoto ricavando un grande «playground», dove i visitatori po-tranno praticare attività all’aperto, ludiche e sportive, materializzan-do così quel manifesto sul «corpo della città». Giada Shu Wenjing è una stu-dentessa laureata al Politecnico di Torino, con una tesi sull’area di Shougang discussa alcuni anni pri-ma dell’occasione olimpica: poi è rientrata a Hangzhou, dove sta fa-cendo fortuna con la sua impresa che vende opere d’arte contempo-ranea nei centri commerciali della città. Hangzhou è una delle capitali dell’arte cinese e sede della China Academy of Arts, dal cui ambien-te è emerso Wang Shu, architetto Pritzker Prize nel 2012: è diventato celebre per i suoi edifici dal linguag-gio fortemente contemporaneo, ma provocatoriamente costruiti con le macerie di villaggi tradizionali demoliti. Con Giada visitiamo la Academy dove ci presenta Pan, un collezionista d’arte che vuole tra-sformare in galleria d’arte la fabbri-ca di famiglia che produce cornici nella campagna fuori Hangzhou, dove vivono ancora gli anziani ge-nitori. Chiedendoci suggerimenti, ci spiazza spiegando che il grande ambiente per l’arte, nella navata industriale e all’aperto lungo il fiu-me antistante, non sarà organiz-zato con pareti mobili, vetrate e quant’altro potrebbe immaginare un architetto occidentale. Sarà in-vece diviso in «stanze» attraver-so il rimontaggio di alcune case tradizionali, che un amico salva dalle demolizioni in tutta la Cina e rimonta su richiesta. Ci spostiamo nel suo «showroom», dove capiamo un’idea di recupero architettonico molto diversa rispetto all’Occidente, basata sull’«integrità» ben più che sul nostro culto dell’«originalità»: i dettami del feng shui prevedono infatti che un’architettura sia inte-gra, per confrontarsi correttamente con la geometria degli astri e la sim-metria degli assi cardinali. Non ha significato, ad esempio, un restauro che conservi solo una parte origina-le, rinunciando a ricostruire ex novo quelle mancanti. L’amico ci guida attraverso il parco che ospita decine

di case ricostruite pietra per pietra, raccontandocene la provenienza e spiegando come le ha reintegrate nelle parti andate distrutte. Li Yunfei è un industriale farma-ceutico di Tianjin che ha aperto, nel cuore della Concessione Italiana (l’unica delle otto realizzate all’ini-zio del XX secolo a essere rimasta in piedi, insieme a parti di quella Ingle-se) il «Nuovo Cinema Paradiso». Li, appassionato di Italia, è stato negli scorsi anni uno dei principali promo-tori del recupero della Concessione, che versava in condizioni di abban-dono. Nel centro del quartiere ha re-staurato il suo club privato, dedicato a cinema e arte: inaugurato alcuni anni fa insieme a Giuseppe Tornato-re, lo apre spesso alla città per eventi sino-italiani. Ci invita quando scopre la storia di un ex allievo del Politec-nico, l’ingegner Daniele Ruffinoni: nel 1913, da poco laureato, intercettò attraverso un’organizzazione reli-giosa l’opportunità di partecipare alla progettazione di alcuni edifici della Concessione Italiana. Partì da Torino e con la Transiberiana rag-giunse Pechino, di qui Tianjin. Iniziò a lavorare incessantemente, firman-do edifici importanti come l’ospeda-le e la chiesa. Meno di due anni dopo tornò precipitosamente in Italia per una disgrazia accaduta al fratello, portando con sé solo la cartelletta dei disegni su cui stava lavorando in quel momento. Scoppiò la prima guerra mondiale e Ruffinoni capì che non sarebbe riuscito a rientrare a Tianjin: la cassa con due anni di disegni di studio fu spedita in Italia via nave, ma affondata nell’Adriatico da un sommergibile austriaco. Una storia che ci racconta quanto oggi sia importante questa testimonian-za materiale di architettura italiana nel cuore di una metropoli cinese in crescita impetuosa, che dieci anni fa ha demolito il suo intero centro sto-rico: a Tianjin la memoria si rende interprete non del passato, ma del presente. Con Yunfei, docenti e studenti della Tianjin University e l’Istituto italiano di Cultura, tra-scorriamo una giornata a discutere su una piccola pubblicazione realiz-zata a Torino con i disegni rimasti di Ruffinoni. Van Chan è un manager di Canton

e dirige un distretto creativo dedicato alla musica, al cinema e al multimedia che sta nascendo in città, nel-le navate della fabbri-

Panoramica dell’area in piena trasformazione di Shougang, oggi sede del Comitato Organizzatore di Pechino 2022: vi è in corso una riqualificazione urbana di 8 milioni di metri quadrati, di cui una parte sarà sito olimpico. In alto a sinistra, Michele Bonino

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Un allestimento della Biennale di Architettura e Urbanistica di Shenzhen/Hong Kong 2019, di cui il Politecnico di Torino è stato cocuratore e, a destra, un villaggio tradizionale nell’isola Yanzhou sul Fiume delle Perle

ca di 150mila metri quadrati lascia-ta dal Pearl River Piano Group: spostatosi in un nuovo stabilimen-to, il gruppo vi sta perseguendo i suoi programmi di sviluppo che già lo vedono primo produttore di pia-noforti nel mondo. Coinvolgendo il Politecnico di Torino nel concorso di idee per la trasformazione della vecchia fabbrica, Van ci spiega che negli ultimi piani quinquennali il Governo ha promosso grandi incen-tivi per lo sviluppo delle industrie creative. Le tante fabbriche dismes-se sono la sede naturale per dare forma a questa politica: a Pechino esiste perfino un «dimostratore», un vecchio stabilimento trasformato in un distretto creativo «flagship» (lo Xinhua 1949), che funzionari e progettisti di tutto il Paese visitano prima di intraprendere analoghe operazioni. Questa diffusione di modelli è sempre stata, in un impe-ro vastissimo, uno dei modi più effi-caci per il controllo e il manteni-mento del potere. Ancora oggi il «modello» è al centro anche dei pro-cessi creativi fino, in certi casi, a di-ventare «copia», intesa essa stessa come un’arte. È lo stesso Van che, quando proponiamo una strada rial-

zata che attraversa la fabbrica di-stribuendo tutte le nuove funzioni, ci fa notare rassicurato: «È come il Lingotto di Torino». Sta pensando al porticato e al sistema di piazze rial-zate, progettate da Renzo Piano, che ha visitato qualche mese prima nell’ex stabilimento Fiat. Il concept piace, e l’ormai battezzato «Lingot-to Cinese» è oggi in fase di avanza-ta ristrutturazione. Liu Yan è l’assessora all’Urbanisti-ca di Zhaoqing, un centro di 700mi-la abitanti nella campagna a ovest di Canton. È una città legata all’I-talia: risalendo il Fiume delle Per-le, il gesuita Matteo Ricci riuscì a entrare in Cina proprio qui, restan-dovi dal 1583 al 1589 prima di intra-prendere il viaggio che lo avrebbe portato a Pechino alcuni anni dopo. Cindy (questo il nickname che Liu si è scelta quando ha mandato il figlio a studiare a Los Angeles) coordina la costruzione della new town di Zhaoqing, che sta sorgendo ad al-cuni chilometri dalla città storica, raddoppiandone la popolazione. Le new town pianificate intorno alla Greater Bay Area hanno l’obietti-vo di scaricare la pressione urbana dalle sue megalopoli e cercano di

essere attrattive dal punto di vista del mercato immobiliare, puntan-do ognuna su un proprio «brand». Zhaoqing sceglie il «wellness» e l’ambiente, godendo di una straor-dinaria posizione naturale: purtrop-po a scapito di insediamenti prece-denti, l’ospedale e i parchi sono le prime cose a essere completate, an-ticipando la costruzione dei grandi complessi abitativi. Nel perimetro della new town si trova anche l’i-sola Yanzhou sul Fiume delle Perle, che presenta ancora una vita rurale organizzata in villaggi. Nell’ambito di una ricerca intitolata «The City after Chinese New Towns», volta a studiare come l’urbanizzazione ci-nese stia influenzando nel bene e nel male i modi di «fare città» in tut-to il mondo, il Politecnico di Torino viene coinvolto in una consulenza per ripensare il futuro dell’isola, circondata dalla città che cresce ra-pidamente. Chiediamo più volte al-la Municipalità quali previsioni ab-bia, quale sia insomma il «brief» del nostro incarico. Invano: mettiamo a fuoco come il progetto architettoni-co e urbano rivesta in Cina un ruolo ambizioso, entrando in gioco molto prima di quanto non accada in Oc-

cidente, dove abitualmente risolve problemi in qualche modo già posti. Capiamo che qui non ci è chie-sto di risolvere un problema, ma anzitutto di trovarlo e descriver-lo. Come negli incontri precedenti, anche qui emergono sorprese e sco-perte inattese: non tanto provocate da un’esotica fascinazione per le differenze, ma dalla continua rine-goziazione del rapporto cui ci in-duce il nostro, sempre imperfetto, «Guanxi». Che cosa ci raccontano questi in-contri, sulla Cina di oggi? Sicu-ramente riguardano un mondo privilegiato, in un Paese che sta investendo molto sulle università, sulla ricerca, sull’economia creati-va: nel 2019, a titolo d’esempio, la Cina ha registrato un investimento in Ricerca e Sviluppo nell’ordine dei 500 miliardi di dollari, quasi 20 volte l’Italia e più dell’intera Unio-ne Europea. Ma il teatro della stra-ordinaria trasformazione urbana che la Cina sta vivendo, di cui que-ste sei scene colgono alcuni fram-menti, sta ancora creando una di-stanza tra due società: quella delle città, sede principale di questi in-vestimenti e innovazioni, e quella

dei territori ancora in via di svi-luppo, che stentano nella grande competizione cinese. Sempre più emerge come l’urbanizzazione, modello importato dall’Occidente e per quattro decenni abbracciato dal Governo cinese come la vera via di crescita, potrà concorrere a una Cina pienamente sviluppata solo attraverso un fenomeno di ri-torno. È un ritorno «territoriale», distribuendo nuovamente la po-polazione da Est a Ovest dopo le grandi migrazioni verso le città delle province costiere: si sta muo-vendo il Governo, con politiche co-me il «Go West» e la «Belt and Road Initiative», la nuova Via della Seta. Ma è anche un ritorno «culturale»: capendo che è nella sua civiltà ru-rale, in molte parti travolta dalle città, che la Cina ha visto l’origine (contrariamente a una società occi-dentale tradizionalmente urbana) della sua filosofia, della sua arte, delle sue principali innovazioni. E, in definitiva, della sua modernità.q Michele BoninoProfessore associato e direttore del China Center del Politecnico di Torino, Bonino è de-legato del rettore per le relazioni con la CIna. È stato curatore della Shenzhen 2019 Bi-City Biennale of Urbanism/Architecture

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12 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

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Fotografare l’arte

Liberate le immagini delle opere d’arte!

È una questione di democrazia della cultura. Pretendere diritti dal possesso è un abuso giuridicamente insostenibile: il diritto d’autore scaduto non si trasferisce. Ma intanto castiga la diffusione della cultura

in cambio di introiti irrisori. Oltretutto inesigibili

ni si può fare libero uso a fini di studio, ma non a scopo di lucro, dove si pone il confine tra questi due usi? È un confine così labile che oggi, nel caso di uso editoriale, viene posto grottescamente al limite delle 2mila copie stampate (e le ristampe? E perché castigare un libro forma-tivo di grande tiratura?) e al prezzo non superiore ai 77 euro (da quan-do la qualità si misura dal costo?)! Insomma, se si intende riprodur-re quell’immagine su un dépliant, un’insegna di negozio, un logo, una maglietta o su un qualsiasi prodotto che generi ricchezza, perché vendu-to o connesso a un’erogazione di ser-vizi, si dovrebbe pagare un canone al monopolista dell’immagine (di qua-le immagine poi?), che invece altri non è se non il proprietario della sua fonte materiale. Se spostiamo il ragionamento dai beni materiali, che la legge tutela nella loro fisicità, ad altri settori della produzione culturale, quali la

letteratura o la musica, ci accor-giamo della contraddizione che re-gola questo abuso attualmente per-petrato ai danni del libero uso delle immagini del nostro patrimonio. Di chi è la Divina Commedia? For-se di chi ne possiede il manoscritto vergato dalla mano di Dante? Quel manoscritto non esiste più. Di chi ne ha prodotto la prima edizione a stampa? Il diritto d’autore è scaduto da secoli. Chiunque può fare dunque libero uso della Commedia per trarne profitto attraverso edizioni popolari, scolastiche o di lusso, organizzando recite o scrivendone i versi su un ca-po di vestiario o su un gadget: a chi avrà mai pagato la Mondadori la cita-zione del verso «in su la cima» (Paradi-so, XIII, 135) che compare da sempre nelle sue edizioni? E di chi è «Traviata»? Di chi possie-de il manoscritto originale di Verdi o del libretto di Francesco Maria Pia-ve? Quando assisto a un’esecuzione dell’opera o acquisto una sua ripro-duzione, sto pagando Verdi o una delle infinite e tutte diverse ripro-posizioni di quel capolavoro messo in scena dai professionisti del teatro lirico? Il diritto d’autore regola la liceità di riproduzione di prodotti dell’in-gegno, cioè di una proprietà in-tellettuale. Scaduti i termini per Dante o Verdi, la loro opera appar-tiene all’umanità e nulla è dovuto per poterla eternare nella continua reinterpretazione che le infinite vie della creatività vorranno mettere in campo, gratuitamente o a pagamen-to nel libero arengo dell’economia delle produzioni culturali. Anche i diritti d’autore di Michelangelo sono scaduti e con loro quelli rela-tivi alla stragrande maggioranza dei beni che costituiscono il nostro pa-trimonio culturale. Eppure c’è chi ritiene che il cosiddetto diritto dei beni culturali cominci a esse-re applicabile una volta cessata l’applicabilità del diritto d’auto-re. Ma chi non vive delle sottigliezze del Diritto, pur guardandole con il massimo rispetto, non può non do-mandarsi come il diritto di proprietà possa automaticamente subentrare al diritto d’autore una volta scadu-ti i suoi termini. In altre parole: il passaggio dalla tutela della pro-prietà intellettuale alla tutela della proprietà reale (materiale) non può implicare l’automatico trasferimento dei diritti dell’una nel dominio dell’altra.Insomma, le immagini che «proma-nano» da uno qualunque dei manu-fatti del nostro patrimonio culturale sono concettualmente la stessa cosa delle note che escono dagli strumen-ti che interpretano gli spartiti mu-sicali, delle voci che recitano i versi dei nostri poeti immortali. Quelle

immagini, come quelle note, come quelle parole, sono esterne al bene da cui derivano, non sono di nessu-no perché appartengono a tutti. E quindi l’articolo 108 del Codice Urbani non va emendato: va sem-plicemente riscritto alla luce di questo concetto fondamentale, sfug-gito ai suoi distratti estensori. Ma occorre fare anche un’altra distin-zione fondamentale tra l’uso delle cose e degli spazi, da un lato, e quello delle immagini, dall’altro, perché la natura di questi due tipi di uso è dia-metralmente opposta. Va da sé che la concessione di spazi (per spettacoli, conferenze, cerimonie, eventi pubbli-ci e privati...) possa, e nella maggior parte dei casi debba, essere a paga-mento. Il motivo è semplice: si tratta infatti di un uso rivale. Concedendo-lo a uno se ne impedisce il contestua-le godimento di altri, e ciò giustifica il titolo oneroso della concessione. Nel secondo caso l’uso di un’immagi-ne da parte di un singolo, di un ente, di un’impresa, di una comunità non ne impedisce invece in alcun modo il contemporaneo godimento da parte di altri, dal momento che il bene nel-la sua immaterialità è posto a dispo-sizione di tutti: le riproduzioni di immagini sono infatti palesemen-te non rivali. La distinzione concettuale e operati-va tra usi rivali e non rivali dei beni culturali di proprietà pubblica po-trebbe quindi portare un po’ di luce e di sereno in un campo dove l’eco-nomia della bottega prevale sulla considerazione più generale del bene pubblico. Infatti, la condizio-ne di non rivalità propria dell’uso, anche commerciale, delle immagini del patrimonio pubblico le esclude di fatto dal mercato, e quindi anche dall’uso improprio che potrebbe es-serne fatto dai giganti della comu-nicazione globalizzata. La libera-lizzazione delle immagini permette invece alle comunità di generare at-traverso di esse innovazione, infor-mazione e cultura, con generale gio-vamento del livello della produzione e diffusione culturale, e contestuale creazione di lavoro e ricchezza con le relative ricadute positive di carat-tere fiscale sulla finanza pubblica. Spetta dunque a una politica cultu-rale ispirata a una visione riformisti-ca far sì che lo Stato garantisca la conservazione fisica del bene per-ché possa essere oggetto delle più libere manifestazioni intellettuali da parte della società nel suo in-sieme. L’alternativa è una pubblica amministrazione che ammette nei fatti (essendo incapace di esigere i canoni previsti dall’art. 108) di non saper rispettare le proprie regole, oppure che si lancia in una disperata stagione di contenziosi giudiziari con mezzo mondo, alla ricerca parossisti-ca e impossibile degli infiniti presun-ti abusi (a partire dalle paccottiglie dei mercatini di souvenir), con buona pace della funzione di «conse-gnataria» che la mano pubblica svol-ge nei confronti di un patrimonio che quattro articoli della nostra Co-stituzione (9, 33, 41 e 118) mettono in mano, ciascuno per la sua parte, alla totalità dei cittadini.In questa fosca prospettiva che va scongiurata, occupa un posto parti-colare la questione della cosiddetta libertà di panorama, ovvero del di-ritto di fotografare e riprodurre ope-re esposte al pubblico dominio. An-che questa libertà è sotto attacco. Ma di questo, semmai, un’altra volta.

visa di conoscenza, ricordo, identità, creatività e tanto altro ancora. Insomma, le testimonianze del pas-sato nella loro materialità rispon-dono a un diritto reale di proprietà esercitato da chi ne è pro tempore il titolare; ma la potenzialità infinita e mutevole del loro significato e del-la loro percezione per tramite delle immagini, e dei possibili usi che di queste si fanno, non può rispondere a un principio di diritto dominicale, cioè di proprietà. Tanto più quando questa proprietà sia pubblica. Facciamo un esempio. Il «David» di Michelangelo è di proprietà dello Stato italiano. A norma dell’art. 108 ogni sua immagine, comunque ri-levata, per intero o di dettaglio, sa-rebbe anch’essa di proprietà dello Stato. Ma in verità quelle infinità di immagini cui il «David» può dare vita sono al contempo patrimonio co-mune di chiunque ne possa trarre ispirazione. Sono infatti patrimonio dell’umanità. Se di quelle immagi-

In un’intervista su «Il Giornale dell’Arte» dello scorso gennaio (cfr. n. 404, gen. ’20, p. 5), alla domanda se sia giusto e utile che chiunque possa far uso libero e gratuito delle immagini del patrimonio pubblico di musei e monumenti, Antonio Tarasco, giurista e alto dirigente del Mibact, risponde: «Non sono d’accordo. Quella può essere una proposta per il fu-turo, ma sarebbe necessario cambiare la legge».Tecnicamente parlando, probabil-mente Tarasco ha ragione: l’art. 108 del Codice Urbani impone il pa-gamento di un canone anche per le riproduzioni delle immagini del patrimonio, che sono quindi oggetto di una «concessione», e la modifica opportunamente introdotta nel 2014 dall’ArtBonus ne ha stabilito la gra-tuità per finalità di studio, ma non per l’uso «a scopo di lucro». Il gua-io sta nel fatto che sciaguratamente quell’articolo fa di ogni erba un fa-scio mescolando nello stesso com-ma le modalità di esecuzione delle riproduzioni, il tipo e il tempo di uti-lizzazione degli spazi e dei beni cul-turali e l’uso e la destinazione delle riproduzioni. Dunque, un bel fritto misto, che rivela quanta poca ri-flessione ci sia stata alle spalle di questa norma così rilevante per la diffusione della cultura.Mescolare l’uso di cose e spazi, cioè dei luoghi della cultura di proprietà pubblica con l’uso delle loro imma-gini, significa mettere sullo stesso piano due tipologie di ricavi che nulla hanno a che vedere fra di loro e che, pur nell’ammontare comples-sivo comunque bassissimo, produ-cono introiti assolutamente sbilan-ciati. Dai dati disponibili risulta che dall’insieme delle concessioni d’uso (cose, spazi e immagini) deriva allo Stato un misero 3% del totale dei ri-cavi: una percentuale coperta peral-tro quasi integralmente (in rappor-to, pare, di 7 a 1) dai canoni di affitto temporaneo degli spazi per eventi e manifestazioni di varia natura. Le riproduzioni portano un contributo risibile, certamente inferiore ai costi di esazione. Insomma, è del tutto evidente che la privativa stata-le sull’uso commerciale delle imma-gini del patrimonio culturale è oggi un’operazione finanziariamente in perdita. Ma quel che interessa qui è ragionare se questo mono-polio sia conveniente non solo sul piano economico, ma anche su quello culturale e sociale. Nel Codice Urbani convivono due modalità di uso: quella del bene nel-la sua integrità fisica e quella della sua immagine. Beni materiali e beni immateriali sono mescolati e confu-si, mentre una loro distinzione sem-bra a me necessaria prima di qual-siasi altra opinabile valutazione. Nel primo caso (beni materiali) la riscos-sione di un canone, che in taluni casi può essere anche assai elevato, è si-curamente opportuna. Nel secondo caso (beni immateriali) questa pre-tesa cozza con la natura stessa del bene concesso. L’immagine infatti non è un bene materiale: non pos-siede fisicità. L’immagine non gode del privilegio della unicità e della au-tenticità: di ogni oggetto possiamo produrre un numero infinito di immagini, l’una diversa dall’altra, tutte potenzialmente vere e al tem-po stesso insufficienti a riprodurre l’originale materiale. Le immagini sono beni immateriali e in quanto tali costituiscono una fonte condi-

ArT you ready? Il Ministero ha lanciato domenica 29 marzo il flashmob del patrimonio cul-turale italiano «ArT you ready?» nel quale sono stati coinvolti gli «igers» italiani: un termine, non a tutti noto, che indica gli instagramers, i tanti cioè che per professio-ne o per diletto pubblicano foto su Instagram, in particolare su specifiche località o argomenti; sono comunità che raccolgono migliaia di persone. Ma sono stati invitati anche i semplici cittadini. Siamo infatti tutti un po’ igers quando fotografia-mo un monumento, una scena, un luogo, e condividiamo l’immagine su Instagram o altri social network. L’obiettivo dichiarato dell’iniziativa era raccogliere, con gli hashtag #artyouready e #emptymuseum, migliaia di «foto realizzate all’interno di musei, parchi archeologici, biblioteche e archivi d’Italia, dando preferenza a quelle prive di persone». Foto che «servono a ricordare che il patrimonio culturale, sebbene momentaneamente chiuso al pubblico, è vivo e rappresenta l’anima pulsante della nostra identità». Sull’uso e riuso delle immagini del patrimonio culturale, forse non tutti ricordano che fino al 2014 non era possibile fotografare nei nostri musei. Solo da pochi anni, grazie alla legge sull’ArtBonus, i visitatori di musei, gallerie, pinacoteche, aree archeologiche possono scattare liberamente fotografie, con l’unica limitazione che non si utilizzi il flash e che le immagini siano utilizzate per fi-nalità personali e culturali. Quella norma, peraltro, prevedeva che la liberalizzazione delle foto non riguardasse i beni librari e archivistici, per cui si è dovuto attendere il 2017 per una liberalizzazione generale. Tra le varie riforme del ministro France-schini, questa, che potrebbe apparire minima, è tra le più rilevanti e segna una svolta quasi epocale. Quel divieto, infatti, era figlio di un’idea proprietaria dei beni culturali, che ci ha tenuto lontani dall’Europa e dalla totalità dei Paesi avanzati, dove musei, archivi, biblioteche non solo consentono di fotografare liberamente ma spesso mettono anche a disposizione sui propri siti web, ad alta risoluzione, immagini dei beni. Sempre di più anche i musei italiani (si pensi all’Egizio di Tori-no) compiono passi da gigante in tale direzione, consapevoli che anche i possibili rientri economici non sono tanto quelli, del tutto risibili, dei canoni per l’uso di una immagine (a fronte di operazioni farraginosissime, tra richieste, risposte di diniego o autorizzazione, tempi lunghi, pagamenti con bollettini postali, costi del personale impegnato in tali operazioni) ma quelli ben più significativi derivanti dall’indotto legato alla promozione del patrimonio, all’interesse che suscita nel pubblico, al desiderio di visitare un sito, un museo, una città, un territorio. La battaglia, infatti, ora riguarda sia la totale liberalizzazione delle immagini per uso personale e per finalità di studio (si pensi ai costi sostenuti da un settore in difficoltà come quello editoriale, spesso con case editrici specializzate che fanno fatica a sopravvivere) sia, anche se in maniera più problematica, il possibile riuso anche commerciale. Nell’epoca di Instagram e della condivisione di miliardi di immagini, si può pensare che l’immagine del bene culturale possa essere sottoposta al vincolo di canoni e di regole burocratiche? È non è forse questo il vero atteggiamento mercifi-catore e un po’ bottegaio? q Giuliano Volpe su www.huffingtonpost.it, 29 marzo

Graffiti

di Daniele Manacorda

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IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

Imprenditori culturali

Fabbricare mostre. «Il pubblico è più esigente di quanto si pensi»

Tomaso Radaelli è il cofondatore di MondoMostre, tra i maggiori produttori di eventi espositivi in Italia e all’estero. La produzione culturale oggi è «come l’Italia: grandi eccellenze affiancate da progetti molto meno interessanti».

Il Coronavirus? «Siamo abituati a cadere e a rialzarci. Sono un ottimista...»

Roma. Tomaso Radaelli, romano, 56 anni, è presidente di MondoMostre, società leader nella progettazione e produzione di eventi espositivi. Creata nel 1999, MondoMostre esordisce con la mostra «Cento capolavori dall’Er-mitage» alle Scuderie del Quirinale di Roma, destinata a chiudere con oltre 570mila visitatori. Nel 2015 nasce la joint venture MondoMostre Skira di cui Radaelli è amministratore de-legato e Massimo Vitta Zelman pre-sidente. Abbiamo chiesto a Radaelli bilanci e prospettive della sua società, in questi giorni così difficili.Dottor Radaelli, lei è laureato in Economia e Commercio, con ma-ster in Business administration. Come avviene il passaggio al mon-do della produzione di mostre?Mi sono laureato a Roma e successivamente ho preso un Mba alla Columbia University. Tornato in Italia ho lavorato per McKinsey e ho conosciuto Leonardo Mondadori. Con lui è iniziata l’avventura nel mondo dell’arte che ho proseguito con il mio socio, Simone Todorow. Abbiamo deciso di diventare au-tonomi ed è stato un bel salto nel buio, ma ce l’abbiamo fatta.Quanto le sue competenze in cam-po economico e finanziario guida-no le sue scelte attuali?Nel modo giusto, ovvero tenendo presente che oltre ai contenuti, che sono di competen-za degli specialisti, serve un ottimo piano economico anche perché negli anni il nostro settore ha risentito, come tutti, della reces-sione. La nostra è una realtà che ha bisogno di molte competenze. A MondoMostre lavo-rano una trentina di persone, di estrazione estremamente varia: da economisti ad av-vocati amministrativi; ma anche laureati in psicologia e filosofia, designer, professionisti delle pubbliche relazioni e in corporate iden-tity e ovviamente storici dell’arte. Poi c’è la branch a Mosca e i nostri collaboratori sta-bili negli Stati Uniti, più i partner con cui la-voriamo in tutto il mondo in Messico, Cina, Giappone e Australasia.Che cosa sentite di aver rinnovato, o innovato, in questo settore?Forse l’aver tentato la strada, poi vincente, di coniugare il rigore scientifico con la di-vulgazione: realizzando esposizioni che sod-disfano specialisti e grande pubblico, come quella del 2008, ormai storica, su Sebastia-no del Piombo a Roma. E questo grazie al fatto che abbiamo da subito sviluppato la rete di contatti oltre confine, operando a stretto contatto con alcune delle più impor-tanti istituzioni internazionali, dall’Ermita-ge di San Pietroburgo alla Gemäldegalerie di Berlino, dalla National Gallery di Londra al Metropolitan di New York.Come si prepara il business plan di una mostra? Sono business plan diversi per ogni mostra e per ogni luogo in cui la si realizza, sia in Italia che all’estero, perché cambiano gli interessi del pubblico, ovvero la sensibilità culturale del Paese. Caravaggio a Tokyo nel 2016 ha mostrato i soggetti più delica-ti e meno religiosi dell’artista. In America attualmente l’input dei musei è «No More Dead White Men»... Si cerca la diversità anche nell’arte, lì sono all’avanguardia

del sentire. In Cina si chiede il racconto, e di conseguenza progetti più didattici. Per questo motivo non è detto che una mostra che ha dato ottimi risultati in un luogo pos-sa ottenere i medesimi in un altro. Quali sono state le vostre mostre di maggior successo e quali, inve-ce, non hanno incontrato il favo-re sperato?Sicuramente, assieme all’Azienda Palaexpo, il «Caravaggio» alle Scuderie del Quirinale nel 2010, che ebbe un successo di pubblico impressionate con 600mila visitatori, un dato che forse non vedremo più per una mostra romana. «Hokusai» a Palazzo Reale di Milano nel 2017 fece quasi 200mila visita-tori, nel 2016 il progetto su «Michelangelo» in Giappone 300mila. Infine cito la mostra milanese del 2018 «Dentro Caravaggio» che credo sia stata premiata dal pubblico per l’uso della tecnologia che ha permesso di rac-contare le indagini diagnostiche, effettuate sui dipinti del maestro, in modo innovativo: furono oltre 400mila i visitatori. Alcune ras-segne espositive, in alcuni casi, possono aver registrato un numero inferiore di visitatori rispetto alle attese, magari anche per eventi contingenti. Può capitare quando, coraggio-samente, si vogliono presentare per la pri-ma volta grandi artisti, celebri in altri Paesi e meno in Italia. Ma anche in questi casi il coraggio può premiare: la citata mostra su Sebastiano del Piombo, un progetto eroico, fece 135mila visitatori. In quell’occasione l’allestimento fu realizzato da Luca Ronco-ni, e fu per noi un privilegio poter lavorare con lui: sapeva immaginare gli spazi in maniera straordinaria.Far conoscere l’arte italiana all’e-stero è parte essenziale della vo-stra missione aziendale? Assolutamente sì. E molti direttori di mu-sei italiani più di una volta si sono espressi pubblicamente in questo senso. Consideri poi un altro dato: portare le nostre opere all’estero ha ricadute benefiche anche in Italia, per esempio nel 2011 l’Anno della Cultura italiana in Russia ha portato un incremento dell’afflusso turistico verso l’I-talia del 30%. Creare solide relazioni con partner internazionali corrisponde a uno dei nostri obiettivi primari. Lavoriamo con istituzioni pubbliche, come ad esempio il

Ministero della Cultura giapponese che ab-biamo affiancato per le iniziative dell’Anno della Cultura giapponese in Italia; lo stesso per il Ministero della Cultura della Fede-razione russa. Il Ministero della Cultura messicano ci ha chiesto di aiutarli in occa-sione della Biennale di Venezia di quattro anni fa. Per poter presentare in Italia o all’estero le più importanti collezioni dei musei statunitensi, così come realizzare progetti con le maggiori istituzioni asiati-che, è indispensabile costruire e mantenere una solida rete di relazioni internazionali con tutte quelle realtà. Tali partnership divengono durature una volta percepita la serietà con cui operiamo. E vogliamo allar-gare ulteriormente gli orizzonti con nuove proposte e raggiungendo nuovi pubblici anche nei Paesi in cui siamo già presenti.Come si riesce a far convivere qua-lità e grandi numeri?Il caso della mostra di Georges de La Tour a Palazzo Reale a Milano (aperta nel me-se di febbraio e ora sospesa a causa dell’emergenza sanitaria; Ndr) è signi-ficativo. Dagli studiosi viene unanimemen-te considerato uno dei più grandi pittori del Seicento, insieme a Caravaggio e a Rembrandt, eppure non si è mai riusciti a fare una sua esposizione in Italia. In mo-stra abbiamo ora prestiti molto complessi in arrivo da tre diversi continenti, certa-mente un progetto di grande qualità che speriamo possa essere apprezzato da un gran numero di visitatori.L’edutainment che spazio occupa nella vostra programmazione?Parecchio. E non c’è bisogno di scomodare i lemmi moderni. Già gli antichi dicevano che si impara meglio se ci si diverte («docere delectando»). Basta che le due cose siano in equilibrio, che una non sovrasti l’altra.In media a quale livello percentua-le e con quali criteri viene stabilito il vostro margine di contribuzione minimo oppure ottimale?In qualche modo una mostra assomiglia a un film: si produce e si investe «pesantemente», sperando che poi il pubblico arrivi, quindi il rischio è molto alto per il produttore (e non ci sono contributi statali…). Per questo, una mostra deve avere inizialmente come obietti-vo minimo un 50% di margine di contribuzio-

ne. Se invece il rischio non è a carico nostro o è mitigato, e quindi almeno in parte veniamo remunerati, allora siamo sul 20%.Quali sono le componenti princi-pali del rapporto costo-ricavi di una mostra?Per i costi sicuramente al primo posto l’ac-quisizione dei contenuti (trasporti, assicura-zioni, curatela, loan fees, le tariffe richieste per i prestiti) per circa il 50%; produzione (personale, allestimento) 20%; comunicazio-ne 20%. I ricavi purtroppo sono all’80% da biglietteria, solo il 15% da bookshop e mer-chandising e il 5% da sponsor e serate.In media a quale livello di spet-tatori paganti si colloca il break-even point di una mostra?Per noi circa 100mila visitatori paganti.Come vengono prestabiliti i con-tributi esterni (sponsor ecc.) per realizzare l’equilibrio economico e finanziario di una mostra?Drammaticamente inesistenti. Un tempo rappresentavano il 30% dei ricavi.In che misura è determinante l’in-vestimento in comunicazione e quanto incide sul budget? È molto importante, in particolare se co-struito con anticipo. Oggi i nuovi media permettono di fare comunicazione mirata, one-to-one, spendendo relativamente poco. Abbiamo fidelizzato una clientela che cu-riamo con il nostro Customer Relationship Management, e sappiamo che tra il 15 e il 25% delle vendite arriva prima ancora dell’evento, il che ci permette di pianifica-re. Detto questo, non esiste nessuna ricetta magica per le mostre: è il passaparola che determina il successo, ben oltre il nostro in-vestimento pubblicitario.Nel 2015 nasce la joint venture MondoMostre Skira. Quali sono, rispettivamente, ambiti e suddivi-sioni di compiti?È nata per gestire congiuntamente, ottimiz-zandone produzione e potenziale, una serie di grandi progetti, dell’uno e dell’altro so-cio, come ad esempio la mostra di Palazzo Reale dedicata a La Tour, o negli scorsi anni Arcimboldo a Palazzo Barberini o ancora Frida Kahlo al Palazzo Ducale di Genova.Qual è una mostra di cui va parti-colarmente fiero?

Sono tante. Nel recente passato forse Ca-ravaggio a Mosca nel 2011: anche con una temperatura molto rigida, circa -25°, le code fuori dal Museo Pushkin erano chilo-metriche. In corso, anche se sospesa, senza dubbio La Tour a Milano.Una «mostra impossibile» che so-gna di realizzare? Rembrandt. È stato poco visto in Italia ma ha avuto un impatto enorme, peraltro an-che sulla cultura contemporanea.Che cosa pensa della tendenza di mostre immersive e digitali?Credo che il digitale sia utilissimo nelle mo-stre di carattere archeologico: poter rico-struire pezzi mancanti di edifici, o statue, rende la fruizione decisamente migliore. Poi certo se ne fa, e se ne è fatto, un uso a volte inutile. Oggi se ne vedono meno, forse per-ché alla fine non hanno conquistato il pub-blico, che è più esigente di quanto si pensi. E che cosa pensa dei cosiddetti di-rettori manager dei musei? Tutto il bene possibile. Hanno ancora un grande limite, ovvero un’autonomia che è tale per certe cose ma non vale per altre, tipo la scelta del personale.A Roma quale le sembra il luogo istituzionale maggiormente in grado di produrre proposte cul-turali e mostre di buon livello? MaXXI, Gnam, Macro, Palazzo del-le Esposizioni...Sono tutte sedi che avrebbero un grande potenziale, oltre a queste ce ne sono anche altre, ma se si continua a non fare sistema difficilmente si potranno produrre grandi cose. La capitale d’Italia non solo deve tu-telare il suo straordinario passato, ma deve rappresentare il volano culturale del Paese, presentare nuove sedi e nuovi progetti espo-sitivi, confermandosi tra le capitali culturali a livello mondiale.Più in generale, come le appare la situazione attuale in Italia in tema di produzione culturale?Mi pare rappresentativa del Paese: da una parte grandi eccellenze, dall’altra progetti meno interessanti. Ma penso anche che l’Ita-lia, quando esprime il suo meglio, sia capace di una qualità unica al mondo per quella creatività, profondità e professionalità che tutti ci riconoscono.Che cosa sta accadendo nel mondo dell’arte e della cultura al tempo del Coronavirus? Quali saranno i tempi e i modi della ripresa? La cultura ha sempre interpretato le gran-di difficoltà dell’umanità, io credo sarà così anche questa volta. Adesso è dura, il nostro è un mondo fragile, ma siamo an-che abituati a cadere e rialzarci. Mi rendo conto che molte persone avranno pesanti ricadute economiche, ma credo che il no-stro settore sia compatto e solidale e le prime misure di supporto che vediamo dal Ministero vanno nella direzione giusta. Sul domani noi, come tanti altri, ci siamo atti-vati per offrire, tramite i canali social, l’op-portunità di godere comunque dell’arte e della bellezza. Credo che, finita l’emergen-za, moltissime persone si recheranno nei cinema, nei musei, nei teatri e alle mostre in giro per l’Italia, perché siamo abituati (e da sempre) alla bellezza. Io rimango un inguaribile ottimista.

di Arianna Antoniutti

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14 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

DOCUMENTIOpinioni&

Racconti di crimini artistici e altro di Fabrizio Lemmeprofessore di Diritto penale dell’economia, Università di Siena

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Da Washington il nostro agente speciale alla CIA (Central Intelligence of Arts), Maria Sancho-Arroyo

Avevo scritto un articolo diverso per questo mese, ma l’emergenza Coro-navirus mi ha spinto a cambiare argo-mento e raccontarvi come il mondo dell’arte americano sta reagendo a questa nuova situazione. Durante la prima settimana di marzo, mentre l’Italia stava già chiudendo i musei. New York ha organizzato diverse fiere d’arte tra cui il classico Armory Show e la nuova Independent Art Fair. I visi-tatori erano consapevoli del problema e al posto di cordiali strette di mano, la gente si salutava a colpi di gomiti. I corridoi erano meno affollati del soli-to anche se comunque erano presenti importanti collezionisti e consulenti d’arte. Quelli che invece sembravano mancare erano i «visitatori sociali», cioè le persone che vanno alle fiere non come professionisti o compratori ma come appassionati. I primi rappor-ti dai mercanti parlavano di una par-tecipazione leggermente ridotta ma di buoni affari. Una settimana dopo

tutto è cambiato. Giovedì 12 marzo, il Metropolitan Museum ha annunciato la chiusura, avviando una valanga di chiusure di musei e gallerie in tutto il Paese. Alcune gallerie commerciali hanno anche riferito l’annullamento da parte di collezionisti delle vendite concordate durante le fiere. Alla data di oggi (15 marzo) hanno temporanea-mente chiuso anche la maggior parte delle gallerie commerciali e alcune no-te case d’asta. La conseguenza di que-ste chiusure va oltre il fatto che per adesso il pubblico non possa visitare i musei e che le fiere siano cancella-te o rinviate. Colpisce anche le mo-stre future, quelle programmate per quando si spera che l’epidemia sarà contenuta, ma che saranno anch’esse posticipate giacché la preparazione e il trasporto delle opere non può ave-re luogo nelle attuali condizioni. In particolare sto pensando a «Barocco superbo: arte a Genova 1600-1750» che era in programma dal 3 maggio al 16

agosto alla National Gallery di Washington. Il museo ha cancellato la mostra e sta cercando date alternative, non un compito facile dato il fitto calendario per i pros-simi mesi. Come scuole e Università, la maggior parte dei musei e delle gallerie ricorre all’apertura digitale. Provando a vedere il lato positivo, questa chiusura fisica consentirà a tutti noi di diminuire il numero di viaggi e metterà alla prova le potenzialità dei social media e dell’interazione digitale. Ci mancheranno sicuramente il contatto diretto con le opere (essen-

ziale in questo campo) e il frenetico networking durante gli eventi, ma ci offrirà del tempo per leggere final-mente i cataloghi e utilizzare la tec-nologia per rimanere in contatto con amici e colleghi. Le istituzioni ame-ricane erano molto ben dotate in fatto di comunicazione digitale e questa situazione senza preceden-ti non le ha colte impreparate. Si sono infatti rapidamente mosse per offrire al pubblico contenuti digitali interessanti. La scelta di video di quali-tà e storie Instagram interessanti non può non attrarre un nuovo pubblico, che forse quando questa epidemia sarà sotto controllo andrà di persona a visitare musei e gallerie.

A Voice of America

Musei e mostre a porte chiuseL’offerta digitale di qualità può attrarre il pubblico di domani

L’Avvocato dell’arte

Uno dei più grandi musei al mondoL’importanza del mecenatismo delle Fondazioni bancarie

Che cosa intendiamo per mecenate e mecenatismo

Gaio Cilnio Mecenate (68 a.C.-8 a.C.) è uno dei pochi personaggi della storia umana il cui nome sia divenuto un sostantivo: noi oggi definiamo «me-cenate» qualunque grande protettore delle arti contraddistinto da un mu-nifico disinteresse e «mecenatismo» la relativa presenza attiva nei fatti di cultura. In questo senso, egli è simi-le a Cesare: anche per lui il nome è divenuto un sostantivo con il quale si

designa il potere imperiale, dal mon-do latino (Caesar) a quello germanico (Kaiser), a quello russo (Czar), addirit-tura a quello persiano (Scià). Da cosa deriva tanto onore? Mecenate era di illustri origini: nelle Odi (la I del Libro I) Orazio si rivolge a lui chiamandolo «disceso da avi che furono re» («Mecenas atavis edite regibus»), alludendo all’ap-partenenza della sua gens a una stir-pe di Lucumoni etruschi, dunque di sovrani-sacerdoti. Virgilio arriva addirittura a divinizzarlo: «Deus no-bis haec otia fecit» (Egloghe, I, 6). In tal modo i due massimi esponenti della poesia latina esprimevano la loro ri-conoscenza a chi li aveva largamente beneficiati, al primo, regalando una villa con orto presso Tivoli (hoc erat in votis: Satire, Libro II, sat. VI, v. 1); al secondo, accordando una vita ritirata e tranquilla, conforme alle sue esigen-ze di appartato poeta. In effetti, nella sua esistenza, almeno a partire dal 39 a.C., Mecenate fu prodigo di soste-gno economico e culturale verso i massimi esponenti della lirica latina, da non molto importata nelle nostre terre dalla cultura greca (Grae-cia capta ferum victorem cepit et artes in-tulit agresti Latio: Orazio, Epistole, II, 1, 156). L’assoluto disinteresse, che con-traddistingue la sua presenza nelle ar-ti, legittima il passaggio del suo nome a un meritorio sostantivo. Mecenate segna una tappa della cultura umana, sublimando la protezione dell’arte co-me fatto fine a se stesso, privo di ogni connotazione lucrativa.

Che cosa sono le Fondazioni bancarieA partire dagli anni Ottanta la Co-munità Europea ha attivato una for-te liberalizzazione e privatizzazione dell’economia, restringendo l’area degli aiuti di Stato e privilegiando il regime di libera concorrenza. In questo contesto, a partire dagli anni Novanta la Comunità Euro-pea ha prima privatizzato le Cas-se di Risparmio, parificandole in tutto alle altre istituzioni bancarie, e poi ha separato la proprietà delle stesse dall’attività propriamente cre-ditizia e di raccolta del risparmio, gestita in forma di società per azioni e attribuendo a organismi non profit (le Fondazioni, appunto) il corrispondente capitale aziona-rio. In questo contesto si è distinto Carlo Azeglio Ciampi, anche come Governatore della Banca d’Italia, che promosse prima la Legge Ama-to-Carli (218 del 1990), cui seguì il Decreto Legislativo di attuazione (356/90), poi la Legge delega 461/98, cui seguì il Decreto Legislativo di at-tuazione 153/99. Il risultato di questa importante riforma (sulla quale intervenne anche il ministro Giulio Tremonti, con la Legge 448/2001), è stato l’attribuzione alle Fonda-zioni Bancarie di tutti gli utili provenienti dall’attività crediti-zia, che dovevano essere gestiti non profit, vale a dire per scopi filantropici e per scopi di mece-natismo. E qui veniamo al tema che intendiamo succintamente affronta-re: la presenza delle Fondazioni bancarie nella raccolta di beni culturali, attuata appunto con spiri-to di mecenatismo e coerentemente con la loro natura di enti non profit.

«The New Ones» di Wangechi Mutu di recente commissionata per la facciata del Metropolitan Museum

Dear SirObblighi e attendibilità degli Archivi d’artistall professor Fabrizio Lemme, che mi onora della sua amicizia, nella rubrica dello scorso mese («Muciaccia vs l’Archivio De Dominicis», cfr. p. 28) commenta un’ordinanza (non solo «tacitiana», come afferma, ma «pilatesca», oso dire) del presidente del Tribunale di Spoleto. La causa riguarda un A.T.P. (Accertamento Tecnico Preventivo) della autenticità di due opere di Gino De Dominicis, avviato dal gallerista Massimiliano Muciaccia nei confronti dell’omonimo Archivio promosso dal collega Italo Tomassoni di Foligno (altro Archivio concorrenziale è quello attivato da Vittorio Sgarbi). Il provvedimento giudiziario accoglie le tesi di Lemme secondo cui «il possessore di un’opera non ha alcun diritto di pretendere dall’Archivio dell’Artista: a) la manifestazione della propria opinione in ordine all’autenticità dell’opera b) l’archiviazione della stessa…». Poiché l’Ordinanza dichiara inammissibile l’accertamento richiesto, ne deriverebbe secondo Lemme, «l’incoercibilità sia della dichiarazione di autenticazione, sia dell’archiviazione». La discrezionalità assoluta pretesa da chi si ritiene deputato all’attività di archiviazione e di certificazione dell’autenticità delle opere d’arte (in genere gli Archivi promossi dagli artisti e/o dagli eredi) renderebbe rischioso qualsiasi acquisto decretando di fatto l’inattendibilità del mercato dell’arte. Infatti riguarda l’accertamento dell’autenticità e delle procedure per raggiungerla. «Les verités historiques ne sont sont que des probabilités», sosteneva Voltaire e proprio Lemme nel suo ottimo volume Compendio di diritto dei Beni Culturali del 2006 si interrogava: «Esiste un parametro oggettivo che possa permettere di graduare il certo, il meno certo, il probabile, il possibile, l’inattendibile, ascrivendo all’una o all’altra categoria le varie proposte formulate per le opere d’arte?». La risposta non può che essere positiva altrimenti precipiteremmo nel buio discrezionale assoluto: certamente esistono, debbono esistere parametri oggettivi. Il rispetto della «libertà di opinione» non può ignorare la storia delle opere e l’evidenza delle loro caratteristiche tecniche ed estetiche e la massima di Voltaire sul valore probabilistico delle verità storiche non può negare la validità dell’approccio scientifico e dell’esperienza. La «verità assoluta», ricordava Piero Dorazio, appartiene ai «Piani alti», ma «scienza, esperienza e coscienza» non consentono l’arbitrio totale e obbligano a motivazioni e confronti. Ed eventualmente a cambiamenti di opinione fondati su elementi in precedenza ignoti o non adeguatamente valutati. Lo strumento processuale dell’A.T.P. (che l’Ordinanza di Spoleto ha inopportunamente respinto) oppure le perizie di esperti qualificati messe a confronto tra loro sono predisposti proprio per risolvere il dilemma dell’autenticità delle opere e della loro valutazione. Non a caso le norme civilistiche e la giurisprudenza sanciscono anche le responsabilità di chi effettua tali valutazioni: extracontrattuale in generale (art. 2047 c.c.), professionale in particolare (art. 1176 c.c.) come conseguenza di affidamenti qualificati (art. 1173 c.c.). È evidente che «fatti storici» accertati da esperti secondo procedure e responsabilità regolamentate si impongono a un’incondizionata, anarchica e soggettiva «libertà di opinione». q Giuseppe Melzi avvocato in Milano

Il vero dio è l’architetto Caro Gaggero,ci sono in giro molte chiese cubiche, prismatiche e cilindriche, ma questa è l’unica chiesa sferica che si conosca. L’involucro rotondo interrompe bruscamente l’an-golo che stavano per fare i due blocchi rettilinei che delimitano le strade in quella zona. Sembra che la sfera (è la forma dei pianeti ma anche delle stelle e dei buchi neri) rappresenti l’unicum in cui coincidono le tre forme della divinità cristiana. Non sono mai entrato, ma siccome il diametro esterno è di soli venti metri, lo spazio al suolo dentro la sfera, tolto l’altare per il celebrante, deve essere poco. L’illuminazione viene dalle finestre intagliate in basso, che sono dodici: non so se in riferimento ai mesi dell’anno o agli apostoli. Luccardini

Caro Luccardini,in qualsiasi forma volumetrica ci si può costipare qualsiasi cosa, questo sembra essere il dogma dell’architettura contemporanea, quindi anche una chiesa. Non

è la funzione che determi-na la forma, o che almeno sceglie quella più compa-tibile; al contrario è la for-ma che comanda e chiede alla funzione di adattarsi. In questo caso alla fun-zione liturgica si chiede un piccolo sforzo sferico. Come a dire che il vero dio è l’architetto, il che risulta molto più difficile da dimo-strare dell’esistenza del Creatore.Gaggero

Le trouvailles di Gaggero & Luccardini architetti e collezionisti di mostri architettonici

Gli amici dei mostri

La Chiesa della Trinità a Ginevra (Svizzera)

15IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

Opinioni

«Orazio legge davanti al circolo di Mecenate» (1863) di Fedor Bronnikov

segue da p. 14, v col.

9.300 opere: uno dei più grandi musei al mondo

Che cos’è il mecenatismo bancarioNei secoli passati della nostra civiltà e fino all’inizio del secolo XIX, poiché «carmina non dant panem», gli artisti (letterati, musici, pittori, scultori, ar-chitetti ecc.) hanno potuto sopravvi-vere trovando un sostegno economi-co presso il papa, i re, i cardinali, le varie corti feudali, che concedevano loro delle pensioni e quindi la possi-bilità di vivere e di operare per l’arte. È proverbiale, nella nostra cultura, il mecenatismo di Luigi XIV, il Re Sole, di Federico II di Prussia, di Caterina di Russia, di Carlo di Borbone, re di Napoli (III di questo nome) e di Sicilia (VII di questo nome), per non citare che i sovrani più celebri. Ma anche de-gli Sforza di Milano, dei Gonzaga di Mantova, dei Medici di Firenze, degli Este di Ferrara, dei Della Rovere di Urbino, fino ad arrivare ai signori di Carpi (Pio di Savoia), di Faenza (Man-fredi), di Forlì (Riario Sforza). Nelle loro corti, tutte le arti hanno potuto avere sviluppo e protezione, con risul-tati che sono tuttora tangibili e visibi-li. A partire dalla Età romantica (dopo il 1815 e la caduta di Napoleone), gli artisti sono stati parificati a dei pro-fessionisti particolarmente qualificati e il loro sostentamento doveva essere il risultato della loro fatica intellettua-le: il passaggio da Vincenzo Monti (che fu artista «protetto») a Ugo Fo-scolo (che fu artista indipendente) è indicativo al riguardo, come è indica-tiva la frase del secondo, pronunziata sul letto di morte, «i debiti sono pagati». In un certo senso, noi viviamo ancora nell’Età romantica: l’artista è la punta di diamante della classe intellettuale e la sua sopravvivenza economi-ca è assicurata dal successo della sua opera. Se i libri si comprano, se i quadri e le sculture si vendono, se la musica viene ascoltata, l’artista po-

trà sopravvivere, assicurandoci il suo contributo alla creazione della bellez-za, vero motore dell’attività umana. Ed è proprio in questo contesto che si inquadra il nuovo mecenatismo delle Fondazioni bancarie: intervenendo sul mercato sia per la costituzione di collezioni di arte passata, sia di colle-zioni di arte contemporanea, le Fon-dazioni bancarie non soltanto assicu-rano la sopravvivenza del mercato (come ho scritto più volte, condizio-ne per la sopravvivenza dell’atti-vità creativa), ma anche proteggo-no gli artisti del nostro tempo, incoraggiati e sostenuti dai nuovi mecenati. Prendiamo ad esempio la Fondazione Roma, un’istituzione di origine bancaria oggi svincolata da questo ruolo specifico: per l’inesausta attività del suo presidente (a lungo effettivo e poi onorario) Emmanuele Francesco Maria Emanuele, distri-buisce le sue ingenti risorse tra scopi filantropici, acquisizione di testimo-nianze del passato, artisti viventi, co-nosciuti o ancora sconosciuti. Come si vede, una presenza a tutto campo, che viene seguita anche da altre me-ritorie istituzioni, come la Fondazio-ne del Monte di Bologna. Aggiungo che l’art. 121 del D.Lgs. 42/04 istitu-zionalizza il ruolo delle Fondazioni bancarie, esplicitamente prevedendo che le stesse, «anche congiuntamente…» possono «stipulare protocolli d’intesa con il Ministero, le Regioni, e gli altri enti pub-blici territoriali… che statutariamente per-seguano scopi di utilità sociale nel settore dell’arte e delle attività e beni culturali… concorrendo, con proprie risorse finanzia-rie, per garantire il perseguimento degli obiettivi dei protocolli d’intesa».

Da sinistra, particolare dei pannelli di Adamo ed Eva del Polittico dell’Agnello mistico di Jan e Hubert Van Eyck (Gand, Cattedrale di San Bavone); particolare dei pannelli con Adamo ed Eva pudicamente vestiti che nell'Ottocento sostituirono gli originali; fotografie di due nudi proposte dal videogioco cui si accede tramite occhiali per la realtà virtuale

Il criptico d’arte

Non c’è più religione I comunicatori partono dal presupposto che dell’opera in se stessa non importi una cippa

Tu pensa che fessacchiotti questi qui dell’Ottocento che, dovendo maneg-giare nella Cattedrale di San Bavone a Gand il Polittico dell’Agnello Mistico di Jan e Hubert van Eyck, cioè uno dei capolavori massimi della storia dell’ar-te, erano più preoccupati di Adamo ed Eva grandi al vero, nudi come Padre-terno li ha fatti (niente mamma, loro), che di tutto il resto della complicata macchina simbolica messa su dai pit-tori. Maccome, due nudi per davvero, e dentro una chiesa, a fare da valletti al Padreterno medesimo che se ne sta al centro sul suo trono da vero mo-narca. Già allora qualcuno deve aver esclamato «non c’è più religione», spen-dendosi forse la supercazzola che il «conobbero di essere nudi» che leggiamo nella Bibbia non aveva mica un valore letterale letterale da dover dargli pro-prio retta, e che vabbè il realismo, ma quel maniaco di Jan qui si era fatto prendere un po’ la mano e avrebbe potuto tirar via un po’ più di mestiere.

Risultato, il fiammingo bigotto ma pragmatico ha subito pensato che, visto che i polittici sono nati per esse-re smembrati come insegna la storia dell’arte che poi gioca al puzzle di ri-mettere insieme i pezzi, si potevano togliere via le due ante e valachevai-bene, all’insegna del motto «occhio non vede, ormone non si agita», nel-la convinzione di salvare dalla cecità intere generazioni. La soluzione era indubbiamente efficace. Ad ante chiu-se il polittico faceva un po’ schifo, ma tant’è. Qualcuno del clan dei bigot-toni però deve aver fatto notare che amputare l’opera era troppo, basta-va mettere addosso ai due dei vestiti acconci e il gioco era fatto. Così, vai di sostituzione con la coppia dei progenitori in versione influencer sponsorizzati dallo Zara di allora. Oggi è tutto diverso. Noi siamo figli della contromoda per cui abbiamo passato del gran tempo a dileggiare la genia dei Braghettoni della storia in-famandoli in tutti i modi, e dunque a risarcire tutto il risarcibile delle pittu-re antiche. Se il duo di Gand è nudo, è nudo senza se e senza ma, e basta. Anche perché, e qui sta la novità ve-ramente spassosa delle celebrazioni in corso dedicate al restauro fresco fresco del polittico, il fesso censo-re dell’Ottocento era solo fesso, ma noi siamo così tecnologicamente evoluti e intellettualmente atro-fizzati da concepire vaccate ben più arzigogolate.Dunque, quelli di

Gand hanno messo su un restauro da manuale in cui si son trovati a optare tra bivi di scelta ben complicati e a snodare matasse metodologiche mi-ca da ridere, l’han fatto da par loro e ora ce lo mostrano. Poi però sono entrati in campo i comunicatori, quelli che devono far capire tutto l’ambaradan a noi spettatori boc-caloni. Il loro ragionamento è stato a un dipresso il seguente. Posto che alla gente dell’opera in se stessa non importa una cippa, facciamole giusto capire che è una cosa preziosis-sima mettendola dietro un vetro su-perblindato da «Mission: Impossible» e poi via subito con il videogioco informatico. Qui puoi avere un’e-sperienza che, se vuoi, può anche di-

ventare lisergica, contando uno a uno i peli sul muso dell’agnello, per dire, il che ha notoriamente il suo bel per-ché. Poi gli schermi digitali e le me-raviglie elettroniche fanno il resto. Puoi affittare degli occhiali per re-altà virtuale e farti i tuoi viaggi nella storia della Cattedrale e del dipinto, oppure, ed è questa la genialata som-ma, puoi vedere che cosa succede se delle coppie di oggi, scelte in modo politicamente correttissi-mo (quindi vecchi e giovani, etero e omosessuali, abili e disabili) si spogliano, vengono riprese nude e collocate virtualmente al posto di Adamo ed Eva di van Eyck. L’ef-fetto più esilarante è quando le due donne commentano «Siamo due Eva»,

Stramberie e contraddizioni del mondo dell’arte pescate da Flaminio Gualdoni storico dell’Arte

in compenso uno dei due omo ma-schi è una specie di sosia dell’Adamo dipinto, e subito pensi a Duchamp che nel 1924 ha posato anche lui da progenitore, ma qui Bronja non c’è. Non è che uno si scandalizza, beninte-so. È che anche in questo caso il codice in uso è il solito. L’opera d’arte impor-tante serve solo a essere importante, a spacciarti un carisma che incornici di rispetto «alto» le baggianate da luna park che altrimenti non potrebbero raccontarci come culturali. Un tempo per l’arte si parlava di ricezione, qui invece siamo dalle parti della circon-venzione: il grave è che i pirloni che hanno inventato il tutto si sentono molto intelligenti e fichi, e non degli spacciatori di acidi della mente.

Alice nel paese delle meraviglie

Guerra e pace

È una piacevole sensazione visiva quella che si prova di fronte all’in-stallazione dell’artista malese Yee I-Lann (classe 1971) composta da ses-santa stuoie di paglia intrecciata ap-pese sulle pareti della Galleria Silver-lens di Manila a coprire due grandi pareti da terra fino al soffitto. Si tratta del risultato di un proget-to che ha occupato un paio di anni di attività e l’indispensabile aiuto di donne e ragazzini di una regione remota che si affaccia sul Mare di Sulu nella regione del Borneo. Ogni stuoia presenta un motivo geometri-co di base nel cui intreccio è inserita l’immagine di un tavolo. La stuoia è tradizionalmente l’elemento di arre-do funzionale che occupa un ruolo centrale nella vita della popolazione del luogo. Sulla stuoia ci si siede per fare conversazione, si consumano i pasti, ci si stende per dormire. Così era da sempre, finché quest’area nei secoli passati non è stata colonizzata ed è stato introdotto l’uso del tavo-lo. La coloratissima installazione è

quindi una riflessione sull’incontro tra due civiltà. Il tavolo è visto come momento di aggregazione ma anche come simbolo di un’attività ammi-nistrativa e burocratica imposta dall’alto (alcune stuoie presentano scrivanie) o come oggetto propedeu-tico all’attività politica (altre stuoie raffigurano predelle utilizzate per comizi). Alle opere può essere data un’interpretazione politica critica nei confronti dell’imposizione di re-gole e, come nel caso del tavolo, di oggetti estranei alla tradizione. Ma può valere anche l’interpretazione opposta se si pensa al risultato visivo che non trasmette sensazioni negati-ve, ma anzi mostra una combinazio-ne di elementi che non stride. L’arte in questo caso funziona da specchio dell’atteggiamento mentale dello spettatore. Se chi guarda è propenso alla querelle vi vedrà guerra. Se chi guarda è felice, vi vedrà pace.

Incursioni nelle gallerie di Giorgio Guglielminodiplomatico e collezionista di arte contemporanea

L’apice di questa presenza delle Fon-dazioni bancarie nel settore delle arti visive è rappresentato dalla costitu-zione di un museo virtuale, ossia di un museo che sfrutta l’interazione realizzata in via telematica e che può essere fruito anche da un computer posto nella casa del fruitore.Dal 2013 infatti questo museo vir-tuale è operante e consente, cliccan-do su R’accolte (http://raccolte.acri.it), la visione di oltre 9.300 opere d’arte: uno dei più grandi musei del mondo, parificabile in tutto al Museo del Louvre o al Museo dell’Ermitage a San Pietroburgo. Il patrimonio fru-ibile appartiene a 52 Fondazioni bancarie e include 5.509 dipinti, 1.583 disegni, 1.054 ceramiche ecc., ossia uno spettro che include tutte le arti visive. Un esempio da seguire e da imitare: nella sua disar-mante globalizzazione il mondo di oggi è assetato di arte e di cultura. Le mostre organizzate da Fonda-zioni bancarie, che espongono il pro-prio patrimonio culturale e non solo, sono per tutti un esempio operoso di promozione della conoscenza delle arti visive: basta pensare alla mitica esposizione della Fondazione del Monte nel 2013 a Bologna nella quale gli amatori e i cultori hanno potuto vedere capolavori di Annibale Carracci, di Guido Reni, di Lanfranco e tanti altri autori bolognesi ed emi-liani. In esse si supera e si trascende quella afflittiva quotidianità, che solo Joyce è riuscito a riscattare descriven-do nell’Ulisse il percorso di un giorno qualsiasi di Leopold Bloom come il viaggio di Ulisse per tornare da Troia distrutta alla sua petrosa Itaca.

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16 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020Documenti

Ci sono voluti alcuni decenni per rivedere al-meno un centinaio dei 620 marmi antichi del-la Collezione Torlonia, la più grande collezione privata di arte greco-romana al mondo, dopo che, verso il 1960, la nobile famiglia l’aveva sti-vata in un deposito per trasformare in 93 mini appartamenti le 77 sale del suo museo (peraltro già non facilmente visitabile: Ranuccio Bianchi Bandinelli lo vide nel 1947, ma travestito da spazzino, cfr. n. 403, dic. ’19, pp. 30 e 31). Dei te-sori artistici della nobile schiatta si è parlato as-sai poco, e ancor meno dei tentativi di metterli in qualche modo a frutto. Nell’ultimo periodo della sua vita, conclusa il 28 dicembre 2017 a 92 anni, il principe Alessandro, almeno se-condo un procedimento giudiziario intentato negli Stati Uniti, avrebbe tenuto contatti con il direttore del Getty Museum Timothy Potts, venuto anche a Roma non certo per parlare di calcio bensì per incontrare, il 16 gennaio 2014, il nipote del principe, Livio, e un avvocato.Sempre stando alla denuncia di 38 pagine pre-sentata negli Stati Uniti, a partire dall’estate 2010 una società americana (vedremo quale è e a chi fa capo) ha catalogato per anni la collezio-ne e ha fotografato le statue fino a formare un «dossier pesante sei chili» con «migliaia di immagini». Nella capitale era già pronto un palazzo in pie-no centro (Mancini, già del Banco di Sicilia, in via del Corso, anche se il documento omette di specificarlo), per costituire un Museo Torlo-nia di proprietà del Getty (ma forse anche della famiglia romana) che l’avrebbe gestito. E i cui tesori, ogni tanto, sarebbero magari emigrati a Malibu e altrove in temporanea esportazione. Un’operazione ben pensata.La citazione depositata alla Corte di un di-stretto di New York il 12 gennaio 2017 valu-ta la collezione tra 350 e 500 milioni di dollari (cioè 310-443 milioni di euro). A presentare l’at-to, con cui reclama una mancata provvigione di 77 milioni di euro (68 milioni di euro) per la presunta intermediazione andata in fumo, è la Phoenix Ancient Art dei fratelli libanesi Ali e Hicham Aboutaam: tra i più famosi (e, ve-dremo, discussi) mercanti d’antichità al mon-do con sedi a Ginevra, New York e Bruxelles. Il 21 gennaio 2010, spiega il documento, Hi-cham «è volato a Roma» per incontrare don

Come e chi cercò di venderla al Getty Palazzo Mancini a Roma avrebbe dovuto essere la sede di un museo di proprietà americana con facoltà di temporanee esportazioni

COLLEZIONE TORLONIA

Gli atti di un processo giudiziario intentato negli Stati

Uniti svelano incredibili retroscena della storia della Collezione Torlonia: i fratelli Aboutaam, discussi mercanti di antichità, avrebbero tentato una trattativa tra il principe Alessandro e Timothy Potts, direttore del Getty

Da sinistra, Ali e Hicham Aboutaam e una delle esposizioni della loro società, la Phoenix Ancient Art. Sotto, statua di divinità cosiddetta Hestia Giustiniani, uno dei 620 marmi della Collezione Torlonia

I tesori TorloniaL’epopea di Vel SatiesI Torlonia non possiedono soltanto le 620 sculture gre-co-romane che compongono la loro celebre collezione: nella loro villa ex Albani (già di per sé un capolavoro) custodiscono anche il ciclo degli affreschi provenienti dalla Tomba François scoperta a Vulci nel 1857 dall’ar-cheologo Alessandro François (da cui il nome) e i cui corredi sono finiti al Louvre. I dipinti con le Storie di Mastarna, il futuro Servio Tullio, e di Vel Saties, il nobile etrusco che vi è sepolto, sono invece proprietà indivisa dei 12 eredi Torlonia, tra i quali appunto la famiglia del principe. Soltanto alcuni, assai malandati, sono rimasti in loco. Si è detto che il principe aveva rifiutato un'offerta di sette miliardi di lire da parte del Vaticano per vendere i suoi pannelli; il primo fu mostrato nel 2000, dopo il restauro, in una mostra di Palazzo Grassi a Venezia; successivamente furono tutti esposti per un mese a Vulci nel 2004.

I reperti del FucinoIn un salone a pianterreno di Palazzo Giraud in via della Conciliazione a Roma, costruito nel Cinquecento per il cardinale Adriano Castellesi da Corneto se-condo Vasari su progetto di Bramante e acquistato nell’Ottocento dai Tor-lonia, il principe Alessandro Raffaele Torlonia (1800-86) conservava anche quanto era emerso dalla bonifica del Fucino che aveva avviato nel 1854 e che aveva richiesto 24 anni: elmi di ogni età ed epoca, armi e suppellettili. Tra questi reperti eccelle un rilievo in calcare del II secolo d.C. che ritrae una città e il suo territorio e che Antonio Giuliano ricordava essere il più grande del genere al mondo (il secondo per misura è conservato nei Musei di Berlino). Negli anni Ottanta del secolo scorso, quando era ministro dei Beni culturali Nino Gullotti, lo Stato acquistò questi reperti per un miliardo di lire di allora e li destinò al museo nel Castello Piccolomini di Celano (Aq).

Alessandro e vedere la collezione priva-ta di marmi antichi più importante a l mondo. Dall’inizio dell’estate 2010, per anni e nel massimo segreto, una società dei fratelli libanesi, la Electrum che è «l’a-gente esclusivo della Phoenix negli Stati Uniti», ha catalogato la col-lezione scattando «migliaia di fotografie» dei singoli pezzi. Il tutto era finalizzato «a preparare per la ven-dita» la straordinaria raccolta. Nell’ope-razione la Phoe-nix è assistita da una finanziaria del Delaware, che «accetta di parteci-pare» al tentativo di «vendere o trasferire» le sculture dei Torlonia.Il procedimento giu-diziario innescato dai fratelli Aboutaam per il fatto di essere stati esclu-si dai successivi sviluppi della vicenda della Col-

lezione Torlonia è finito in un nulla di fatto. Ma questo interessa poco: assai più rilevanti sono i fatti che la denuncia riferisce. A rendere

noto agli Aboutaam che i Torlonia sarebbero stati disposti in qualche maniera a cedere

la loro collezione sarebbero stati due commercianti di mone-

te antiche, Arturo e Livio Russo (il primo, figlio di Roberto che è stato tra i «big» del settore) che espongono ogni anno alla più importante ma-nifestazione numisma-tica, la Convention che si tiene al Waldorf-Asto-ria di New York. Anche gli Aboutaam trattano

queste antichità per cui sanno chi sono i Russo quando vengono da loro contattati. A quel punto nasce un accordo

di riservatezza che il 12 luglio 2013 sarà sottoscritto anche dal

direttore del «più ricco museo al mondo», Timothy Potts. Proprio in quell’anno, infatti, compiuto il lavoro di catalo-

gazione a Roma, gli Aboutaam contattano il museo, cui propongono l’affare. «Potts era eccita-to, all’idea» e la Electrum dichiarava di aver «pre-disposto i mezzi e le relazioni con le autorità italiane per poter riportare i marmi alla pubblica visione». Gli Aboutaam consegnano al direttore del mu-seo perfino l’unico catalogo antico dei marmi Torlonia, edito nel 1885, che avevano ricevuto dai Russo. A fine anno il Getty ottiene anche il lavoro preparato dalla Electrum: il suo diretto-re riceve a New York il già citato «dossier pesante 12 pounds», sei chili, con «migliaia di immagini». «Nel gennaio 2014», continua il documento lega-le, «Potts e il Getty identificano una lista di sculture che il museo è interessato a controllare o acquisire» e il direttore spedisce agli Aboutaam un elenco di 119 statue che vorrebbe vedere a Roma. La Electrum scrive una lettera nella quale, insie-me a Hisham, chiede udienza al principe e glie-la trasmette tramite i soliti Russo. Don Alessandro esprime «un sincero apprezza-mento per l’interesse del Getty alla collezione, pur fa-cendo presente che non ne potevano essere ceduti dei singoli pezzi». L’incontro, il 16 gennaio, a Roma. Il giorno dopo, Potts è accompagnato in Vatica-no, dove visita «la cappella privata del papa, atti-gua alla Sistina, e i quartieri in cui vivono il papa e i dignitari vaticani» (non vengono citate le Stanze

di Fabio Isman. Nostro servizio esclusivo

Dall’alto in senso orario, Villa già Albani ora Torlonia in un’incisione di Piranesi, uno degli affreschi della Tomba François e il «Rilievo di città» del II secolo del Museo di Celano

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Palazzo Mancini, l’edificio romano che avrebbe dovuto ospitare il Museo Torlonia di proprietà del Getty, in una stampa di Piranesi. Qui sotto, Vecchio da Otricoli, uno dei 620 marmi della Collezione Torlonia

L’attività, non limpidissima, degli AboutaamQuello degli Aboutaam non è un nome inedito per l’arte. A partire dal 1960 è stato un commerciante assai celebre il padre, Sulei-man, morto con la moglie in un incidente aereo in Canada nel 1998; alla partenza, aveva dichiarato di trasportare un dipinto di Picasso, diamanti e gioielli: la Swissair indennizzerà i tre figli (i due fratelli Ali e Hisham e la sorella Noura) con 200 milioni di dollari. La loro società, la Phoenix nata a metà degli anni Sessanta, ha rifornito di antichità molti dei maggiori musei. I due fratelli sono stati più volte indagati: perquisita un anno fa la sede di Bruxelles; investigati per sottrazione di materiali archeologici in Egitto e Me-dio Oriente; restituiti pezzi provenienti dalla Mesopotamia trovati in Svizzera in loro possesso. Ali era stato anche condannato a 15 anni in Egitto, e per questo arrestato in Bulgaria. Ma poi il caso fu risolto. Non occorre aggiungere che si sono sempre dichiarati estranei a qualsiasi traffico illecito, ma hanno lasciato tracce an-che nelle inchieste italiane.

Nel Porto franco di GinevraGli Aboutaam possedevano dei locali nel Porto franco di Ginevra, come anche Giacomo Medici, il mercante italiano condannato a

otto anni. Durante le indagini del 2001 contro Medici, Robert Hecht (che nel 1972 aveva venduto al Metropolitan Museum di New York il Cratere di Eufronio) e Marion True (curatrice per le antichità al Get-ty), il pm Paolo Giorgio Ferri ha sequestrato in quei depositi «300 reperti e cinque pannelli di affreschi», materiali spesso di scavo as-sai recente la cui origine italiana è documentata dalla perizia degli archeologi Daniela Rizzo e Maurizio Pellegrini. I legami tra Giacomo Medici e gli Aboutaam erano stretti. Avevano stipulato un «accordo di partenariato» per acquistare insieme una collezione di vasi anti-chi: Medici stanzia due milioni di dollari, loro uno. Per Pietro Casa-santa, il «re dei tombaroli» come lo definisce il «Wall Street Journal» in prima pagina, i locali dei due fratelli erano «grandi come la cupola di San Pietro, con un magazzino che a girarlo tutto ci vuole la moto».

Un vaso da un milioneTra i materiali restituiti all’Italia c’è un’Hydria ceretana alta 40 cm e del diametro di 20 decorata con la Fuga di Ulisse dall’antro di Po-lifemo. Era al Metropolitan e apparteneva alla collezione di Shelby White, vedova del miliardario Leon Levy che ha finanziato con 20 milioni di dollari la nuova ala greco-romana del museo newyorkese.

Pellegrini ha ritrovato il cratere, ancora sporco di terra e da restaura-re, tra le migliaia di foto e polaroid di Medici. Shelby White ha detto di averlo acquistato dagli Aboutaam per 1,2 milioni di dollari.

Da dove viene il cratere?La tomba di un ignoto princeps ad Ascoli Satriano ha restituito dei capolavori tra cui il Trapezophoros del 300 a.C.: due grifoni che sbranano una cerva. Che l’avesse venduto Medici il Getty lo sapeva già dal 1985: lo scrive in un suo rapporto interno Arthur Houghton, allora direttore delle antichità del museo. Scrive di aver parlato con il «trafficante» e che in quella tomba vi era anche «un discreto nume-ro di vasi del Pittore di Dario», il più importante narratore di scene mitologiche della ceramografia apula. Pellegrini ne ha identificati molti dai numeri in sequenza delle polaroid di Medici in cui figurano alcuni vasi e il Trapezophoros ancora da restaurare. Proprio nel me-desimo tempo il Museo di Berlino acquista ventun vasi apuli, alcuni dei quali di Dario, e li dichiara provenienti dalla medesima tomba e quattro di questi sono tra le foto Medici. Un altro, a mascheroni con scene dell’Iliade, era invece esposto nel 2016 a New York, in uno stand del Tefaf: era quello della Phoenix. q F.I.

Il pm: io li ho conosciuti beneHicham e Ali li ho conosciuti bene. Il primo a parlarmene, nel 1997 o 1998, era stato Walter Guarini, uno che coordinava dei «tombaroli» pugliesi. Mi disse che, anche dopo il sequestro dei suoi magazzini, Giacomo Medici, l’unico grande mercante di arte illecita condannato in Italia, operava ancora in Svizzera proprio grazie ai due fratelli Aboutaam. La mia indagine su loro cominciò qui. Un paio d’anni dopo vidi i documenti sequestrati a Medici nel Porto franco di Ginevra: confermavano uno stretto rapporto tra lui e loro; quantomeno dagli anni ’90 si erano associati per gestire un vasto traffico di reperti archeologici trafugati ed esportati clandestinamente dall’Italia e da altri Paesi del Mediterraneo.A quel punto chiesi una rogatoria in Svizzera per perquisire nella città elvetica i locali della loro Phoenix Ancient Art e i depositi nel Porto franco utilizzati dalla società Inanna, anch’essa degli Aboutaam. Era il 15 febbraio 2001. Nel negozio capii subito quanto fosse lucroso commercializzare reperti archeologici. In Italia i pochi esercizi quasi nascondevano la mercanzia; là in mostra c’era di tutto e di più, quasi un museo. Ero esterrefatto. I Carabinieri che erano con me indicarono al giudice svizzero cinque oggetti di sicura provenienza italiana: vennero sequestrati senza una reale opposizione del personale nel ne-gozio. Tornammo in albergo confusi: ci pareva di essere i soli a opporci a questo commercio, quasi profanassimo veri e noti santuari; ci trovavamo in una dimensione che sino ad allora aveva tollerato, se non condiviso, tanta attività e ci pareva di avere troppo pochi strumenti per fronteggiare quella che, comunque, appariva una vera e propria provocazione. L’indomani fu la volta del Porto franco. Il direttore ci disse che lì non c’era nessuna società Phoenix. Riflettendo sul da farsi seduti su una panchina del cortile, i due Carabinieri insistevano: sapevano anche a che piano e che numero erano i locali che ci interessavano. Tirarono fuori le foto dei fratelli e decisero di chiedere al giudice svizzero di verificare se uno di loro si trovasse in quei locali, che erano quelli della società Inanna. Uno degli Aboutaam era lì. Entrati, ci accorgemmo che rispetto al loro negozio era tutta un’altra cosa: nessun fasto nei magazzini ad eccezione dell’ufficio di almeno 40 metri quadrati. Subito vediamo una grande testa, credo di Giove. Ogni locale era dedicato a una diversa civiltà antica e quella egizia era la meglio rappresentata: almeno 300-400 metri quadrati di esposizione. Sarcofagi e suppellettili di una qualità che forse neppure la tomba di Tutankhamon conteneva. E decine di reperti italiani, ancora sporchi di terra, evidentemente frutto di recenti scavi illeciti. All’interno di alcuni anelli, ancora incastrate le falangi. E tanti documenti riguardavano i due fratelli e Medici: gli pagavano somme importanti per «consulenze», anche se non era un esperto d’arte. Nei computer c’era molto più; il giudice però ci vieta di trarne una copia. Ma le acquisizioni probatorie sono importanti. Tempo dopo, ricevo in ufficio Hicham. A Ginevra era stato un sollecito padrone di casa, per nulla turbato. Ci aveva anche offerto da bere. A Roma si dice vittima dei traffici illeciti. Propone di istituire una banca dati dei reperti detenuti dai collezionisti e dai mercanti, parla di possibili sponsor. Mi dimostro interessato. Gli chiedo se era disponibile a restituire i beni italiani di dubbia liceità: è perplesso, ma non dice di no. Alla fine, io archivio tutto: erano giunti i termini della prescrizione, ma la sentenza Medici ne afferma il contributo associativo. A proposito: di quella banca dati non ho mai più saputo nulla. q Paolo Giorgio Ferri già sostituto Procuratore della Repubblica a Roma

di Raffaello, e parrebbe che non veda neppure gli affreschi di Michelangelo...). Ai Russo viene chiesto di trasmettere al princi-pe l’accordo di riservatezza stipulato negli Sta-ti Uniti. In una lettera destinata a quest’ultimo Potts conferma che «le sculture sono potenzialmen-te di grande interesse per il Getty Museum». Poi, il 18 aprile dello stesso 2014 «incontra di nuovo il principe e altri esponenti della famiglia». Il museo chiede e ottiene, il 27 giugno 2014, il primo catalogo della collezione, quello dell’Ottocen-to, ma subito dopo «interrompe improvvisamente le comunicazioni» con gli Aboutaam. Otto mesi più tardi, nel giugno 2015, il principe, sempre stando all’atto giudiziario, «diventa ansioso per-ché non ha più ricevuto notizie dal Getty» e tuttavia comunica ai fratelli libanesi (o all’Electrum) che non intende dar seguito alla vicenda, an-che perché «le leggi italiane non rendono possibile un coinvolgimento del museo».Questo nonostante gli Aboutaam e le so-cietà a loro collegate avessero «ideato un progetto segreto, strutturato in modo tale che il Getty sarebbe diventato il proprietario della collezione e, in maniera legittima per le norme italiane, si sarebbero potuti tem-poraneamente esportare dei suoi pezzi che fossero d’interesse per il museo». Gli ultimi atti della vicenda datano al 2015. In maggio «Livio Russo chiede ai ricorrenti (gli Abouta-am) se può contattare diretta-mente il museo» e gli viene risposto che questo viole-rebbe l’accordo di segre-tezza. In estate un nuovo incontro di Electrum con Potts al Getty e il nipote Torlonia vola fino a Los An-geles. Nel medesimo anno, in maggio, il progetto pen-

sato dagli Aboutaam era stato «sottoposto a Gino Famiglietti», al tempo uno dei diret-

tori generali del Ministero. Un parere legale sulla legittimità della struttura con cui poter «temporaneamente esportare le sculture Torlonia» è commissionato dagli Aboutaam all’ex avvoca-to dello Stato Maurizio Fiorilli, che molto si era prodigato per il ritorno in Italia, all’inizio degli anni Duemila, delle opere scavate di fro-do e acquistate dai musei americani, special-mente il Getty. Il resto della vicenda è noto: nel 2014 i Torlonia costituiscono una fondazione presieduta dal nipote del principe, Alessandro Poma Mu-rialdo; nel 2016 stipulano un accordo con il Governo italiano, il cui primo atto è la mostra che avrebbe dovuto aprirsi il 4 aprile in Palaz-zo Caffarelli e che è stata rimandata a data da decidere. Gli Aboutaam vedono in questo an-che lo «zampino» del Getty che, come il Lou-vre, dovrebbe poi ospitare l’esposizione e che avrebbe utilizzato i materiali e il lavoro ricevu-

ti, in via confidenziale, proprio da loro. Si sentono defraudati dalle royalty per la vendita o per l’esposizione della col-lezione, conteggiate in 77 milioni di dollari. Il processo, tuttavia, finisce in un nulla di fatto. Non si era mai saputo di una simile

valutazione della raccolta, né della disponibilità dei

Torlonia a cederla con una modalità che ne permettesse di nuovo la pubblica visione, e tanto meno di un coin-volgimento del Getty. Come era ignoto l’in-

teresse dei due fratelli Aboutaam, tra i maggiori

mercanti d’antichità al mon-do, ma dal passato qualche volta

oscuro (cfr. box qui sotto).

Da sinistra, il Trapezophoros ex Getty di Ascoli Satriano, l’Hydria ceretana da restaurare in una foto di Medici, l’Hydria ceretana restituita dal Metropolitan Museum di New York e ora a Villa Giulia a Roma, il cratere a mascheroni di Dario esposto nel 2016 al Tefaf di New York e il Cratere di Dario, appena scavato di frodo e ancora in frammenti tra le foto di Medici

Uno dei magazzini

di Giacomo Medici

al Porto franco di Ginevra

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18 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

A cura di Alessandro Martini

Il Giornale del TURISMO culturale

La Caffarella, cuore del Parco dell’Appia Antica sognato da Cederna e La ReginaRoma. Dopo 24 anni di lotte per salvare e tutelare l’intera area dell’Appia Antica, a cominciare da quelle storiche di Antonio Cederna e Adriano La Regina, tutti i 130 ettari della Caffarella, cuore verde e archeologico del Parco, sono diventati proprietà del Comune. Finalmente sarà possibile valorizzare l’intera zona recuperando monumenti romani e percorsi nel verde finora non accessibili al turismo. Sono state infatti espropriate, dopo lunghe battaglie legali, le ultime aree ancora in mano privata, soprattutto l’antico casale di Vigna Cardinali (nella foto). Altri gioielli dell’antica Roma, già pubblici ma in degrado, aspettano il restauro: il ninfeo della Fonte Egeria, i sepolcri di Annia Regilla del II secolo d.C. e Sant’Urbano. E Simone Quilici, direttore del Parco Archeologico dell’Appia, è pronto ad avviare nuovi scavi nella zona espropriata. q Tina Lepri

Panorama dall’alto degli Champs-Elysées da place de la Concorde, secondo il progetto di Philippe Chiambretta, e una vista delle corsie autobilistiche ridotte da otto a quattro

Parigi

Cambiano gli Champs-Elysées: mille alberi e metà autoUn progetto da 150 milioni di euro per «la più bella avenue del mondo», in mano ai turisti e sempre meno amata dai parigini

Parigi. Gli Champs-Elysées sono anco-ra «la più bella avenue del mon-do»? Che si tratti di una delle strade più famose e di uno dei simboli della capitale francese è tuttora vero (seb-bene oggi deserti, in piena emergenza Coronavirus) e la Francia, il Paese con più turisti al mondo, si guarda bene dal metterlo in dubbio. Per i parigini invece è un’altra storia. Un sondaggio Ifop dello scorso anno ha mostrato che gli abitanti della capitale non amano gli Champs-Elysées. Il 71% di loro ritiene che siano un luogo solo «turistico» e ben il 40% considera «illegit-timo» il titolo di «più bel viale del mondo». La famosa strada è «rumorosa» per il 26%, «artificiale» per il 19%, «stressante» per il 13%, «pericolosa» per il 10%. Il 9% pensa che sia «démodé». A salvarne un minimo la reputazione è un 16% che la considera «fonte di orgoglio». I parigini non solo non amano gli Champs-Elysées, ma li snobbano. Tra 200mila e 300mila persone si affolla-no ogni giorno lungo il viale di quasi 2 chilometri (1.910 metri per l’esat-tezza) che dalla place de la Concorde sale fino all’Arco di Trionfo. Ovvero tra 70 e 100 milioni di persone all’anno. Ma di questi, il 68% so-no turisti (più dell’85% stranieri), stando ai dati del Comité Champs-Elysées, l’associazione che dal 1916 promuove l’immagine del viale (a cui si deve tra l’altro l’illuminazione natalizia, che si svolge tutti gli anni come se fosse un grande spettacolo in presenza di star internazionali). Gli Champs-Elysées sono un luo-go carico di storia e di simboli. Fu l’architetto paesaggista di Versail-les André Le Nôtre a disegnarli su richiesta del Re Sole nel 1664 dove c’era ancora solo campagna. Dal 1834 il loro allestimento fu affidato a Jakob Hittorff, che creò i giardini e trasformò la place de la Concor-

de. È sugli Champs-Elysées che il generale De Gaulle marciò nel 1944 alla Liberazione e che ogni anno si celebra il 14 luglio. Vi si trovano l’Eliseo, teatri prestigiosi, il Grand e il Petit Palais. È sempre qui che i francesi festeggiano le vittorie calci-stiche e non per niente i Gilet gialli vi hanno manifestato per mesi. Ma è da tempo che non sono più come nelle pagine di Marcel Proust e nei film di Godard. Troppi negozi di lusso, troppe catene di abbiglia-mento e di street food, sempre meno artigiani e cultura, meno cinema e librerie. E poi troppo ru-more e inquinamento. Il 27 gennaio 2020, «Le Monde» ha pubblicato una lettera aperta dal titolo esplicito «Gli Champs-Elysées devono tornare a essere il più bel viale del mondo», firmata da numerose personalità, tra cui l’urbanista e architetto Philippe Chiambretta, fondatore dell’agen-zia Pca-Stream. Con l’appoggio del Comité Champs-Elysées nell’ultimo anno e mezzo Chiambretta ha por-tato avanti uno studio insieme a un team di scienziati, economisti, operatori culturali per «reinventa-re» il viale e «restituirlo» ai parigini. Da tutto questo è nato un progetto da 150 milioni di euro. Dallo stu-dio, intanto, sono emerse alcune im-portanti constatazioni. I parigini che vanno a passeggiare con amici o in famiglia ai piedi dell’Arco di Trionfo sono solo il 5% delle persone che vi transitano ogni giorno. Il viale è una grande «autostrada urbana»: vi circo-lano 64mila automobili al giorno. Il livello di diossido di azoto può raggiungere gli 80 microgrammi per metro cubo, il doppio dei limiti fissa-ti dall’Organizzazione Mondiale del-la Sanità. E l’inquinamento acustico è altissimo, con livelli sonori di 68-75 decibel. I suoi giardini (24 ettari)

sono 40 volte meno frequentati del vicino Parc Monceau (8 ettari). Il progetto di Chiambretta prevede di dimezzare la circolazione automo-bilistica portando le corsie da otto a quattro e di ridurre l’inquinamento sonoro installando un rivestimento silenzioso al posto dei pavé. L’archi-

tetto intende rendere pedonale il ponte Alexandre III e l’avenue Win-ston Churchill. Prevede di piantare oltre mille alberi e triplicare gli spazi verdi anche ai piedi dell’Arco di Trionfo e in place de la Concorde. Il centro della piazza diventerebbe a sua volta pedonale per formare un’unica

passeggiata fino al parco delle Tuile-ries. Spunterebbero piste ciclabili e nuovi chioschi, spazi per lo sport e aree di gioco per bambini nei giardi-ni. Nel settore più commerciale del viale si prevede di dare più spazio alla passeggiata con panchine e fontane e piantare alberi grandi per aumen-tare l’ombra. Chiambretta più che di progetto parla di «visione» per il viale a scadenza 2030. I parigini sono chia-mati a partecipare e a esprimere opi-nioni e consigli online. Non si sa se questo progetto «chiavi in mano» sarà mai realizzato. La questione su come rendere più verde e meno inqui-nata una città come Parigi, tra le più affollate d’Europa, per far fronte al cambiamento climatico è stato al cen-tro dei dibattiti per le elezioni muni-cipali (il primo turno si è tenuto il 15 marzo, mentre il ballottaggio è stato rinviato a giugno a causa della crisi del Covid-19). Chiambretta ha presentato il suo progetto a tutti i candidati, di destra e sinistra, e lo ha messo a dispo-sizione del nuovo sindaco. q Luana De Micco

Esplorazioni e trouvailles di Marco Riccòmini, storico dell’arte giramondo

Il viaggiator cortese

Il senso di Leighton per il faunoMuove un passo sulle punte dei piedi in un equilibrio che parrebbe precario se non fosse che, senza un filo di grasso, gli basta carezza-re l’aria con le dita per bilanciarsi. La chioma è così arruffata, quel che si direbbe un diavolo per capello, che quasi non si distinguono le corna caprine. Il «Fauno danzante» (nella foto in basso) balla da solo nella Leighton House a Londra, la casa-studio che Frederic, Lord Leighton (1830-96), pittore e scultore, allievo in Italia del garibaldino Giovanni «Nino» Costa

(1826-1903), si edificò attorno a una moresca Arab Hall decorata con marmi e piastrelle raccolti in Medio Oriente. Il bronzo copia fedelmente quello al Museo Archeologico Nazionale di Napoli rinvenuto agli inizi dell’Ottocento nella domus gentilizia di Pompei detta, per via di quel ritrovamento, Casa del Fauno. A firmarlo non è «G. Tommei» (come dal sito del museo londinese) bensì G. Sommer (come si legge alla sua base), ovvero Giorgio Sommer (1834-1914), che da Francoforte sul Meno si trasferì a Napoli, affermandosi come uno dei più noti fotografi d’Europa. Non pago del successo ottenuto dietro l’obiettivo, aprì una fonderia che sfornava souvenir per turisti. Il «Catalogo di Bronzi e Terracotta della Fonderia Artistica-Industriale G. Sommer & Figlio» offriva un ampio campionario di copie dall’antico in patina «Moderna» (bruno lucido brunito), «Ercolano» (verde scuro quasi lucido) o «Pompei» (verde e blu non brunito) e, al n. 126, era in vendita il Fauno danzante «imitazione originale» disponibile nelle versioni «pocket» (23 cm), «queen» (41 cm) o «king size» (83 cm), come quello a Leighton House (in patina «moderna», tra tutte la più cara, al prez-zo di 140 lire). Del mondo antico, l’esteta inglese era sedotto dalla «assenza di qualsiasi bruttura»; «perché l’istinto di ciò che è bello [...] bandisce tutto ciò che è sgraziato e sgradevole alla vista». Come il corpo tornito del Fauno alessandrino, fuso a Napoli e finito a Londra, ci ricorda, plasticamente.

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Neri Pozza

Slow travelling da Londra a IstanbulIn sette mesi Nick Hunt ha ripercorso l’itinerario del celebre viaggio di Patrick Leigh Fermor del 1933

Quando Patrick Leigh Fermor (1915-2011) lasciò questo mondo, «The Guardian» lo ricordò come «soldato, viaggiatore e scrit-tore». Secondo la migliore tradizione britannica, appena raggiunta la maggiore età partì per un lungo viaggio solitario. Ad attrarlo era allora Istanbul, porta dell’Oriente, che decise di raggiungere a piedi, viaggiando «come un vagabondo, un pellegrino o un chierico vagante». Il vapore lo sbarcò a Hoek van Holland, a circa 2.627 chilometri dal Corno d’Oro. Google Maps assicura oggi che quella distanza si può coprire a piedi in «sole» 538 ore, ossia poco più di 22 giorni (a patto, bene inteso, di non fer-marsi mai). Ma l’intrepido inglese non aveva fretta: il suo era un viaggio «di formazione». E così pure Nick Hunt, che nel dicembre 2011, 75 anni dopo «Paddy» (com’era chiamato dagli amici Patrick Leigh Fermor), si risolse a ripercorrerne le orme, impiegando sette mesi per raggiungere il Bosforo. Da quella lunga camminata attraverso Olanda, Germania, Au-stria, Slovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Turchia, nasce Camminando fra i boschi e l’acqua. Dalla punta dell’Olanda al Corno d’Oro sulle tracce di Patrick Leigh Fermor, appena dato alle stampe da Neri Pozza (nell’encomiabile collana «Il cammello battriano» curata da Stefano Malatesta, Ndr). Quello del giovane Hunt è per scelta un «viaggio senza mappe», come quello compiuto da Graham Greene in Liberia nel 1935. Senza mappe ma non senza internet, visto che i pernottamenti gli vengono offerti grazie alla rete di Couchsurfing, però i suggerimenti della rete si limitano a questo. Come Baedeker si affida, infatti, ai soli sgualciti testi di Leigh Fermor (pubblicati in Italia da Adelphi), che, in vista della meta, affida alla corrente del Danubio (metafora del distacco dal «padre»?). Dopotutto, il giovane inglese ha il fiuto dell’esploratore nel sangue («Hunt» significa «caccia») e indossa con agio i panni archetipici del viaggiatore in terre sconosciute. E se «un viaggio fa bene alla salute, fisica e mentale», come dice il Profeta (e come gli ricorda un fedele di Maometto lungo la strada), la fatica accompagna la marcia di chi l’ha presa sottogamba (è il caso di dire), ossia senza previo allenamento. Partito con un paio di scarponi e sacco in spalla

alla ricerca di che cosa fosse cambiato da quell’Europa distante ottant’anni, dopo una guerra ed epocali rivoluzioni politiche e sociali, il narratore scopre che, in fondo, nulla è davvero cambiato. E se nei suoi ap-punti non vi è spazio per il turismo culturale, questi sono, invece, pieni di curiosità per «la storia ed esistenza di altre persone». Un manuale di «Slow Travelling», che ci mette voglia di metterci in cammino, sapendo che il viaggio sarebbe diverso per ognuno di noi. Specie per chi volesse tornare sui propri passi a distanza di anni perché, come direbbe Eraclito, «nessun uomo calpesta due volte la stessa strada». q Marco Riccòmini

Camminando fra i boschi e l’acqua. Dalla punta dell’Olanda al Corno d’Oro sulle tracce di Patrick Leigh Fermor, di Nick Hunt, traduzione di Laura Prandino, 368 pp., Neri Pozza, Vicenza 2020, € 19,00

Da sinistra, Liam Gillick, Tom Eccles, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, Mark Rappolt, Maja Hoffman e Jorge Pardo

How to Spend it-Il Sole 24Ore

Visite nelle case dei collezionistiPatrizia Sandretto raccoglie 60 interviste a protagonisti dell’arte contemporanea: una guida alle loro opere ma anche alle città che le accolgono

Torino. Patrizia Sandretto Re Rebau-dengo di collezionismo ragiona da anni: «Ciò a cui tengo è un collezionismo che sia accessibile e non autoreferenziale», afferma. Questa visione è evidente nel recente volume Viaggi d’arte. Giro del mondo con 60 collezionisti, che rac-coglie le interviste pubblicate fin dal 2014 sulla rivista mensile «How to Spend it», allegata a «Il Sole 24Ore» (su richiesta della direttrice Nico-letta Polla-Mattiot). Sono il frutto di colloqui tra Patrizia Sandretto e col-lezionisti internazionali, alcuni ce-leberrimi, altri pochissimo noti ma con punti in comune, a partire dall’a-pertura delle proprie collezioni al pubblico e dalla presenza in esse di opere di alcuni artisti internazionali che si ripetono nelle collezioni degli uni e degli altri (tra gli italiani, Lucio Fontana, Alighiero Boetti, Giuseppe Penone e Maurizio Cattelan). Il libro spiega molto del mondo del collezionismo pensato per essere condiviso con la collettività, seppur con modalità molto diverse. C’è chi ha costituito un’apposita fondazio-ne, chi un museo vero e proprio, chi apre le proprie sale per occasioni sporadiche (e talora molto glamour), chi si dedica a prestiti per esposi-zioni internazionali. C’è chi, come Désiré Feuerle, ha aperto il suo museo a Berlino in un ex bunker della seconda guerra mondiale, nel quale sono accostate opere contem-poranee con mobili imperiali cinesi e antiche sculture Khmer. Ci sono i francesi Sylvain e Dominique Le-vy che hanno un numero definito di opere (non più di 350) visibili online in una sorta di museo virtuale. C’è lo svizzero Uli Sigg (la cui collezione è oggi esposta nel Castello di Rivo-li, momentaneamente chiusa per l’emergenza sanitaria; cfr. lo scorso numero, p. 40), che è ritenuto il più grande collezionista di arte contem-poranea cinese. C’è il cinese Micha-el Xufu Huang che ha comprato la sua prima opera a 16 anni e a 20 ha cofondato il museo M Woods di Pe-chino (dal quale ora si è ritirato). C’è il greco Dakis Joannou, il primo a essere intervistato, diventato famo-so tra il grande pubblico per il suo yacht disegnato da Jeff Koons, arti-sta del quale lui stesso afferma: «Se non lo avessi incontrato a New York, non sarei mai diventato un collezionista». Ma il volume non è soltanto una carrellata di volti, di opere e di stra-tegie collezionistiche. «È un libro che

serve anche come guida per visitare luo-ghi, spiega Patrizia Sandretto, perché ogni collezionista racconta qualcosa della sua città e dà consigli al lettore. Musei e fondazioni da visitare ma anche infor-mazioni di carattere turistico». q Alessandro Martini e Maurizio Francesconi

Viaggi d’arte. Giro del mondo con 60 collezionisti, di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, prefazione di Hans Ulrich Obrist, introduzione di Jean-Christophe Babin, 184 pp., ill. col., How to Spend it-Il Sole 24Ore, Milano 2019, € 25,00

Che cosa consiglianoQuali musei frequentare, quali gallerie visitare, quali negozi e ristoranti? Ognuno dei protagonisti del volume Viaggi d’arte. Giro del mondo con 60 collezionisti, di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo (cfr. articolo sopra) propone una generosa serie di consigli. Ad Atene, Dakis Joannou suggerisce i musei Goulandris, Benaki e l’Archeologico, oltra a una notte in due dei suoi hotel: il Semiramis, disegnato da Karim Rashid, e il New, dai fratelli Campana. Füsun Eczacibasi consiglia, a Istanbul, il Museo dell’Innocenza di Orhan Pamuk e la fiera Contemporary Istanbul. A Buenos Aires, Juan e Patricia Vergez raccomandano i musei Malba e Mamba e una cena al ristorante Casa Cavia; Francesca von Habsburg, a Vienna, il 21er Haus e il Sofitel disegnato da Jean Nouvel; Maja Hoffmann, ad Arles, la Chassagnette, «il mio ristorante di campagna preferito al mondo»; in Cina Adrian Cheng suggerisce l'Oct Art Terminal di Shenzhen e il Vivienne Westwood Café nel centro commerciale K11 di Shanghai; a Baku in Azerbaigian, Suad Garayeva il Centro Heydar Alyev di Zaha Hadid e la cena tradizionale del Caravanseray; a Copenaghen Jens Faurschou consiglia il negozio di design Oliver Gustav Studio e come museo la David Collection. Infine, Simon e Michaela de Pury segnalano i loro «migliori indirizzi nel mondo»: il negozio Plum a Beirut, l’hotel The 13 a Macao, progettato da Peter Marino, e il Sushi Park di Los Angeles. q Al.Ma.

Viaggi di cartaIl difficile viaggio di Rom e SintiArtista genovese che vive tra Milano e Berlino, Luca Vitone in-centra la propria opera sull’ambiente e la ricerca delle origini da parte dell’uomo. Esemplare di questo percorso, il progetto Romanistan «si sviluppa con un libro, un film e una mostra che raccontano per immagini e parole la storia di un popolo che si è costituito nei secoli durante un lento viaggio migratorio e ha tro-vato nella musica, e nella lingua, gli elementi con i quali identifi-carsi e rappresentarsi al mondo», scrive Vitone nel volume edito da Humboldt. Il popolo è quello di Sinti e Rom, di cui Vitone, partendo da Bologna, segue a ritroso la lunga migrazione fino a Chandigarh. Promosso dal Centro Pecci di Prato, il progetto è il diario di un viaggio durato sei settimane, alla scoperta di persone e paesaggi. La tappa iniziale, Bologna, conserva il più antico documento italiano a parlare del popolo Rom (1422), mentre quella finale, la lecorbusiana Chandigarh, pur trovando-si in quell’India che custodisce le origini di questo popolo, viene scelta da Vitone come «tardo gesto colonialista di stampo autori-tario, presuntuoso e invasivo». Anche grazie all’incontro con una borghesia intellettuale Rom (politici, attivisti, docenti universita-ri...), Romanistan invita a riflettere non solo sul significato del viaggio nella società contemporanea, ma anche sul tema delle

antiche e nuove migrazioni, dell’integrazione sociale e dell’abbattimento degli stereotipi. q Elena Franzoia

Romanistan, fotografie di Luca Vitone, testi di Daniele Caspar, Cristiana Perrella e Luca Vitone, 192 pp., ill. col., edizione italiano-inglese, Humboldt Books, Milano 2019, € 25,00

Come sono i newyorkesiElisabetta Cirillo, sconfitta da un tumore nell’ottobre scorso, è l’autrice di «New York Mania», un volume sulla Grande Mela che sta a cavallo tra guida turistica e libro di curiosità nello stile tipico da blogger prestata all’editoria. Capitoli brevi e suddivisi per argomenti, ottimo ritmo, un grande uso della lingua inglese così da avvicinare il lettore all’esperienza che lo attende e curiosità varie sulla città che forse più di qualun-que altra fa sognare il turista. Senza dimenticare i consigli. Uno tra tutti è la differenza tra il newyorkese da stereotipo (aria sospettosa, abiti rigorosamente neri e un rapporto di

amore e odio verso la sua città) e le sue reali caratteristiche (incapacità di guidare e cucinare, attività ritenute superflue, oltre a un’attrazione naturale nei confronti di qua-lunque tipo di stranezza). q M.F.

New York Mania, di Elisabetta Cirillo, disegni di Monica Lovati, 224 pp., Rizzoli, Milano 2019, € 19,90

Giardini postindustrialiUn’inversione di tendenza grazie alla quale si sanano terri-tori devastati invece di cementificare paradisi naturali: così nascono giardini dove un tempo imperavano distruzione e inquinamento. Il volume Paradisi ritrovati di Annamaria Con-forti Calcagni traccia la mappa dei luoghi d’Europa nati da questo virtuoso cambio di rotta. In testa a tutti, la trasfor-mazione del bacino della Ruhr: «Le architetture industriali, figlie del Bauhaus, racconta l’autrice, poggiano oggi su prati e, circondate dal verde, sono finalmente apprezzabili nella loro qualità estetica. Proprio da questa riconversione, in una zona completamente devastata dalla ricerca di lignite che aveva azzerato le sue caratteristiche ambientali, è nata l’idea di questa pubblicazione. È incredibile come in vari luoghi in-dustriali d’Europa si siano creati siti di interesse turistico, in alcuni casi dove si entra pagando il biglietto, ma comunque dove, dismessa la vita produttiva, si genera cultura in un pa-esaggio ritrovato». Nella lista anche tre paradisi ritrovati in Italia: il Parco Dora lungo la «Spina 3» a Torino, il Parco mi-

nerario naturalistico di Gavorrano (Gr) e il Parco lineare nato sulla ferrovia dismessa tra Caltagirone e Piazza Armerina in Sici-lia. q Camilla Bertoni

Paradisi ritrovati, di Annamaria Conforti Calcagni, schede tecniche di Anna Braioni, 156 pp., ill. col., Aracne, Ariccia (Roma) 2019, € 20,00

Le case dei ricchi, ora popolariCome era già accaduto in Unione Sovietica, dopo la Rivolu-zione Cubana del 1959 il Governo trasformò ville e palazzi privati in alloggi popolari collettivi chiamati «solares». Alla vita che vi si conduce è dedicato Cuba. Vivir, con le imma-gini della giovane fotografa (italiana residente a New York) Carolina Sandretto. Scattate dal 2013 al 2017 con una Hasselblad analogica degli anni Cinquanta, le immagini del volume, che ripropone l’estetica di un vecchio album di fami-glia, restituiscono l’atmosfera di un viaggio privato e senti-mentale, che attraverso sensibili ritratti di luoghi, persone e oggetti personali (fotografie, statuette, ricordi di famiglia...) parla non tanto degli edifici, quanto dei loro abitanti. Come sottolinea infatti Walter Guadagnini nell’introduzione, «il cen-tro dell’attenzione è posto sulla figura umana catturata nella

sua dimensione individuale come nelle sue relazioni con gli altri; co-protagonista è l’am-biente domestico». q E.F.

Cuba. Vivir, di Carolina Sandretto, introduzione di Walter Guadagnini e saggio di Ileana Cepero, 216 pp., Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Mi) 2019, € 49,00

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20 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

Genius LociUn osservatore privilegiato, Francesco Bandarin, scruta il Patrimonio Mondiale

L’isola degli schiavi: Gorée, SenegalNella piccola isola di Gorée, situata a due chilometri di distanza da Dakar, venne creato dai portoghesi, nel 1444, il primo insediamento commerciale europeo in Africa (Foto 1). Nei secoli successivi, Gorée divenne un emporio di primaria importanza per i traffici commerciali tra l’Africa e le Americhe, oltre che un importante centro del traffico di schiavi dalla regione del Senegal e del Gambia verso le piantagioni dei Caraibi e degli Stati Uniti. Oggi questo sito costituisce uno dei più importanti memoriali della tratta negriera e, per questo motivo, nel 1978 è stato iscritto nella Lista del Patrimonio Mondiale. L’importanza dell’isola era dovuta soprattutto alla difficoltà di trovare scali adatti lungo tutta la costa africana dal Marocco fino al Golfo di Guinea. Per questo, l’isola fu al centro degli interessi delle potenze coloniali tanto da aver cambiato padrone ben 19 volte nel corso degli ultimi 500 anni, passando dalle mani dei portoghesi a quelle degli olandesi (che diedero il nome all’isola, da una provincia dei Paesi Bassi) e degli inglesi, per finire, a partire dal 1817, sotto i francesi, fino a quando entrò a far parte del Senegal indipendente, nel 1960. Prima del XVIII secolo, l’isola era un semplice scalo commerciale nel quale i mercanti europei restavano solo per brevi periodi, il che non giustificava la realizzazione di grandi infrastrutture. Vi erano solo dei piccoli forti che servivano per la difesa e anche per ospitare le funzioni commerciali. Ma, con lo sviluppo del commercio, a poco a poco i mercanti lasciarono i forti ai militari e si trasferirono nelle case degli abitanti africani liberi, che offrivano maggiori comodità. Da questo incontro ebbero origine le prime generazioni di meticci che si arricchirono con il commercio, costruirono abitazioni con struttura durevole e svilupparono l’insediamento urbano (Foto 2). L’isola fu un raro esempio di colonia europea dove convivevano, accanto a una popolazione europea e afroeuropea, africani liberi e anche schiavi, che arrivarono a costituire oltre la metà degli abitanti. I dati storici e archeologici evidenziano situazioni assai disparate: accanto al duro trattamento degli schiavi destinati alla tratta, esistevano situazioni in cui essi venivano accolti nelle

famiglie, in un modello di società creola, simile a quelle che si venivano formando nei Caraibi, dominata da commercianti meticci che detenevano il potere economico e politico. L’espressione più emblematica di questa società era costituita dalle cosiddette «signares», donne africane o meticce (Foto 3) le quali disponevano di proprietà che, secondo un uso matrilineare, potevano essere lasciate in eredità ai figli. Esse rappresentavano, con il loro gusto per i bei vestiti e le toilette ricercate, lo spirito di «douceur de vivre» che predominava nell’isola. I francesi tenevano molto al possesso di Gorée, perché erano convinti che fosse il punto di forza che impediva agli inglesi di espellerli dalla costa occidentale dell’Africa. Le navi negriere non potevano restare nella rada dell’altra colonia francese a nord, Saint Louis, perché il sito non aveva approdi sicuri. Si fermavano pertanto a Saint Louis solo lo stretto necessario per lo scarico e carico delle merci, e venivano poi ormeggiate a Gorée, dove venivano imbarcati gli schiavi. Esistono a Gorée molti edifici di grandi dimensioni, accanto all’edilizia minore. Questi edifici avevano una funzione mista, di residenza e di deposito di mercanzie: principalmente cuoio, arachidi, avorio e gomma arabica. Al piano terra si trovavano i magazzini e le stanze dei «captifs de case», operai dipendenti da un padrone o da una padrona, e al piano superiore le abitazioni dei proprietari. La maggior parte degli edifici venne realizzata tra il XVIII e il XIX secolo, quando si sviluppò il commercio degli schiavi, sotto il dominio francese e, a intermittenza, inglese. Pur essendo edifici relativamente modesti, la loro architettura trovava ispirazione in quella dei grandi castelli francesi dell’epoca barocca, come appare evidente, ad esempio, nella scala a ferro di cavallo della Casa degli Schiavi (Foto 4). Questo edificio, costruito nel 1780-94 dal commerciante Nicolas Pépin, è diventato oggi il simbolo della tratta negriera e il principale luogo di memoria dell’isola. Qui si trova la celebre «porta del non ritorno» che gli schiavi attraversavano per essere imbarcati sulle navi negriere. Oltre a questo, esistono molti altri edifici importanti, oggi oggetto di restauri, come la Stazione di Polizia di Gorée (all’origine un dispensario medico, costruita sopra una cappella portoghese del

XV secolo), la neoclassi-ca Scuola William Ponty (1770), il Museo del Mare (1835), la Casa Victoria Albis, il palazzo del Gover-no del 1864. Nell’isola si trovano molte fortificazioni di epoche diverse, costru-ite dai portoghesi nel XV secolo, dagli olandesi XVII secolo, come il celebreForte Castel (Foto 5), restaurato nell’Ottocento. L’edificio più importante dell’isola è certamente il Forte D’Estrées (Foto 6), intitolato al maresciallo francese che conquistò l’isola nel 1677, scacciando gli olandesi. Si tratta di un forte edificato alla metà del XIX secolo come struttura di protezione militare dell’isola, utilizzata poi come prigione nel XX secolo e oggi trasformata in museo. Vi sono molte discussioni tra gli storici sul ruolo effettivo svolto dall’isola di Gorée nella vicenda della tratta negriera. Per molti, mancano le prove che l’isola fosse, come è stato sostenuto, il centro del sistema della tratta. Gli storici stimano a circa 11,5 milioni il numero di schiavi trasportati nelle Americhe durante i tre secoli di durata di quella pratica «commerciale». Di questi, circa il 4-5% (circa 500mila) provenivano dal Senegal, e molti di questi passavano per i porti di Saint Louis o dagli scali alla foce del fiume Gambia. Secondo questi studiosi, l’isola di Gorée sarebbe stata quindi un centro minore del sistema della tratta. Nonostante ciò, è innegabile che Gorée sia oggi il simbolo di una delle più grandi tragedie della storia umana e il principale luogo di memoria della violenza e delle sofferenze imposte per secoli a milioni di persone. Per questo motivo, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama la visitò nel 2013, e per questo continua a essere un luogo di pellegrinaggio di personalità e di visitatori da tutto il mondo.

q Francesco Bandarin è stato direttore del Centro del Patrimonio Mondiale e vicedirettore generale per la Cultura dell’Unesco dal 2010 al 2018.

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2 L’ISOLA DI GORÉE 3 SIGNARE CON LE LORO SCHIAVE 4 LA CASA DEGLI SCHIAVI 6 IL FORTE D’ESTRÉES5 IL FORTE CASTEL

Demolitori intelligentiTerracina (Lt). Gli amministratori del Comune la chiamano con orgoglio «demolizione intelligente». Dopo anni di polemiche sono finalmente riusciti a demolire un moderno palazzo costruito dentro il Teatro Romano del I secolo d.C. (nella foto), eccezionale struttura integra rimasta sepolta e sconosciuta fino ai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Per il restauro del teatro, nel centro della città sull’Appia Antica, sono state utilizzate pietre e marmi sottratti alle sue strutture. Per la sistemazione completa ci vorrà ancora tempo ma intanto il teatro è finalmente visibile. Grazie a Mibact e Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Frosinone, Latina e Rieti, per la rinascita di Terracina, che ha fatto del turismo d’arte il progetto pilota del Comune, i finanziamenti non mancano. Due milioni di euro per il teatro mentre sono già disponibili i fondi per altre opere in degrado: 800mila euro per la Chiesa del Purgatorio, 250mila per il Tempio delle Tre Celle, il Capitolium, e 500mila per la Chiesa dell’Annunziata del XIII secolo. q Tina Lepri

La cupola ha 600 anniFirenze. Al via le celebrazioni dei 600 anni della cupola del Duomo (nella foto), iniziata da Filippo

Brunelleschi il 7 agosto 1420. L’Opera di Santa Maria del Fiore ha predisposto un programma di iniziative per l’anno (concerti e spettacoli, libri, proiezioni notturne in video mapping 3D sull’esterno della Cupola, convegni, edizioni di libri e tour virtuali: http://cupola600.operaduomo.firenze.it). Il 25 e 26 settembre, nell’Antica Canonica di San Giovanni, è previsto il convegno internazionale «Attorno alla Cupola di Brunelleschi: cantieri di cattedrali a confronto (Italia, Francia, Spagna)», organizzato dall’Opera con la Deputazione di storia patria per la Toscana, mentre il 19 e 20 novembre sarà la volta del convegno «L’Uovo di Filippo. La Cupola di Brunelleschi fra storia, fortuna e conservazione», sui temi nati dalla presenza della cupola nel profilo paesistico di Firenze. Infine la Cupola, dal contesto storico alla sua fortuna nella letteratura e nell’iconografia alle pratiche di restauro e conservazione, è oggetto del ciclo di conferenze «Ricorrenze di Brunelleschi e Raffaello» (previsto fino a maggio ma ora sospeso per l’emergenza sanitaria e soggetto a nuova programmazione). q L.L.

Artisti e architetti per il «super metrò»Parigi. Il futuro super metrò di Parigi, il Grand Paris Express, che farà il giro della capitale su 200 chilometri, collegando diversi Comuni di periferia a scadenza 2025-30, non è solo un progetto urbano, ma anche artistico. In Francia esiste «l’1% artistico»: per legge, cioè, sin dal 1951 l’1% del budget totale investito per la costruzione di ogni nuovo edificio pubblico deve essere utilizzato per la creazione di opere d’arte. Il dispositivo ha permesso di finanziare finora più di 12mila opere. La Société du Grand Paris che gestisce il faraonico cantiere, lanciato nel 2016, prevede un budget «arte» di 35 milioni di euro (su un budget totale di 35 miliardi), che potrà essere raddoppiato con l’aiuto di mecenati privati. L’idea è di realizzare delle opere d’arte permanenti e monumentali in ognuna delle 68 stazioni del futuro metrò facendo lavorare insieme artisti e architetti. Per ogni stazione viene costituito un «tandem», associando un architetto e un artista. Al termine si costituirà «una grande collezione pubblica d’arte contemporanea», ad accesso libero per i 2 milioni di viaggiatori che prenderanno il metrò ogni giorno. La direzione artistica del progetto è stata affidata a José-Manuel Gonçalves, dal 2010 direttore del centro culturale Centquatre di Parigi, con la collaborazione anche di Laurent Le Bon, direttore del Musée Picasso Paris, e Alexia Fabre, conservatrice al Mac Valdi Vitry-sur-Seine. 36 «tandem» sono già al lavoro. Tra gli artisti coinvolti

Tatiana Trouvé, Ange Leccia, Susanna Fritscher, Laurent Grasso. Michelangelo Pistoletto è in duo con Thomas Richez per la stazione di Champigny, Daniel Buren con Jean-Marie Duthilleul per Sevran, JR con Benedetta Tagliabue per Clichy-Montfermeil. Abdelkader Benchamma rivisita le pitture rupestri per la stazione di Vitry, Pablo Valbuena installa i suoi Led a Issy e Stromae e Luc Junior Tam «piantano» un albero (nella foto) nella struttura disegnata da Kengo Kuma a Saint-Denis. Mostre, opere d’arte effimere, residenze di artisti accompagnano inoltre tutta la durata del cantiere. Un modo per coinvolgere gli abitanti dei Comuni interessati e per rendere i lunghi lavori meno pesanti per loro. q Luana De Micco

Nel Mattatoio e dintorniRoma. Fino a novembre una trentina di artisti, performer, danzatori, attori, musicisti animeranno il Mattatoio e sue zone limitrofe (quartiere Testaccio,

argini del Tevere) con performance, spettacoli e installazioni di arte urbana, in un progetto promosso da Azienda Speciale Palaexpo (e curata dal presidente Cesare Pietroiusti), all’insegna della coralità creativa e delle relazioni tra cultura, comunità e città. I docenti, italiani e non, invitati a intervenire al Master Arti Performative e Spazi Comunitari, trasformeranno infatti le loro lezioni in azioni e in percorsi nel territorio. Se, tutto o in parte, non verrà rinviato, il sound artist Daniele Roccato terrà le sue lezioni concerto dal 14 al 19 aprile, l’artista Chiara Camoni svilupperà le sue peregrinazioni urbane il 5-7 maggio, l’artista Francesca Grilli il 3-8 giugno, il curatore Andrea Lissoni terrà conferenze il 21-25 maggio. In programma anche gli appuntamenti, tra i tanti, con Luigi Presicce, il gruppo Stalker (nella foto, in occasione di una recente performance davanti al Colosseo) il musicista sperimentale Simone Pappalardo, l’attrice teatrale Annamaria Ajmone, l’architetto Guermán Valenzuela. L’intero progetto è realizzato in collaborazione con il Dipartimento di Architettura dell’Università Roma Tre e vedrà l’interazione con il Teatro di Roma-Teatro nazionale, l’Istituto svizzero, l’Accademia belgica e la Real Accademia di Spagna. q Guglielmo Gigliotti

21IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

A cura di Alessandro Martini

Il Giornale dei MUSEIA Brunico l’«Oscar dei musei»Berlino. Il ristorante AlpINN di Brunico (Bz, nella foto) si è aggiudicato l’Lcd Berlin Award 2020 come «Best Restaurant» di un museo. La VI edizione del premio, definito l’«Oscar dei musei», il 4 e 5 marzo ha assegnato i riconoscimenti, tra cui l’«Art Hotel» al The Fife Arms Hauser & Wirth, di Braemar, in Scozia, e la «Città Emergente» a Tbilisi, Georgia. Solo nel 2016 un progetto italiano si era aggiudicato il premio: la mostra «Proportio», a cura di Axel Vervoodt e Daniela Ferretti a Palazzo Fortuny a Venezia. Lcd (Leading Cultural Destinations) si affida a specialisti dei settori arte, turismo, progetti culturali e architettura per individuare le eccellenze mondiali e creare un network tra protagonisti della cultura e del turismo. In collaborazione con Visitberlin, la giuria (composta quest’anno, tra gli altri, da Matthew Anderson del «New York Times», Oliver Jahn, di «AD Architectural Digest» e Thierry Morel dell’Hermitage Foundation) ha scelto il ristorante del Lumen-Museo della fotografia di montagna di Plan de Corones, gestito dallo chef stellato Norbert Niederkofler e da Paolo Ferretti e i cui allestimenti sono stati curati dall’artista designer Martino Gamper. q Nicola Pirulli

Il padiglione multifunzionale battezzato «Libelle» e realizzato dall’architetto Laurids Ortner sopra il Leopold Museum di Vienna, all’interno del complesso del MuseumsQuartier

Austria

Una Libellula vola su ViennaIl nuovo padiglione sul tetto del Leopold Museum non ha ancora una destinazione ma offre un panorama straordinario sul MuseumsQuartier, sulla Hofburg e sul centro della città

Vienna. Con i suoi 90mila metri qua-drati, di cui 60mila per istituzioni culturali, e con una cinquantina di istituzioni votate perlopiù alle ar-ti e alla cultura contemporanee, il MuseumsQuartier (Mq) è uno dei principali magneti di Vienna. Ben 4,5 milioni di persone sono passate nel 2019 nei suoi ampi cortili per fre-quentare musei, sale teatrali, caffè e ristoranti.La commistione tra le nuove costru-zioni e gli edifici storici settecente-schi delle stalle imperiali progettate da Fischer von Erlach; il fatto che l’intero complesso sia strettamente pedonale e con cortili fruibili 24 ore su 24; la sua posizione in centro cit-tà, a due passi dai musei di Belle Arti e Storia Naturale, dalla Secessione, dal Palazzo imperiale, fin dall’aper-tura nel 2001 lo hanno fatto amare

subito non solo dai turisti, ma an-che e ancor più dai viennesi, che ne fanno uso quotidiano, non foss’altro che per utilizzarlo come scorciato-ia o per sedersi nei numerosi bar e ristoranti al coperto e all’aperto o sulle panche e panchine che la di-rezione ha disseminato ovunque, in nome di una fruizione libera da ob-blighi di consumo di cibi e bevande.Decidendo di cavalcare il succes-so, con lavori durati un anno e mezzo e un investimento da 7,5 milioni, la direzione del Mq ha rea-lizzato un primo ampliamento delle strutture a disposizione, piazzando sul tetto piatto del Leopold Museum un padiglione multifunzionale da 200 metri quadrati e 4 metri di altezza, battezzato «Libelle» (Li-bellula) e aprendo con due ascensori gratuiti, esterni all’edificio, la gran-

de terrazza da un migliaio di metri quadrati complessivi con vista pa-noramica sulla zona monumentale della città. Aperto ogni giorno dalle 10 alle 22, da aprile a novembre, il nuovo spazio non ha tuttavia accessi diretti dal Leopold Museum.L’idea di un ampliamento è partita diversi anni fa e ha trovato come interlocutore l’architetto Laurids Ortner, che assieme al fratello Manfred (partner nello studio Ort-ner & Ortner) aveva già progettato tutti i nuovi edifici del Mq. La rea-lizzazione è stata in carico alla dire-zione del Mq e non è ancora chiaro se il Leopold Museum avrà opzioni particolari di utilizzo o meno, né quale sarà il programma di eventi pensati dal Mq: «Per ora, fanno sa-pere, vogliamo lasciare campo libero al godimento del luogo in sé».

Nonostante una peculiare incertezza negli assetti gestionali, il direttore del Leopold Museum, Hans-Peter Wipplinger, si esprime in toni po-sitivi: «Da anni ormai gli spazi in cui un museo esprime la propria attività non si limitano più all’interno di un edificio. Sempre più essenziale è il collegamento e l’incontro con un ampio ambito sociale, sulla base di apertura, creatività e di-namicità. Rivolgendosi ad ampi strati di visitatori, la Libellula porterà certamente vitalità a tutto il Mq e prima o dopo la visita del nostro o di altri musei potrà essere un luogo di incontro, scambio e ispirazione anche per chi, diversamente da un pubblico culturale, è poco incline a fruizioni museali e la utilizzerà semplice-mente come terrazza panoramica».Nella realizzazione, due artiste au-striache sono state chiamate a dare il loro contributo: Eva Schlegel ha creato un’installazione che vela tut-ta la facciata del padiglione di vetro, mentre Brigitte Kowanz rende visibile la «Libelle» anche al di fuo-ri del Museumsquartier, grazie a tre grandi anelli di neon sulla terrazza, sorretti da pilastri. Nelle prime set-timane dopo l’inaugurazione del 21 aprile sarà visibile anche l’instal-lazione «Am Anfang war der Schat-ten» (All’inizio era l’ombra) di Alex Kasses. q Flavia Foradini

Entro il 31 luglio i 13 nuovi superdirettoriRoma. È Christian Greco, 45 anni (nella foto), dal 2014 direttore del Museo Egizio di Torino, a presiedere la commissione istituita da Dario Franceschini per la selezione di 13 nuovi «superdirettori» di alcuni dei principali musei autonomi italiani, dalla Galleria Borghese di Roma alla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino. Della commissione fanno parte Caterina Bon Valsassina, già direttore generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Mibact; Maria Luisa Catoni, ordinario di Archeologia e Storia dell’arte antica nella scuola Imt Alti studi di Lucca e membro del comitato scientifico del Kunsthistorisches Institut di Firenze; Miguel Falomir Faus, direttore del Prado di Madrid; Gabriele Finaldi, direttore della National Gallery di Londra. Sono 425 gli aspiranti direttori che hanno risposto al bando internazionale. I 10 candidati giudicati più idonei saranno convocati a colloquio a giugno. La selezione dovrebbe concludersi entro il 31 luglio. I 13 istituti interessati dalla procedura sono la Galleria Borghese, il Museo Nazionale Romano e il Museo del Vittoriano e di Palazzo Venezia a Roma, la Biblioteca e Complesso monumentale dei Girolamini a Napoli, la Galleria Nazionale delle Marche a Urbino, il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, il Museo Nazionale d’Abruzzo a L’Aquila, il Museo Nazionale di Matera, il Palazzo Ducale di Mantova, il Palazzo Reale di Napoli, il Parco Archeologico di Ostia antica, il Parco Archeologico di Sibari (Cs) e la Pinacoteca Nazionale di Bologna. q Al.Ma.

Finalmente solaFinalmente sola e in totale relax in casa sua, nelle sale sempre

troppo affollate del Louvre di Parigi e oggi vuote:

è la «Gioconda» postata su Instagram da @ginaathomas

Riapre il Beaubourg. In CinaParigi. Mentre gran parte dei musei del mondo sono ancora chiusi, la prima buona notizia arriva dalla Cina: il nuovo Centre Pompidou x West Bund Museum Project, la «filiale» di Shanghai, ha riaperto le porte il 20 marzo. «La situazione sanitaria in Cina è molto migliorata negli ultimi giorni, ha scritto il museo in una nota di marzo, e le autorità cinesi hanno dato il loro assenso per la riapertura parziale di alcuni luoghi, tra cui i musei». Il giovane museo è stato inaugurato l’8 novembre 2019 in un edificio firmato David Chipperfield sorto lungo il fiume Huang Pu (cfr. n. 402, nov. ’19, p. 32). Ha poi dovuto chiudere lo scorso 24 gen-naio a causa della crisi sanitaria. Per ora tutte le manifestazioni e attività culturali restano ferme. Ma sono stati riaperti gli spazi espositivi sulla base di certe regole: si possono ospitare al mas-simo 500 persone al giorno, i biglietti possono essere acquistati solo online e i visitatori devono seguire le regole di sicurezza. La prima mostra semipermanente «The Shape of Time», con un cen-tinaio di opere della collezione del Musée d’Art Moderne di Parigi, resterà aperta fino al 9 maggio 2021 come previsto. La mostra temporanea «Observations», con i lavori di 15 artisti del Diparti-mento Nuovi Media della «casa madre» parigina, è prorogata fino al 30 aprile. «Vedere riaprire questo museo è una gioia portatrice di speranza: la crisi ha una fine, ha detto Serge Lasvignes, pre-sidente del Centre Pompidou. È anche una soddisfazione poiché credo nel ruolo sociale dell’arte e nel contributo che può dare per la resilienza di ognuno di noi». q Luana De Micco

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22 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

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Nella Floridiana i capolavori delle arti «minori»A Napoli la Villa Floridiana, dal 1931 Museo della Ceramica Duca di Martina, si affaccia dal Vomero su un ampio panorama della città e del Golfo. Un bel museo, penalizzato da servizi al pubblico carenti, espone una delle maggiori raccolte italiane di arti un tempo dette «minori»: circa 6mila preziosi oggetti, maioliche e porcellane, ma anche giade, avori, coralli, cristalli, vetri, smalti, dal XIII secolo in poi. Sono le collezioni acquistate nell’Ottocento dal duca di Martina, Placido de Sangro, e donate dagli eredi alla Città nel 1911. Un discendente ha lasciato al museo altri 580 oggetti nel 1978. Il museo è famoso soprattutto per le sue porcellane e maioliche: manifatture di Meissen, ma anche francesi e italiane (Capodimonte, Castelli, Deruta, Faenza, Palermo ecc.). Importante la

collezione di 1.200 antiche porcellane, giade e bronzi cinesi e giapponesi, esposta nel vasto seminterrato e riallestita di recente. Visitatori: 24.874 (2018). Visita: 13 febbraio 2020.

LA SEDE VOTO: 9Il parco e la villa furono un regalo del re Ferdinando IV di Borbone nel 1815 alla sua seconda moglie Lucia Mi-gliaccio, duchessa di Floridia. Nel 1819 la villa venne ricostruita in forme neoclassiche dall’architetto Antonio Niccolini e prese il nome di Villa Floridiana. Lo Stato ha acquistato nel 1919 parco e villa, destinando quest’ulti-ma a museo. Collezioni e mostre temporanee occupano 28 sale su tutti e tre i piani dell’edificio. Nel 2016 il piano nobile della villa è stato restaurato. Visitabili ora anche gli scenografici appartamenti della duchessa: la volta della grande galleria è decorata da Giuseppe Cam-marano. Buona pulizia e manutenzione.

L’ACCESSO VOTO: 5All’ingresso, nel grande atrio, è sistemata la biglietteria. Ingresso 4 euro. Aperto 9,30-17, chiuso martedì. Mancano dépliant, audioguide, guardaroba, armadietti a chiave. Bor-se e giacche affidate alla cortesia dei custodi all’ingresso. Tutto accessibile ai disabili.

I SISTEMI INFORMATICI VOTO: 3Nessun sistema informatico. Mancano app, monitor mul-timediali e altri video informativi. Siti web: aggiornato quello ufficiale del Polo museale della Campania con sto-ria di villa, parco, informazioni e immagini del museo. Info 081.5788418.

LA VISIBILITÀ VOTO: 5Purtroppo il piano terra (Rinascimento e Barocco) è chiuso al pubblico per carenza di custodi. Apre solo nei festivi e la domenica mattina. Visibili invece primo piano e seminterra-to. Quasi tutti gli oggetti sono esposti in vecchie vetrine di legno. Particolarmente importanti le collezioni di Meissen e cinesi. Al primo piano, in ogni sala cartoncini bilingue con

descrizione di ogni opera e storia delle diverse manifatture. A piano terra (chiuso), spiegazioni in italiano sulle fabbriche di produzione. Nel seminterrato, dedicato all’arte orientale, didascalie con pannelli didattici, anche qui solo in italiano. Da tre mesi il parco è chiuso al pubblico per manutenzione, tra vivaci polemiche. Forse riaprirà prima dell’estate, ma ora si aggiungono le restrizioni per il Coronavirus.

L’ILLUMINAZIONE VOTO: 6Poco efficace, non dà risalto agli oggetti esposti: le vecchie vetrine sono spesso senza luci interne. Ci si deve così ac-contentare della luminosità esterna e di quella diffusa da lampade a soffitto.

I CUSTODI E LA SICUREZZA VOTO: 6Nessun controllo all’ingresso. Troppo pochi i custodi per questo grande museo: difficile incontrarli a vigilare nelle sale. Videosorveglianza.

LA TOILETTE VOTO: 8Nel seminterrato, anche per disabili. Pulite e ben funzionan-ti. No fasciatoio.

IL BOOKSHOP VOTO: 0Il bookshop non c’è, quindi nessun catalogo o altra pubbli-cazione è disponibile.

L’ASCENSORE VOTO: 5Funziona ma è chiuso a chiave, destinato al personale del museo. Chi ne ha bisogno può rivolgersi ai custodi che de-vono accompagnare il visitatore.

LA CAFFETTERIA VOTO: 0Non esiste e manca anche un distributore automatico di bevande e snack. Per chi ha sete c’è solo l’acqua dei bagni. Non troppo vicini altri luoghi di ristoro.

VOTO MEDIO: 4,7

La 155ma pagella dei Musei italiani a cura di Tina Lepri

Tristemente avvolte nella pellicolaQuando si dice la sfortuna. Avevo programmato di andare sabato 7 marzo a cavallo di pranzo al Castello di Rivoli per vedere le nuove mostre: dalla collezione di Uli Sigg sull’arte contemporanea cinese alle installazioni di Renato Leotta e James Richards. Avrei colto l’occasione per provare la caffetteria del museo (che

è altra cosa dal Combal.Zero, il ristorante stellato di Davide Scabin, anch’esso ospitato in un’ala del Castello juvarriano). Ma, in virtù del decreto governativo firmato nella notte precedente, dall’8 marzo al 2 aprile il museo è chiuso, caffetteria compresa. Che dire? Questo piccolo incidente può essere l’occasione per un discorso più generale sulle caffetterie dei musei. Possiamo dividerle in due categorie. Quelle cui possono accedere anche i non visitatori del museo e quelle dove se il museo è chiuso chiude anche la caffetteria. Per rimanere a Torino, un esempio di questa seconda categoria è quella di Palazzo Madama (nella foto in alto), bellissima ma non accessibile a chi non ha il biglietto d’ingresso. La cosa non è secondaria perché se il museo non fa grandi numeri anche la caffetteria stenta a tirare avanti e a risentirne è la qualità. Nel viaggio che questa rubrica mi ha permesso di fare nei musei di tutta Europa (ai primi di aprile avevo tra l’altro in cantiere un viaggio a New York per l’edizione locale di Paris Photo, che mi avrebbe consentito di fare il confronto con gli americani) un dato balza agli occhi: lo standard delle caffetterie dei musei italiani tranne rari casi è inferiore e di molto a quello dei musei degli altri Paesi: dalla Francia alla Spagna, dalla Danimarca alla Lituania. Torino in particolare, pur avendo ricevuto di recente da «Forbes» un elogio per i suoi musei, non brilla in questo campo. Si direbbe che la caffetteria è più un peso che un punto di forza e talora quando ci vai ti sembra di essere in un triste bar di periferia, un luogo dove passa in fretta la voglia di rimanere. Già Milano è un’altra storia: da Brera alla Villa Reale, le caffetterie sono accessibili anche a chi non visita il museo e quindi in grado di tenere alta la qualità. Basti pensare alla sempre affollata caffetteria della Fondazione Prada disegnata da Wes Anderson (nella foto in basso) dove mangi solo panini ma fatti al momento

con fantasia e prodotti italiani d’eccellenza. E dire che a Torino non mancherebbero certo i prodotti d’eccellenza, peccato che quello più diffuso sia la pellicola alimentare in cui sono tristemente avvolti panini, toast e finanche le macedonie.

Mangiare nel museo con un critico d’arte Rocco Moliterni

Quel cuoco è un artista

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Nolde è tornatoBielefeld (Germania). Ancora una volta la cronaca d’arte tedesca si ritrova a parlare del discusso pittore Emil Nolde (1867-1956), stavolta per il riacquisto di una sua opera da parte della Kunsthalle Bielefeld. Si tratta della tela intitolata «Rentner» («Pensionato»; nella foto), che Nolde finì di dipingere nel 1920: un’immagine di piccolo formato con in primo piano il busto di un anziano ritratto frontalmente. L’allora Collezione d’Arte della Città di Bielefeld

l’acquistò nel 1929, ma i nazisti la confiscarono (Nolde era stato bandito perché, seppure egli stesso nazista, bollato come degenerato) insieme ad altre 134 opere e da allora non se ne seppe più niente. Ma il recente successo registrato dalla mostra dedicatagli da Hamburger Bahnhof a Berlino (cfr. n. 396, apr. ’19, p. 26) lo ha fatto miracolosamente ricomparire sul mercato e Kunsthalle Bielefeld ne ha appena ufficializzato l’acquisto, per la somma di 680mila euro, reso possibile grazie all’aiuto, accanto alla Città di Bielefeld e ad alcuni donatori privati, di Kulturstiftung der Länder, una fondazione con sede a Berlino che s’impegna a preservare e promuovere la cultura tedesca nonché uno degli sponsor più importanti nella politica culturale della Repubblica Federale. q Francesca Petretto

Delizia Borghese

Roma. La Galleria Borghese ha un nuovo sito web sulla cui homepage campeggia la scritta «Delizia di Roma» (nella foto), uno degli appellativi con cui era noto il cardinale Scipione Borghese. Il sito https://galleriaborghese.beniculturali.it, in italiano e inglese, descrive le opere del museo sala per sala. Novità principale, oltre ai contenuti video, è il sistema di catalogazione online: tramite un pannello di ricerca è possibile visualizzare, del dipinto o della scultura desiderata, provenienza, datazione, tecnica, numero di inventario e collocazione. Nel nuovo sito un particolare riguardo è dato ai pubblici fragili (persone con disabilità), con una sezione dedicata a progetti di mediazione culturale. In primavera ed estate, ad esempio, il museo ospiterà alcuni appuntamenti del ciclo «Racconti da museo», percorsi per sordi e udenti, in italiano e in lingua dei segni Lis. Nell’ambito del rinnovo dei servizi di accoglienza e rifacimento della zona di ristorazione, entro l’anno, la direttrice del museo, Anna Coliva, dice: «Il ristorante sarà affacciato sul giardino e dove verrà ricostruito il leggendario Caffè degli Inglesi di Piranesi, progettato ma probabilmente mai realizzato dal grande artista». q Ar.An.

Tutti i Raffaello del VaticanoCittà del Vaticano. Dopo aver contribuito alla realizzazione della mostra «Raffaello 1520-1483», inaugurata in marzo alle Scuderie del Quirinale di Roma e oggi chiusa al pubblico per l’emergenza sanitaria, i Musei Vaticani annunciano un fitto programma

di manifestazioni per celebrare il cinquecentenario della morte del pittore. Dal 20 al 22 aprile la Sala VIII della Pinacoteca Vaticana accoglierà (ancora confermato al momento di andare in stampa) il convegno internazionale di studi «Raffaello in Vaticano». Con la cura di Barbara Jatta, direttrice dei Musei del papa, e di Guido Cornini, direttore del Dipartimento Belle Arti della medesima istituzione museale, studiosi da tutto il mondo presenteranno le proprie ricerche sull’opera pittorica e architettonica dell’Urbinate. Particolare risalto sarà dato ai restauri compiuti negli ultimi decenni su affreschi, pitture, mobili e arazzi conservati nelle collezioni vaticane, soprattutto grazie ai Patrons of the Arts in the Vatican Museums. Contestualmente sarà inaugurato il nuovo allestimento della stessa Sala che ospita le giornate di studio, e che al suo interno custodisce, oltre agli arazzi realizzati per la Cappella Sistina su disegno di Raffaello, tre celebri pale di mano del pittore: la «Pala Oddi», la «Madonna di Foligno» e la «Trasfigurazione». La «Pala Oddi» è stata sottoposta a pulitura, rimuovendo dalla superficie pittorica le vernici alterate, mentre gli altri due dipinti sono stati oggetto di una revisione generale. Tutte le pale, valorizzate da una nuova illuminazione a luci fredde realizzata da Osram, sono state ricollocate nelle cornici antiche, rimosse negli anni Ottanta, ora rinvenute in un deposito e restaurate. Sempre in aprile tutto il complesso delle quattro Stanze di Raffaello sarà dotato di un impianto di climatizzazione, mentre si avviano a conclusione i lavori di restauro nella Sala di Costantino (nella foto), l’ultima e la più vasta, commissionata da Leone X e portata a compimento nel 1524, dopo la scomparsa di Raffaello, da Giulio Romano e da altri collaboratori. q Arianna Antoniutti

La Spezia Weekend a N

el grave momento di emergenza sanitaria che stiamo vivendo a causa del Coronavirus, abbiamo colto come una grande boccata di ossigeno l’opportunità di «Il Giornale dell’Arte» di raccontare la Città della Spezia in tutto il suo splendore. Un’occasione importante, non solo perché permette alla nostra città di farsi conoscere come meta, ma soprattutto perché ci dà modo di pensare, fin da ora, da dove ripartiremo quando l’emergenza sarà finalmente conclusa.

Un’emergenza che, come tutti sappiamo, ha messo immediatamente in crisi l’economia turistica e in particolar modo quella del turismo culturale, estendendosi subito dopo a tutta la capacità produttiva del sistema Paese. La Spezia non potrà che farlo partendo dalla sua storia, dalla sua cultura, dalla valorizzazione del mare e dei sentieri. Dalla bellezza di Arte e Natura che così bene «Il Giornale dell’Arte» ha raccontato con il calendario dedicato a La Spezia nel gennaio scorso.

Unico capoluogo di provincia del levante ligure, perla incastonata in una tiara trovandosi al centro del Golfo dei Poeti, la Città è meta e crocevia al tempo stesso di migliaia di turisti che quotidianamente, non solo con auto e pullman, ma anche dalle linee ferroviarie o dalle navi da crociera che fanno scalo nel nostro porto, giungono per ammirare il suo meraviglioso bacino naturale e scoprire le infinite opportunità paesaggistiche, enogastronomiche e culturali. La Spezia affonda le sue radici storiche nel Medioevo,anche se rimane inevitabilmente legata alle vicende genovesi. Trova finalmente una sua dignità nell’Ottocento quando diventa destinazione privilegiata del Grand Tour dei giovani aristocratici, artisti e intellettuali europei. Proprio da qui negli anni scorsi è nata la nuova stagione economica della città, che è stata capace di divenire meta turistica internazionale come in passato ha saputo attrarre grandi viaggiatori.

Siamo consapevoli che, in quanto comune capoluogo, dobbiamo assumere la responsabilità di ricondurre in primo piano tutta la bellezza che ci circonda in un golfo unico al mondo, ma anche della nostra cultura, della nostra arte, della meraviglia di cui ci è stato fatto dono dai nostri progenitori. A «Il Giornale dell’Arte» e alla professionalità della sua redazione un ringraziamento per la grande opportunità di far conoscere a un così vasto pubblico La Spezia come destinazione turistica d’eccellenza e come occasione di una grande ripartenza turistica e culturale.

Il Sindaco Pierluigi Peracchini

PRIMO APPUNTAMENTO PER L’ESTATE

Innumerevoli pagine della letteratura europea tratteggiano quella bellezza di La Spezia ancora oggi rintracciabile ripercorrendo la cinta ottocentesca che segue l’arco collinare attorno al centro cittadino collegando la Cattedrale di Cristo Re alla collina di Gaggiola. Lungo questo percorso si eleva il Castello San Giorgio, costruito sul Poggio che domina il centro cittadino e guarda al mare, e che oggi è sede di un museo di statue stele della Lunigiana e di reperti dell’antica città di Luni.

Scendendo da questo percorso verso il centro si va alla scoperta di una città che pur essendo stata seriamente danneggiata durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, conserva alcuni monumenti significativi del suo passato quali la Chiesa di Santa Maria Assunta, originaria cattedrale spezzina, che tra le tante opere importanti conserva l’«Incoronazione della Vergine con santi» di Andrea della Robbia e «Il martirio di san Bartolomeo di Luca Cambiaso. Ancora oggi si possono ritrovare tratti di carugi del vecchio borgo, in particolare la via del Prione che taglia a metà il centro, via dello shopping insieme al parallelo corso Cavour. Nel centro sono presenti musei con una loro precisa caratterizzazione. Il Museo Amedeo Lia è detto «il piccolo Louvre della Liguria» in quanto la sua collezione comprende oltre mille opere di grande varietà, dall’epoca classica al tardo antico, al Medioevo, al XVIII secolo. Ci sono poi il Museo del Sigillo, sede dell’esposizione permanente della collezione dei sigilli donata dalla famiglia Capellini, il Museo Etnografico G. Podenzana, il Museo Diocesano e il Centro di Arte Moderna e Contemporanea. Il CAMeC è nato nel 2004 in un edificio del 1879 per ospitare i considerevoli fondi artistici provenienti dalle edizioni del celeberrimo Premio del Golfo e dalle donazioni Cozzani e Battolini. All’esposizione a rotazione delle raccolte permanenti si affianca la realizzazione di mostre che documentano diversi ambiti della produzione attuale o del contemporaneo storico.

Tutto questo e tanto altro, come la bellezza del contrasto fra il liberty del Palazzo delle Poste, dov’è custodito il mosaico futurista di Fillia e Prampolini, la nuova Piazza Verdi firmata da Daniel Buren, con una progressione di archi colorati, i Giardini Storici ottocenteschi, con una vegetazione rara e variegata, e le opere d’arte disseminate nel centro storico: è quello che un visitatore può incontrare semplicemente passeggiando per il centro città.

PRIMO APPUNTAMENTO PER L’ESTATE Weekend a La Spezia

PALAZZINA DELLE ARTI E MUSEO DEL SIGILLO

La Palazzina delle Arti è stata progettata, originariamente come Ufficio di Igiene, intorno agli anni Venti, in piena temperie moder-nista. Di gusto neomedievale, con precise sia pur fantasiose citazioni romaniche e gotiche quali le aper-ture ad arco acuto e i catini cera-mici inseriti al di sopra delle fine-stre, si ricollega idealmente anche se non storicamente al contiguo Convento di San Francesco da Paola, oggi sede del Civico Museo «A. Lia». È stata proprio l’apertu-ra di quest’ultimo nel 1996 a dare avvio al recupero a fini culturali dell’edificio destinato a sede della Biblioteca speciale d’arte e arche-ologia, all’esposizione permanente della collezione dei sigilli e a spazi per mostre temporanee e convegni. La fenomenale raccolta dei sigilli deriva dalla donazione compiuta dai coniugi Capellini al Comune della Spezia e si qualifica con ogni probabilità come la più vasta rac-colta tematica esistente al mondo. I sigilli nascono dalla necessità e dalla volontà di confermare la pro-prietà di un determinato documen-to e di attestarne in genere la vali-dità giuridica. Il museo spezzino raccoglie e ordina sigilli di epoca e provenienza diverse, dagli oggetti dell’antico Egitto a matrici pro-dotte in Cina, Tibet e Nepal, da quelli realizzati in Occidente nel corso del Medioevo fino alle linee morbide dei sigilli liberty.

MUSEO CIVICO «AMEDEO LIA» Il Museo Civico di arte antica, medievale e moderna intitolato ad Amedeo Lia è stato istituito nel 1995 e inaugurato nel 1996 in seguito all’importante dona-zione che Amedeo Lia e la sua famiglia hanno compiuto al Co-mune della Spezia. Tra le oltre

millecento opere, eterogenee ma tutte di alta qualità, alcune appa-iono maggiormente significative. Entrati nella sala I, un tempo chie-sa del complesso conventuale, ecco subito l’importante «Madonna col Bambino», scultura lignea policro-ma realizzata in Umbria attorno alla metà del XIII secolo e, accan-to, la cassetta reliquiario dipinta da Jacopo da Ferentino, straordinario prodotto della metà del XIV seco-lo. Fra le oreficerie antiche figurano la piccola testa-ritratto in ametista di prima età imperiale, le fibule di am-bito barbarico, un’interessante rac-colta di placchette gotiche in avo-rio, specie di produzione francese, oggetti liturgici smaltati e un’ampia sezione di croci. La sala II raccoglie tre antifonari completi e miniature di autori italiani, tra cui Pacino di Bonaguida e Belbello da Pavia, e stranieri. Salendo al primo piano, nella sala III troviamo i marmi, i bronzi e le terrecotte archeologiche. Ad esclusione di questa sala, il pri-mo piano è interamente dedicato ai dipinti, a partire dalla sala IV in cui la vicenda due e trecentesca appare egregiamente rappresentata: alle tavole di produzione fiorentina del Maestro della Maddalena, di

Giotto e di Bernardo Daddi, si con-trappongono la bottega di Duccio, Pietro Lorenzetti («San Giovanni Evangelista» e «Vir Dolorum»), la bottega di Simone Martini e Lippo Memmi, Bartolo di Fredi, Paolo di Giovanni Fei.Nella sala V il sottile passaggio dal Medioevo alle istanze rinascimenta-li del Quattrocento è narrato dalle

tavole del Sassetta, di Sano di Pie-tro, Matteo di Giovanni, Taddeo di Bartolo, Bicci di Lorenzo, degli ambiti di Filippino Lippi e del Be-ato Angelico, Francesco Botticini, Benedetto Bembo, Bergognone, Nicola di Mastrantonio, Antonio e Alvise Vivarini, il Montagna, Mazone. Le sale VI, VII, VIII, ospitano i dipinti cinquecenteschi: opere di Giampietrino, tra gli allie-vi diletti di Leonardo, Mazzolino, Schedoni, un piccolo dipinto forse riconducibile a Raffaello, e ancora dipinti di Cariani, Sebastiano del Piombo, che narra lo struggente mito di Venere e Adone, Tintoret-to, il Romanino, Giovanni e Gen-tile Bellini, Paolo Veronese, Tizia-no, Moroni e Pontormo (l’intenso «Autoritratto» è eseguito su un em-brice di terracotta). Il percorso pro-segue dunque nelle sale IX e X che ospitano rispettivamente il Sei e il Settecento. Anche qui l’elenco di autori presenti è entusiasmante: a titolo esemplificativo si segnala-no i paesaggi e i ritratti veneziani di Longhi, Marieschi, Canaletto, Guardi, Bellotto, ma anche i lavori dei cosiddetti ruinistes che racconta-no il fascino di Roma e delle glorio-se rovine archeologiche. Si accede

L’Amerigo Vespucci in rada nel Golfo della Spezia.Fotografia di Enrico Amici

Una veduta della città dal mare. Fotografia di Luca Ribaditi

Museo Lia, testa greco cipriota del V secolo a.C., nello sfondo la sala 5 con dipinti del Quattrocento.Fotografia Davide Marcesini

La Spezia negli ultimi anni si è dotata di molteplici poli culturali che hanno ampliato in modo notevole l’offerta per i cittadini e per i turisti creando un vero e proprio percorso museale del centro storico.Il percorso si snoda lungo via del Prione, una delle arterie principali del centro urbano.

Scendendo dalla stazione in direzione mare il primo museo che incontriamo è il Museo Civico «A. Lia», nato grazie alla volontà di Amedeo Lia che ha donato alla città la sua straordinaria raccolta d’arte. Nella Palazzina delle Arti, che ospita mostre temporanee, ha poi sede il Museo del Sigillo, uno dei più importanti musei europei nel suo genere.Proseguendo si possono visitare il Museo Etnografico e il Museo Diocesano, entrambi allestiti negli spazi dello sconsacrato Oratorio di San Bernardino.

Utilizzando le numerose scalinate oppure i due ascensori, dal centro storico è possibile arrivare nella parte alta della città, e più precisamente in via XXVII Marzo, una delle splendide vie panoramiche che il territorio offre, dove si erge il Castello San Giorgio (il Museo del Castello custodisce diverse collezioni archeologiche locali).

Tornando invece in città il percorso dei musei di La Spezia ci porterà in Piazza Cesare Battisti dove ha sede il CAMeC, importante centro per l’arte moderna e contemporanea che sorge nel restaurato edificio precedentemente adibito a Tribunale.Nella limitrofa piazza Chiodo, situata alle spalle del CAMeC, troviamo il Museo Navale in corrispondenza dell’ingresso principale dell’Arsenale Militare. Vi sono custoditi veri e propri cimeli marinareschi, rappresentazioni cartografiche e modellini in scala delle navi più importanti della Marina Militare Italiana, il tutto a ricordare la forte vocazione marinaresca italiana.

PRIMO APPUNTAMENTO PER L’ESTATE Weekend a La Spezia

dunque al piano superiore, dove nella sala XI sono ordinati i mar-mi e i bronzi: testimone vigile lo «Scudiero reggistemma» ricondu-cibile all’attività romana di Andrea del Verrocchio. Ancora sculture e oggetti raffinatissimi nella sala XII, dove spiccano le paste vitree archeologiche, tra cui unguentari databili al VI-V secolo a.C., non-

ché le produzioni soffiate a Venezia nel corso del XVI, XVII e XVIII secolo, la «Testa» in terracotta di un santo, forse Lorenzo, dovuta a Francesco Laurana, e l’umanissi-ma «Addolorata», terracotta dipin-ta di Benedetto da Maiano. Conti-gua a questa sala ecco una piccola sala dedicata alle meraviglie, dove sono oggetti insoliti e preziosi: cri-stalli di rocca, oreficerie, coralli, pietre dure. A conclusione del percorso le natu-re morte, nella sala XIII, prevalen-temente seicentesche, di produzione fiamminga e italiana (Fede Gali-zia, Panfilo Nuvolone, Cristoforo Munari, Andrea Belvedere, Luca Forte, Pieter Claesz, l’ambito di Evaristo Baschenis). Uno spazio polifunzionale ospita mostre e con-vegni mentre lo Spazio Zero è de-stinato ai laboratori didattici.

Proseguendo lungo via Prione si giunge all’edificio che ospita i Musei Diocesano e Etnografico, l’Oratorio di San Bernardino noto dai documenti a partire dallo scor-cio del XV secolo ma con facciata ottocentesca di gusto tardoneoclas-sico. Posto presso la Porta omoni-ma di accesso alla città, l’oratorio

ingloba un tratto delle mura bas-somedievali che dal castello scen-devano a chiudere la città storica. Dopo essere stato per lungo tempo sede della Pubblica Assistenza, l’e-dificio è stato recuperato a fini espo-sitivi nell’ambito del programma di apertura al pubblico dei Musei Diocesani di La Spezia, Sarzana e Brugnato.

MUSEO DIOCESANO

La necessità di una triplice sede per il Museo Diocesano è scaturita dalla complessa vicenda della diocesi nata a Luni, trasferita nel 1204 a Sarza-na, privata di una porzione territo-riale con la creazione nel 1133 della diocesi di Brugnato da parte della neonata arcidiocesi di Genova, e del trasferimento della sede episcopale a La Spezia avvenuta nel 1929. Le collezioni permanenti di manu-fatti artistici della vita della diocesi si accompagnano all’esposizione temporanea e tematica di manu-fatti liturgici e chiesastici in gene-re al fine di restituire un quadro completo della vicenda religiosa del territorio senza depauperare in maniera stabile il patrimonio di pertinenza delle parrocchie e de-gli enti. Nei due piani destinati al percorso espositivo si segnalano in special modo la grande tela raffi-gurante «La triplice incoronazio-ne di san Nicola da Tolentino», già destinata alla perduta Chiesa degli Agostiniani di La Spezia, eseguita nel 1539 dallo spezzino Antonio da Carpena detto il Car-penino autore anche del piccolo «San Girolamo», le sculture go-

tiche rappresentanti la «Vergine con il Bambino» provenienti dalla pieve di Santo Stefano di Marina-sco e da Sant’Andrea di Fabiano, le quattrocentesche ardesie scol-pite e i numerosi oggetti liturgici.

MUSEO CIVICO ETNOGRAFICO “GIOVANNI PODENZANA”

Nello stesso edificio in cui ha sede il Museo Diocesano si trova anche il Museo Etnografico intitolato a Giovanni Podenzana, l’appassio-nato raccoglitore che sullo scorcio del XIX secolo recuperò elementi della tradizione popolare e della vita associata del contado che stava sva-nendo sull’onda dell’industrializza-zione. I materiali conservati, databili dal XVIII secolo alla prima metà del Novecento, sono organizzati in sei sezioni: la devozione e i culti po-polari, la superstizione e le pratiche terapeutiche, i gioielli e le oreficerie, gli arredi domestici, il lavoro e gli oggetti di corredo e, infine, il capitolo

Il Palio del Golfo, la disfida remiera che si disputa ogni anno nella prima domenica del mese di agosto. Fotografia di Enrico Amici

La cartina è stata progettata dallo studio Origoni Steiner architetti associati

PRIMO APPUNTAMENTO PER L’ESTATE Weekend a La Spezia

dedicato alla filatura e alla tessitura e all’abbigliamento. Notevole la se-zione dei tessuti e dei costumi delle singole comunità della Lunigiana storica con i gioielli d’oro in filigra-na da indossare nei giorni della festa e i singolari cappellini femminili di minutissime dimensioni che tanto meravigliarono i viaggiatori stra-nieri del secolo passato. Ma ancora gli strumenti domestici e gli utensili connessi con le attività agricole o della pastorizia, gli arredi e le sup-pellettili della casa, i segni della de-vozione e della religiosità popolari.

CAMeC. CENTRO PER L’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA

Il CAMeC ospita sia opere deri-vanti dalle raccolte civiche storiche, sia le collezioni d’arte donate al Co-mune della Spezia da Giorgio Coz-zani e Ferruccio Battolini. Le Civiche Collezioni appaiono formate da circa settecento dipinti, raccolti intorno a un nucleo otto-centesco (opere di Fossati, Valle e Pontremoli non esposte se non in occasioni specifiche) e alle opere derivanti dal Premio del Golfo, isti-tuzione voluta da Marinetti nel 1933 ripresa con fortuna fra il 1949 e il 1965 e ancora, nuovamente sia pur provvisoriamente, dal 2000. Al Pre-mio parteciparono i principali attori della vicenda artistica italiana, pro-tagonisti della querelle fra astrattisti e figurativi che tanto peso assunse nell’immediato dopoguerra.La collezione Cozzani raccoglie in-vece circa novecento opere, dipinti, disegni e opere grafiche, con parti-colare attenzione all’espressionismo e alle avanguardie storiche, fino a giungere alle nuove tendenze. In aggiunta alle già composite rac-colte, il critico d’arte Ferruccio Bat-tolini ha donato la propria collezione di circa cinquecento opere di autori contemporanei. È questo un altro ricco capitolo che si aggiunge ai nu-clei civici e alla collezione Cozzani,

accompagnato da un’importante sezione archivistica e libraria, vero spaccato della critica d’arte del No-vecento. Ma, oltre ai nuclei perma-nenti che sono esposti a rotazione, il Museo è sede di importanti mostre e di incontri, un grande laboratorio per la contemporaneità, aperto alle esposizioni temporanee, alla didatti-ca, al restauro in loco e ai convegni.

MUSEO DEL CASTELLO. COLLEZIONI ARCHEOLOGICHE «UBALDO FORMENTINI»

Il Museo Civico Formentini è sta-to istituito nel 1873, vale a dire negli anni che seguirono l’Unità d’Italia in cui molte città andavano confer-mando la propria identità storica e culturale affidandola alla sacralità del museo, luogo della memoria collet-tiva per antonomasia. A La Spezia questo fu un periodo di particolare mutamento, in quanto la città storica era ingrandita e modificata dal gran-de cantiere dell’Arsenale Militare. Il cantiere portò in luce un mondo som-merso ricco di testimonianze natura-listiche e archeologiche a conferma della lunga frequentazione del golfo spezzino e del suo retroterra. Il Museo conserva materiale proveniente dalla Lunigiana storica, ampia regione di precisa identità culturale sia pur non riconosciuta negli odierni confini giu-ridici e amministrativi. I reperti ordi-nati nel Castello, dalle cui terrazze lo sguardo giunge a comprendere tutto il Golfo fino alle Alpi Apuane, ri-costruiscono la frequentazione e l’uso del territorio lunigianese dalla Preisto-ria al Medioevo. In apertura testimo-nianze comprovanti la frequentazio-ne umana della costa e dell’entroterra già dall’Età del Rame, ossia dal IV millennio a.C., quando il rito della inumazione collettiva in grotticelle naturali è provato dai semplici corre-di funebri. Allo stesso periodo risale la prima produzione delle straordina-rie statue stele, sculture antropomorfe poste un tempo a tutelare il territorio,

femminili, maschili e asessuate, or-nate di armi e gioielli e sorprenden-temente caratterizzate nei loro ruoli sociali. Fra tutte la testa frammentaria rinvenuta a Verrucola, dallo sguar-do acuto e penetrante, diviene quasi il simbolo di questa società lontana. Dopo una sosta produttiva, le statue stele vengono nuovamente incise a partire dalla media Età del Ferro: a contatto con la civiltà etrusca e a ri-dosso della romanizzazione del terri-torio le antiche pietre sono raschiate e riscritte: ora impugnano le armi che un tempo erano solo sintomo di deco-ro e potere sociale. La vita materiale agricola e pastorale è testimoniata dal materiale proveniente dai castellari, insediamenti abitativi di altura fon-dati nella media Età del Bronzo, ma recuperati in funzione stanziale ogni qualvolta si presentasse necessità di ar-roccamento difensivo, e dalle tombe a cassetta, sei lastre in principio litiche e quindi, a contatto con la cultura ro-mana, fittili, contenenti le ceneri del defunto e il corredo di pertinenza. Nella porzione superiore del forte è ordinata gran parte della collezione Fabbricotti, vale a dire la vasta rac-colta di materiale romano lunense già appartenente alla famiglia Fabbricot-ti e pervenuta al Comune nel 1939. Luni, la splendente sorella del sole, la città bianchissima che nel V secolo d.C. veniva ancora paragonata alla neve incontaminata che si scioglie nella campagna, ha fornito una messe entusiasmante di reperti che illustrano tanto la vita pubblica quanto la vita quotidiana. La sezione architettoni-ca, la sala dedicata ai culti con parti-colare attenzione a quelli funerari, gli «instrumenta domestica», la statuaria e la ritrattistica, i mosaici e la collezio-ne epigrafica, fino agli straordinari frammenti marmorei di età bizantina e carolingia derivanti dalla perduta Cattedrale garantiscono un percorso di grande suggestione nell’arte roma-na fino al suo diluirsi negli apporti derivanti da altre culture al seguito della caduta dell’Impero.

Per informazioni:Comune della Spezia,

Piazza Europa, 1 - 19124 La Speziawww.comune.laspezia.it

Assessorato al Turismo 0187 727237

MEDAGLIA D’ARGENTO AL VALOR MILITARE MEDAGLIA D’ORO AL MERITO CIVILE

Museo Amedeo Lia - Palazzina delle Arti in Via Prione

Le mura del Castello San Giorgio. Fotografia di Roberto Celi

Piazza Menta Il Teatro Civico

27IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

LA CLASSIFICA MONDIALE DEI MUSEI PIÙ VISITATI NEL 2019

La tredicesima classifica annuale esclusiva di «Il Giornale dell’Arte» e «The Art Newspaper»

2019: l’ultimo anno record?Le immagini attuali dei musei vuoti sembrano preannunciare la fine della «turismite virale» e un futuro da inventare. Già nel 2019 il Louvre ha perso 600mila visitatori (complici i gilet gialli). Boom dei Vaticani

MUSEI I primi cento del mondo nel 20192019 (18) Sede o complesso museale Città Visitatori tot

1 (1) Louvre Parigi 9.600.0002 (2) National Museum of China Pechino 7.390.0003 (4) Musei Vaticani Città del Vaticano 6.882.9314 (3) Metropolitan Museum New York 6.479.5485 (6) British Museum Londra 6.239.9836 (5) Tate Modern Londra 6.098.3407 (7) National Gallery Londra 6.011.0078 (9) Ermitage San Pietroburgo 4.956.5299 (11) Reina Sofía Madrid 4.425.69910 (8) National Gallery of Art Washington, DC 4.074.40311 (10) Victoria and Albert Museum Londra 3.932.73812 (12) National Palace Museum Taipei 3.832.37313 (16) Musée d’Orsay Parigi 3.651.61614 (13) Museo Nacional del Prado Madrid 3.497.34515 (15) National Museum of Korea Seul 3.354.16116 (14) Centre Pompidou Parigi 3.273.86717 (18) Complesso del Cremlino Mosca 3.101.55018 (19) Tokyo Metropolitan Art Museum Tokyo 2.873.80619 (17) Somerset House Londra 2.841.77220 (30) Galleria di Stato Tret’jakov Mosca 2.835.83621 (44) Centro Cultural Banco do Brasil Rio de Janeiro 2.703.79722 (26) Rijksmuseum Amsterdam 2.700.00023 (23) Tokyo National Museum Tokyo 2.684.75424 (22) National Gallery of Victoria Melbourne 2.432.88325 (-) State Russian Museum San Pietroburgo 2.394.400

26 (27) Gallerie degli Uffizi Firenze 2.361.73227 (32) National Folk Museum of Korea Seul 2.286.276

28 (28) National Museum of Scotland Edimburgo 2.210.02429 (29) Van Gogh Museum Amsterdam 2.100.00030 (31) Shanghai Museum Shanghai 2.070.27031 (20) MoMA New York 1.992.12132 (21) National Art Center Tokyo Tokyo 1.921.526

33 (94) Kunsthistorisches Museum Vienna 1.839.02734 (71) Kelvingrove Art Gallery and Museum Glasgow 1.832.09735 (34) National Gallery Singapore 1.817.335

36 (50) Tate Britain Londra 1.808.637

2019 (18) Sede o complesso museale Città Visitatori tot

37 (35) Museo dell’Acropoli Atene 1.760.31538 (41) Österreichische Galerie Belvedere Vienna 1.721.39939 (37) Galleria dell’Accademia Firenze 1.704.77640 (40) National Portrait Gallery/

Smithsonian American Art MuseumWashington, DC 1.700.000

41 (38) Art Institute of Chicago Chicago 1.665.51642 (40) National Portrait Gallery Londra 1.634.934

43 (46) National Museum of Western Art Tokyo 1.587.36344 (36) Scottish National Gallery Edimburgo 1.583.23145 (49) Museo Pushkin Mosca 1.481.30046 (42) Getty Center Los Angeles 1.439.084

47 (56) National Museum of Modern and Contemporary Art

Seul 1.420.161

48 (97) Centro Cultural Banco do Brasil Belo Horizonte 1.403.62249 (74) Tel Aviv Museum of Art Tel Aviv 1.322.43950 (45) Royal Ontario Museum Toronto 1.309.345

51 (48) Art Gallery of New South Wales Sydney 1.289.19552 (73) Guggenheim Museum New York 1.283.20953 (53) Museum of Fine Arts Boston 1.261.62354 (-) Castello Rale Varsavia 1.256.92055 (67) Gyeongju National Museum Gyeongju 1.251.19656 (39) Royal Academy of Arts Londra 1.248.88257 (57) Museum of Fine Arts Houston 1.248.62458 (47) Mucem Marsiglia 1.207.66359 (63) Museo Nazionale di Castel

Sant’Angelo Roma 1.197.078

60 (58) Museo Nazionale Cracovia 1.196.20761 (79) Montreal Museum of Fine Arts Montreal 1.174.89062 (51) Guggenheim Bilbao 1.170.66963 (55) Saatchi Gallery Londra 1.160.72964 (72) Museo Soumaya Città del Messico 1.115.92265 (52) Musée du Quai Branly Parigi 1.112.423

66 (-) Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique

Bruxelles 1.091.280

67 (64) Galeries Nationales du Grand Palais Parigi 1.075.18768 (88) Museu de Serralves Porto 1.074.20069 (70) Imperial War Museum Londra 1.073.936

2019 (18) Sede o complesso museale Città Visitatori tot

70 (86) Museu Picasso Barcellona 1.072.88771 (-) De Young Museum San Francisco 1.070.15772 (60) Fondation Louis Vuitton Parigi 1.065.00073 (82) Museu Coleção Berardo Lisbona 1.060.64474 (91) Museo Thyssen-Bornemisza Madrid 1.034.93975 (76) Whitney Museum New York 1.030.94576 (78) Musée de l’Orangerie Parigi 1.029.925

77 (69) Museum of Contemporary Art Australia Sydney 1.014.02178 (77) Albertina Vienna 1.001.29479 (80) Louvre Abu Dhabi Abu Dhabi 975.48380 (68) Los Angeles County Museum of Art

(Lacma)Los Angeles 968.161

81 (66) National Mus. of the American Indian Washington, DC 960.93382 (84) Museum of Liverpool Liverpool 956.91883 (54) Petit Palais Parigi 950.28884 (75) San Francisco Museum of Modern Art

(SFMoMA)San Francisco 950.000

85 (100) Garage Museum of Contemporary Art Mosca 942.15986 (99) Ashmolean Museum Oxford 927.04387 (45) Art Gallery of Ontario Toronto 922.01488 (95) Israel Museum Gerusalemme 920.74489 (-) The Broad Los Angeles 917.48990 (-) Hirshhorn Museum Washington, DC 891.11491 (-) Dallas Museum of Art Dallas 884.96792 (-) Museo Universitario Arte Cont. Città del Messico 883.63693 (90) National Gallery of Australia Canberra 867.08894 (-) Museo Egizio Torino 853.32095 (-) Museu Nacional d’Arte de Catalunya Barcellona 837.69496 (85) La Venaria Reale Venaria Reale (To) 837.093

97 (-) Huntington Library San Marino (Usa) 828.503

98 (-) Neues Museum Berlino 827.98999 (59) Centro Cultural Banco do Brasil San Paolo 827.588100 (65) Teatre-Museu Dalí Figueres 819.542

continua a p. 29, i col.

Prima e dopo: anche nel 2019 il Louvre guida la classifica mondiale seppur con molti ingressi in meno rispetto al 2018. Al momento, come molti musei nel mondo, è chiuso alle visite

NOTE I numeri tra parentesi indicano la posizione nella classifica relativa all’anno 2018. Il censimento è stato condotto dalle redazioni di «Il Giornale dell’Arte» e «The Art Newspaper» sulla base dei dati forniti dai singoli musei e dal Sistan, l’Ufficio Statistica del Ministero per i Beni culturali

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1 Louvre Parigi Visitatori 2019: 9.600.000Visitatori 2018: 10.200.000 - 600.000 -5,9% 2 Nat. Museum China PechinoVisitatori 2019: 7.390.000 Visitatori 2018: 8.610.092 - 1.220.000 -14,2%

3 Musei Vaticani Città del VaticanoVisitatori 2019: 6.882.931 Visitatori 2018: 6.756.186 + 126.745

+1,9%

I musei nel mondo➧➧

1 Gallerie degli Uffizi FirenzeVisitatori 2019: 2.361.732Visitatori 2018: 2.230.914 + 130.818 +5,9% 2 Galleria Accademia FirenzeVisitatori 2019: 1.704.776 Visitatori 2018: 1.719.645 - 14.869 -0,9% 3 Castel Sant’Angelo RomaVisitatori 2019: 1.197.078 Visitatori 2018: 1.113.373 + 83.705 +7,5%

➧➧

I musei in Italia

La notizia del momento, ciò a cui tutti guardano (e su cui saranno ancor più chiamati a riflettere e trovare risposte nel prossimo futuro) non sono certo i record di visitatori del recente passato. Pochi mesi fa molti riflettevano sull’«o-vertourism», il grande male di città e musei del mondo, almeno quelli più fortunati: da Venezia a Barcellona, da-gli Uffizi ai Musei Vaticani, fino a Lou-vre e Metropolitan, in molti cercavano soluzioni su come contenere i flussi, differenziare i percorsi, deviare le folle, aprire a nuovi obiettivi, borghi e piccoli musei in testa. Noi stessi, meno di un anno fa, titolavamo «Allarme mondiale, pandemia di turismite» (cfr. n. 398, giu. ’19, p. 1). Paiono ere geologiche fa, di fronte all’attuale e ben diversa pande-mia. Oggi, la riflessione non è tanto su come attirare nuovamente il pubblico all’interno delle sale (quando saranno finalmente riaperte), ma come sopravvi-vere fino a quel momento. Neppure si intravede quella meta, e intanto si mol-tiplicano gli appelli per finanziamenti e aiuti straordinari (cfr. articoli nella sezione Notizie). A rischio sono musei grandi e piccoli, e soprattutto i loro la-voratori: non solo i dipendenti, pubbli-ci e privati, ma i tanti che, tra «servizi aggiuntivi» ed esternalizzazioni, gravi-tano attorno al (piccolo) mondo musea-le, in Italia e nel mondo. Non stupisce l’allarme generalizzato, e non stupisco-no gli appelli di piccole e grandi realtà, quando anche un campione mondiale come il Metropolitan Museum di New York (da sempre ammirato come modello di virtuosa gestione finanzia-

ria) prevede un buco nel proprio bilan-cio 2020 addirittura di 100 milioni di dollari. Per il momento, annuncia la chiusura fino a luglio. Per il Met, così come per tutti gli altri musei oggi in classifica, si annunciano mesi di crollo dei visitatori, di ristrutturazione inter-na, di attività diverse e diversificate, soprattutto online: un campo in cui tut-ti si stanno in queste settimane ripro-ponendo e reinventando. Si tratterà di dimostrare una ben più ardua capacità di lavorare sulla distanza, proponendo contenuti reali e attività davvero capaci di interessare e formare il pubblico, a partire dalle collezioni. Con ogni proba-bilità, il prossimo anno ci interroghere-mo (ancora più di oggi) sul significato e sull’opportunità di classifiche fatte di numeri, sempre alla ricerca del re-

cord. Per quest’anno, giunta ormai alla sua XIII edizione, la classifica annuale di «Il Giornale dell’Arte» e «The Art New-spaper» incorona per l’ennesima volta il Louvre di Parigi (oggi chiuso «a tempo indeterminato», fin dalla mattina del 13 marzo). Segue come lo scorso anno il National Museum of China di Pechi-no mentre, abbastanza clamorosamen-te, il Metropolitan Museum of Art di New York è scalzato dal podio dai Musei Vaticani, protagonisti di un’ine-sorabile ascesa negli ultimi anni (grazie anche all’ampliamento dei percorsi di visita e ai numerosi lavori interni). Po-che le novità anche in Italia, dove si ripropone il trio di testa, dominato da Firenze con Uffizi e Gallerie dell’Ac-cademia (proprio nel 2019 confermate nella loro autonomia dal rientrante mi-

nistro Franceschini), seguita da Roma con Castel Sant’Angelo. I nostri primi tre musei siedono rispettivamente in posizione 26, 39 e 59 nel mondo: un risultato tuttora non pienamente soddisfacente.

Il Louvre sempre leader, i Vaticani scalzano il MetIl Musée du Louvre è ancora una volta in cima alla nostra classifica in termini di affluenza complessiva con 9,6 milio-ni di visitatori, cifra impressionante nonostante i 600mila ingressi in meno rispetto al suo record di tutti i tempi stabilito nel 2018. Le continue proteste in città, gilet gialli su tutti, hanno cer-tamente contribuito al calo di affluenza

Servizio a cura di Alessandro Martini

28 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

LA CLASSIFICA MONDIALE DEI MUSEI PIÙ VISITATI NEL 2019

MUSEI I primi cento dell’Italia nel 20192019 (18) Sede o complesso museale Città Visitatori tot

1 (1) Gallerie degli Uffizi Firenze 2.361.732

2 (2) Galleria dell’Accademia e Museo degli Strumenti Musicali

Firenze 1.704.776

3 (3) Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo Roma 1.197.0784 (5) Museo Egizio Torino 853.3205 (4) La Venaria Reale Venaria

Reale (To)837.093

6 (8) Museo Storico e Parco del Castello di Miramare

Trieste 785.316

7 (9) Palazzo Pitti Firenze 777.2198 (6) Reggia di Caserta Caserta 728.2319 (10) Museo Nazionale del Cinema Torino 674.26010 (14) Palazzo Vecchio e Torre di Arnolfo Firenze 673.62611 (12) Museo Archeologico Nazionale Napoli 673.00012 (15) Castello Sforzesco Milano 610.84013 (13) Galleria Borghese Roma 572.97614 (11) Museo dell’Opera del Duomo Firenze 565.66115 (-) Museo Nazionale Scienza e Tecnologia

Leonardo da VinciMilano 545.561

16 (16) Muse Trento 505.91117 (17) Musei Reali Torino 493.68918 (40) MaXXI - Museo nazionale delle arti

del XXI secoloRoma 429.900

19 (18) Musei Capitolini Roma 450.09520 (19) Pinacoteca di Brera Milano 417.97621 (20) Collezione Peggy Guggenheim Venezia 350.47522 (21) Museo Nazionale Romano Roma 44.55623 (26) Palazzo Ducale Mantova 346.44224 (22) Cappelle Medicee Firenze 315.90125 (38) Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte

AnticaTorino 309.001

26 (27) Gallerie dell’Accademia Venezia 305.09927 (23) Museo del Duomo Milano 284.26928 (28) Il Vittoriale degli Italiani Gardone

Riviera (Bs)279.328

29 (32) Macro Roma 278.437

30 (39) Galleria Nazionale delle Marche Urbino 272.52131 (35) Castel Sant’Elmo - Museo Novecento a

NapoliNapoli 266.895

32 (29) Museo del Novecento Milano 266.21033 (43) Museo e Real Bosco di Capodimonte Napoli 252.61734 (-) Museo di Storia Naturale Milano 252.123

2019 (18) Sede o complesso museale Città Visitatori tot

35 (40) Museo civico Palazzo Te Mantova 239.45736 (31) Museo del Baglio Florio Selinunte (Tp) 233.31237 (34) Museo Archeologico Nazionale Reggio

Calabria227.021

38 (36) Museo dell’Ara Pacis Roma 216.80639 (33) Museo Nazionale del Bargello Firenze 215.09440 (46) Gnam - Galleria Nazionale d’Arte

Moderna e Contemporanea Roma 190.604

41 (45) Gam - Gallera Civica d’Arte Moderna e Contemporanea

Torino 185.216

42 (51) Gallerie Nazionali di Arte Antica - Palazzo Barberini e Palazzo Corsini

Roma 180.586

43 (47) Juventus Museum Torino 180.28644 (30) Pirelli HangarBicocca Milano 180.00045 (48) Museo di Castelvecchio Verona 175.26546 (37) Musei Civici S. Gimignano

(Si)159.322

47 (58) Complesso monumentale della Pilotta Parma 151.10548 (-) Museo Civico Archeologico Bologna 148.17349 (55) Museo di San Marco Firenze 143.06650 (49) Complesso museale di Santa Maria della

ScalaSiena 138.291

51 (53) Museo del Forte di Bard Bard (Ao) 136.37852 (61) Civico Museo della Risiera di San Sabba Trieste 128.33453 (56) Museo di San Martino Napoli 128.18854 (60) Castello di Rivoli Museo d’Arte

ContemporaneaRivoli (To) 127.632

55 (57) Museo di Roma in Palazzo Braschi Roma 133.98356 (59) Museo Nazionale di Villa Pisani Stra (Ve) 122.579

57 (66) Museo della Foiba di Basovizza Trieste 122.39458 (54) Museo Nazionale del Risorgimento

ItalianoTorino 120.364

59 (64) Mao - Museo d’Arte Orientale Torino 119.10860 (52) MAMbo Bologna 117.83261 (76) Pinacoteca Ambrosiana Milano 116.09962 (63) Galleria di Palazzo Reale Genova 111.13063 (65) Museo Archeologico al Teatro Romano Verona 104.210

64 (88) Ma*Ga Gallarate 102.13165 (75) Galleria Nazionale dell’Umbria Perugia 96.26366 (68) Museo di Santa Giulia Brescia 93.665

67 (80) Museo Archeologico Nazionale di Manfredonia

Manfredonia (Fg)

86.920

2019 (18) Sede o complesso museale Città Visitatori tot

68 (91) Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro Venezia 85.066

69 (72) Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia

Roma 83.632

70 (76) Pinacoteca Nazionale Bologna 82.14271 (70) Museo degli Affreschi alla Tomba di

GiuliettaVerona 81.460

72 (89) Palazzo Morando - Costume Moda Immagine

Milano 81.044

73 (-) Gallera d’Arte Moderna Verona 76.676

74 (79) Museo Archeologico Nazionale di Firenze

Firenze 76.637

75 (67) Gallera d’Arte Moderna Milano 76.51776 (81) Palazzo Chiericati Vicenza 75.696

77 (78) Museo Archeologico Nazionale Taranto 71.04178 (71) Museo d’Arte Orientale Venezia 70.81479 (85) Museo Archeologico Nazionale Cagliari 65.568

80 (82) Museo Archeologico A. Salinas Palermo 64.58481 (100) Museo Poldi Pezzoli Milano 63.24682 (96) Camera - Centro Italiano per la Fotografia Torino 63.000

83 (62) GAMeC Bergamo 62.997

84 (-) Museo Lavazza Torino 62.642

85 (84) Museo Revoltella Trieste 62.111

86 (92) Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli Torino 60.000

87 (-) Civico Museo d’Antichità J. J. Winckelmann

Trieste 58.708

88 (97) Museo Diocesano Tridentino Trento 58.63589 (74) Le Stanze del Vetro Venezia 58.442

90 (-) Museo Civico San Sebastiano Bergamo 57.75291 (-) Palazzo Belmonte Riso Palermo 57.13792 (87) Museo Nazionale di Palazzo di Venezia Roma 53.978

93 (-) Galleria Estense Modena 53.495

94 (98) Museo delle Civiltà Roma 52.404

95 (98) Galleria Spada Roma 52.345

96 (94) Museion Bolzano 51.864

97 (-) Pinacoteca Nazionale di Ferrara Ferrara 51.83998 (-) Museo Nazionale del Ducato di Spoleto Spoleto 51.760

99 (69) Museo Nazionale delle Residenze Napoleoniche dell’isola d’Elba

Portoferraio (Li)

51.239

100 (-) Museo Classis Ravenna 51.172

Musei e complessi archeologiciNella storia della tutela italiana, molti musei nascono per accogliere reperti frutto di scavi nelle aree archeologiche adiacenti, a cui sono inscindibilmente legati. Gli ingressi comprendono anche la frequentazione delle aree en plein air, non confrontabili quindi con quelle dei musei (anche archeologici) privi di questa parte turisticamente così rilevante. A questi «complessi» dedichiamo un’apposita tabella. La new entry più alta dell’anno è la Domus dei Tappeti di Pietra a Ravenna.

2019 (18) Sede o complesso museale Città Visitatori tot1 (1) Pantheon Roma 9.330.8352 (2) Colosseo, Foro Romano e Palatino Roma 7.403.4513 (3) Area archeologica di Pompei

(+ Stabiae, Oplontis, Boscoreale)Pompei (Na) 3.863.879

4 (4) Valle dei Templi Agrigento 956.5785 (5) Arena Verona 826.5906 (6) Area archeologica di Ercolano Ercolano (Na) 558.9627 (7) Villa d’Este Tivoli (Rm) 481.9368 (8) Parco archeologico di Paestum Capaccio Paestum (Sa) 378.3829 (9) Villa Romana del Casale Piazza Armerina (En) 307.65310 (10) Museo e Scavi di Ostia Antica Roma 301.65811 (11) Parco archeologico di Segesta Segesta (Tp) 290.98912 (14) Terme di Caracalla Roma 258.48613 (12) Grotte Catullo e Mus. Arch. di Sirmione Sirmione (Bs) 245.73714 (16) Grotta Azzurra Anacapri (Na) 236.46415 (13) Area archeologica di Selinunte Selinunte (Tp) 233.31216 (15) Villa Adriana Tivoli (Rm) 229.99917 (18) Area archeologica Su Nuraxi Barumini (Vs) 97.46218 (23) Teatro Romano Aosta 87.06319 (21) Criptico forense Aosta 83.64420 (22) Area archeologica di Nora Pula (Ca) 82.99121 (17) Tomba di Giulietta Verona 81.46022 (-) Domus dei Tappeti di Pietra Ravenna 78.99923 (19) Parco archeologico di Siponto Manfredonia (Fg) 78.82324 (20) Area archeologica di Tharros Cabras (Or) 64.44125 (24) Museo e Compl. arch. Area Flegrea Bacoli (Na) 53.35126 (25) Circuito archeologico di Santa

Maria Capua VetereSanta Maria Capua Vetere (Ce)

53.063

27 (27) Necropoli di Monterozzi Tarquinia (Vt) 48.22528 (26) Circuito archeologico - Tomba di

Cecilia Metella, Villa dei QuintiliRoma 40.728

29 (28) Basilica paleocristiana San Lorenzo Aosta 37.43930 (-) Cripta Rasponi e Giardini Pensili Ravenna 26.67831 (31) Parco e Museo dell’Area Megalitica

di Saint-Martin-de CorléansAosta 16.325

32 (29) Antiquarium e Zona archeologica di Canne della Battaglia

Barletta 15.280

33 (32) Ponte romano di Pont d’Ael Aymavilles (Ao) 14.40834 (30) Area archeologica di Morgantina Aidone (En) 14.38035 (33) Parco archeol. e Museo all’aperto

della Terramara di MontaleCastelnuovo Rangone (Mo)

13.025

36 (34) Santuario di Ercole Vincitore Tivoli (Rm) 7.004

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Castelli, ville, palazzi, certose, torri... La nostra classifica dei musei comprende quelle istituzioni che prevedo-no una presentazione delle collezioni in spazi appositamente allestiti, a «carattere museale», escludendo quindi i «musei di se stessi», come palazzi, ville e residenze. A loro dedichiamo questa specifica classifica. Premiata ancora la Villa d’Este, al primo posto con i suoi soli visitatori, ma dal 2017 accorpata dal Mibact all’altra gemma di Tivoli, Villa Adriana (16ma nella classifica dei siti archeologici; cfr. tabella a lato).

2019 (18) Sede o complesso museale Città Visitatori tot1 (1) Villa d’Este Tivoli (Rm) 482.0342 (2) Casa di Giulietta Verona 370.3323 (3) Castello Scaligero Sirmione (Bs) 308.4594 (4) Castel del Monte Andria (Bt) 269.7945 (5) Palazzo Reale di Napoli Napoli 272.0616 (6) Villa Carlotta Tremezzina (Co) 233.691

Il Teatro Romano di Aosta, 18mo tra i complessi archeologici (+5 posizioni)

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2019 (18) Sede o complesso museale Città Visitatori tot7 (7) Rocca Demaniale Gradara (Pu) 225.1578 (9) Castello del Buonconsiglio Trento 161.4209 (10) Mercati di Traiano e Museo

dei Fori imperialiRoma 136.669

10 (11) Castello di San Giusto/Armeria Trieste 129.69911 (13) Castello di Fénis Fénis (Ao) 97.23712 (28) Forte di Santa Tecla Sanremo (Im) 89.73013 (14) Certosa di San Lorenzo Padula (Sa) 88.05414 (19) Palazzo Farnese Caprarola (Vt) 86.93115 (17) Mausoleo di Teodorico Ravenna 86.26516 (18) Villa Lante Viterbo 85.07617 (15) Castello Svevo di Bari Bari 77.60318 (21) Castel Thun Vigo di Ton (Tn) 72.31219 (22) Fortezza di San Leo San Leo (Rn) 69.32720 (27) Compendio Garibaldino

di CapreraLa Maddalena (Ss) 59.958

21 (24) Castello di Torrechiara Langhirano (Pr) 57.95322 (23) Forte di Belvedere Firenze 55.14723 (-) Palazzo della Ragione Bergamo 52.18424 (29) Villa della Regina Torino 52.12725 (31) Castello, Giardino e Parco d’Agliè Agliè (To) 48.68526 (33) Rocca Roveresca Senigallia (An) 48.00327 (12) Complesso Monumentale

del Castello e Parco di RacconigiRacconigi (Cn) 47.842

28 (36) Castel Savoia Gressoney-Saint-Jean (Ao)

43.575

29 (34) Castel Beseno Besenello (Tn) 43.12330 (30) Castello Svevo Trani (Bt) 39.40231 (35) Castello di Issogne Issogne (Ao) 37.740

32 (37) Tomba di Virgilio Napoli 35.27133 (38) Castello Reale di Sarre Sarre (Ao) 30.48934 (44) Palazzo Ducale Gubbio 29.04235 (41) Palazzo di Tiberio e Villa Jovis Capri (Na) 28.68436 (42) Villa marittima e Antiquarium

di MinoriMinori (Sa) 27.498

37 (43) Villa Medicea della Petraia Firenze 27.323

38 (46) Castello Piccolomini Celano (Aq) 24.980

39 (40) Camera di San Paolo Parma 24.664

40 (50) Palazzo Ducale Sassuolo (Mo) 23.96741 (48) Castello della Fava Posada (Nu) 23.16842 (47) Arche Scaligere Verona 22.94843 (45) Certosa di San Giacomo Capri (Na) 21.69344 (49) Castel Stenico Stenico (Tn) 20.32045 (54) Castello di Verrès Aosta 18.90846 (55) Castel Caldes Caldes (Tn) 17.58547 (20) Le Castella Isola di Capo Rizzuto

(Kr)15.193

48 (39) Fortezza Firmafede Sarzana (Sp) 13.52949 (57) Castello Sarriod de la Tour Saint-Pierre (Ao) 12.55450 (58) Castello di Canossa e Museo

Nazionale Naborre CampaniniCanossa (Re) 11.491

La raccolta dei dati relativi ai musei italiani è stata curata da Carlotta de Volpi

29IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

LA CLASSIFICA MONDIALE DEI MUSEI PIÙ VISITATI NEL 2019

La Scala Regia progettata da Vignola e affrescata da Antonio Tempesta nel Palazzo Farnese di Caprarola, 14mo nella classifica 2019 dedicata a «Castelli, ville, palazzi, certose, torri...»

2019 (18) Sede o complesso museale Città Visitatori tot1 (1) Parco Archeologico del Colosseo Roma 7.403.4512 (2) Le Gallerie degli Uffizi (Uffizi, Pitti e Boboli) Firenze 4.391.895

3 (12) Area archeologica di Pompei (+ Stabiae, Oplontis, Boscoreale…)

Pompei (Na) 3.863.879

4 (-) Complesso del Vittoriano* Roma 3.094.1165 (3) Galleria dell’Accademia Firenze 1.704.7766 (4) Reggia di Caserta Caserta 728.2317 (5) Area Archeologica di Villa Adriana e Villa d’Este Roma 721.3438 (6) Museo Archeologico Nazionale Napoli 673.0009 (7) Galleria Borghese Roma 572.976

10 (8) Parco archeologico di Ercolano Ercolano (Na) 558.96211 (9) Musei Reali (Palazzo Reale, Galleria Sabauda, Palazzo

Chiablese, Museo d’Antichità, Armeria Reale, Sindone)Torino 493.689

12 (11) Pinacoteca di Brera Milano 417.97613 (10) Parco Archeologico di Paestum Capaccio (Sa) 378.38214 (14) Palazzo Ducale Mantova 346.44215 (17) Museo Storico di Miramare Trieste 307.17716 (16) Gallerie dell’Accademia Venezia 305.09917 (15) Museo e Scavi di Ostia Antica Roma 301.65818 (20) Galleria Nazionale delle Marche Urbino 272.521

19 (-) Palazzo Reale di Napoli* Napoli 272.06120 (21) Museo di Capodimonte Napoli 252.61721 (19) Museo Archeologico Nazionale Reggio Calabria 227.02122 (18) Museo Nazionale del Bargello Firenze 215.09423 (22) Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea Roma 190.60424 (23) Gallerie Nazionali di Arte Antica - Palazzo Barberini e

Palazzo CorsiniRoma 180.586

25 (25) Complesso monumentale della Pilotta Parma 151.10526 (-) Gallerie Estensi Ferrara, Modena

e Sassuolo129.301

27 (24) Galleria di Palazzo Reale Genova 111.13028 (27) Galleria Nazionale dell’Umbria Perugia 96.26329 (26) Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia Roma 83.632

30 (-) Pinacoteca Nazionale di Bologna* Bologna 82.14231 (29) Museo Archeologico Nazionale Taranto 71.041

32 (-) Museo Archeologico Nazionale* Cagliari 65.56833 (-) Museo Nazionale di Palazzo Venezia* Roma 53.978

34 (30) Museo delle Civiltà (Museo Pigorini, Arti e Tradizioni popolari, Arte Orientale e Alto Medioevo)

Roma 52.404

35 (13) Museo Nazionale Romano Roma 44.55636 (31) Parco Archeologico dell’Appia Antica

(Mausoleo di Cecilia Metella e Villa dei Quintili)Roma 40.728

37 (-) Museo Archeologico Nazionale Domenico Ridola* Matera 27.79538 (-) Museo Nazionale d’Abruzzo* L’Aquila 14.21739 (-) Parco archeologico di Sibari* Cassano allo Ionio (Cs) 12.684

2019 (18) Sede o complesso museale Città Visitatori tot1 (1) Complesso di Santa Maria del Fiore Firenze 2.249.4442 (2) Museo Cappella San Severo Napoli 758.4533 (3) Cenacolo Vinciano Milano 445.7284 (4) Santa Maria Novella Firenze 408.5015 (5) Abbazia di Montecassino Cassino (Fr) 278.6006 (8) Abbazia di Casamari Veroli (Fr) 238.5007 (9) Basilica di Sant’Apollinare in Classe Ravenna 202.279

8 (10) Battistero degli Ariani Ravenna 99.5809 (-) Basilica di San Francesco Arezzo 76.364

10 (-) Chiesa di Orsanmichele Firenze 69.719

2019 (18) Sede o complesso museale Città Visitatori tot1 (1) Palazzo Reale Milano 872.0682 (2) Mudec Milano 471.6643 (4) Palazzo Ducale Genova 457.7844 (-) Palazzo Strozzi Firenze 269.0965 (6) Palazzo delle Esposizioni Roma 157.1296 (3) Basilica Palladiana Vicenza 55.662

I «supermusei» verso quota 40Al centro delle politiche del ministro Dario Franceschini (nei suoi incarichi I e II) ci sono i «supermusei» statali, istituiti a fine 2014 e operativi tra fine 2015 e inizio 2016. Per il quarto anno, illustriamo i primi venti insieme ai dieci (più due) istituiti nel febbraio 2017. Indichiamo anche i dati relativi ai 7 nuovi musei autonomi (*) istituiti da Franceschini al suo rientro al Mibact dopo la «parentesi» Bonisoli: ovviamente l’efficacia della loro autonomia potrà valutarsi in futuro.

Chiese, abbazie e complessi museali

Le sedi delle grandi mostre

dello scorso anno, comune a quattro dei cinque musei più popolari di Pari-gi ad eccezione del secondo più visitato in città, il Musée d’Orsay, che ha fatto registrare quasi 3,7 milioni di visitatori e un aumento dell’11% rispetto al 2018.Il Museo Nazionale della Cina a Pe-chino mantiene la seconda posizione complessiva con 7,4 milioni di visitatori, seguito dai Musei Vaticani (6,9 milioni), che per la prima volta si collocano al ter-zo posto. Si sono scambiati la posizione con il Metropolitan Museum di New York (6,5 milioni), reduce dai quasi sette milioni di visitatori che hanno omaggia-to le sue sale nel 2018 quando ha ospita-to la sua mostra blockbuster del Costu-me Institute «Heavenly Bodies» (ben 1,7 milioni di ingressi, 10.919 al giorno).Con 6,2 milioni di visitatori, 400mila in più rispetto all’anno precedente, a Lon-dra il British Museum (Bm) rivendica il suo titolo di museo più visitato del Re-gno Unito dopo essere stato spodestato dal primo posto nel 2018 dalla Tate Mo-dern. Risultato trainato anche dalla sua mostra più frequentata del 2019, dedica-ta ai «Manga». Ma sono la Tate Modern e la Tate Britain di Londra ad avere più motivi per festeggiare in quanto entrambi hanno fatto registrare un an-no da record (ricordiamo che, come in tutti i musei statali britannici l’ingresso alle collezioni è gratuito, mentre ben 59 milioni di sterline sono giunte al co-losso Tate da attività commerciali come biglietteria per le mostre, bookshop, ristorante, ricevimenti...). La Tate Mo-dern ha accolto 6,1 milioni di visitatori: 230mila in più rispetto al 2018, sebbe-ne nessuna delle sue mostre abbia rag-giunto i livelli di quella di Picasso del 2018. Circa 1,8 milioni di visitatori si sono diretti alla Tate Britain: ha avuto un aumento di 536mila visitatori, di cui 422mila hanno puntato sulla mostra «Van Gogh e la Gran Bretagna». Così come a Parigi, anche negli Stati Uniti è l’attualità politica e sociale a fornire un’utile chiave di lettura dei da-ti di accesso nei musei. Lo scorso anno lo shutdown (ben prima dell’attuale lockdown...), imposto per 35 giorni sulle attività governative, ha avuto un significativo impatto anche sulle visite ai musei finanziati con i fondi pubbli-ci di Washington, rimasti chiusi per la

maggior parte di gennaio. Nella capita-le federale i visitatori complessivi allo Smithsonian American Art Museum e alla National Portrait Gallery, che condividono la sede, sono diminuiti di 604mila unità. La Renwick Gallery ha segnato un calo di 500mila ingressi e la National Gallery of Art di 330mila. Ma, come abbiamo visto, anche a New York il calo ha interessato un museo non certo finanziato da soldi pubblici come il Me-tropolitan (-1). Sulla costa opposta, a Los Angeles, -12 posizioni per il Lacma (80). A San Pietroburgo ottimo l’Ermitage (8), con poco meno di 5 milioni di in-gressi, e a Mosca la Galleria Tret’jakov, al numero 20 (+10). In Top ten, gran risultato per il Museo Reina Sofía di Madrid, che sale due posizioni fino alla nona mondiale.

In Italia i «supermusei» in crescita (quasi tutti)A Firenze le Gallerie degli Uffizi raf-forzano la propria leadership (26 nel mondo, +1): gli ottimi risultati di pubbli-co, costanti negli ultimi anni, corrono paralleli ai numerosi interventi di rial-lestimento nelle sale, cui è corrisposta una grande visibilità del museo (e del suo «superdirettore» Eike Schmidt, con-fermato alla guida dell’istituzione dal rientrante ministro Franceschini). La gran parte dei direttori di musei statali «dotati di autonomia», nominati in se-guito alla riforma del 2014 e via via affi-nata, possono vantare risultati positivi, tanto sugli ingressi quanto sull’offerta al pubblico. Nessun cambio di rilievo tra i primi cinque, con il solo scam-bio tutto torinese tra Museo Egizio e Reggia di Venaria. Torino è ancora presente tra i primi dieci con il Museo del Cinema (in salita alla nona posizio-ne) e tra i primi 25 con il museo civico di Palazzo Madama. Ottimi risultati anche a Milano, dove i Musei del Ca-stello Sforzesco salgono al 12mo posto (+3) mentre il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci è il miglior ingresso del 2019 (al numero 15), seguito sempre a Mila-no dal Museo di Storia Naturale (34). Come dicevamo, crescono in generale tutti i musei statali con autonomia spe-ciale, i «supermusei» a cui dedichiamo un’apposita tabella (comprende anche ©

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segue da p. 27, iv col.

1 Musei Vaticani, Roma #388.0002 Uffizi, Firenze #367.1313 MaXXI, Roma #150.0004 Palazzo Pitti, Firenze #109.6015 Museo Ferrari, Maranello #59.3926 Pinacoteca di Brera, Milano #55.2407 Galleria Borghese, Roma #54.783 8 Musei Capitolini, Roma #49.421 9 Museo del ’900, Milano #46.00010 Museo del Cinema, Torino #46.000

1 Louvre, Parigi #4.123.9882 Tate Modern, Londra #1.051.7763 Ermitage, San Pietroburgo #675.282

Nel mondo

In Italia

I PREFERITI SU INSTAGRAM

Ottima performance per il MaXXI di Roma nel 2019, in 18ma posizione tra i musei italiani

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i nuovi 7, istituiti lo scorso dicembre). Bene Pitti, Mann di Napoli, Pilotta di Parma, Galleria Nazionale dell’Um-bria, Palazzo Ducale di Mantova e Galleria Nazionale delle Marche (i cui direttori «stranieri», Peter Assman e Peter Aufreiter, hanno lasciato...). Benis-simo Capodimonte (+ 10 posizioni) ma meno bene Caserta, così come Bargel-lo a Firenze e Archeologico di Reg-gio Calabria. Fuori dai «supermusei», si segnalano le +14 posizioni del Ma*Ga di Gallarate e le +13 del Museo Ar-cheologico Nazionale di Manfredo-nia. Anche se, si sa, i numeri non sono tutto. Ne riparleremo l’anno prossimo, quando i musei si saranno (necessaria-mente) attrezzati non solo per superare l’emergenza sanitaria, ma per costruire un’offerta nuova e innovativa, dentro e fuori le proprie sale. Al di là dei record di visitatori. q Alessandro Martini

Font

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30 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

A cura di Laura Giuliani

Il Giornale dell’ARCHEOLOGIA

Da sinistra a destra e in senso orario. Particolare della parete della cappella principale della tomba di Neferhotep e uno dei due colossi di Memnone ai piedi della montagna tebana. In alto uno dei quattro «ushabti» ritrovati nel corso dello scavo e l’archeologa Oliva Menozzi dell’Università di Chieti. Sotto i coniugi Neferhotep e Merit-Ra rappresentati in rilievo su una delle pareti nella cappella principale e l’interno del complesso funerario

Blindata la montagna tebana

Nero di TebeA Luxor l’Università di Chieti opera con egittologi e restauratori egiziani, argentini e tedeschi nello scavo della tomba di Neferhotep, fonte straordinaria di pitture e di stratificazioni

Luxor (Egitto). L’Università di Chieti scava a Luxor e riporta alla luce una delle tombe nella necropoli dei No-bili, tra la valle dei Re e il tempio di Hatshepsut. L’Eldorado dell’ar-cheologia continua a stupirci e nella stagione invernale si trasforma in un immenso cantiere, con decine di équipe internazionali al lavoro, a cominciare dalla monumentale ricostruzione del tempio di Amenofi III, dietro ai colossi di Memnone. Le pendici della montagna tebana, sulla riva occidentale del Nilo, diventano un via vai di operai, secchi e carrio-le per smuovere la terra e svuotare le gallerie. Non a caso il toponimo «Khokha», località che ospita lo sca-vo italiano dell’Università di Chieti diretto da Oliva Menozzi, significa collina dei cunicoli comunicanti. Appena lo scorso ottobre l’ennesimo ritrovamento, a pochi metri dalla missione italiana, trenta sarcofagi intatti, tutti finemente dipinti, ri-salenti alla XXII dinastia (1000 a.C. circa, cfr. n. 403, dic. ’19, pp. 38-39). Con il ministro delle Antichità e Tu-rismo Khaled el-Anani a presiede-re l’evento, giustamente inorgoglito dal ritrovamento compiuto dal team egiziano di Mostafa El-Wasiri, se-gretario generale del Consiglio Su-premo delle Antichità.Negli ultimi anni, ad accelerare le ricerche è stato l’intervento di eva-cuazione dei villaggi ai piedi del-la montagna, con forte disappunto degli abitanti costretti a trasferirsi nel moderno paese di Qurna El-Ge-dida (Nuova Gurna). Ora la monta-

gna tebana è davvero «blindata» e gli studiosi stranieri, che qui sono di casa da almeno duecento anni, lamentano una restrizione delle li-bertà (non si fa un passo fuori dai percorsi turistici senza autorizza-zione) e una burocrazia sempre più limitante. L’obiettivo è incoraggiare le missioni egiziane, attualmente quattro, benché la maggior parte dei finanziamenti venga dall’estero e l’economia locale ne tragga un con-siderevole beneficio. Nel caso della tomba di Neferhotep, la cosiddetta TT49 (acronimo di Tomba Tebana n. 49), il ritrovamento non è così spet-tacolare, ma dal punto di vista scien-tifico è forse più interessante. «Ciò che rende speciale questa tomba, spiega Menozzi, è il palinsesto di culture e fasi storiche che si susseguono in un arco di tempo che va dalla XVIII dinastia (1300 a.C. ca) all’epoca tolemaica, e più oltre al periodo copto. Con il riutilizzo degli stessi ambienti e la loro trasformazione secondo le necessità del momento». Una docu-mentazione unica, che consente di identificare le pratiche sociali con cui l’élite tebana affrontava il te-ma della morte a partire dall’An-tico Regno. Da una prima lettura delle pitture, sembra appartenere a questo periodo la tomba appena individuata. Se l’egittologia ha una storia lunga, l’archeologia in senso lato, intesa come studio sistematico delle fasi di frequentazione di un si-to attraverso uno scavo stratigrafico, è recente. Da un punto di vista scien-tifico ci si aspetta ancora molto, tan-to che oggi è divenuta obbligatoria

la presenza di un archeologo all’in-terno dei team che chiedono l’auto-rizzazione a scavare. Nel complesso funerario di Neferhotep lavorano tre gruppi contemporaneamente: l’egittologa argentina Maria Viole-ta Pereyra, direttore del progetto, conduce l’esegesi delle pitture della cappella funeraria principale (TT49) affiancata da Antonio Branca-glion, egittologo, curatore della se-zione egizia del Museo Nazionale di Rio de Janeiro, tristemente noto per l’incendio del 2018 che ne ha deva-stato la collezione. L’équipe tedesca di restauratori guidata da Christine Verbeek e il team italiano dell’Uni-versità di Chieti che si occupano del-lo scavo delle altre tombe. Un ipogeo mai del tutto esplorato, nonostante la sepoltura di Neferhotep fosse stata visitata dai pionieri dell’Ot-tocento: Edward William Lane, Jean-François Champollion, Ip-polito Rosellini e John Gardner Wilkinson, i quali avevano ammi-rato le pitture e la vivacità dei colori fino a quando qualcuno fece un falò delle mummie accatastate all’inter-no, ricoprendo le pareti di una pa-tina nera. Per riportarle alla luce, l’archeologa Verbeek ha usato per la prima volta il laser, come lei stes-sa spiega: «Ero davvero spaventata dal lavoro, le pitture erano quasi invisibili. Inizialmente abbiamo provato le tecniche conosciute che si usano in questi casi, ma nessuna sembrava efficace. La copertura nera era grassa e resistente a causa degli oli bruciati e dei bendaggi delle mummie. Allora abbiamo pensato al laser e siamo

rimasti sbalorditi dal risultato». L’ener-gia del fascio di luce viene assorbita dallo strato nero, ed espandendosi lo stacca dalla superficie sottostan-te, più chiara, senza danneggiare la pittura. «Apparentemente sembra facile, in realtà è un’alchimia molto delicata. La ditta Cleanlaser Werk II ha costruito uno strumento apposito, leggero e con la po-tenza modulabile. Ma la cosa più difficile è stata ottenere i permessi dal Cairo. Cre-do che ancora oggi siamo gli unici a uti-lizzarlo». Il patrimonio iconografico, ora visibile quasi nella sua interezza, suggerisce una nuova comprensione di quel delicato periodo politico co-nosciuto come epoca di Amarna (1372-1354 a.C.), quando la potente città di Tebe, legata al culto di Amon, si scontrò con il faraone Amenofi IV (Akhenaton), autore di una contro-versa riforma religiosa. L’egittologa argentina interpreta il tentativo ri-formista del faraone come strategia per contrastare lo strapotere tebano dei sacerdoti di Karnak. Sarà poi il giovane Tutankhamon a chiudere il tempo di Amarna e restaurare il culto di Amon. Quello che sembra raccontare la tomba di Neferhotep, è la figura di un personaggio che ha avuto un ruolo chiave nel conflitto di potere tra l’aristocrazia tebana e il faraone, originario del medio Egitto. Senza dubbio Neferhotep appar-teneva a un’influente famiglia connessa al tempio di Karnak, tanto che questo appare dipinto nella cappella funeraria, ed è l’uni-ca raffigurazione esistente in tutta la necropoli. Inoltre la fluente capi-

gliatura bianca del dignitario ne in-dicherebbe l’età avanzata, un uomo di esperienza, forse un diplomatico in una fase politica così turbolenta, durante la quale lo stesso faraone preferì allontanarsi da Tebe. Anche alla moglie Merit-Ra viene assegna-to un riguardo speciale. La scena del-la ricompensa, in cui la regina porge alla nobildonna la collana preziosa, simbolo di vita eterna, è unica. A fianco è raffigurato il re che porge la stessa collana a Neferhotep. L’egitto-loga Pereyra spiega perché è impor-tante: «Credo che questa immagine del re che ricompensa i nobili sia l’espressione di una costruzione teologica realizzata per sostenere il potere politico del momento, a beneficio dei nobili, nella mediazione con il faraone». Un altro tipo di ese-gesi è quella studiata dagli archeo-logi italiani, i quali hanno liberato sale, pozzi funerari e sepolture por-tando alla luce un ricco bagaglio di

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Archeologia

informazioni. Ambienti depredati e riutilizzati in fase successive, dove alloggiavano anche i parenti di Ne-ferhotep, rappresentati in rilievo ai lati del padrone di casa e della sua sposa. A cominciare dal corridoio che conduce alla tomba dell’usurpa-tore, appellativo assegnatogli dall’a-mericano Theodore Davies che ne-gli anni Venti aveva notato che qui il nome di Neferhotep era stato cancel-lato. Dal cortile esterno del comples-so funerario si aprono gli ingressi ai cunicoli che conducono a nuove sale, interessante è la documentazio-ne delle varie fasi storiche che qui si sovrappongono, tutte rigorosamente documentate in 3D. Oliva Menozzi spiega: «La camera funeraria (TT362) è di epoca ramesside. Il soffitto stellato è da restaurare, ma si riconosce il disegno del-la barca funeraria, la preparazione della mummia con il dio Anubi e il trasporto del sarcofago. Poi nel Terzo Periodo Inter-medio hanno scavato un pozzo e aggiunto una figura maschile, un nubiano che fa il

Roma

Un museo sotto terraEntro il 2024 la stazione museo Amba Aradam della metro C a firma dell’architetto Paolo Desideri

Nero di Tebe

Roma. Nell’immenso cantiere sotter-raneo della stazione della metro C dell’Amba Aradam, nel centro di Roma, si lavora alla più grande arche-ostazione del mondo. Sarà diversa da quella già realizzata a San Giovanni che espone reperti solo nelle vetrine. Binari e reperti riemersi durante gli scavi saranno inoltre separati e si po-trà entrare nella stazione anche solo per ammirare l’imponente spettacolo museale. La stazione museo proget-tata dall’architetto Paolo Desideri immergerà nella storia viaggiatori e

visitatori, che osserveranno gli scavi da una gigantesca passerella sospesa su più di 30 ambienti e cunicoli tra mosaici, centinaia di reperti e la già fa-mosa Domus del Comandante, un ricco edificio decorato con mosaici del II secolo d.C, forse una caserma, emer-so nove metri più in basso. Lo scavo archeologico di questo vasto spazio ur-bano, per secoli nascosto nel sottosuo-lo, si estende per un’area di 1.753 mq. Lo si potrà ammirare illuminato da fasci di luci a led che esaltano anche le ampie vetrine colme di vasi, marmi colorati e parti di affreschi. Lo sguar-do passa dalle antichità alla moder-nissima struttura museale, dotata di enormi vetri speciali antiriflesso. Og-gi, seguendo la pianta della stazione e i rendering del progetto di Desideri, si può già assaporare la visita a que-sto straordinario museo sotterraneo. Il viaggio inizia dall’atrio d’ingresso su cui si affacciano reception, bigliet-teria e guardaroba: vicino nascerà la zona ristoro. Passati i tornelli, si pro-cede verso l’area museale scendendo fino alla passerella che permette di passeggiare, sospesi, sulle case roma-ne. Da lì si apre la spettacolare visione degli affreschi, del giardino a terrazze, dei mosaici bianchi e neri a intrecci

geometrici. Dopo la camminata so-spesa, si arriva alla pedana centrale con la colossale teca che ospiterà i tanti oggetti trovati durante gli scavi, iniziati nel 2015. La stazione avrà una lunghezza di circa 120 metri a oltre 30 metri di profondità e si svilupperà su 5 livelli sotterranei: il piano atrio, quello museale, il terzo per l’esposizio-ne dei reperti archeologici, quindi il piano dei locali tecnici e infine i piani mezzanino e banchine a uso esclusivo della metropolitana. Si potrà accedere alla piazza ipogea della stazione da tre ingressi, decidere se visitare solo i re-sti archeologici o raggiungere anche la banchina della metro all’ultimo dei cinque piani. I lavori dovrebbero terminare nel 2024. Intanto, dopo il via libera del Cipe e il finanziamento di 9.3 milioni di euro, sono ripartite le talpe che scavano i tunnel per i bi-nari tra Fori Imperiali e piazza Vene-zia. Mentre proseguono i lavori della metro, continuano anche le indagini archeologiche preventive per comple-tare il progetto della stazione, insieme alla relazione su sicurezza e stabilità di monumenti ed edifici storici in su-perficie. Il progetto sarà presentato al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti a fine primavera. q Tina Lepri

Ricostruzione grafica di uno degli ambienti della futura stazione Amba Aradam

Colori del GandharaRoma. È stato recentemente pubblicato il primo numero del 2019 della rivista «Restauro Archeologico», edita dal Dipartimento di Architettura dell’Università degli studi di Firenze (173 pp., Firenze University Press 2020). Il volume monografico raccoglie gli esiti di uno studio, coordinato

dall’Istituto centrale per il restauro di Roma, su policromie e dorature presenti su sculture e rilievi di arte del Gandhara. La regione del

Gandhara, corrispondente all’odierno Pakistan settentrionale e Afghanistan orientale, ha prodotto un’arte plastica di straordinario valore e interesse, capace di fondere elementi stilistici di matrice orientale e occidentale. Diffusa tra gli ultimi decenni del I a.C. e il IV-V secolo d.C., la scultura gandharica, in pietra, stucco e argilla, raffigura, principalmente, episodi della vita del Buddha. Sono dieci i saggi qui pubblicati, in lingua inglese e francese, introdotti da un testo di Luca Maria Olivieri, direttore della missione archeologica in Pakistan, e Simona Pannuzi dell’Icr, che illustrano le finalità di questo secondo progetto dell’Icr sul Gandhara; i risultati del primo progetto erano stati pubblicati

nel 2015. Analisi scientifiche e indagini conservative sono state compiute non solo su reperti provenienti dalle missioni archeologiche italiane in Pakistan e in Afghanistan, ma anche su numerosi manufatti conservati in musei italiani e stranieri, come il Museo Guimet di Parigi, il Museo d’arte orientale di Torino e il Museo civico archeologico di Milano che conserva una testa di Buddha in stucco (nella foto). q Arianna Antoniutti

Il bagnino di OstiaOstia (Rm). La città di Ostia antica offriva, ai propri abitanti e ai viaggiatori che la attraversavano, non solo il lusso e il relax delle grandi terme pubbliche, ma anche numerosi impianti termali privati. Tra questi erano le cosiddette Terme del Buticoso, un piccolo stabilimento di circa 500 mq, costruito in età traianea (112-115 d.C.) e parzialmente rimaneggiato intorno alla metà del II secolo d.C. Il balneum, dal febbraio dello scorso anno è oggetto di ricerche, scavi e importanti restauri che hanno consentito, nel mese di marzo, la riapertura di un primo lotto dell’impianto. Il cantiere, diretto dall’archeologa Claudia Tempesta, ha consentito il restauro e la messa in sicurezza di affreschi e mosaici relativi a quattro ambienti, comprendenti la stanza con il mosaico pavimentale che dà il nome al complesso (nella foto). «In questo bagno termale irrompe la vita, ha commentato il direttore del Parco archeologico Mariarosaria

Barbera, con il ritratto musivo del balneator, il bagnino gestore Epictetus Buticosus, che reca in mano lo strigile (strumento per la detersione del corpo) e la situla (il secchio) per assistere i clienti». Altrettanto notevoli gli affreschi restaurati in un secondo ambiente: decorazioni vegetali a sfondo rosso, con fiori bianchi dipinti a secco, questi ultimi per la prima volta tornati alla luce. Grazie alle analisi strumentali, compiute in collaborazione con l’Università di Lovanio e con il Pratt Institute di New York, è stato inoltre rilevato l’utilizzo, da parte del pittore, del blu egizio, raro e costoso pigmento a base di rame, in grado di donare lucentezza ai colori. Terminata la fase di progettazione, si sta intervenendo ora sul secondo lotto, il grande calidarium contraddistinto dal pavimento in tessere bianche e nere con scena di corteggio marino, realizzato in età adrianea. q Ar.An.

Anatolica, da Trebisonda a VeneziaVenezia. C’è una piccola isola nella laguna di Venezia la cui storia si intreccia con la storia del popolo armeno. L’isola di San Lazzaro degli Armeni deriva il suo nome dalla comunità dei padri armeni che sull’isola edificò il Monastero Mechitarista di San Lazzaro degli Armeni nel 1717. Qui, nel piccolo museo omonimo che custodisce svariati oggetti di epoca medievale, una piccola spada (nella foto), a prima vista anonima e senza alcun segno particolare, si è rivelata essere un oggetto antichissimo e raro, una spada anatolica risalente al 3000 a.C. Quali sono la sua origine e la sua storia, come è arrivata nel monastero e soprattutto, a chi è appartenuta? A questi interrogativi hanno risposto le ricerche (tuttora in corso) di Vittoria Dall’Armellina, dottoranda dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e autrice della scoperta, insieme con padre Serafino Jamourlian dello stesso monastero. Una vera e propria indagine partita da un biglietto di accompagnamento alla spada e passando al setaccio gli archivi del museo: il foglietto, stropicciato e scritto in armeno (e contenuto in una busta),

allude a una donazione di più oggetti nella seconda metà dell’Ottocento da parte del mercante d’arte e collezionista Yervant Khorasandjian di Trebisonda a Ghevond (Leonzio) Alishan, padre della congregazione Mechitarista e appassionato di archeologia, morto a Venezia nel 1901. La spada sarebbe stata ritrovata a Kavak nei pressi di Trebisonda e sarebbe giunta a Venezia insieme agli altri oggetti contenuti nella lista, verosimilmente negli ultimi anni del XIX secolo. Contemporaneamente le analisi scientifiche sulla composizione del metallo hanno confermato che la spada è stata realizzata in rame arsenicato, una lega frequentemente usata prima della diffusione del bronzo. Questo dato, unitamente alle analogie con spade simili dell’Anatolia orientale, in particolare provenienti dal Palazzo di Arslantepe, hanno permesso di collocare il reperto tra la fine del IV e l’inizio del III millennio a.C. Senza decorazioni e nemmeno tracce di utilizzo a causa del suo non ottimale stato di conservazione, la spada avrebbe potuto essere utilizzata proprio come arma oppure essere un manufatto da parata o far parte di un corredo funerario. Quest’ultima ipotesi sembrerebbe essere la più plausibile: deposta in una sepoltura, la spada e gli altri oggetti del corredo sarebbero stati trovati

dagli abitanti di un villaggio locale e smembrati come spesso avveniva per i ricchi corredi funerari dell’Anatolia Orientale e del vicino Caucaso. q L.G.

I primi 21mila visitatori di PisaPisa. Primo museo dedicato alla navigazione antica in Italia e uno dei maggiori al mondo, con 800 reperti, 47 sezioni, 8 aree tematiche e 7 imbarcazioni di epoca romana in quasi 5mila metri quadrati di superficie espositiva agli Arsenali Medicei, il Museo delle Navi Antiche (la cui concessione è affidata a Cooperativa Archeologia) vanta 21mila visitatori in sei mesi di apertura, e questo con solo tre giorni di apertura alla settimana, orario che sarà invece esteso a sei. Ora, grazie ai finanziamenti statali, e con la collaborazione del Comune di Pisa, è previsto un potenziamento che riguarda gli apparati didattici e il restauro dei materiali esposti. Sarà trasferito il Centro di Restauro del Legno Bagnato attualmente ospitato nei capannoni industriali di San Rossore «una realtà riconosciuta a livello internazionale nell’ambito del restauro del legno archeologico», spiega Andrea Camilli direttore del museo. E continua: «Grazie ai finanziamenti del Mibact, si è avviata la ristrutturazione dei locali dell’ex convento di San Vito adiacenti al Museo delle Navi Antiche, che ospiterà il complesso dei laboratori». Ci saranno inoltre una sala conferenze e un’area mostre e sarà aperto al pubblico, con gli stessi orari, il parco retrostante il museo, originaria sede dell’Orto Botanico medievale. Il soprintendente Andrea Muzzi sottolinea l’importanza del rafforzamento del polo degli Arsenali Repubblicani e Medicei, che porta a valorizzare un’area a lungo rimasta fuori dall’asse turistico convenzionale della città. Tra le collaborazioni più significative, quella con la Escuela Espanola de Historia Y Arquelogia de Roma. q Laura Lombardi

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saluto al sole. Il cartiglio del nome però va a coprire la barca ramesside precedente». C’è bisogno di nuovi spazi, le tombe vengono riaperte per ricavare nuove nicchie. Esemplare è l’altare delle offerte risalente al Terzo Periodo Intermedio (XXII-XXIII dinastia), in cui l’ospite ha riutilizzato quattro «ushabti» (statuette collocate nelle tombe con il compito di rispondere al padrone) di epoca precedente che evidentemente aveva trovato lì, ag-giungendoci poi un’anatra mummi-ficata e altre suppellettili rituali. La scoperta più curiosa viene da un deposito di 50 minuscoli «ushabti» azzurri, in faïence, di epoche diverse, di cui ci sono solo i piedi. Probabilmente ciò che resta di un bottino di tombaroli che era-no riusciti a vendere solo le teste. La predazione delle tombe dell’antico Egitto comincia già all’epoca dei fa-raoni. Gli archeologi, in accordo con le autorità egiziane, sperano presto di aprire la tomba al pubblico illu-strando questa lunga storia grazie alla tecnologia 3D, con un viaggio virtuale che sarà molto suggestivo. q Giulia Castelli Gattinara

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Archeologia

Un tratto dell’antica Via Appia

Roma

In cammino da Roma a BrindisiUn percorso lungo l’antica Via Appia in 29 tappe attraverso 4 regioni

Roma. Tutta l’Appia Antica, da Ro-ma a Brindisi, sarà percorribile a piedi. Il Mibact ha infatti finanziato con 20 milioni di euro i bandi per la valorizzazione e messa a sistema del cammino. È il progetto «Appia Regina Viarum» che tornerà a far vivere i 600 km di tragitto della più antica strada lastricata del mondo. Infrastruttura primaria e traffica-tissima della Roma repubblicana e poi imperiale, prese il nome dal suo fondatore nel 312 a.C., Appio Claudio Cieco, rimanendo integra e percorribile fino alle guerre gotiche del VI secolo d.C. Il percorso, proget-tato in 29 tappe, attraverserà, senza soluzione di continuità, campagne, montagne borghi e città di Lazio, Campania, Basilicata e Puglia. Per capire la complessità del lavoro,

bisogna considerare la ripartizione dei finanziamenti: un milione di euro serviranno ad attività di stu-dio e ricognizione del tracciato, 6,8 milioni sono previsti per gli sca-vi archeologici e attività di tutela lungo l’intera arteria (eseguiti da 9 Soprintendenze territorialmente coinvolte e dal Parco archeologico dell’Appia antica), 8,5 milioni per at-tività di messa in sicurezza dei tratti pericolosi, per la realizzazione della segnaletica, delle aree di sosta e di eventuali infrastrutture necessarie al superamento di barriere naturali o artificiali; 2,1 milioni per attività di promozione da svolgersi nelle 4 Regioni, anche attraverso mostre dedicate all’antica strada, oltre alla pubblicazione monografica che rac-colga tutti i dati noti. Inoltre, un mi-

lione servirà per la predisposizione dei necessari strumenti informatici (hub, volo topografico ecc.), e mez-zo milione per attività di assistenza tecnico-amministrativa dell’intero progetto. I fondi sono nazionali, ma anche regionali. «La Regina Viarum, per il ministro Dario Franceschini, unisce territori ricchi di uno straordina-rio patrimonio culturale, archeologico e paesaggistico e ha le caratteristiche per divenire uno dei più grandi cammini europei. È nostro preciso dovere investi-re in questo progetto, che ha il merito di puntare sulla cultura per promuovere e sostenere lo sviluppo economico e sociale del Mezzogiorno». Sul sito www.cam-minodellappia.it in costante aggior-namento sono disponibili tutte le informazioni utili a camminatori e viaggiatori. q Guglielmo Gigliotti

Riaperta dopo 14 anni

Saqqara (Egitto). Tra gli altri danni provocati dal terremoto che colpì l’Egitto nel 1992 vi fu anche il crollo di alcuni blocchi della piramide a gradoni di Djoser (2630 a.C. circa) a Saqqara (nella foto in alto la piramide nel 1988 prima dell’intervento, in basso un’immagine attuale). Il timore che l’evento sismico avesse minato anche la stabilità del profondo pozzo funerario (27 m circa) e dell’intricato groviglio di cunicoli che si diramano al di sotto del monumento, ne avevano decretato la chiusura al pubblico. Ci sono voluti quattordici anni perché gli ambienti sotterranei tornassero a essere accessibili. I lavori di restauro avevano avuto inizio nel 2006. La principale preoccupazione era che l’intera struttura collassasse su se stessa. Per evitare questo pericolo era stato richiesto l’intervento di una ditta inglese che aveva provveduto all’inserimento di enormi airbag riempiti di liquido al suo interno. La rivoluzione del 2011 aveva provocato un arresto dei lavori di circa due anni. Alla loro ripresa alcune organizzazioni non governative egiziane avevano aspramente disapprovato i metodi utilizzati, soprattutto per quanto riguarda il consolidamento della

struttura esterna. Le critiche maggiori riguardavano la nuova copertura in pietra calcarea della facciata meridionale dove erano visibili le varie fasi di sviluppo del monumento e che, alla rimozione delle impalcature erano invece apparse completamente obliterate. A queste si erano aggiunte anche le valutazioni negative di esperti dell’Unesco che avevano costretto all’esecuzione di alcuni interventi suppletivi perché il progetto finale rientrasse negli standard raccomandati dall’agenzia delle Nazioni Unite. Tutte queste controversie avevano fatto lievitare la spesa per i restauri a oltre 6.600.000 dollari. La riapertura al pubblico della Piramide di Djoser è stata decretata con una cerimonia solenne, svoltasi il 5 marzo, a cui hanno presenziato il primo ministro egiziano Mostafa Madbouli e il ministro del Turismo e delle Antichità Khaled el-Anani. q Francesco Tiradritti

Maledizioni a pagamentoAtene (Grecia). Erano state gettate in un pozzo, in una grande area cimiteriale di Atene (Ceramico). Il pozzo, vicino a un impianto termale privato, è stato individuato e scavato nel 2016 dall’Istituto archeologico tedesco. Solo nel 2020 però, proseguendo nella sua esplorazione, sono state rinvenute 30 tavolette in piombo coperte da iscrizioni e molto ben conservate, risalenti al tardo IV secolo a.C. Il processo di decifrazione, difficile perché i caratteri sono in alcuni casi appena accennati, è appena iniziato, ma sul loro contenuto non c’è dubbio: si tratta di maledizioni, che riportano il nome della vittima ma non di chi le ha lanciate. La pratica in effetti coinvolgeva in origine delle tombe, con l’idea che i defunti, specialmente quelli colti da morte violenta, avrebbero potuto trasmetterle alle divinità dell’oltretomba; una volta

vietata, vennero scelti i pozzi come migliore approssimazione disponibile e perché le tavolette potevano esservi gettate con discrezione. Quelle trovate in precedenza, a decine, appartengono sostanzialmente a quattro tipologie: mercanti che cercavano di scatenare la malasorte contro rivali, atleti contro i loro concorrenti, protagonisti di controversie legali, ovviamente in questioni di cuore. Venivano preparate da professionisti, dietro pagamento. q Giuseppe Mancini

Il grano di MozaGerusalemme (Israele). Al contrario di quanto sostiene la Bibbia, il Tempio di Salomone (il primo tempio degli Ebrei) non era il solo a essere in funzione ai tempi del regno di Giuda. A Tel Moza, a circa 6 km da Gerusalemme, archeologi israeliani hanno invece individuato una struttura religiosa costruita nello stesso periodo, tra il X e il IX secolo a.C. (e abbandonata solo nel VI). Scoperta nel 2012, solo nel 2019 ha conosciuto una campagna di scavi intensa e approfondita. Tel Moza, la biblica Moza, era un centro amministrativo per l’immagazzinamento e la redistribuzione del grano. Il tempio consta di due ambienti sovrapposti, costruiti in sequenza nel giro di un secolo; il più antico è stato scavato solo parzialmente. Aveva forma rettangolare, con un cortile di fronte: il vero centro dell’attività culturale, visto che i fedeli non erano ammessi all’interno. In questo spazio all’aperto sono stati rinvenuti un basamento in pietra decorato con leoni o sfingi, un altare e una tavola sempre in pietra per i sacrifici e per le offerte, un pozzo ricolmo di ceneri e ossa animali; poi alcuni idoli in forma umana e di cavalli, in terracotta, spezzati e sepolti. C’era posto per circa 150 persone, che veneravano Yahweh e presumibilmente utilizzavano gli idoli per comunicare col divino. q G.M.

C’era un re nel canaleAnkara. La storia plurimillenaria e complessa dei regni anatolici nelle età del Bronzo e del Ferro si arricchisce di un nuovo e inatteso capitolo. Gli archeologi del British Institute di Ankara e dell’Oriental Institute di Chicago hanno infatti individuato, nell’area dell’altopiano di Konya (l’antica Iconium) oggetto di un vasto progetto di ricerca, una grande collina artificiale nata dal sovrapporsi di strati successivi d’insediamento umano dal tardo Calcolitico fino all’età ellenistica, e poi un’iscrizione con geroglifici della lingua luvia che svela la sua identità. La collina artificiale, alta 35 metri ed estesa per 30 ettari nella sua cittadella e per 125 complessivamente, è quella dell’odierna località di Turkmen-Karahoyuk. Già esaminata a partire dal 2017 come capitale di un grande regno, in virtù della sua estensione e della qualità delle ceramiche trovate in superficie,

è ancora in attesa di essere scavata. La stele (95x45 cm), nella foto, è stata in effetti trovata da un agricoltore, mentre puliva un canale d’irrigazione a 600 metri da Karahoyuk; è stata immediatamente mostrata agli archeologi, per l’appunto attivi nella zona durante la campagna del 2019. Risale all’VIII secolo a.C., vi è nominato il «grande re Hartapu», già conosciuto da altre iscrizioni in due santuari su montagne vicine, che celebra la sua vittoria sul regno di Muska, probabilmente il regno di Frigia del re Mida. Turkmen-Karahoyuk sarebbe quindi Tarhuntassa, brevemente la capitale dell’impero ittita nel XIII secolo a.C. e successivamente di un regno indipendente. q G.M.

La cisterna è un sismografo

Bathonea (Turchia). La città portuale di Bathonea, in una baia sul mare di Marmara oggi trasformatasi in area lacustre, si è rivelata una delle più importanti scoperte archeologiche del XXI secolo in Turchia, con campagne di scavo

partite nel 2007 dopo un rinvenimento fortuito grazie alla bassa marea. Fondata nel II secolo a.C. ma già abitata in epoca neolitica, si trova 20 chilometri a ovest di Costantinopoli: il suo porto, del IV secolo, sorgeva in acque calme, quindi era in grado di accogliere la flotta imperiale in caso di necessità. Una particolarità degli scavi, rispetto alla capitale poi diventata Istanbul, è l’assenza di importanti stratificazioni moderne, visto che è stata abbandonata nell’XI secolo dopo un disastroso terremoto. E sono proprio i terremoti l’oggetto di un importante progetto di ricerca, che, grazie a una collaborazione tra archeologi e geologi, cerca nelle strutture riemerse (nella foto) tracce di quelli più importanti del passato. Nella campagna del 2019 gli studiosi si sono concentrati sulla grande cisterna a cielo aperto, che preserva attraverso fratture nella muratura e smottamenti che l’hanno parzialmente coperta la memoria fisica del terremoto del 7 maggio del 558: quello che ha distrutto la cupola di Hagia Sophia. q G.M.

Un terreno dal ricco passato L’Aquila. L’università aquilana ha comprato per 70mila euro un terreno a ridosso dell’area archeologica romana di Amiternum: è nella zona di Campo Santa Maria (nella foto lo scavo) ricca di testimonianze dal I secolo a.C. al XIV secolo e, insieme con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio della Città e il Cratere, l’ateneo sta trasformando il sito in un laboratorio di didattica e in un luogo da visitare. Alfonso Forgione, ricercatore di Archeologia cristiana e medievale nell’ateneo, racconta: «In questi terreni esistono emergenze archeologiche: un battistero del V secolo, l’antica cattedrale di Amiternum attestata alla fine del V secolo, della quale sono state individuate tre strutture ascrivibili ad altrettante domus poi usate nell’impianto cristiano e le cui tracce potrebbero essere sotto la cattedrale longobarda del VII secolo. Gli scavi proseguono grazie al finanziamento del Comune e alla Soprintendenza». E continua: «Coinvolgiamo professori e studenti di archeologia, museologia, informatica, ingegneria, storia,

intendiamo musealizzare, restaurare e valorizzare queste emergenze anche tramite cartelloni e ricostruzioni virtuali in 3D. Facciamo tutto noi docenti con l’archeologa Giulia Pelucchini della Soprintendenza diretta da Alessandra Vittorini». L’ateneo ha acquistato quei terreni, che erano privati, con fondi dell’8 per mille devoluti dagli aquilani. q Stefano Miliani©

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34 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

A cura di Arabella CifaniLIBRIStoria di una collezione regaleLa casa di oreficeria Musy di Torino racconta la sua storia, attraverso i documenti d’archivio, le foto e i disegni conservati presso l’Archivio di Stato di Torino. Tre secoli di storia vengono narrati attraverso gli splendidi e preziosi manufatti prodotti dalla Casa Musy, fornitori di Casa Savoia, accostati sovente a quelli delle più importanti case

produttrici. In particolare vengono presentati gli oggetti di motivo Liberty, del quale i Musy furono sommi maestri (nella foto, manichino in cera con gioielli Musy, 1902). Daniela Brignone illustra le vicende della celebre Casa, i protagonisti, l’apprendistato dei membri della famiglia, la corrispondenza con i clienti più affezionati, le raccomandazioni al personale per un comportamento adatto a tener alto il buon nome della ditta, gli incontri importanti con gli artisti: da Gabriele D’Annunzio a Davide Calandra ed Edoardo Rubino. Agile e ben organizzato, il volume rende omaggio a un patrimonio di eccellenza con capolavori di orologeria, gioielleria, accessori e oggettistica, in un panorama di fitti rapporti internazionali. q Franco Monetti

Musy. Storia di una collezione regale, di Daniela Brignone, 126 pp., Ill. col. e b/n, 40dueEdizioni, Palermo 2019, € 29,00.

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«La scuola di Priapo inventata da Giulio Romano», incisione di Bartolomeo Pinelli

Erotismo

Ma che modi! Storia e fortuna di uno dei libri più piccanti dell’arte italiana: il manuale illustrato di erotismo di Giulio Romano e Pietro Aretino

Prima di partire per Mantova (1524) il venticinquenne Giulio Romano appuntò su carta «in quanti diversi modi, attitudini e positure giacciono i disonesti uomini con le donne» (per ci-tare Giorgio Vasari che in un solo aggettivo, indovinate quale, avrebbe concentrato tutto il profumo della Controriforma). Ne risultò un maz-zetto di disegni scottanti, «I Mo-di», che, fiutato l’affare, l’incisore Marcantonio Raimondi s’incari-cò di divulgare, procurandosi guai a non finire. Da qui comincia la sto-ria di sedici immagini di rischiosa emulazione, che entrano ed escono da una storia dell’erotismo (occiden-tale) come da una porta scorrevole e dove capita d’incontrare, tra i tanti che le compulsarono, Paolo Vero-nese, Rembrandt, Pinelli, Rodin, George Grosz o Picasso. Non c’è che

l’imbarazzo della scelta o, come più appropriato dire in questo caso, la scelta dell’imbarazzo.Gli originali di que-sto bignami del ses-so, fatto per «trastullo de l’ingegno», non esi-stono più; ma se ne conoscono stampe e un volume di xilo-grafie. Ne ricostrui-sce la fortuna Bette Talvacchia, che nel cosmo raffaellesco orbita da oltre qua-rant’anni avendo già circoscritto il tema per l’indimen-

ticata mostra mantovana di Giulio Romano del 1989. L’affianca Maria Antonella Fusco, tra le più origi-nali e meno allineate storiche d’arte italiane. Ora erotismo è termine diffuso quanto scivoloso, che ogni epoca virgoletta in modo differente. A Giulio Romano spetta uno dei dipinti più erotici al mondo, gli «Amanti» dell’Ermitage, una tavolo-na trasferita su tela, in cui i prelimi-nari del coito sono descritti con un meccanismo narrativo ben oliato (due in una stanza vengono spiati da una vecchiona impenitente). L’eroti-smo, che sta alla pornografia come il racconto all’aforisma, decolla solo nei termini di una storia. Qualche tempo dopo la partenza di Giulio per Mantova, l’Aretino avrebbe dispo-sto un tappeto di versi pepati, se-dici dialoghi in forma di sonetti caudati, su cui adagiare questi disegni, che tutto sono tranne che lussuriosi. Perché ciò che colpisce è il tono muscolare e violentemen-te anerotico di queste performance dove, semmai, si esprime quel tita-nismo, quel «mondo come torso» la cui polemica Roberto Longhi coglierà in un genio a lui discaro come Miche-langelo. Qui più che il fuoco della passione circola il testosterone.Diciamo la verità. La coppia di aman-ti, rigorosamente eterosessuale, s’impegna in circonvoluzioni che or-mai potrebbero far drizzare le anten-ne giusto ai fedeli del circo di Mon-tecarlo. Siamo, insomma, più dalle parti d’una palestra che in camera

Dettaglio dei «Due amanti» di Giulio Romano, San Pietroburgo, Ermitage

Arte e amore

Parliamo di ErosLa saggistica di un settore sfaccettato e dai risvolti sorprendenti

Per rimettere in sesto l’umore di que-sti tempi, poche cose sono meglio delle discussioni e dei fatti d’amore. Due mostre con relativi cataloghi (una a Mantova e l’altra a Genova), che in realtà sono veri e propri testi di studio, ci hanno portati sull’argo-mento: Giulio Romano arte e desiderio e Amore, Passione e sentimento. Da Hayez a Cremona e Previati. Si sono concluse entrambe da due mesi e hanno offer-to molti nuovi spunti di riflessione sul tema. In realtà la bibliografia sul tema è veramente vasta, se si sta su saggi specifici dedicati a questo o a quel pittore; appare invece curiosa-mente ridotta, se si cercano libri e testi complessivi italiani. In ordine cronologico ricordiamo molto bre-vemente alcuni volumi fondamen-tali, a partire dal classico di Enrico Crispolti, Erotismo nell’arte astratta: e altre schede per una iconologia dell’arte

astratta (Trapani 1977). E poi Arte sesso società: per una lettura sociologica dell’e-rotismo nella storia dell'arte di Elisabet-ta Fernandez e Massimiliano Miggia-ni (Roma 2000), che ha indagato sul rapporto privilegiato che l’eros ha sempre avuto con le opere d’arte e su come l’espressione arti-stica di questo genere possa offrire un inconsueto, ma fondamentale, punto di vista per comprendere in profondità l’insieme di norme e va-lori di realtà sociali, come il rappor-to tra i sessi, la struttura familiare, la condizione della donna. Vi è poi l’ampio excursus di Stefano Zuffi, con testi di Marco Bussagli, dedi-cato ad Arte e erotismo (Milano 2001); il volume con oltre 400 illustrazioni muove dall’epoca greco-romana per arrivare ad oggi e costituisce forse la principale indagine elaborata in La svolta moralizzante

La contemporaneità artistica è segnata da una globale moralizzazione generata sia da un’arte impegnata socialmente sia da un’intransigente censura. Carole Talon-Hugon analizza il fenomeno che vede l’arte contemporanea, in tutte le sue forme dalle arti figurative al cinema al teatro alla letteratura, sempre più connotata da intenti morali. Affrontando tematiche sociali in difesa delle disabilità, degli oppressi, delle minoranze, dei migranti, in un’ottica antiglobalista, femminista, ambientalista. L’espressione artistica contemporanea si pone in aperto conflitto con l’idea, diffusa in età moderna, di arte autonoma e non più al servizio dell’etica. L’autonomia dell’artista moderno aveva portato allo sviluppo di forme d’arte trasgressiva che ignorava deliberatamente le questioni morali per spingersi contro il buon costume, sovvertire le convenzioni e turbare il consenso. L’arte sociale di oggi ricostruisce in parte i ponti che l’emancipazione moderna aveva tagliato e l’etica si porta dietro una critica feroce. Sotto accusa sia opere giudicate poco virtuose, sia artisti le cui condotte immorali invaliderebbero il valore stesso della loro forma d’arte. Le censure sono radicali e i provvedimenti, talvolta, preoccupanti. Ne è un esempio il caso della rimozione, nel 2018 a Vienna, di poster raffiguranti opere di Egon Schiele. Condannate anche le Metamorfosi di Ovidio, delle quali si denunciano i troppi stupri; condannato pure il bacio del principe a una principessa non consenziente ne La bella addormentata nel bosco. Gli artefici delle censure sono associazioni o ristretti gruppi che, attraverso il linciaggio mediatico, giudicano un’opera d’arte secondo valori esclusivamente etici e non artistici. Carole Talon-Hugon indaga e si interroga se e quanto questa radicale scissione qualitativa sia possibile. Assegnare all’arte l’obbligo di fini etici presuppone infatti che essa sia in grado di raggiungerli producendo effetti sui nostri comportamenti. L’artista dunque può davvero agire sul mondo? Quali sarebbero i parametri per qualificare un’opera come immorale? L’autrice distingue i capi d’accusa, individua i contenuti considerati immorali oggi come in antichità, analizza gli effetti illocutivi e perlocutivi, l’estetica sconveniente e le circostanze della creazione artistica. Talon-Hugon sostiene che un’opera debba poter essere valutata nel suo complesso nel quale sussistono qualità estetiche, stilistiche ed etiche, considerando anche che il potere dell’immagine varia a seconda dell’epoca e della

cultura storica. Essendo l’etica «necessariamente universalista», rischia pertanto la dissoluzione, frammentata in etiche di categoria o in lotte sociali. E nel solipsismo, nella lacerazione di un tessuto culturale, «l’arte, così come l’etica, hanno più da perdere che guadagnare». q Carlotta Venegoni

L’arte sotto controllo. Nuova agenda sociale e censure militanti, di Carole Talon-Hugon, traduzione di Eileen Romano e Giovanna Rocchi, 110 pp., Johan & Levi, Monza 2020, € 13,00

La CallipigiaEcco uno storico dell’arte che, di fronte (da terga!) a un bel sedere di pulzella, potrebbe unirsi a Eustorg de Beaulieu, quando cantava: «Ô cul de femme! Ô cul de belle fille!». Enrico Maria Dal Pozzolo è l’autore del volume, nato da un guizzo attributivo che, in occasione della mostra «Storia di due pittrici: Sofonisba Anguissola e Lavinia Fontana» appena conclusasi al Prado, offre nuove

riflessioni. Parte tutto da quel quadro con Marte che palpa la natica sinistra di Venere (nella foto, Lavinia Fontana, «Marte e Venere», Fundación Casa de Alba di Madrid), che l’autore vide in palazzo Liria a Madrid «sopra a una console dorata, tra due applique in vetro azzurro di Murano», riconoscendovi la mano di Lavinia Fontana. Alcuni avrebbero potuto cavarne un articolo di una pagina. Altri, come Dal Pozzolo, raddoppiano anzi moltiplicano, interrogandosi non solo sul recto, ma anche sul verso. Così, conducendoci per mano (non quella morta del Marte, sia chiaro) l’autore mette a nudo (è il caso di dire) la fortuna iconografica della Callipigia, o «Bellanatica» (dal bel Lato B, per intenderci). Il viaggio comincia con l’arrivo a Venezia, da una Costantinopoli in fiamme, dell’Antologia Palatina, dove il poeta Rufino narrava di un beauty contest femminile, la cui vincitrice era quella dalle natiche e vulva (!) più belle. La curiosità che quel manoscritto suscitò nel circolo di Aldo Manuzio crebbe quando a Roma saltò fuori la «Venere Callipigia» (oggi al Museo Archeologico di Napoli). A quel punto, le timide stampe di Jacopo de’ Barbari o Marcantonio, partorite da invenzioni di Giorgione, vengono

sdoganate dall’irrompere di Tiziano. Fino a giungere al gesto senza precedenti di Lavinia che pone la mano sul fuoco; o, per usare le parole del Dolce (non il socio di Gabbana), presso «l’ammaccatura della carne causata dal sedere». Donna Summer avrebbe detto: Hot stuff! q Marco Riccòmini

Un apice erotico di Lavinia Fontana e la rinascita della Callipigia nel Cinquecento italiano, di Enrico Maria Dal Pozzolo, 116 pp., 79 ill. b/n, ZeL, Treviso 2019, € 20,00

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36 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

Libri

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Parliamo di Eros

Ma che modi!

tempi recenti sul tema. Più specifico, ma di grande spessore scientifico, il testo di Carmen Sánchez Arte ed eros nel mondo classico (Torino 2006): un affascinante percorso nell’imma-ginario visivo dell’erotismo classico, in cui i testi vengono trattati come illustrazioni allo scopo di capire, spiegare, e soprattutto far parlare le immagini. Per chiudere, il diverten-te Erotismo futurista: teoria e pratica: con cinque ricette afrodisiache, a cura di Guido Andrea Pautasso (Milano 2018), consacrato agli scritti dedicati alle ricerche dell’avanguardia futuri-sta sull’Eros e sul piacere: un proflu-vio di sensazioni tattili, olfattive e gustative estreme, che i futuristi fan-no esplodere con lo scopo preciso di depennare dal panorama letterario e artistico italiano le sdolcinatezze dell’aborrito amore romantico.Manca comunque alla storia dell’ar-te italiana un ordinato e scientifico catalogo sul tema, magari suddiviso per secoli e che potrebbe portare a scoperte e considerazioni sorpren-denti: uno spazio di studi ancora da riempire. Gli amori romantici pervadono il volume Amore, Passione e sentimento, con studi stimolanti come il saggio di Simona Bartolena «Dal dramma letterario alla vita quotidiana: l’amo-re nella pittura dell’Ottocento italia-no», nel quale Francesco Hayez, Tran-quillo Cremona, Mosè Bianchi, Amos Cassioli, Domenico Morelli, Federico Faruffini, Silvestro Lega e molti al-tri pittori del nostro Ottocento vengono indagati e commentati per opere di soggetto amoroso con considerazioni originali. Ben diverso, ovviamente, il caso di Giu-lio Romano. Arte e desiderio con i suoi molti profondi saggi che scandaglia-no l’arte erotica del Cinquecento, la corte dei Gonzaga, la celeberrima

tela dei «Due amanti» di Giulio Ro-mano, Raffaello e la sua bottega, le incisioni e i «Modi» di Giulio Romano e Marcantonio Raimondi. Il Rinasci-mento italiano non fu certo un’epo-ca di amori romantici e sospirosi, si assistette anzi alla diffusione di un profluvio di dipinti, sculture e inci-sioni in cui il confine tra sacro e pro-fano appare molto sfumato con mol-ti dipinti a tema religioso realizzati in Roma carichi di allusioni erotiche, tanto che Erasmo da Rotterdam vi si scagliò contro fin dal 1528 con l’in-dignazione di un nordico sceso nella Gomorra. Giulio Rebecchini nel suo saggio di apertura del volume su Giulio Romano Lo sguardo e i sensi sot-tolinea che, colmata la misura, già verso il 1540 «un radicale cambiamen-to del clima storico, politico e culturale avrebbe posto fine, nel giro di pochi anni, alla libertà delle gioie dei sensi»; era in pista il Concilio di Trento e «a Roma la rappresentazione del corpo e tanto più l’erotismo cessavano di essere ammissibili in opere di carattere pubblico, come testi-moniano le severe critiche rivolte già nel 1541 alle figure dipinte da Michelangelo nel Giudizio Universale». Ma l’erotismo, come afferma Georges Bataille, «è ciò di cui è difficile parlare. Per ragioni che non sono solo convenzionali è definito dal segreto» e apparenta piacere e morte. L’erotismo, nel segreto o anche pa-lesemente, avrebbe comunque con-tinuato a frequentare gli artisti per tutti i secoli seguenti e fino ai nostri giorni. q Arabella Cifani

Amore, passione e sentimento. Da Hayez a Cremona e Previati, a cura di Simona Bartolena, 106 pp, Sagep, Genova 2019, € 25,00

Giulio Romano. Arte e desiderio, a cura di Barbara Furlotti, Guido Rebecchini, Linda Wolk-Simon, 224 pp., ill., Mondadori Electa, Milano 2019, € 35,00

da letto. Anche le famigerate posi-zioni si riducono alla climax dell’ac-coppiamento: non c’è nulla del «o famo strano?» di Verdone e Claudia Gerini in viaggio di nozze (1995), o dei giochi proibiti che tennero piace-volmente occupati, nel primo Otto-cento, Hayez con l’allieva e modella Carolina Zucchi (si veda Hayez priva-to. Arte e passioni nella Milano romantica di Fernando Mazzocca, Allemandi, Torino 1997) Precedentemente solo lo svizzero anglicizzato Fussli si riap-propria del titanismo dei modelli di Giulio, caricandoli di un vitalismo da michelangiolesco nordico. Ma si trat-ta, appunto, d’una reinvenzione; di una cover. Per cui occorrerà mettersi l’animo in pace (e non solo quello): come sex for dummies i nostri dise-gni sono poco meno che raggelanti. Anche ai non rari frequentatori dei siti porno in rete si sveleranno le il-lusorietà di un catalogo di posizioni che, in realtà, ne contempla un’uni-ca e sola. Quella che il madrigalista fiammingo Orlando di Lasso, in una villanella del 1581, «Matona mia ca-ra», avrebbe detto del ficcare. Che nelle viste di Giulio quest’atto serbi un automatismo, un che di infernal-mente iterativo: nessuno lo aveva capito meglio di Fellini quando, nel 1976, coglierà le fornicazioni di Ca-sanova alla presenza di un usigno-lo meccanico, pronto a scandire il tempo e i colpi. «A far l’amore comin-cia tu» cantava, nello stesso anno del film, Raffaella Carrà. A scorrere questi disegni dell’officina di Raf-faello si è tentati, per questa volta almeno, di passare la mano.

q Stefano Causa

I Modi. Giulio Romano e gli altri, testi diBette Talvacchia e Maria Antonella Fusco, ed. bilingue, traduzione in inglese di transiting_s.piccolo, Electa, Milano 2019, € 10,00

«Suprematismo» di Kazimir Malevic e l’icona con «La glorificazione della Croce»

Arte e teologia

L’assoluto nel contingente Malevic e la dimensione estetico filosofica dell’icona

Non è un libro sulla pittura di Ma-levic l’ultimo nato dalla penna di Massimo Carboni. Non è neppure un libro sulla pittura e non è neanche un libro di filosofia. È, invece, un te-sto sul pensiero e sul vizio tutto umano di misurare la sua limita-ta mente, con l’infinito precipizio di quella dimensione abissale, insondabile e inarrivabile che è l’eterno. Quando si aprono le prime pagine, a differenza di quel che ci si potrebbe aspettare, non ci troveremo dinanzi alla dotta dissertazione su quel che rappresenta nel XX secolo il fenomeno del Suprematismo e qua-le ruolo vi abbia ricoperto Kazimir Severinovič Malevic, esponente di spicco di quel movimento artistico, oltre a quello di Rozanova, di El Lis-sitky e la relazione con Moholy-Nagy e il Bauhaus. L’inizio della lettura ci

spalanca davanti agli occhi il rovello degli uomini del VII e dell’VIII se-colo che, a Bisanzio, non sapevano se fosse giusto, possibile e corretto, teo-logicamente parlando, rappresentare le immagini della Vergine, del Cristo e degli Angeli; oppure se non fosse giusto affidarsi a immagini astratte o, come si dice con termine più tecnico, aniconiche. Fu quello un momento traumatico della storia del mon-do cristiano, con scontri veri e pro-pri fra iconoclasti e iconoduli, con la perdita di capolavori che furono rimossi o scialbati e con la contrap-posizione di due mentalità che, in sostanza si chiedevano: è possibile rappresentare il divino in immagine? Una prima risposta positiva venne dal Concilio Niceno II del 787, quan-do l’imperatrice Irene e papa Adriano I, riuniti tutti i vescovi dell’impero,

affermò che se Cristo era l’icona di Dio, allora, si poteva rappresentarlo in immagine, come tramite fra l’effi-gie e il suo originale. Spiega, infatti, Carboni: «Gli iconoclasti pretendevano di poter sostare nella pura trascendenza; gli iconoduli capiscono che è necessario tran-sitare per l’icona; nella quale si contempla al tempo stesso l’indicibile e il rappresen-tato: non l’uno o l'altro, ma l’uno nell’al-tro» Il problema, allora, era quello di costringere l’infinito in un’imma-gine, ma non si trattò di un tema ac-cantonato con i secoli a venire. Al di là del ripristino del culto delle figure dei santi, del Cristo e della Vergine, a Bisanzio, come a Roma (nonostante il fraintendimento di Carlo Magno), sancito nell’843 dall’editto dell’im-peratrice Teodora, i teologi cristiani continuarono a rimanere abbacinati dal problema. Il filo rosso tracciato

da Carboni passa per uno dei colossi del pensiero teologico che risponde al nome di Nicola Cusano, mirabi-le equilibrio fra scolastica e Neopla-tonismo, che sfocia nella geometria del divino. È il De visione Dei che segna il passaggio al pensiero moderno del tema, quando, scrivendo del volto di Cristo, il cardinale tedesco afferma: «bisognerebbe andare oltre le forme di tut-ti i volti formidabili, oltre tutte le figure in tutti i volti appare il volto dei volti in modo velato ed enigmatico. Ove mi imbatto nel-la impossibilità, oltre la ragione e quanto più oscura e impossibile è riconosciuta una tale impossibilità tenebrosa, con tanta maggiore verità la sua necessità risplen-de». Allora, vengono in mente le pa-role di Kafka, citate da Carboni, che scrive: «con ogni boccone visibile si riceve anche un boccone invisibile, con ogni

veste visibile, anche una veste invisibile». Conclude l’autore: «Tutto questo Male-vic lo sa. Lo sa da pittore e da pensatore. Sa perfettamente di dover inventare lo stato estetico dell’inoggettività. Di nuovo: sa per-fettamente, al pari dell’artista zen, che non può evocare il nulla semplicemente nulla dipingendo. Tutte le opere suprematiste lo testimoniano. Il Quadrato, il Cerchio, la Croce. Forme regolari, geometriche, primarie, noetiche. Forme mentali certo. E tuttavia dipinte, raffigurate: incarnate». È allora questa la sfida della pittura: mostrare l’assoluto nel contin-

gente. Malevic ci è riuscito. q Marco Bussagli

Malevic. L’ultima icona. Arte, filosofia, teologia. Ediz. illustrata, di Massimo Carboni, 251 pp., ill., Jaca Book, Milano 2019, € 50,00

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Quando la decorazione vola altoUn repertorio immaginifico di forme e figure, un viaggio dello sguardo tra oggetti d’uso desiderabili e possibili, aristocratici o quotidiani, sofisticati o fiabeschi. Il lungo e prolifico rapporto di Gio Ponti (nella foto, 1930) con la ceramica trova ampio spazio in un volume che dimostra senza possibilità di dubbio che, quando la decorazione vola in alto, le arti applicate raggiungono vertici di bellezza fuori dal tempo. Meno celebrata della sua attività di architetto, ma certamente non meno nota, apprezzata da un collezionismo internazionale che l’ha portata a quotazioni importanti, la produzione ceramica ideata da Gio Ponti è, infatti, la dimostrazione di un accordo sublime tra cultura, immaginazione,

coraggio, tecnica e industria, ed esprime pienamente la sapienza di un made in Italy nato nel primo Novecento, che oggi è ancora in grado di stupirci e indicarci una strada. Promosso dall’Associazione Amici di Doccia, il progetto editoriale dedicato alla pubblicazione del catalogo completo delle opere di Gio Ponti al Museo di Doccia, propone il primo riordino sistematico dell’intero corpus delle ceramiche disegnate per la Richard-Ginori nel periodo in cui fu direttore artistico dal 1923 al 1933. Grazie allo spoglio del carteggio e della documentazione d’archivio del museo (disegni, cataloghi, tariffari, riviste) in parte riprodotti, il volume ricostruisce filologicamente la cronologia e le fonti d’ispirazione dei soggetti, dei decori e delle forme, restituendo l’estrema varietà delle invenzioni e l’ampiezza dei riferimenti culturali che attingono liberamente dalle arti, dalla letteratura, dal folclore, dalle leggende e dalla quotidianità di diverse epoche storiche. Inseguendo un’immaginazione fervida e spregiudicata, seppur disciplinata da un gusto raffinato, tradotto dalla sapienza tecnica dei decoratori della Manifattura, Ponti si rivela curioso, ironico, anticonformista. Vasi (nella foto, uno del 1925), ciotole, piatti, ma anche fermacarte, posacenere, statuine, cineserie mostrano, infatti, la sua apertura a fonti d’ispirazione che spaziano dalla rilettura di tipologie archeologiche al cinema d’avanguardia, dalla semplificazione minimale alla citazione Rococò, dalla narrazione mitica all’illustrazione della vita moderna. Le pagine illustrate del libro ci portano dentro le forme concepite come spazi da abitare, dove si susseguono ricercate prospettive di sapore metafisico e piccoli angeli dalle ali dorate, affusolate figure dagli occhi a mandorla e sirene, fioriture primaverili e lavori nei campi, acrobazie circensi e trionfi romani, animaletti e simboli arcani. E, tra tanto oro, bianco e blu, alternati ai colori teneri e brillanti della primavera, appare persino una donna tagliata in quattro pezzi, inquietante evocazione surreale, dipinta su una piattella dal fondo rosso corallo. A guidarci nell’interpretazione dell’iconografia e della storia degli oggetti contribuiscono le schede delle curatrici Livia Frescobaldi, Olivia Rucellai

e Maria Teresa Giovannini, integralmente tradotti in inglese. Preziosi per gli appassionati e i collezionisti anche il glossario e l’indice dei decori che completano l’opera, facendone un utile strumento di studio e d’ispirazione. q Valeria Tassinari

Gio Ponti. La collezione del Museo Richard-Ginori della Manifattura di Doccia, a cura di Livia Frescobaldi, Maria Teresa Giovannini e Olivia Rucellai, edizione bilingue, traduzione in inglese di Anna Moore Valeri, 539 pp., ill., Maretti, Imola 2019, € 100,00

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37IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

Libri

Ritorna il Bruscaglia e lascia il segno

In meno di un decennio la manualistica sulle tecniche dell’incisione calcografica si arricchì di due fondamentali contributi, entrambi a firma di due straordinari interpreti di quella disciplina: nel 1979 Vanni Scheiwiller dava alle stampe Il gesto e il segno di Guido Strazza (1922), poi riedito da Apeiron; il 1988 era l’anno della prima edizione di Incisione calcografica e stampa originale d’arte, di Renato Bruscaglia. Quasi coetanei, tutti e due docenti di tecniche dell’incisione in Accademia, sono gli autori dei due manuali dedicati a quella disciplina tuttora più consultati dagli studenti d’arte. Se però Strazza intrecciava le indicazioni tecniche (con mirabile sintesi) a riferimenti allo strutturalismo e alle teorie della Gestalt, il suo collega urbinate optava per continui riferimenti alla storia dell’arte (da Dürer ad Hayter) ma soprattutto entrava con una particolareggiata trattazione in ogni meandro dei procedimenti del «taglio dolce», come anticamente (ai tempi di Abraham Bosse, nel XVII secolo autore del primo manuale specifico): un esempio per tutti, l’importante sezione dedicata alle varie modalità della stampa della matrice. Un «libro di mestiere», insomma, come lo definiva lo stesso Bruscaglia, accompagnato però dal suo bello scrivere (non sarà un caso se la ricchissima bibliografia include un testo di Paul Valéry). L’attesa ripubblicazione del suo ormai introvabile manuale, aggiornata a cura della figlia Marta e con contributi introduttivi di Giovanni Turria, Giulia Napoleone (allieva di Bruscaglia) e Silvia Cuppini, oltre a un contributo di Andrea Emiliani pubblicato nel 1989 sul «Corriere della Sera», rivela però quali e quanti punti di connessione esistano tra i due artisti e maestri: fra gli altri, la coscienza della tecnica come linguaggio, ad esempio, ma anche come procedimento; la fede nelle potenzialità del segno puro; la rivendicazione dell’identità autonoma e non imitativa del segno inciso. Le ricerche in occasione della ripubblicazione hanno riportato alla luce le matrici dei «test» sulle tecniche che illustrano il volume. Un’edizione a parte del manuale, in tiratura limitata e in cofanetto, ne ripropone, insieme a due opere dell’artista, la ristampa al torchio, preziosissima in quanto esalta il valore anche tattile della grafica incisa

e accompagnata da due piccole opere dell’artista. Sebbene questo circostanziato trattato fosse nato in relazione al magistero accademico, il libro non sfuggirà agli appassionati, agli studiosi e ai collezionisti consci che la coscienza di «com’è fatta» un’opera d’arte non può che arricchirne il fascino. q Franco Fanelli

Incisione calcografica e stampa originale d’arte. Materiali, procedimenti, segni grafici, di Renato Bruscaglia, 320 pp., ill. b/n, QuattroVenti, Urbino 2019 € 32,00

La materia privilegiata di LeoncilloEnrico Mascelloni dedica un volume a Leoncillo Leonardi e alla materia privilegiata dall’artista, la ceramica, focalizzando l’attenzione su opere nate nel decennio 1958-68. Mascelloni sta completando il catalogo generale dell’opera dello scultore umbro: questo catalogo ne è un’anticipazione. Nato a conclusione della mostra tenutasi alla Galleria dello Scudo tra dicembre 2018 e marzo 2019, porta una serie di contributi inediti in grado di offrire una nuova lettura sull’opera di Leoncillo, in particolare sull’ultimo decennio della sua produzione. La sua opera è entrata prepotentemente all’attenzione del mercato dopo il risultato eccezionale ottenuto a novembre 2018 all’asta milanese di Sotheby’s dove «Grande mutilazione» del 1962 (nella foto) è stata battuta a 960mila euro. Da questo risultato è partito il documentario di Simona Fasulo, dedicato a un artista «se non dimenticato sicuramente trascurato per 50 anni», andato in onda il 10 gennaio scorso su Rai5 per ArtNight. Nel volume, oltre al saggio di apertura di Mascelloni, Marco Tonelli analizza in maniera dettagliata Piccolo diario, manoscritto inedito ricco di disegni, annotazioni e dichiarazioni di poetica, in grado di raccontare anche la relazione di Leoncillo con i grandi protagonisti della cultura di quegli anni. A Martina Corgnati il compito di analizzare il rapporto dello scultore con l’antico; Alessandra Caponi fa luce sulla sua committenza, Lorenzo Fiorucci studia l’epistolario, Laura Lorenzoni cura l’apparato bio-bibliografico, Elena Della Costa il repertorio delle mostre personali e l’antologia critica

del decennio 1958-68. q Camilla Bertoni

Leoncillo, materia radicale. Opere 1958-1968, a cura di Enrico Mascelloni, 384 pp., ill. col., Skira, Milano 2019, € 90,00

Il televisore piange

Fabio Mauri è una delle figure più interessanti e complesse del panorama artistico italiano della seconda metà del Novecento. Mauri ha insegnato per vent’anni Estetica della Sperimentazione all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila e ha esposto in prestigiose rassegne e in diverse edizioni della Biennale di Venezia. Pur essendo considerato già in vita un esponente di spicco dell’avanguardia, solo in anni più recenti, grazie a importanti esposizioni museali, la figura di Fabio Mauri sta trovando la sua collocazione nel panorama artistico internazionale. La complessità e la profondità dell’arte e del pensiero dell’artista, teorico e intellettuale, emerge ora in questo volume. La raccolta di scritti è il risultato dell’iniziativa e del lavoro che Francesca Alfano Miglietti ha realizzato, prima con un confronto durato nel tempo con l’artista e, successivamente, nella curatela critica dei testi. Mauri si sviluppa in uno dei momenti più stimolanti della scena artistica emergente degli anni Sessanta e Settanta, si muove verso una riflessione sempre più approfondita dei grandi temi esistenziali. Tanto che le sue opere posso costituire una lettura teorico-estetica delle problematiche e dei mutamenti dei processi culturali del tempo. Mauri è artista e intellettuale del Novecento e ne interpreta tensioni e drammi. Il «Televisore che piange» (nella foto) e la serie degli schermi preannunciano già gli sviluppi e le contraddizioni della società dello spettacolo. Il «Muro Occidentale o del Pianto» presentato nel 1993 alla Biennale di Venezia, composto da un muro di valigie alto quattro metri, racchiude ogni tragedia individuale e collettiva. Il corpo di Pier Paolo Pasolini usato come schermo rimanda a una riflessione sul ruolo dell’intellettuale e sulle pratiche del sapere. L’artista, che ha vissuto un’esperienza di vita segnata anche dalla follia, elabora un approfondimento teorico che si esplica in una serie di scritti che, partendo dal riferimento alle proprie opere, trovano la loro compiutezza nell’affrontare con un’impostazione filosofico-psicanalitica non solo le questioni dell’arte, come la componente ideologica e il rapporto arte e vita, ma anche i grandi temi esistenziali dell’individuo rispetto alla storia e alla memoria. Del resto la scrittura per Mauri ha sempre avuto un ruolo di primo piano. Sin da giovane fonda con Pasolini le riviste «Il Setaccio» e poi «Quindici», che vede tra i suoi autori Eco, Sanguineti, Pagliarani, Balestrini, Porta, Arbasino, Manganelli, e «La Città di Riga» con Kounellis. Il volume presenta, in questa nuova edizione, gli antefatti che hanno portato alla pubblicazione del libro, i testi realizzati in occasione di

mostre, le riflessioni sui singoli lavori. Il libro costituisce un fondamentale contributo per la comprensione del pensiero e dell’arte di Fabio Mauri e consente di conoscere, attraverso lo sguardo critico dell’artista, la scena culturale e artistica del tempo in una narrazione lunga cinquant’anni di attività. q Massimo Melotti

Fabio Mauri. Scritti in mostra. L’avanguardia come zona. 1958-2008, a cura di Francesca Alfano Miglietti, 402 pp., ill., il Saggiatore, 2019, € 35,00

Poggi sfida le regole del buon sensoNel piccolo formato del volume a cura di Roberto Dulio, Fabio Marino e Stefano Andrea Poli, si condensa efficacemente la storia intensa ed esemplare della falegnameria pavese Poggi, fondata da Carlo Poggi negli anni Trenta e magistralmente condotta dai figli Ezio e Roberto fino alla chiusura dell’attività nel 2010. Si tratta della prima monografia dedicata alla ditta, che ha legato il proprio nome a quello di importanti architetti e designer come Franco Albini, Franca Helg, Vico Magistretti, Afra e Tobia Scarpa, Marco Zanuso, Umberto Riva, Renzo Piano, Ugo La Pietra, Corrado Levi e Laura Petrazzini. Dagli scritti dei curatori, oltre ai testi di Lorenzo Ciccarelli e di Nicoletta Colombo, emergono la passione e il coraggio dei fratelli Poggi che, in stretto sodalizio con cotanti nomi, perseguono il loro credo innovativo producendo industrialmente mobili di altissima qualità esecutiva in legno, un materiale che si era prestato, fino agli anni Cinquanta, più ad una produzione limitata che seriale, per la quale era solitamente preferito il metallo. L’incontro nel 1950 con Franco Albini sarà determinante e, dal rapporto pressoché esclusivo che ne consegue, nasceranno caposaldi del design italiano come la poltroncina «Luisa» (nella foto, Roberto Poggi lavora con un artigiano alla poltroncina), che fa loro guadagnare il Compasso d’Oro nel 1955, il «Tavolo Cavalletto TL2» (1950-1953), il «Tavolino Cicognino» (1953), la «Libreria LB7» (1956) e la «Sdraio a dondolo PS16» (1959). La cura nei minimi dettagli del processo ideativo ed esecutivo accomuna l’architetto e i due talentuosi artigiani imprenditori, oltre alla passione per la sperimentazione che non di rado mette a dura prova la realizzazione finale. «Tanto Albini è ardito nel proporre soluzioni inusitate, scrive Poli, quanto Poggi è disposto ad assecondare e rendere possibile la variante meno appropriata dal punto di vista tecnico, sfidando le regole del buon senso». La monografia, ricca di informazioni, illustrazioni e documenti, è completata dal regesto, a cura di Fabio Marino, degli arredi prodotti da Poggi a partire dal

dopoguerra al 2001, basandosi sui materiali documentari e fotografici conservati nell’Archivio Poggi a Pavia, uno strumento, quindi, molto utile per studiosi e operatori di mercato a fronte del crescente interesse per il design italiano e per i suoi interpreti migliori. q Carla Cerutti

Il Mondo di Poggi. L’officina del design e delle arti, a cura di Roberto Dulio, Fabio Marino e Stefano Andrea Poli, 160 pag., 170 ill., Electa Architettura, Milano 2019, € 32,00

Io Benvenuto Ferrazzi vi dico tutto di meLeggere un’autobiografia significa immergersi nella vita del personaggio e dargli voce, e se il narratore è a sua volta un pittore, le immagini si fanno più nitide, «Non è per vanagloria che mi sia imposto di scrivere la mia vita. La ragione prima è stata la calamità della Fortuna, il timore di una morte causata, essendo la miseria una perfida consigliera. Ed è una grande virtù confessare di propria mano il bene e il male intervenutoci nella nostra breve permanenza sulla terra, perché dalle nostre debolezze e impensati sbagli altri uomini potranno attingere la sapienza, benché a mio avviso nulla vale a salvarsi dai mali che come spiriti invisibili ci perseguitano». Così Benvenuto Ferrazzi si racconta, con un linguaggio arricchito da colori accesi, talvolta in contraddizione con se stesso. Ferruzzi cita nomi, luoghi, fatti visti per cinquant’anni attraverso gli occhi semplici che si riflettono in un linguaggio che resta fedele al contesto sociale da cui proviene: la sua Roma. Lo studio di Laura Moreschini restituisce al pubblico il ruolo di Ferrazzi all’interno della cultura romana della prima metà del Novecento, attraverso le centinaia di esperienze narrate e le brevi cronache riportate. Si presentano davanti al lettore una carrellata di scene picaresche e di macchiette, prostitute e ubriachi così come personaggi eccellenti quali la Regina Madre in visita a Roma, e ancora Mussolini, Ettore Petrolini, Trilussa, Giulio Aristide Sartorio, Paolo Mussini, Alberto e Anton Giulio Bragaglia, il fratello Ferruccio, Enrico Prampolini, Angelo Zanelli, Vincenzo Jerace, Ercole Rosa, Federico Hermanin, Antonio Muñoz, Filippo Tommaso Marinetti e molti altri. Questo libro restituisce a Benvenuto Ferrazzi il suo posto all’interno della cultura figurativa romana: quello di un artista volutamente isolato, ma non per questo minore. Fratello del noto accademico Ferruccio, Benvenuto è presente costantemente per un cinquantennio a tutti i maggiori eventi espositivi della capitale, trovando anche molti estimatori. Tra i primi a credere nel suo talento Anton Giulio Bragaglia, che ospitò ben cinque mostre personali tra gli anni Venti e Trenta, riconoscendo il valore di una pittura eccentrica e visionaria, che raccontava il lato oscuro della Roma contemporanea. Nel 2016, i Musei di Villa

Torlonia, dedicano la prima mostra antologica a un’artista che poco emerge negli studi sulla Scuola romana. Questo volume rafforza e riscopre uno tra i maggiori esponenti della prima metà del nostro Novecento. q Daniela Magnetti

Benvenuto Ferrazzi, La mia vita da bohémien. Dal socialismo umanitario al neorealismo cinematografico, uno spaccato sociale e culturale dell’Italia degli inizi del ventesimo secolo, a cura di Laura Moreschini, 376 pp., 20 ill. b/n, De Luca, Roma 2019, € 30,00

39IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

A cura di Barbara Antonetto

Il Giornale del RESTAURO e della Tutela

Amatrice con gli occhi di primaAmatrice (Ri). Il terremoto che colpì il Centro Italia nel 2016 ebbe come epicentro Amatrice, dove molti santuari e chiese furono duramente danneggiati o andarono irrimediabilmente perduti. Immagini dell’aspetto originario degli edifici sono però custodite in una serie di fotografie d’archivio scattate nel Novecento e conservate presso la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, della provincia di Viterbo e dell’Etruria meridionale. Ora questo patrimonio di lastre e negativi, grazie alla Fondazione Dino ed Ernesta Santarelli Onlus, è stato pubblicato nel volume Amatrice con gli occhi di prima (80 pp. ill. b/n, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2019, € 28), frutto della collaborazione tra la citata Soprintendenza e quella per le province di Frosinone, Latina e Rieti. Numerosi scatti in bianco e nero mostrano l’aspetto originario e le trasformazioni nel corso del tempo di chiese come Sant’Agostino ad Amatrice o il Santuario di Santa Maria della Filetta nella frazione di Rocchetta: foto preziose per la memoria storica e per i lavori di restauro degli edifici e delle opere d’arte in essi contenuti. L’archivio fotografico è in corso di digitalizzazione a cura di Federica di Napoli Rampolla e di Enrico Ciavoni. q Arianna Antoniutti

La facciata della Cattedrale di Fidenza

Fidenza

Il testimone mutoLa Cattedrale è una stratificazione di interventi di costruzione, da Antelami in poi, e di restauro

Fidenza (Pr). Negli anni a cavallo fra il XII e il XIII secolo Fidenza si chia-mava Borgo San Donnino dal nome del santo protettore. In Italia lo stile delle architetture era ancora il Romanico, in Francia era già il Gotico, di cui comunque nella Cattedrale ci sono premonizioni. L’edificio è oggi il risultato degli interventi che si sono succeduti nel tempo, sia quelli che hanno concorso a costruirla, sia quelli di restauro, e in realtà spesso non è possibile distinguere gli uni dagli altri. Il restauratore moderno deve allora destreggiarsi in un processo delicatissimo fra il fare e il non fare, facilitato, se vogliamo, dalla coscienza che il restauro presente non potrà essere che strettamente conservativo e rispettoso delle stratificazioni. La condizione irrinunciabile consiste in uno studio rigorosissimo del monumento, testi-mone muto eppure capace di offrire risposte a chi abbia saputo interrogar-lo scientificamente. La premessa è particolarmente opportuna in un caso come quello di Fidenza, perché le incertezze sono infinite, a cominciare dalla paternità. Gli studi sono pervenuti a riconoscerla in Benedetto An-telami (un cognome derivante probabilmente da Intelvi, valle del Coma-sco da cui provenivano officine di lapicidi), noto da due firme, del 1178 e del 1196, lasciate nella vicina Parma. Qui gli si attribuisce il Battistero, un complesso fra i più affascinanti nella cultura dell’Occidente, ma le firme sono apposte su due opere scultoree e in entrambe si definisce «sculptor». L’attività di An-telami come architetto del Battistero è un’ipotesi, così come gli sono attribuite soltanto per ragioni di stile architetture e sculture della Cattedrale di Fidenza e della Chiesa di Sant’Andrea a Vercelli, ultima opera di un autore i cui estremi cronologici vengono fissati ipoteticamente fra il 1150 e il 1230. Sorprendente nella facciata del Duomo di Fidenza si rivela l’impiego, che richiede un’incredibile accuratezza costruttiva, di una muratura a secco dei conci senza impiego di malte. Il volume a cura di Barbara Zilocchi L’officina Benedetto Antelami della Cattedrale di Fidenza. Studi, ricerche e

restauro (352 pp., ill. col. e b/n, Skira, Milano 2019, € 55) fa il resoconto come me-glio non si potrebbe della campagna di restauri sulla facciata, le torri e l’abside condotta fra il 2016 e il 2018. L’intervento si è giovato anche di una consulenza dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, che ha anche eseguito direttamente il restauro della «Madonna in Maestà» oggi all’interno del Museo Diocesano. Il vo-lume contiene accurate mappature tematiche che restituiscono con immediata efficacia visiva le stratificazioni del monumento, individuate con un lavoro che merita sincero apprezzamento. Puntuali le informazioni tecnico scientifiche su metodologie, procedure e materiali del restauro, nelle varie fasi di preconsoli-damento, pulitura, consolidamento, stuccatura e protezione. A Barbara Ziloc-chi si devono gli studi storici sul monumento e sui restauri pregressi sia dell’ar-chitettura sia delle decorazioni di scultura e il coordinamento di un’équipe di autori che ha reso esauriente la pubblicazione. A voler aggiungere qualcosa sarebbe stato utile un capitolo dedicato all’Antelami che facesse il punto sullo stato attuale degli studi su una personalità fra le massime della nostra storia artistica, ma ancora così problematica. q Giorgio Bonsanti Il Monastero di Saorgio sulla strada che collega Nizza a Torino

Saorge (Francia)

Barocco italiano tra i boschi della Val RoiaQuasi concluso il recupero del Monastero di Saorge

Saorge (Francia). Nella Val Roia, tra Provenza e Liguria, il Monastero di Saorge (in italiano Saorgio) è in corso di restauro. Il cantiere da 1,4 milioni di euro iniziato lo scorso ot-tobre dovrebbe concludersi tra aprile e maggio. Il convento fu fondato nel 1648 da una comunità di frati fran-cescani riformati nella parte alta del villaggio, tra gli olivi, sulla strada tra Nizza e Torino, all’epoca trafficata via di fiorenti commerci. La chiesa è nello stile del Barocco italiano con portico ad arcate e campanile a bulbo. Nel corso del Settecento fu arricchita di nuovi decori. Al 1760 circa risalgono

gli affreschi nella chiesa e nel refetto-rio, con le allegorie delle virtù, e quelli nelle lunette del chiostro dedicati alla vita di san Francesco e realizzati pro-babilmente da un frate pittore. Dello stesso periodo sono i quadranti solari affrescati sulle arcate del chiostro. Il monastero è stato al centro di di-verse vicissitudini storiche. Durante il Terrore, nel 1794, i monaci furono al-lontanati e il monastero occupato dai soldati francesi che lo trasformarono in ospedale. Nel 1823 fu restituito ai francescani, che lo lasciarono di nuo-vo nel 1903. Fu quindi trasformato in colonia estiva, poi in base militare tedesca durante la seconda guerra mondiale. Lo Stato francese lo acqui-sì nel 1967 e nel 2001 fu convertito in maison per scrittori e artisti. Il Centre des Monuments nationaux, l’operatore pubblico che gestisce più di cento monumenti nazionali in tut-ta la Francia, ha affidato il cantiere di recupero del monastero all’archi-tetto Antoine Madelénat. Al mo-mento è stata restaurata la facciata della chiesa, sono state consolidate le coperture e le capriate, gli impian-ti sono stati messi a norma. I restauri interessano ora l’apparato decorati-vo all’interno della chiesa, con le sue boiserie intagliate, e gli affreschi del chiostro. q Luana De Micco

Forse un Donatello maturoFirenze. Nell’ambito di lavori che interessavano la settecentesca Chiesa di Sant’Angelo a Legnaia nel 2012 venne scoperto il Crocifisso ligneo della Compagnia di Sant’Agostino (nella foto) che lì ebbe sede dal XV secolo. L’o-pera è stata restaurata a partire dal 2014 da Silvia Bensi sotto la direzione di Anna Bisceglia (l’Università di Firenze ha anche con-dotto un’indagine radiografica digitale con analisi xilologiche). Gra-zie alle ridotte dimensioni (89x82,5 cm) e al peso leggero (tavole in legno di pioppo svuotate nelle parti interne), il Crocifisso veniva portato in processione e per questo nei secoli è stato ridipinto ben cinque volte. L’accurata pulitura ha permesso di ritrovare l’in-carnato originale, o perlomeno quello più antico, mentre la struttura lignea è sostanzialmente ben conservata, se si eccettua l’elaborazio-ne plastica della testa (anticamente completata da un rivestimento in gesso modellato, andato perduto). A restauro concluso la novità sorprendente è l’attribuzione a Donatello, frutto delle ricerche con-dotte da Gianluca Amato fin dalla tesi di dottorato (nel 2013 presso l’Università Federico II di Napoli) dedicata ai crocifissi lignei toscani tra tardo Duecento e prima metà del Cinquecento. Amato offre con-fronti stilistici stringenti con il gruppo mediceo di «Giuditta e Oloferne» (Firenze, Palazzo Vecchio) e lo data al 1461-66, anni della maturità dell’artista che forse non lo condusse a termine. q Laura Lombardi

Firenze

Terrazzo non terrazzo per GiunoneDecorata da Vasari, la sala di Palazzo Vecchio è stata restaurata dai Friends of Florence

Firenze. Nell’ala sud-orientale del piano nobile di Palazzo Vecchio è stato restaurato il Terrazzo di Giunone (nella foto) tra-mite la Fondazione Friends of Florence presieduta da Simonetta Brandolini d’Adda e grazie al generoso contributo di Ellen e James Morton, Jon e Barbara Landau e Fabrizio Moretti. Situato tra le «stanze nuove» che Cosimo I de’ Medici fece costruire all’indomani del suo trasferimento nel palazzo, il Terrazzo fa parte del Quartiere degli Elementi destinato ad ac-cogliere gli ospiti della corte. Costruito sotto la direzione di Battista del Tasso tra il 1551 e il 1555, fu modificato da Giorgio Vasari nel 1557 nell’ambito della trasformazione dell’antico Palazzo dei Priori o della Signoria in reggia ducale e decorato con palchi lignei dipinti, stucchi e affreschi dello stesso Vasari e collaboratori che narrano storie di divinità mitologiche. Il Terrazzo già alla fine del ’700 era una stanza chiusa, ma in origine era una loggia con colonne progettata per accogliere una fontana al centro (mai realizzata) e una statua antica della dea. Per evocare quel progetto incompiuto, riconoscibile nell’affre-sco al centro del registro inferiore della parete interna, a metà del Novecento è stato collocato al centro del Terrazzo il «Putto con delfino» commissionato a Verrocchio da Lorenzo il Magnifico per una fontana della Villa di Careggi (poi spostato nel cortile di Michelozzo, dove ora c’è una copia). Liberati gli stucchi dai depositi di polveri incoerenti, si è proceduto al restauro degli affreschi previa asportazione di colle e resine apposte nei secoli e consolidamento di sollevamenti di colore e cadute di pellicola pittorica (l’asportazione delle ridipinture ha salvaguardato le ricostruzioni di brani fondamentali del testo pittorico, quali la testa di Giunone, parte del corpo e i pavoni). Le superfici sono ora protette da vetri antiriflesso. q L.L.

«Profeta» di Benedetto Antelami sulla facciata della Cattedrale di Fidenza

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40 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

Restauro

Anonimi generosi

Centuripe (En). È un Ecce Homo ricco di pathos (nella foto, un particolare) il busto in gesso e cartapesta dell’inizio del 1800 custodito nella Chiesa Madre di Centuripe. L’opera che per decenni ha aperto la processione del giovedì santo, emblema della settimana pasquale, era tanto lesionata che rischiava da tempo di spezzarsi. Lo hanno salvato la raccolta fondi lanciata un anno fa da un centuripino e l’offerta di sanare le fratture per soli 2.500 euro, materiali compresi, di un noto restauratore autorizzato dalla Soprintendenza che ha preferito rimanere anonimo. Il Cristo aveva importanti lesioni nell’incarnato e nel manto, parti della corona e del mantello si erano staccate e il perno in legno che regge la scultura era spezzato e divorato dai parassiti. L’intervento di restauro ha richiesto l’integrazione delle parti mancanti e delle cadute di colore, il consolidamento della base, la disinfestazione, rimozioni delle vernici e dei colori non originali. Epidemia permettendo l’Ecce Homo, di autore

Panoramica della Chiesa del Monastero di Santa Maria della Stella a Saluzzo

Saluzzo

Un recupero da pauraLa Fondazione Cassa di Risparmio riconsegna alla città il seicentesco Monastero delle Clarisse di Rifreddo

Saluzzo (Cn). D’ora in poi sarà il Centro Congressi Monastero della Stella ma, nel corso dei suoi oltre quattro se-coli di storia, era la Chiesa della Con-fraternita della Ss. Trinità o della Croce Rossa e, prima dell’abbandono dei religiosi a fine Ottocento, del Sa-cro Cuore di Gesù. Giunte in città nel 1592, le monache Clarisse di Rifreddo all’inizio del Seicento fecero erigere il primo edificio di culto con annes-so monastero cistercense intitolato a Santa Maria della Stella. La chiesa fu probabilmente ampliata tra il 1698 e il 1701 su disegno di Fra’ Pio Giacin-to Poncino, un ingegnere converso domenicano. Alterne vicende e cambi di proprietà ne segnarono poi la storia fino alla soppressione della residenza dei Gesuiti con relativa sconsacrazio-ne. Dopo vent’anni di abbandono, nel 2007 la Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo ha acquistato l’immobile e avviato il complesso iter di recupero con un investimento di circa 5 mi-lioni di euro per farne, oltre che la propria nuova sede, uno spazio di ag-gregazione per la comunità. I lavori, iniziati nel 2015 e monitorati dalla So-printendenza piemontese con la dire-zione di Valeria Moratti e Silvia Gaz-zola, hanno portato a esiti inattesi. Gli scavi archeologici preliminari (affidati a F.T. Studio di Peveragno) hanno ri-velato resti di strutture e manufatti risalenti al periodo compreso tra il XIV e la fine del XVII secolo riconducibili alla porzione di abitato demolita in oc-casione della costruzione della chiesa, in particolare due fornaci per la produ-zione di mattoni. Lo scavo ha consen-tito di ricomporre la sequenza costrut-tiva e la trasformazione dell’impianto monastico. Con gli interventi edili nel 2016 sono stati avviati i restauri delle superfici decorate affidati al Consor-zio San Luca di Torino che si è oc-cupato del risanamento dell’apparato decorativo della chiesa, sia interno sia di facciata. Le pesanti ridipinture ma, soprattutto, il lungo abbandono e la mancata manutenzione dell’edificio, avevano seriamente compromesso le preziose finiture barocche. La preven-tiva campagna diagnostica ha permes-so la caratterizzazione dei materiali, della natura del degrado e della suc-cessione delle fasi decorative, così da individuare la migliore metodologia d’intervento. La situazione conserva-tiva era «da far paura», ha commenta-to il direttore del gruppo di restauro Michelangelo Varetto riferendosi alle ampie zone lacunose o comunque compromesse dai perduranti effetti dell’umidità. Una volta completata l’estrazione dei sali cristallizzati me-diante supporti a elevata assorbenza, si è proceduto alla rimozione delle molte ridipinture alteranti e sono sta-ti ricostruiti ampi brani di modellato perduti al fine di restituire unitarietà di lettura, ma avendo cura di evitare una falsificante ricostruzione integra-le degli strati di finitura. La grande sce-

na dell’Incoronazione della Vergine in gloria con la Trinità, angeli e santi di-pinta intorno alla metà del Settecento nella cupola ha ritrovato luminosità e definizione consentendo nuove ipote-si attributive: Sonia Damiano sugge-risce di ricondurre l’impresa al pittore ticinese Giovan Francesco Gaggini. Nei tre anni di restauro il Consorzio San Luca ha impiegato nel restauro 14 tra restauratori e collaboratori di quat-tro imprese consorziate, 3mila lame

per bisturi, 150 pennelli e 2mila litri di acqua demineralizzata, per dare solo qualche numero dell’intervento. Non ultimo anche il restauro dell’altare ligneo policromo e della cantoria. Su-perfici luminose e policromie brillan-ti, ricchi modellati a stucco, strutture lignee dipinte e marmi di pregio sono i decori della «casa aperta per la città», come l’ha definita il presidente della fondazione bancaria Marco Piccat. q Ilario Taziano

Genova

Carabinieri e cantautori in San GiulianoIl recupero di Abbazia e Convento è raccontato in un libro

Genova. L’antica Abbazia e Conven-to di San Giuliano è uno dei luoghi più amati dai genovesi. Celebrato da Guido Gozzano in una sua poesia, il complesso di origine medievale si trova lungo la splendida passeggiata a mare di corso Italia e sta rinascendo dopo anni di abbandono. Lo documenta il nuovo volume della Sagep curato dall’architetto Cristina Bartolini (funzionario del Segretaria-to regionale del Mibact per la Liguria). In 280 pagine non solo presenta i va-ri progetti di restauro di cui è stata oggetto l’abbazia, ma ripercorre la storia del complesso (attualmente di proprietà demaniale) descrivendo le opere d’arte a esso legate (tra cui la pala di fine ’400 di Giovanni Mazone e Nicolò Corso conservata al Museo di Sant’Agostino di Genova) e delineando l’anima del luogo che sta tornando a rivivere: da poco ospita gli uffici del Nucleo Carabinieri Tutela Patri-monio Culturale di Genova. Il Mini-stero, la Regione Liguria e il Comune di Genova hanno inoltre sottoscritto nel 2018 un accordo affinché vi trovi sede anche l’ente culturale e museale

della Casa dei Cantautori liguri. «Il volume è il primo tentativo di dar vita a una raccolta ordinata di contributi scien-tifici destinati a delineare la fisionomia di San Giuliano, spiega Cristina Bartolini, e testimonia l’impegno per far rivivere il complesso architettonico da parte di ar-cheologi, storici dell’arte e tutti coloro che si sono occupati del suo recupero a partire almeno dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso». Lasciato dai benedettini negli anni Trenta, il Convento ha ospi-tato le famiglie degli sfollati durante la seconda guerra mondiale per poi rimanere abbandonato per decenni. Dopo i primi interventi, dal 1998 fino agli anni nostri una serie di cantieri ha permesso il recupero della faccia-ta su corso Italia, il consolidamento del chiostro e il restauro dell’abbazia, cercando di rispettare quanto soprav-vissuto alle devastanti manomissioni del dopoguerra, grazie anche a un’ap-profondita indagine d’archeologia ar-chitettonica. q Emmanuele Bo

anonimo, tornerà a percorrere le strade del paese il 9 aprile, giovedì santo, prima di tornare nella sua chiesa su una nuova base. q Tina Lepri

A spasso sulle muraL’Aquila. Il centro storico aquilano è attorniato da mura lunghe quasi 5,5 chilometri erette a partire da fine Duecento: pur tra ricostruzioni per i terremoti e, in qualche tratto, qualche edificio moderno troppo invadente, la cerchia urbica è piuttosto integra (un tratto nella foto). Per le mura, di proprietà comunale, si è sbloccato un finanziamento da cinque milioni di euro del Ministero per i Beni e le Attività culturali e il Turismo: serve a completare i restauri e a creare lungo l’intero perimetro camminamenti illuminati. A descrivere il progetto è Claudio Finarelli, architetto della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Aquila e cratere che, in pensione, continua a seguire gli interventi avviati. Parla come «rup» (responsabile unico del progetto, il progettista e direttore dei lavori è Antonio Di Stefano): «Questo lavoro è frutto di una “buona pratica”: vi collaborano il Segretariato regionale dei beni culturali, la Soprintendenza, la Regione Abruzzo, il Comune. Mancano

da restaurare solo poche decine di metri a Porta Barete e saranno finanziati da fondi dell’Unione Europea. Con i cinque milioni completiamo tutti i lavori e valorizziamo le mura». Vale a dire? «Tranne dove le pendenze sarebbero da alpinisti, si potrà camminare lungo l’intera cinta muraria. Per tutto il perimetro sono previsti sistemi di video sorveglianza, una segnaletica con QR Code che spieghi le mura e gli elementi paesaggistici e storici, aree di sosta e soprattutto un’illuminazione a risparmio energetico studiata appositamente». Se tutto fila con le gare d’appalto «i lavori potranno iniziare a primavera 2021». q Stefano Miliani

La Casina delle fateFirenze. Nell’ambito della XXVI edizione di «Artigianato e Palazzo. Botteghe artigiane e loro committenze», la manifestazione nata dal progetto di Giorgiana Corsini e Neri Torrigiani che, come ogni anno, riunirà nel seicentesco Giardino Corsini una selezione di 100 testimoni della più alta tradizione artigiana (al momento in cui andiamo in stampa sono confermate le date 4-7 giugno), ha preso il via la nuova campagna di raccolta fondi per un bene culturale, rivolta a privati e aziende. Dopo il contributo di 50mila euro nel 2018 per la riapertura del Museo della Manifattura Richard Ginori di Doccia e di 40mila nel 2019 per i restauri delle opere d’arte realizzate per la comunità russa a Firenze tra Otto e Novecento, è stato individuato per la campagna 2020 un bene donato alcuni decenni fa dalla famiglia Morrocchi al Comune di Bagno a

Ripoli. Si tratta della Fonte della fata Morgana (nota ai locali come Casina delle fate, nella foto), fatta costruire da Bernardo Vecchietti nella seconda metà del Cinquecento all’interno del parco della sua residenza estiva, Villa Il Riposo. La fonte, esempio particolarissimo di architettura da giardino a metà tra la tipologia del ninfeo e quella del grotto, custodiva che al suo interno la statua marmorea della Fata Morgana scolpita da un giovanissimo Giambologna. La statua sarà riprodotta artigianalmente con tecnologie modernissime e ricollocata nel complesso dopo il restauro. Nel progetto è coinvolto l’artista Nicola Toffolini, autore di dieci pezzi unici ispirati alle opere del Giambologna sottratte nei secoli all’edificio e andate disperse, a partire dal mascherone di Medusa originariamente collocato nella nicchia esterna da cui i viandanti potevano dissetarsi. Le donazioni potranno essere versate fino al 30 giugno attraverso bonifico bancario: Associazione Giardino Corsini c/c n. 50459100000004030 Intesa Sanpaolo Iban: IT09 K030 6902 9921 0000 0004 030 -SWIFT: BCITITMMXXX Causale: GIAMBOLOGNA E LA FATA MORGANA q Laura Lombardi

«Crocifissione e santi» di Giovanni Mazone e Nicolò Corso, originariamente nell’Abbazia di San Giuliano di Genova, ora nel Museo di Sant’Agostino

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41IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

Il Giornale dell’ECONOMIA Antiquari Gallerie AsteI prezzi riferiti in queste pagine sono comprensividei diritti d’asta, salvo diversa indicazione,e di norma escludono le tasse sui diritti

A cura di Cristina Valota (Antiquari e Aste) e Franco Fanelli (Gallerie)

continua a p. 46, iii col. continua a p. 47, i col.

Sotheby’s e le private sales

Aste bloccate. Via libera alle vendite private In un periodo in cui le vendite all’incanto sono rimandate o ridotte, i confini tra case d’asta e gallerie si fanno sempre più indefiniti

Nonostante l’anno scorso sia diven-tata una società privata e non sia più tenuta a rendere noti i suoi margini di profitto, a inizio marzo Sotheby’s ha annunciato pubblicamente i ri-sultati delle sue «private sales» (ossia

quell’ulteriore servizio di vendita e di acquisto di beni o opere d’arte mediante trattativa privata, quindi al di fuori del consueto meccanismo d’asta, offerto dalle case d’asta di tut-to il mondo che lavorano per conto degli acquirenti per negoziare un prezzo di acquisto concordato con il venditore, Ndr): 990 milioni di dol-lari nel 2019, il 17% dei ricavi com-plessivi. Questo dato, metà del quale proviene da trenta transazioni, è leg-germente inferiore rispetto a quello del 2018, 1,02 miliardi di dollari; il massimo, 1,18 miliardi, era stato re-gistrato nel 2013.Come mai ora Sotheby’s ha deciso di promuovere i suoi servizi di ven-dita privati? Per una serie di ragioni, tra le quali la più importante è stato l’insolito annuncio, a febbraio, che le gallerie Pace, Gagosian e Acquavel-la si sono assicurate la vendita della collezione di Donald B. Marron, ossia circa 300 capolavori di arte moderna e contemporanea valutate oltre 450 milioni di dollari. Secondo «The Wall Street Journal», Sotheby’s, Christie’s

e Phillips avevano cercato di ottene-re la stessa collezione, proponendo ciascuna una garanzia di 300 milioni di dollari, ma, perlomeno nel caso di Sotheby’s, il dipartimento di vendite private non aveva fatto un’offerta.Ora le cose potrebbero cambiare. David Schrader, direttore delle vendite private della casa d’aste, ha spiegato che attualmente si trovano in una «fase di valutazione», soprat-tutto dopo l’arrivo del nuovo pro-prietario Patrick Drahi lo scorso giu-gno. «Potremmo cambiare le modalità di fare offerte in futuro? Forse», aggiunge Schrader.Negli ultimi due anni il mercato ha rallentato, i clienti hanno op-tato per le vendite private piut-tosto che rischiare di «bruciare» pubblicamente le loro opere in asta. Secondo l’ultimo Global Art Market Report, pubblicato da Art Basel e Ubs (cfr. l’articolo qui sopra), le vendite private di Christie’s sono salite del 24% a 811 milioni di dollari (il 15% delle vendite totali), da Phil-

Clare McAndrew e, in basso, lo stand di Tornabuoni Art alla scorsa edizione di Art Basel

Report Art Basel/Ubs

Mercato globale -5% (ma già il 2019 è stato complicato...)Crollano i mercati cinese (-10%), britannico (-9%) e statunitense (-5%), mentre quello francese sale (+7%). Crescono le vendite private delle case d’asta e scendono quelle all’incanto. A guadagnare di più sono i galleristi, soprattutto grazie alle fiere

Basilea (Svizzera). «È stato un anno complicato ma non disastroso», affer-ma l’economista della cultura Cla-re McAndrew, autrice della quarta edizione del Global Art Market Report, pubblicato il 5 marzo da Art Basel e Ubs. La guerra dei dazi tra gli Stati Uniti e la Cina, i disordini poli-tici di Hong Kong e la lunga vicen-da della Brexit hanno contribuito a una flessione del 5% nel mercato dell’arte globale, che nel 2019 ha totalizzato 64,1 miliardi di dol-lari. Nel complesso il mercato bri-tannico, che costituisce il 20% delle vendite totali (12,7 miliardi di dol-lari), è crollato del 9%. I galleristi inglesi riferiscono un calo delle en-trate del 4%, mentre il mercato delle aste è sprofondato del 20% a quota 4,3 miliardi di dollari.Quello francese, l’unico tra i prin-cipali mercati con segno positivo nel 2019, è riuscito a mettere una pezza: le vendite sono salite del 7%, per un totale di 4,2 miliardi di dolla-ri, facendo crescere la quota globale francese dal 6 al 7%. Le vendite in asta sono aumentate del 16% a più di 1,6 miliardi di dollari. Sia i mercanti sia le case d’asta hanno registrato un certo movimento dal Regno Unito a Parigi e Amsterdam, una «mossa pre-ventiva», spiega la McAndrew, a causa delle incertezze legate alla Brexit. Se la crescita del mercato francese pro-seguirà è oggetto di dibattito; come evidenzia il report, l’eccessiva buro-crazia e la complessità fiscale restano un ostacolo alla crescita in Francia.Se il mercato cinese nel 2020 è stato segnato dall’epidemia di coronavirus, il 2019, secondo il report, è stato com-promesso dalla «escalation della pro-testa politica che ha ridotto il numero di

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visitatori internazionali e ha creato ansia nella regione». Le vendite in asta nella Cina continentale sono scese del 9%, mentre a Hong Kong questa flessione è stata addirittura del 25%. Nel com-plesso il mercato cinese è crollato del 10% a quota 11,7 miliardi di dolla-ri, mentre quello statunitense, da sempre predominante, ha registra-to un calo del 5% a 28,3 miliardi.

Più vendite private, meno asteLa fascia alta del mercato delle aste si è raffreddata nel 2019, un anno caratterizzato dalla dispersione di poche grandi proprietà. A subirne maggiormente le conseguenze sono state le opere vendute sopra i 10 mi-lioni di dollari, che hanno subito un calo del 39% per valore, con il 35% in meno di lotti ceduti. In un’epoca di incertezza i collezionisti spesso optano per la sicurezza delle vendi-te private rispetto alle più rischiose aste pubbliche, una tendenza con-fermata nel 2019. I galleristi hanno riferito un incremento del 2% nelle vendite, per un totale di 36,8 miliar-

di di dollari, così come sono per la maggior parte in crescita le vendite private delle case d’asta, mentre scendono del 17% quelle in asta, a 24,2 miliardi di dollari. Christie’s ha riferito un +24% nel-le vendite private, per 811 milioni di dollari (il 15% delle vendite tota-li), mentre da Phillips le trattative private sono salite del 34% a 172 milioni (il 19% delle vendite totali). Sotheby’s ha registrato un lieve calo da 1 miliardo a 990mila dolla-ri (il 17% degli affari nel 2019), ma il 70% in più rispetto al 2016.

Galleristi vincentiL’ago della bilancia continua a pendere a favore dei galleristi. Il loro mercato, confrontato con quello delle case d’asta, è salito dal 4 al 58%, una tendenza destinata probabilmente a crescere nel 2020 ora che le gallerie Pace, Gagosian e Acquavella stanno vendendo la col-lezione di Donald B. Marron (cfr. lo scorso numero p. 55).Le fiere d’arte restano un’impor-tante fonte di reddito. Nel 2010 il 30% dei ricavi per i galleristi pro-veniva dalle fiere, una percentuale salita al 45% nel 2019, quando le vendite hanno raggiunto i 16,6 mi-liardi di dollari. Per la prima volta i galleristi hanno fornito dei dati, rive-lando che il 15% delle vendite in fiera sono state concluse prima delle fiere (2,5 miliardi di dollari), il 64% duran-te (10,6 miliardi) e il 21% come diret-ta conseguenza della partecipazione (3,5 miliardi). Per molti collezionisti le fiere sono diventate «la prima oc-casione di contatto» con una galleria, afferma la McAndrew. «È la loro intro-duzione al mercato dell’arte». In media, i collezionisti più facoltosi dichiarano di presenziare a 39 appuntamenti ar-tistici ogni anno. Le fiere rappresen-tano sette di questi eventi, alla pari con le mostre in galleria.

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Gli olandesi volantiOggi è una bella giornata, prendo il sole sul mio balcone, provo a vivere felicemente in pace con me stesso e ho ricevuto una meravigliosa notizia: A., la mia amica del cuore, sta bene. Detto ciò, sono però molto arrabbiato. A. è tedesca e doveva recarsi al Tefaf di Maastricht. Così ogni giorno ha letto i comunicati stampa diramati dalla fiera che annunciavano eccelse misure di sicurezza, ha consultato il sito del Governo olandese che si autocelebrava garanten-do una politica sanitaria ottima e alla fine ha deciso di recarsi in fiera. Appena arrivata, lei e diversi connazionali si sono resi conto di presentare diversi sintomi da coronavirus e si sono spontaneamente recati a un esame medico, dov’è stato loro effettuato un semplice controllo

della temperatura. Risultati negativi, hanno ricevuto l’autorizzazione a tornare in fiera. Al suo ritorno a casa si è sottoposta a un nuovo controllo, dal quale risultava essere positiva da diversi giorni; oggi è il quattordi-cesimo ed è sana. Il peggio per me è che non solo il Governo olandese e la fiera di Maastricht non hanno fatto niente per tutelare la salute di tutti, ma hanno messo alla gogna il solito italiano. È assolutamente vero che un espositore italiano presentava dei sintomi, ma avendo la febbre è stato immediatamente messo in quarantena, dunque non ha potuto più di tanto contagiare nessun altro. Gli altri invece hanno proseguito nella loro attività per tutta la durata della fiera con le conseguenze immaginabili. L’elenco delle persone contagiate è enorme. Non essendo italiano, sono nella posizione migliore per porre queste domande: «Perché incolpare il solito italiano, invece di assumersi le proprie responsabilità? Perché il Governo olandese non prende esempio da quello italiano che sta svolgendo un ottimo lavoro per contenere l’emergenza?». q Bruno Muheim

42 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

GallerieIl Giornale dell’Economia

Il virus sabbatico è il vaccino per l’arte di Franco Fanelli

Vicedirettore di«Il Giornale dell’Arte»

Raccomandazioni igienico-sanitarie ad uso degli operatori dell’arte visiva.1. ARTISTI: approfittare del periodo di isolamento per prendersi una vacanza dal lavoro. Il mercato è fermo e alla ripresa il rischio inflazione sarà fortissimo. In particolare, per decenza, si consiglia di non cominciare a pensare a opere che abbiano come temi il contagio, la contaminazione, la paura ecc. Non per altro: ce ne sono già troppe in circolazione, concepite anni prima dell’attuale emergenza sanitaria e francamente non se ne può più.2. GIORNALISTI specializzati: evitare per quanto possibile osservazioni come «senza inaugurazioni ed eventi torneremo finalmente a guardare le opere». Intanto finché i musei saranno chiusi e le gallerie svolgeranno orari limitati non sarà così facile visitare alcunché, ma soprattutto non siamo ipocriti: sappiamo benissimo che se il circo non riprende al solito regime gli inserzionisti pubblicitari continueranno a dare disdetta e noi finiamo tutti sotto i ponti.3. ORGANIZZATORI di fiere: valutare attentamente ciò che potrebbe accadere in autunno, il periodo in cui sono state spostate, tra le altre, Art Basel, Miart e ArteinNuvola, che avrebbe dovuto esordire a Roma. L’effetto imbuto, se davvero tutto tornerà normale, sarà inevitabile, considerata la compresenza, nella stessa stagione, di Artissima e ArtVerona in Italia, della Fiac a Parigi, di Frieze a Londra e di chissà quante altre fiere estere che potrebbero essere rimandate, visto l’andamento a «ola» del virus da una nazione all’altra. Per quanto sanguinosi potranno essere gli effetti di un anno sabbatico per tutti, l’ipotesi non è da sottovalutare. In Italia, il Governo ha sfidato il rischio sommossa popolare e ha sospeso il campionato di calcio e l’apericena.4. COLLEZIONISTI d’arte contemporanea: invece di compulsare ossessivamente i portali specializzati in mercato dell’arte, la profilassi consigliata nel tempo libero risultante dai mancati viaggi da Dubai (annullata anche quella fiera) a Los Angeles, da Hong Kong (stop anche da quelle parti) a Basilea verte su buone letture di storia dell’arte. Tra Altamira e Vezzoli esiste una regione cronologica e culturale ricchissima e sterminata e per molti di voi, evidentemente, inesplorata o quanto meno tutta da riscoprire.5. FILOSOFI: s’implora di astenersi da commenti di varia natura sull’attuale emergenza sanitaria. Lasciate parlare e scrivere i medici e gli scienziati. All’arte (e ad altri ambiti) avete fatto già troppi danni.6. Lavarsi frequentemente le mani.

Un’opera di Pascale Marthine Tayou all’Armory Show 2020

New York

Armory Show, fair & fear A causa dell’emergenza Coronavirus la fiera newyorkese è stata l’ultima della stagione. Ma a Manhattan, dove le vendite non sono mancate, si pensa già al futuro: nuove date e nuova sede

New York. «Arm-ory»: così, con un gioco di parole e battendo reciproca-mente i gomiti («arm» in inglese sta per braccio), si salutavano gli invi-tati all’inaugurazione dell’Armory Show per evitare quelle strette di mano e quegli abbracci diventati

pericolosissimi con la diffusione del Covid-19. Svoltasi dal 4 all’8 marzo, quella newyorkese è stata l’ultima fiera d’arte almeno sino all’estate, considerato che l’emergenza sanita-ria internazionale non ha risparmia-to nemmeno Art Basel, che è stata

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spostata al 17-20 settembre. Anche la lanciatissima Miart, prevista in apri-le a Milano, ha dovuto arrendersi e spostarsi dall’11 al 13 settembre. Rimandata in autunno anche l’esor-diente ArteinNuvola di Roma. Ma ai Piers 90 e 94 di Manhattan il mer-

cato ha dimostrato di non risentire degli esiti economici della crisi sa-nitaria, anche se solo pochi giorni dopo la paura provocava clamorosi ribassi nelle borse mondiali. A New York c’erano anche le gallerie ita-liane, come la Galleria Maggiore di Bologna (che vendeva a 200mi-la euro un acquerello di Morandi), Lia Rumma, Invernizzi e Apalaz-zo, con allestimenti di alto profilo. Tra le gallerie asiatiche, le uniche a marcare visita erano ShangArt e Pearl Lam, ma ufficialmente per motivi non legati al Coronavirus. A garantire l’afflusso di collezionisti sono stati gli stessi americani. «Non abbiamo notato flessioni rispetto alla vernice dello scorso anno, dichiarava il gallerista svizzero Stefan von Bartha. Abbiamo avuto un’apertura molto impegnativa». Dopo poche ore i bollini rossi nel suo stand riguardavano «Anima Mundi» di Imi Knoebel (120mila dol-lari) e opere di Landon Metz cedute dai 25mila ai 38mila dollari. Il segre-to del successo dell’Armory Show si nasconde in un paradosso: ha il tratto di una fiera fortemente legata al collezionismo statunitense, ma si svolge in uno snodo internazionale del mercato. Così riesce a reggere anche l’as-senza nel parterre di alcuni colossi newyorkesi come la Pace o David Zwirner. Sempre nel giorno della vernice, in cui sono stati avvistati i soliti Vip (tra i quali Massimiliano Gioni, Cecilia Alemani e Maurizio Cattelan), Robert Projects vendeva una tecnica mista di Betye Saar a ol-tre un milione di dollari; dalla Cor-coran prendevano il volo tre dipinti di Mary Corse dai 45mila ai 280mi-la dollari, mentre l’opera scultorea «Formation» di Alicja Kwade, una delle star della Biennale di Venezia del 2019 esposta dalla 303 Gallery trovava un acquirente a 150mila dollari. Tra gli autori storicizzati, si segnalano le vendite di «Yellow» di Hans Hofmann (1945, 125mila dol-lari) e di un dipinto di Richard Pou-sette-Dart (60mila dollari) da parte della galleria Hollis Taggart. Durante le giornate dell’Armory Show molti sostenevano che il ve-ro nemico della fiera non è tanto il Covid-19 quanto la profusione di concorrenti: Frieze a Los Angeles sta crescendo, al pari della sua edizione newyorkese programmata per mag-gio, quando arriverà anche il Tefaf. Senza contare la concorrenza delle altre newyorkesi che si svolgono nella stessa settimana dell’Armory, come Independent e The Art Show. Queste sono le principali ragioni per cui la fiera, nel 2021, sposterà date (a settembre) e sede, presso il Javits Center. La decisione arriva dopo un paio di edizioni complicate e dopo che i problemi strutturali hanno co-stretto la rassegna a un allestimento separato, ai Piers 90 e 94. «Questa di-slocazione, non proprio comoda, è stata una sfida, ha dichiarato Nicole Ber-ry, direttrice esecutiva dell’Armory Show. Il Javits Center offre una migliore soluzione a lungo termine, per avere tut-ti in un unico luogo». Situato a Hell’s Kitchen, adiacente al quartiere dei teatri della città, il Javits Center, am-bito anche da Frieze, è meglio colle-gato ai trasporti rispetto all’attuale sede e offre anche un facile accesso a servizi culturali come la High Line e, soprattutto, a Chelsea, il quartiere delle gallerie di Manhattan. q Margaret Carrigan

Paesaggio dopo la catastrofe (ma le fiere erano già in retromarcia)Londra. «Troppe fiere», «Fairtigue»: queste espressioni sono rimbalzate in tutto il mondo dell’arte sino alla fine del 2019: da 55 nel 2000 le mostre-mercato di un certo rilievo erano salite a oltre 300. Poi è successa una cosa curiosa: allarmati dall’accelerazione del numero di eventi e dall’aumento dei costi, i galleristi hanno iniziato a ritirarsi. Il Global Art Market report per il 2019 pubblicato ora da ArtBasel e Ubs (cfr. articolo in questa sezione) indica che l’incremento delle vendite concluse in fiera, stimate in 16,6 miliardi di dollari, nel 2018-19 non ha raggiunto l’1%. Le fiere hanno iniziato a essere cancellate o rinviate: 14 di esse, 12 delle quali ritenute importanti, non si sono svolte nel 2019. Tra queste, Art Stage Singapore, Art SG, Volta New York, la New Art Dealers Alliance (Nada) di New York, l’edizione di Bruxelles di Independent e Art Berlin. Il rapporto ArtBasel Ubs ha concluso che la crescita aveva raggiunto il picco nel 2018 e stava entrando in un periodo di «stabilizzazione e consolidamento». In parole povere, molti mercanti hanno dichiarato di essere stati più selettivi nella scelta delle fiere cui partecipare. E poi il Covid-19 ha colpito. Mentre scriviamo, oltre 20 fiere in tutto il mondo sono state cancellate o rinviate a Basilea, Hong Kong, Georgia, Dallas, Bruxelles, Milano, Colonia, Roma, New York e San Paolo, mentre il Tefaf di Maastricht ha chiuso i battenti dopo soli quattro giorni (cfr. articolo a p. 52). La pandemia finirà, anche se pochi possono prevedere esattamente quando: accadrà nella tarda primavera, quando, ad esempio, dovrebbero svolgersi Pad, Art Paris e Art Brussels? E come sarà il paesaggio fieristico quando le cose torneranno alla normalità? Prevedo un panorama molto cambiato, poiché gli organizzatori potrebbero cogliere l’occasione per ripensare radicalmente le loro strategie. Prendiamo Frieze New York, che ha sempre lottato per ottenere un profitto adeguato allo sforzo dopo le non fortunate prime edizioni. Ora che il suo nuovo proprietario Endeavour ha aperto con successo Frieze LA, la fiera potrebbe tranquillamente abbandonare l’edizione newyorkese? Che cosa succederà ad Art Dubai, con un mercato dell’arte comunque in declino in Medio Oriente? Che cosa farà il colosso svizzero Mch, di cui fa parte la stessa Art Basel? Prima dell’emergenza sanitaria stava già facendo alcuni passi indietro proprio nel settore arte. Gli investitori scontenti imporranno altri cambiamenti? Che cosa accadrà alle edizioni inaugurali di start-up come Eye of the Collector di Londra (rimandata a settembre) o la nuova Singapore Art SG (spostata dallo scorso anno a fine ottobre)? Ci saranno ancora le 20 (sì, 20) fiere-satelliti a Miami Beach in dicembre? La giostra potrebbe ripartire, ma è improbabile che si verifichino cali nelle vendite. Il numero di fiere probabilmente diminuirà, in particolare se, come temuto, alcuni galleristi non sopravviveranno a questi tempi difficili. Ma alla fine, una riduzione del numero di fiere non potrà che essere una buona cosa: i collezionisti potrebbero tornare all’entusiasmo di una volta, invece di lamentarsi incessantemente di «fairtigue». q Georgina Adam

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43IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

GallerieIl Giornale dell’Economia

L’opera del cileno Fernando Prats ad Arco

Madrid

Arco chiama, il Cile non rispondeIl mercato vola con la pittura e le donne. Nel 2021 la 40ma edizione con un forfait che sa di censura

Madrid. C’è voluto il Coronavirus per-ché il re Felipe VI e consorte, duran-te l’inaugurazione della fiera d’arte contemporanea ARCOmadrid, si fermassero nello stand di una galleria italiana. La prescelta è stata quella di Massimo e Francesca Minini, padre e figlia separati in patria a Bologna e Milano, ma insieme a Madrid. La stampa e l’opinione pubblica hanno interpretato il gesto come una «prova di coraggio» (sic!) e di supporto all’I-talia, anche se Francesca Minini lo ha smentito seccata. «Ci hanno visitato perché siamo una galleria molto impor-tante, ma a differenza della stampa non hanno neanche accennato al Covid-19», ha detto la gallerista che, come altri con-nazionali, sembrava più soddisfatta quest’anno che in altre edizioni. No-nostante l’abituale reticenza dei galle-risti a dichiarare le vendite, molti non potevano nascondere l’allegria. Era il caso di Continua, una delle fedelissi-me di Arco, quest’anno con uno stand tutto dedicato a Carlos Garaicoa, che ha venduto un enorme dittico per 75mila euro ancora prima che la fiera aprisse al pubblico. È mancato invece l’atteso boom di Mario Merz, auspica-to dal grande successo della mostra che il Museo Reina Sofía ha appena chiuso. Persano quest’anno non ha portato le grandi tele di altri anni, ma ha preferito creare una saletta mono-grafica con opere di piccolo e medio formato. Contenuto il calo dei visita-tori che quest’anno si sono fermati a 93mila, ma si è notata molto l’assen-za dei collezionisti italiani, abituali dell’evento e anche di altri Paesi eu-ropei che hanno cancellato il viaggio all’ultimo momento. Tutte presenti invece le gallerie.Come previsto è stato l’anno delle donne, che non solo hanno aumenta-to considerevolmente la loro presenza

in fiera (circa il 32%, mentre nel 2019 erano il 6,1%), ma soprattutto hanno moltiplicato le vendite, anche se pur-troppo non le quotazioni. Come esem-pio, il Museo Reina Sofía che ha speso poco più di 200mila euro per 13 opere di cui solo una di un uomo, la Fonda-zione Dkv e la Fondazione Arco che ha acquistato solo opere di donne.La prima edizione diretta da Mari-bel López è stata pervasa da un’aria strana, una specie d’inquietudine sot-tile, sempre presente anche se tutti si impegnavano a negarla. Anche qui la pittura e le proposte più tradizionali confermavano il loro grande momen-to, nonostante la situazione mondiale (dall’emergenza ecologica ai nuovi populismi) lasciasse presagire un’im-portante presenza di opere a tema po-litico e sociale. Strana anche la scelta di dedicare l’edizione non a un Paese invitato come al solito, ma a un tema, nella fattispecie all’idea del tempo nell’opera di Félix González-Torres, scomparso nel 1996 per Aids, che in generale non è stato capito né molto apprezzato. Franco Noero, unico ita-liano presente nella sezione a tema con le opere della brasiliana Jac Leir-ner, assicurava di aver percepito mol-to interesse, ma di non aver concluso nessuna vendita. Espacio Mínimo di Madrid ha ricreato la pianta dello Sto-newall Inn, un bar frequentato dalla comunità gay, facendo riferimento ai disordini del 1969 a seguito di un raid della polizia in quel locale. Lo stand includeva fotografie degli anni ’60 (ri-stampate nel 2000) di James Bidgood e un nuovo dipinto di Norbert Bisky (venduto per 15mila euro). La pittura astratta si confermava in gran forma. Cayón di Madrid esponeva, tra l’altro, «Physichromie n. 2710» di Carlos Cruz Diez con un cartellino di 1,3 milioni di euro. Ne sono bastati 70mila al pezzo

a chi ha acquistato i cinque dipinti aniconici di Miguel Ángel Campano (1948-2018) nello stand di Juana de Aizpuru. Ne acquistava uno Helga de Alvear, altra grande protagonista del mondo galleristico madrileno, che intanto vendeva a 13mila euro un dipinto del 2019 del portoghese José Pedro Croft e concludeva altre acquisizioni per la sua collezione e/o fondazione di Cáceres, tra cui un’o-pera di Roy Lichtenstein «Water Li-lies with Japanese Bridge» (1992) da Edward Tyler Nahem Fine Art di New York, e un lavoro di Etel Adnan da Lelong di Parigi.L’anno prossimo Arco compirà qua-rant’anni, ma il futuro per ora è pieno d’incognite e per la prima volta nella storia della fiera con certezza si sa so-lo la data, dal 24 al 28 febbraio 2021. Il Cile, il Paese ospite d’onore prescelto per quell’importante anniversario, ha già declinato l’invito a causa delle dif-ficoltà sociali che sta attraversando, evidenti nelle opere di artisti come Fernando Prats, che esponeva grandi bandiere con graffiti realizzati duran-te le proteste antigovernative a San-tiago del Cile dello scorso anno. Per la comunità artistica cilena non si tratta solo di un’occasione mancata, ma di una vera e propria vendetta del Go-verno dopo le critiche degli artisti al premier Sebastián Piñera. C’è anche il timore che vengano fatte conosce-re al mondo le flagranti violazioni dei diritti umani commesse durante la repressione delle proteste, come dimostrano 31 morti e molti desapa-recidos. q Roberta Bosco

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Le sette sorelle madrileneMadrid. Arco si conferma tra le fiere europee più importanti, ma per capire lo spirito della «semana del arte» madrilena occorre fare un giro anche alle fiere satellite, quest’anno sette. Se identità, obiettivi e qualità delle iniziative erano come sempre molto differenziati, ovunque si coglieva la presenza di artisti pronti a dialogare con il pubblico e si assisteva a trattative di vendita, con un bel fiorire di bollini rossi. Tra i tratti comuni di quest’anno la presenza delle donne, con una percentuale vicina al 40% tra le espositrici, e il diffuso rilancio di temi legati al femminismo e al femminile. Art Madrid, la veterana tra le satelliti, allestita sotto il soffitto di vetro del palazzo di Cibeles, ha il pregio di presentare una vasta ricognizione sugli artisti, giovani e affermati, provenienti da tutti i Paesi di cultura ispanica; unica presenza italiana in questa edizione Stefano Forni di Bologna, che ha risposto all’invito con una selezione dei suoi pittori, da Alberto Zamboni (da 3mila euro) ed Edite Grinberga (15mila euro) a Luciano Ventrone (da 26mila euro per un olio di 50x50 cm). Palazzo storico e soffitto di vetro, ma questa volta coloratissimo, anche per JustMAD, la più interessante per le proposte emergenti orientate al pensiero critico e alle tematiche di attualità, introdotte già all’ingresso da un’installazione di zerbini con provocatorie citazioni filosofiche, opera di Eugenio Merino e Avelino Sala: tra le poche presenze italiane la galleria Burning Giraffe di Torino con la figurazione di Romina Bassu (nella foto, «Naufraga», 2019), Anna Capolupo e Simone Geraci, e lo Studio 38 di Pistoia, con una monografica di Federica Gonnelli, raffinata ricerca tra organza e immagini della natura (entrambe con proposte dai 500 ai 6mila euro). La sensibilità per la natura e i temi ambientali appare trasversale, tra ibridi mutanti, ghiacciai in scioglimento e paesaggi da difendere, e l’abbiamo trovata anche a Drawing Room, un piccolo osservatorio specializzato sul disegno contemporaneo, con prezzi da 300 a 12mila euro; per l’occasione la rivista specializzata «Papeleo» ha presentato un numero dedicato a sedici artisti italiani, tra i quali Rocco Dubbini, esposto dalla galleria napoletana Shazar. La più colorata delle satelliti era Urvanity, con una vocazione tra Street art, New pop, graffiti e arte digitale urbana: trenta gallerie tra le quali Antonio Colombo di Milano con ironici dipinti di Sergio Mora, artista barcellonese molto noto in Spagna come illustratore (dai 6mila euro). Molto giovane e internazionale è anche Hybrid, ambientata nelle stanze di un hotel, dove trovavano spazio installazioni, multimedia, realtà

aumentata, performance, musica elettronica e anche piccolissime opere molto economiche (prezzi da 7 euro). All’opposto, per chi voleva trovare i maestri più storicizzati, l’offerta era al SAM Salón de Arte Moderno, con opere da Renoir a Plensa. Per concludere due esperienze off particolari: Flecha, fondata da un gruppo di artisti in un grande centro commerciale per trovare nuove vie di promozione, e Artist, concepita come uno spazio di autorappresentazione in cui si tratta direttamente con gli artisti senza intermediazioni. q Valeria Tassinari

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In autunno diventeremo nevroticisegue da p. 6, v col.Diversi Paesi europei hanno blocca-to le licenze all’esportazione e l’Arts Council Export Licensing Unit del Re-gno Unito «è stata sospesa fino a nuovo ordine», come riportato in una mail del 20 marzo, lasciando in difficoltà mol-ti galleristi: il mercante di libri rari e mappe Daniel Crouch sta aspettando licenze per opere dal valore di 350mi-la sterline già vendute all’estero: «Non sarò pagato finché non riuscirò a esporta-re», dichiara.Simon Sheffield, presidente esecuti-vo della compagnia di spedizioni Mar-tinspeed, afferma che il prezzo del tra-sporto aereo è «da cinque a sei volte più alto del solito». Prevede che le spedizioni di arte «saranno ridotte all’osso. Stiamo en-trando in un territorio sconosciuto».

Assicurazioni e implicazioni legaliLa cancellazione delle fiere ha fatto perdere diversi milioni: «La copertura

cato non si sposterà interamente onli-ne, spiega, ma «sono spesso degli eventi apparentemente senza alcuna relazione con il mercato a originare grandi cambiamenti; sarà interessante vedere le evoluzioni di que-sta crisi». «Se organizzo una mostra online di un artista come Adam Pendleton o Loie Hollowell, la gente comprerà? Lo scoprire-mo», afferma Glimcher, la cui galleria ha appena lanciato una serie di mostre e vendite online.

Ripresa e ricostruzioneVista la volatilità finanziaria senza precedenti delle ultime settimane, è ancora troppo presto per prevedere come si evolveranno la recessione e la ripresa. «Spero che sia una recessione molto acuta ma breve, con una veloce ripre-sa, dichiara Wirth. Ma molti dicono che ci vorrà più tempo e, purtroppo, mi trovo d’accordo». Una ripresa rapida potrebbe vedere il mercato dell’arte riprendersi in autunno con una forte richiesta, ma se le cose andranno più per le lunghe potrebbe riprodursi la situazione degli anni Novanta, con un riaggiustamen-to in calo dei prezzi. Dall’Asia potreb-bero arrivare degli indizi. Craig Yee, direttore della galleria Ink Studio di Pechino, afferma: «Con la crisi sanita-ria più o meno sotto controllo, Cina, Hong

Kong, Singapore, Taiwan, Corea, Giappone e il Sudest asiatico sono nelle condizioni di reagire in modo propositivo alla crisi econo-mica globale che si sta prospettando. Le eco-nomie europea, inglese e americana invece si stanno ancora confrontando con l’epidemia e, per molti versi, stanno fallendo misera-mente». Yee prevede «una ristrutturazio-ne geopolitica ed economica globale, enormi mutamenti negli ambiti economico, politico e culturale, di cui l’arte è parte integrante e costitutiva».

Risvolti positiviForse si può trovare un lato positivo nel forzato rallentamento del passo frenetico del mercato globale dell’arte e una ritaratura dei valori, come crede Wirth, uno dei più potenti mercanti di arte contemporanea al mondo, isolato nel Somerset: «Ora so come si cambiano le cartucce della stampante e come si pulisce la macchina del caffè. Parlo con mia madre un’ora tutti i giorni. È l’occasione per mo-strarsi gentili con gli altri, cerchiamo di non perderla». I tempi saranno duri, ma, con le paro-le di Guerrini-Maraldi: «Niente panico. Le cose torneranno presto normali; risollevar-ci è nella nostra natura». Perché, anche questo, passerà.q Anna Brady

dal Covid-19 non è in vendita», dichiara Fi-lippo Guerrini-Maraldi, presidente della divisione patrimoni privati per la società di broker assicurativi RK Har-rison. «Per gli appuntamenti imminenti la cancellazione per ragioni di salute non è possibile, ma per quelli in programma tra diversi mesi sarà possibile annullare, il tutto ovviamente a un costo». «È una situazione che non ha precedenti. Stiamo cercando di studiare tutte le possibili implicazioni», spiega Pierre Valentine, che si occu-pa del settore Art & Cultural Property Law Group per Constantine Cannon. A proposito dei contratti tra le fiere non posticipate o annullate e gli espositori, quale che sia la normativa applicabile, le cose saranno ancora più complicate se espositori, organizzatori della fiera e la fiera stessa non sono nello stesso Paese. Molte fiere sono state «sposta-te», parecchie all’anno prossimo, piut-tosto che «cancellate»: una decisione che potrebbe avere delle conseguenze. «Se una fiera viene cancellata, è probabile che gli espositori vengano risarciti, spiega Rudy Capildeo, socio dello studio le-gale Charles Russell Speechlys. Se viene posticipata, la fiera potrebbe trattenere la caparra dei galleristi». Ma Valentin ag-giunge che «questo potrebbe comunque dipendere dai singoli contratti e dal loro

contenuto, è difficile dare una consulenza generica». Anche se al momento vi è «un senso di solidarietà nella comunità dell’ar-te», Capildeo pensa che le cose potreb-bero peggiorare. «Purtroppo è inevitabile che inizi a farsi sentire una certa pressione, la buona volontà non può durare a lungo».

Il mondo virtualeMentre si pensa a come uscire da que-sta situazione, il settore è stato confina-to nell’unico posto in cui si può ancora lavorare: online. «Se paragoniamo il mon-do della moda a quello dell’arte, la nostra offerta digitale è indietro di anni luce», di-chiara Wirth. Durante una conference call con 90 membri dello staff di Hau-ser & Wirth in smart working, Wirth ha detto: «L’eredità di tutto ciò sarà la tec-nologia». «La distanza sociale e le limitazioni ai viaggi danno a case d’asta, gallerie e fiere d’arte l’occasione per testare le strategie di vendita digitale, come la realtà virtuale e le aste online, afferma Evan Beard, execu-tive per i servizi di arte nazionale dello US Trust. La crisi potrebbe far emergere un modo di fare affari low cost, che presto po-trebbero diventare la prassi». Come Beard e Wirth, anche Clare McAndrew vede questa crisi come un’opportunità per mettere alla prova modelli di lavoro digitali e da remoto. Il mer-

44 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

Antiquari

«Ritratto di donna» di Guercino (Maurizio Nobile). In alto, «Omaggio a Seurat» di Massimo Campigli (Bottegantica)

Gli stand italiani al Tefaf

Tour virtuali per acquisti realiI nostri antichi (da Guercino a Magnasco) ma anche i moderni (de Chirico, Arnaldo Pomodoro, eccetera) sono garanzie nei momenti difficili

Maastricht (Paesi Bassi). Molti esposi-tori italiani hanno giudicato positi-vamente la loro partecipazione al di sopra delle aspettative iniziali che, soprattutto per chi proveniva dall’I-talia, erano condizionate da una forte preoccupazione. «I risultati delle vendite finora confermate sono stati leggermente sotto la media degli anni passati, ma in-dubbiamente al di sopra delle aspettative e ho ricevuto tante richieste per telefono e per posta elettronica», ha dichiarato Alessandra Di Castro (Roma) che ha soddisfatto l’interesse dei clienti non fisicamente presenti, soprattutto americani, inviando il virtual tour del-lo spazio espositivo e foto dettagliate delle opere. L’antiquaria, che espone-va preziose opere di arte decorativa del Settecento romano, ha venduto a un cliente americano una coppia di candelabri di Valadier (con richiesta superiore ai 100mila euro), di mar-mo bianco e bronzo dorato dal cesello finissimo. Particolarmente soddisfatti Massimiliano Caretto e Francesco Occhinegro, per la prima volta a Tefaf nella sezione «Showcase». I due galleristi torinesi hanno venduto un monumentale olio su tavola di Frans Francken II, «La predica di Gesù sul lago di Tiberiade», nei primi 25 minuti della vip preview. Nei giorni successi-vi hanno poi venduto a clienti nuovi 5 delle 8 opere proposte nello stand, fra cui «Il Paradiso Terrestre» del ra-ro Maestro della Fuga in Egitto di

Copenaghen, la cui valutazione era intorno ai 150mila euro. «Sono man-cati  alcuni curatori che aspettavamo, per esempio un francese che aveva già mostrato interesse in particolare per l’autoritratto di Bonzanigo (preziosa opera in microscultura lignea del 1786, Ndr), per  il quale siamo in trattativa anche  con un’altra istituzio-ne pubblica, faceva notare l’antiquario Luca Burzio di Londra. Abbiamo poi concluso vendite con privati e con un  col-lega  europeo,  ma soprattutto  con un col-lezionista statunitense già nostro cliente e con un importante museo americano». Gli affari sono stati meglio di quanto si poteva inizialmente prevedere anche secondo Matteo Salamon (Milano), che ha chiuso positivamente tratta-tive soprattutto sui fondi oro italiani con clienti privati. «Sono mancati alcuni grandi clienti internazionali, privati e istitu-zionali, ma abbiamo potuto contare su una vasta clientela europea, soprattutto locale, curiosa e competente, ha affermato To-maso Piva di Piva&C. (Milano). Abbia-mo venduto all’inaugurazione una serie di importanti vasi Augustus Rex in porcellana di Meissen del XVIII secolo a un collezioni-sta tedesco, poi nel fine settimana quattro dipinti su rame, firmati da Orazio Greven-broeck (primo quarto del XVIII secolo) a un amatore belga, nonché una scultura in bronzo del contemporaneo Matteo Pugliese e una Vanitas in vetro di Lilla Tabasso, che verrà consegnata a Parigi». Presente per la prima volta a Tefaf, Enrico Ceci di Serramazzoni (Mo) ha venduto la

cornice italiana «Cassetta», toscana, del XVI secolo, acquistata da un mu-seo americano per una cifra compresa fra 25-30mila euro, mentre Alberto Di Castro (Roma) segnala di aver con-cluso con un collezionista privato del Nord Europa che si è aggiudicato due miniature su pergamena capolettere di un grande antifonario. Tre collezio-nisti privati di nazionalità belga, italia-na e tedesca hanno invece comprato tre lavori dal bolognese Maurizio Nobile, in una fascia di prezzo com-presa fra 15-150mila euro. Si tratta di un disegno inedito «Ritratto ideale di donna» del Guercino, il dipinto su

rame «La salita al Golgota» (1687) di un giovanissimo Donato Creti e un raro esempio della grafica giovanile di Simone Cantarini, precedente l’in-gresso dell’artista nell’atelier di Guido Reni, raffigurante «Il ritrovamento di Mosè». «Per noi questa edizione di Tefaf Maastricht è stata positiva sia per le ven-dite effettuate sia per i contatti acquisiti in ambito collezionistico e con curatori di mu-sei internazionali, con l’unico neo della chiu-sura anticipata», ha commentato Enzo Savoia, titolare di Bottegantica (Mi-lano), che ha venduto due dipinti im-portanti a privati: «Le rive della Senna a Mont-Valérien» di Giovanni Boldi-ni e «Omaggio a Seurat» di Massimo Campigli a un prezzo che si attesta rispettivamente tra i 170-220mila euro e i 400-450mila. Collezionisti europei e musei, anche americani, so-no infine stati fra i clienti dei romani Francesca Antonacci e Damiano Lapiccirella. I due galleristi dichiara-no di aver venduto più di dieci opere fra cui due inediti schizzi a olio di An-ton Sminck Pitloo, databili intorno

al 1820, acquistati da un collezionista europeo così come una romantica veduta di «Capri al tramonto» del pit-tore simbolista K.W. Diefenbach, a cui si affiancano gli ottimi riscontri per i dipinti del paesaggista romano Giovanni Battista Camuccini (1819-1904). Per Tornabuoni Arte (Firenze e Parigi) la fiera è stata molto positi-va, avendo concluso alcune trattative sopra il milione («Muse inquietanti» di de Chirico, «Grande Bassorilievo» per l’Ambasciata italiana a Tokyo di Arnaldo Pomodoro) e avendo vendu-to a clienti privati anche un’opera di Paolo Scheggi e una di Emilio Isgrò. Umberto Giacometti di Giacometti Old Masters Paintings di Roma ha invece venduto, fra gli altri, un olio su tela di Alessandro Magnasco, «Gioca-tori di carte», per oltre 100mila euro a un amico collezionista italiano, un pic-colo dipinto di Antonio Mancini a un collezionista francese e una rara scul-tura di Filippo Giulianotti del 1883, «Di sott’acqua», per oltre 10mila euro a collezionisti belgi. q Elena Correggia

«Paysanne devant une chaumière» (1885) di Vincent van Gogh (Simon Dickinson)

Tefaf Maastricht

Come ai tempi della Guerra del GolfoL’emergenza sanitaria ha ridotto i giorni di apertura e i clienti (meno 20-30%). Affari a rilento, ma anche vendite milionarie

Maastricht (Paesi Bassi). Per la prima volta nella sua storia, Tefaf Maa-stricht si è chiusa in anticipo a causa della diffusione del Coronavirus: la 33ma edizione ha chiuso i batten-ti l’11 marzo anziché il 15 (nel 2021 si terrà dal 13 al 21 marzo). Il brusco stop è stato accolto positivamente da molti espositori anche per le crescenti difficoltà relative ai viaggi e ai traspor-ti. All’apertura vip una cinquantina di persone si salutava toccandosi pu-gni e gomiti, mentre i più coraggiosi cercavano di prodursi nel cosiddet-to «saluto di Wuhan», piede contro piede. Bailly Gallery di Parigi e Gi-nevra aveva addirittura prodotto un disinfettante per mani con il proprio marchio, mentre altri avevano collo-cato flaconi di gel sui plinti accanto a busti romani. Tra gli espositori (con alcune defezioni) era palpabile la tre-pidazione, visto che molte fiere erano già state cancellate o spostate a causa del virus. Tefaf Maastricht invece è andata avanti e l’opinione generale

era che, sebbene la fiera registrasse il 29% in meno di visitatori alla ver-nice rispetto al 2019 e un volume di affari più basso, non si palesava il temuto disastro. Nei sette giorni di apertura, comprese le preview (5 e 6 marzo), la rassegna ha attratto circa 28.500 visitatori. «Abbiamo affrontato altre sfide in precedenza, diceva Jona-thon Green della galleria londinese Richard Green. Credo che lo scoppio del-la Guerra del Golfo (nel 1990-91, Ndr) si possa paragonare alla situazione attuale». Una decina i membri del comitato di vetting (alcuni da Italia e Stati Uni-ti) era assente a causa delle restrizioni agli spostamenti aerei o per decisio-ne personale. Alcuni galleristi, come il madrileno Nicolás Cortés, erano sorpresi e rincuorati dal successo del giorno di apertura. Cortés, che per la prima volta esponeva senza Colnaghi (si è separato dal suo ex socio d’affari Jorge Coll nel 2018), metteva a segno la prima vendita importante della se-rata, due pannelli laterali di una pala

d’altare del XVI secolo del fiammingo Anthonis Mor, raffiguranti «Un do-natore con san Gerolamo» e «Una do-natrice con santa Chiara di Assisi». Le tavole erano in una collezione privata di Madrid e, con un prezzo di 3 milio-ni di euro, venivano vendute a una fondazione privata dei Paesi Bassi, co-me confermava Cortés, che vendeva 7 opere nel giorno d’apertura, con una prenotazione per «Prima della corri-da» di Joaquín Sorolla. Il momento difficile non ha impedito nemmeno a Simon Dickinson di Londra di realiz-zare la vendita forse più alta di tutta la fiera. Nel suo stand era esposto il dipin-to «Paysanne devant une chaumière» (1885) di Vincent van Gogh passato a un collezionista privato per una som-ma tra i 12-15 milioni di euro. Anche la londinese Tomasso Brothers Fine Art registrava buone vendite, compre-so un bronzo del giovane Lucio Vero del primo quarto del XVI secolo (prez-zo intorno ai 950mila euro).

Assenze dagli Stati Uniti Diverse gallerie hanno dichiarato il forfait di un 20-30% dei loro clienti. Colnaghi, specialista di dipinti antichi con gallerie a Londra e New York, ad esempio, ha ricevuto la rinuncia del 30% dei 250 invitati alla serata organizzata nel ristorante Château Neercanne. Si avvertiva l’assenza dei compratori statunitensi, in particolare dei rappresentanti dei musei (tra gli assenti, il Metropolitan Museum of Art, il Getty di Los Angeles e la National Gallery of Art di Washington) sempre molto importanti per il Tefaf,

soprattutto per i mercanti di dipinti antichi. «Faccio affidamento su questa fiera come principale collegamento con i musei americani, che invece non ci sono», affermava il gallerista londinese Sam Fogg, che vendeva a un collezionista francese una Pietà (1510-20 ca) dalla regione francese della Champagne a circa 100mila euro. «È il genere di opere che non avremmo venduto qualche anno fa, la gente non voleva vivere accanto a un Cristo morto, spiegava Fogg. Ma ora se non altro i soggetti tristi sembrano andare più di moda». Qualche museo dagli Stati Uniti era comunque presente e la londinese Agnews vendeva a uno di loro un «Cristo alla colonna» di scuola lombarda del 1510 ca, con un prezzo a sei zeri. La galleria cedeva altre due opere, un minuscolo rosone di un interno di Cattedrale (1621) di Hendrick van Steenwijck il Giovane, anch’esso con un prezzo a sei zeri, e una «Natura morta con pipa» (1936-38 ca) di André Derain, a un prezzo a cinque zeri.

New entry Nella sezione «Modern», il parigino Kamel Mennour, meglio noto nel circuito dell’arte contemporanea, ha creato uno stand basato sull’idea del

paesaggio romantico, nel quale cam-peggiavano tre alberi contorti a gran-dezza naturale di Ugo Rondinone, dal titolo «The Jasmine» (2016), in re-sina, terra e gelsomino essiccato. Uno di questi è stato venduto, oltre a una scultura in bronzo dorato sempre di Rondinone, «The Sun at 12am» (2019). La sezione «Modern» presentava diver-se new entry del contemporaneo, tra cui la Lisson (Londra e New York) che, tra gli altri, vendeva per 550mila dol-lari l’acrilico su tela «Untitled» (1987) di Mary Corse, realizzato con micro-sfere di vetro, e «Morning Song» (2020) di Stanley Whitney a 200mila dolla-ri. Debutto a Maastricht anche per la Galleria Continua (San Gimignano, Les Moulins, Pechino, L’Avana e Roma) che vendeva, tra le altre, alcune opere del suo stand dedicato alle sculture di Antony Gormley dalla serie «Massive Blockwords» (2011-12), tra le quali una a 400mila sterline. Nella sezione «Paper», il titolo di uno schizzo a olio di RB Kitaj, venduto a circa 100mila sterline dal londinese Christopher Kingzett, riassume perfettamente il 2020 fino a questo momento: «Fed Up, Again (stufo, di nuovo)»  (1981). Come affermava il gallerista «riflette bene l’at-mosfera». q Anna Brady ©

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#restiamoacasaconlarteANITA ALMEHAGEN “Antichità Bruschi”FRANCESCA ANTONACCI “Antonacci Lapiccirella Fine Art”PAOLO ANTONACCIMARCO FABIO APOLLONI “Galleria W. Apolloni”ACHILLE ARMANI “Galleria Malair”GIOVANNI ASIOLI MARTINIRICCARDO BACARELLI “Antichità Bacarelli”GIOVANNA BACCI DI CAPACI “800 – 900 Artstudio S.r.l.”VASSILI BALOCCO “Galleria Daniela Balzaretti”PAOLO BALZANO “Antichità Piselli Balzano”DANIELA BALZARETTIGIORGIO BARATTI “Giorgio Baratti”MASSIMO BARTOLOZZI “Guido Bartolozzi Antichità”NAZZARENO BASTIOLI “Santa Barbara Art Gallery S.r.l.”MAURIZIO BELLUCO “Belluco Antichità”EZIO BENAPPI “Benappi S.a.s.”FILIPPO BENAPPI “Benappi Fine Art”DUCCIO BENCINI “G. P. B.”ANTONELLA BENSIIDA BENUCCI “Benucci Galleria d’Arte”GIANLUCA BERARDI “Galleria Berardi”GIANLUCA BOCCHINICLA BONCOMPAGNIALBERTO BORELLI “Antichità Santa Giulia”BRUNO BOTTICELLI “Botticelli Antichità”MAURIZIO BRANDI “Maurizio Brandi Antiquario”AUGUSTO BRUN “Il Quadrifoglio Antichità”MARCO BRUN “Il Quadrifoglio Antichità”ANGELO CALABRO’ “Calabrò Antichità 1968 S.r.l.”ALFREDO CALANDRA “La Pinacoteca”ELENA CAMELLINI “Galleria Antiquaria Camellini”ROBERTO CAMPOBASSO “Antichità”PIETRO CANTORE “Cantore Galleria Antiquaria”MIRCO CATTAI “Fine Art & Antique Rugs”ENRICO CECI “Ceci Antichità”ALESSANDRO CESATIFIORENZO CESATIALESSANDRO CHIALE “Antiquariato Chiale”FEDERICO CHIALE “Antiquariato Chiale”RICCARDO CHIAVACCI “Antichità Firenze”ANDREA CIARONI “Altomani & Sons”GIANCARLO CIARONI “Altomani & Sons”ROBERTO COCOZZA “Antichità”ANDREA COEN “Luciano Coen Arazzi e Tappeti Antichi”IGINO CONSIGLI “Consigli Arte”FABBIO COPERCINI “Copercini & Giuseppin”ERNESTO COPETTI “Copetti Antiquari”GIORGIO COPETTI “Copetti Antiquari”

FEDERICO CORTONA “Galleria Cortona”STEFANO CRIBIORI “Studiolo”PAOLA CUOGHI “Antichità Via Ganaceto”RENATO D’AGOSTINOMARCO DATRINOALBERTO DI CASTRO “Antichità Alberto Di Castro”ALESSANDRA DI CASTRO “Alessandra Di Castro S.r.l.”MIRIAM DI PENTA “Miriam Di Penta Fine Arts”ANGELO ENRICO “Enrico Gallerie d’Arte”TOMMASO FERRUDA “Santa Tecla S.r.l.”FILIPPO FIORETTO “Giampaolo Fioretto Antichità”LEONARDO FOI “Bottarel & Foi”ROSALIA FORNARO “Antichità all’Oratorio”LUCIANO FRANCHI “Nuova Arcadia”ENRICO FRASCIONEGIORGIO GALLO “Gallery”GRAZIANO GALLO “Gallo Fine Art S.r.l.”FEDERICO GANDOLFI “Frascione Arte”SASHA GANDOLFI “Frascione Arte”MICHELE GARGIULO “Antiquario”DARIO GHIOUMBERTO GIACOMETTI Old Master PaintingsLINO GIGLIO “Antichità Giglio”FRANCO GIORGIDIEGO GOMIERO “Galleria Gomiero”STEFANO GRANDESSO “Galleria Carlo Virgilio”FABRIZIO GUIDI BRUSCOLISTEFANO IOTTIGUIDO LAMPERTI “Galli Luigi”MATTEO LAMPERTICO “Arte Antica e Moderna”CESARE LAMPRONTI “Lampronti Gallery”DAMIANO LAPICCIRELLA “Antonacci Lapiccirella Fine Art”LEONARDO LAPICCIRELLA “Galleria Lapiccirella”CIRO LEONE “Leone Antiquariato”MARCO LONGARI “Longari Arte Milano”MARIO LONGARI “Longari Arte Milano”RUGGERO LONGARI “Longari Arte Milano”GIAMPAOLO LUKACS “Lukacs & Donath Antichità”ENRICO LUMINA “Galleria Enrico Lumina”SALVATORE MAGLIONE “Art Collector”MARIO MANULI “Cocoon Art”ALESSANDRO MARLETTA “Galleria Antiquaria Marletta”MATTIA MARTINELLI “robertaebasta”DAVIDE MASOERO “Secol-Art Antichità S.a.s.”TOMMASO MEGNAGIOVANNI MINOZZI “Nené Piatti Antichità”SANDRO MORELLIFABRIZIO MORETTI “Moretti S.r.l.”

RENZO MORONIMARCELLO MOSSINI “Galleria Mossini”SCULTURA ITALIANA SRL di Dario MottolaMAURIZIO NOBILEADOLFO NOBILI “Antichità di Nobili Alessio”CARLO ORSIFILIPPO ORSINI “Orsini Arte e Libri”WALTER PADOVANIFRANCESCO PALMINTERI “Società di Belle Arti”ANTONIO PARRONCHI “Parronchi Dipinti ‘800 – ‘900”DOMENICO PIVA “Piva & C.”TOMASO PIVA “Piva & C.”VINCENZO PORCINI “Porcini”ALEX POSTIGIONE “Frascione Arte”GIOVANNI PRATESIFRANCESCO PREVITALI “Galleria Previtali”GABRIELE PREVITALI “Galleria Previtali”GIANMARIA PREVITALI “Galleria Previtali”MARIA NOVELLA ROMANO “Romano Fine Art”MATTIA ROMANO “Romano Fine Art”GIOVANNI ROMIGIOLI “Romigioli Antichità”MARIA GRAZIA ROSSI “Grace Gallery”ROBERTO ROSSI CAIATI “Caiati Antichità”FABRIZIO RUSSO “Galleria Russo”MATTEO SALAMON “Salamon & C.”GIANLUCA SALVATORITIZIANA SASSOLI “Fondantico”MARCANTONIO SAVELLI “Savelli Arte Antica”ENZO SAVOIA “Bottegantica”VOLKER SILBERNAGLTULLIO SILVA “Galleria Silva”MICHELE SUBERT “Galleria Subert”ROBERTA TAGLIAVINI “robertaebasta”MASSIMO TETTAMANTI “Tettamanti Antichità”LUIGI TORLO “Palazzo Torlo Antiquariato”DANIELE TRABALZA “Antiquares“GHERARDO TURCHI “Gallori Turchi Antichità”VALERIO TURCHI “Antichità Valerio Turchi”LORENZO VATALAROFURIO VELONA “Velona Antichità & C.”STEFANO VERDINI “Verdini Antiquariato”RICCARDO VERRI “Antichità Via Ganaceto”CARLO VIRGILIO “Galleria Carlo Virgilio & C.”LUCA VIVIOLI “Vivioli Arte Antica”MARCO VOENAGIACOMO WANNENES “Wannenes Antiquariato”IVO WANNENES “Wannenes”MARIA ZAULI “Galleria d’Arte del Caminetto”

Restare a casa è un comportamento socialmente responsabileper tutelare la nostra salute e aiutare chi è in prima lineaper contrastare l’epidemia di Covid-19. Restiamo a casa, distanti ma vicini nel nostro amore per l’arte.

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46 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

Economia La vista lunga del tiratore sceltoA caccia con il connaisseur per aste e galleriedi Simone Facchinetti

La quarantena non ferma i collezionistiQuelli che hanno meno rischiano di più. Quelli che hanno troppo non vogliono correre rischi (forse anche per questo motivo investono nell’oro, meglio se in lingotti). Anche in quarantena i veri colle-zionisti non si fermano. Per loro è una questione di vita o di morte. Tuttavia, almeno per qualche tempo, dovranno arrendersi. Vorrei fare una piccola cronaca del mese appena trascorso, visto dall’osservatorio di Bergamo, la città dove vivo. All’inizio tutto sembrava andare avanti come sempre. L’asta di Wannenes a Genova del 5 marzo è stata celebrata normalmente (cfr. articolo a p. 48). Come al solito la casa d’aste genovese aveva raggiunto l’obiettivo, con percentuali di vendite fuori dall’ordinario. Negli stessi giorni inaugurava il Tefaf a Maastricht. Ci sarei dovuto andare anch’io, la seconda settimana di apertura. Qualche giorno prima della partenza ho chiamato degli amici per sapere che clima si respirava lassù. Gli addetti ai lavori cercavano di celare il nervosismo: «Tutto bene. Qualcuno ha venduto. Sono mancati i clienti ame-ricani ma la situazione è sempre vitale, euforica». Nel frattempo il mio volo aereo era stato cancellato e anche il Tefaf si era arreso, chiudendo i battenti con qualche giorno di anticipo. Successivamente si sarebbe appreso che diversi operatori erano stati aggrediti dal virus, tutti guariti, per loro fortuna. Da quando è scattato l’ordine di rimanere in casa gli unici colloqui possibili sono quelli telefonici. Un coriaceo collezionista veneto, intenzionato a non arrendersi, mi ha confessato: «Non posso essere più preciso, ma aspetto che arrivi il 24 marzo. Ho rintracciato un dipinto che cercavo da tempo. Va in asta a Parigi. Non vedo l’ora di batterlo». Neanche lui poteva lontanamente immaginare che l’asta sarebbe stata soppressa. Poi la telefonata di un art dealer che vive a Londra, chiuso in casa in qua-rantena: «Le giornate sono lunghissime, non finiscono mai. Proprio ora che ho molto tempo libero mi hanno tolto l’unica cosa che mi manda su di giri: seguire le aste». In realtà non tutte sono chiuse ma è una questione di giorni, forse di settimane. La propagazione del virus ha determinato le conseguenti reazioni dei governi nazionali. Dalla Francia alla Spagna iniziano a fioccare serrate provvisorie. A Londra vanno avanti imperterriti, chissà fino a quando. A New York le aste di Old Masters pre-viste il 23 aprile (Christie’s) sono saltate, rimandate a data da destinarsi. Molti si organizzano con aste online e il banditore virtuale, un palliativo: almeno per le merci «non ripetibili». Anche in quarantena i veri collezionisti non si fermano. Per loro è una questione di vita o di morte. Vedremo che cosa si inventeranno, strada facendo.

continua da p. 41, iii col.

Via libera alle vendite private

lips hanno segnato +34% a 172 milio-ni di dollari (il 19% delle transazioni della casa d’aste), mentre Sotheby’s ha registrato un lieve calo da 1 mi-liardo di dollari nel 2019 a 990 milio-ni l’anno scorso, ma si tratta comun-que di un balzo in avanti del 60% rispetto al 2016. Finora Sotheby’s non ha pubbliciz-zato il suo dipartimento di vendite private: «Probabilmente abbiamo pas-sato 250 dei 275 anni di vita della no-stra casa d’aste facendo finta che non esistesse, dichiara Schrader. Ma è un servizio molto importante che non pen-so vada contro la nostra mission, sono complementari». Secondo Schrader i compratori stanno sempre più di-versificando i loro canali e fanno ac-

quisti attraverso una grande varietà di piattaforme, tra cui le aste, le ven-dite online e vendite a prezzo fisso. Sotheby’s intende capitalizzare su quei clienti che potrebbero essere tentati di «salire di livello», passan-do ad esempio dalla collezione di vi-ni a quella di opere d’arte. «Potrebbe-ro arrivare nuovi clienti e comprare delle sneaker da 20mila dollari e poi un KAWS e infine un Picasso», afferma Schrader. Gli artisti top seven (Sotheby’s non ha voluto fornire la top ten) com-prati privatamente per volume di opere sono Jonas Wood, Yayoi Kusama, George Condo, Andy Warhol, Jean-Michel Basquiat, KAWS e Alexander Calder. I top seven per valore sono Pablo Picas-so, Claude Monet, Henri Matisse, Mark Rothko, Fernand Léger, Gerhard Richter e Joan Mitchell. Si registrano tuttavia transazioni un po’ a tutti i livelli: «Abbiamo visto un incremento per le opere sotto i 300mi-la dollari e anche per quelle sopra i 20 milioni». Schrader stima che l’anno scorso Sotheby’s abbia venduto pri-

vatamente opere di 382 artisti a cir-ca 3-4mila collezionisti di circa 90 Paesi. Come in asta, Sotheby’s offre garanzia anche sulle opere vendute privatamente, alcune assegnate a terzi. «Possiamo offrire un’ampia scelta di opzioni, aggiunge Schrader. Una sti-ma in asta da 5 a 7 milioni, la possibilità di vendita privata con un netto di 9 mi-lioni e anche di finanziare l’opera per il 50% del suo valore». Negli ultimi an-ni molto è stato fatto per rendere più fluidi i confini tra le case d’a-sta e le gallerie, e molti operatori di entrambi i settori hanno più volte sottolineato che di questi tempi è meglio collaborare piuttosto che farsi concorrenza. Ma oggi la sfida più grande per il mercato è l’offerta di opere e, con l’ago della bilancia che oscilla a fa-vore dei galleristi in termini di quo-ta di mercato (il 58% nel 2019, +4% ri-spetto al 2018 secondo il Report Art Basel/Ubs), tutti sono chiaramente più intenzionati a pubblicizzare la loro attività. q Anny Shaw

«All the Eternal Love I Have for the Pumpkins» (2016) di Yayoi Kusama, tra gli artisti più venduti in trattativa privata

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Il presidente con la passione per la tv Vercelli. Il 16 marzo, all’età di 74 anni, è morto Mario Carrara (nella foto), che nel 1979 aveva fondato la casa d’aste Meeting Art. Romano di nascita, quello che sarebbe diventato il presidente di una delle principali case d’asta italiane entrò in contatto con il mondo dell’arte, lui che invece proveniva dal mondo dell’aviazione, grazie all’amicizia con un mercante che a Padova gestiva la galleria Meeting Art e che seguì in Veneto imparando il mestiere. Mise a frutto le competenze

acquisite soprattutto nel settore dell’antiquariato e delle aste pubbliche aprendo a sua volta una galleria a Borgosesia (Vc), ma il suo acuto spirito imprenditoriale e la passione per le tecnologie lo spinse a riconoscere in Vercelli, città strategicamente posizionata tra Milano, Torino e Genova, la sua base operativa. Dapprima in un negozio-vetrina in corso della Libertà poi nella più ampia attuale sede in corso Adda, dove l’iniziale attività della casa d’aste in arte moderna, tappeti orientali, antiquariato e orologi si è ampliata includendo i dipinti dell’800 e i gioielli moderni e d’epoca. A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, Mario Carrara intuì anche le grandi potenzialità commerciali che la televisione privata poteva avere nel settore delle aste: iniziò contribuendo ad arredare le case delle famiglie piemontesi e lombarde da una piccola emittente della Valsesia, fino a raggiungere tutta l’Italia attraverso il satellite Sky e poi tutto il mondo con il web. Nel 2019 la casa d’aste Meeting Art, dove lavorano i figli di Mario Carrara, Pablo, amministratore delegato, e Patrick, ha fatturato oltre 26 milioni di euro.

Viaggiare con Pigafetta, sognare con BlakeFirenze. Apocalittico, visionario, profetico: la grande mostra allestita lo scorso autunno-inverno alla Tate Britain di Londra ha riportato William Blake nel ruolo che merita. L’album completo di The Book of Job (14mila euro, nella foto un foglio), tumultuosa rivisitazione per immagini del celebre testo biblico, è una delle opere più rappresentative del pittore, incisore e poeta inglese ed è tra i lotti più attesi tra i 16mila proposti in tre sessioni d’asta dal 28 al 30 aprile, nella vendita di libri e grafica antica e moderna organizzata da Gonnelli. E se tra le sue ossessioni Blake annoverava le tre cantiche di Dante Alighieri, l’asta spazia dalla splendida Comedia con l’esposizione di Landino e Vellutello del 1578 (con base di 1.400 euro) sino all’edizione Valdonega con le illustrazioni di Dalí in una molto daliniana legatura d’artista in bronzo a sbalzo (da 2.500). Sempre in tema di visionari, da non perdere, tra i disegni, lo «Spettro d’un mugnaio fraudolento» di Alfred Kubin. Tra le stampe antiche, nel congruo nucleo piranesiano, comprensivo delle Carceri d’invenzione, non sfuggirà agli estimatori dell’incisore, di cui cade il terzo centenario della nascita, una rarità, il libretto Lettere di giustificazione scritte a Milord Charlemont (da 5mila euro). Marcantonio Raimondi (il bulinista di fiducia di Raffaello), il Grechetto e Goya tra gli altri incisori proposti. David Hockney, con l’acquaforte e acquatinta «Disguised as a Ghost» (2mila euro), guida invece il gruppo dei moderni e contemporanei, occasione per riscoprire le qualità incisorie anche di Boccioni. In un periodo in cui gli spostamenti sono drammaticamente limitati, ci si può infine consolare con i 150 libri a tema viaggi ed esplorazioni. La prima edizione francese della Cina (1670) di Athanasius Kircher parte da 1.400 euro, il Primo viaggio intorno al globo terracqueo di Filippo Pigafetta da 2mila. q F.F.

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47IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

Economia

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Sostengono Art Basel e Ubs

Solo a paroleLe fiere d’arte implicano la que-stione dei viaggi aerei e del loro impatto sul pianeta. Secondo il report della McAndrew, il 58% dei ricchi collezionisti afferma che nei prossimi anni per loro è «es-senziale o una priorità importante» riuscire a compensare l’impronta ecologica dei loro viaggi per vedere e acquistare arte. Tuttavia alla do-manda su quali siano i progetti di viaggio per i prossimi dodici mesi, il 67% ha dichiarato l’intenzione di partecipare a diverse fiere e so-no pochi quelli che intendono ridurre gli spostamenti per ra-gioni ecologiche. I galleristi dal canto loro fanno una media di do-dici viaggi all’anno: sette di corto raggio (meno di sei ore) e cinque di lungo raggio. Secondo myclimate.org, e basandosi sui viaggi in classe economica, si stima che ogni gal-leria, contando i soli spostamenti aerei in un anno, potrebbe essere responsabile dell’emissione di circa 27 tonnellate di Co2. Oltre ai viaggi, l’imballaggio e la spedi-zione delle opere d’arte è un altro forte motivo di preoccupazione. Rokbox, società che si occupa di imballaggi sostenibili, stima che un imballo piccolo (ca 1,10 m per lato), contenente un’opera d’arte di 5 chili spedita da New York a

Hong Kong via aerea, abbia un’im-pronta ecologica di circa 0,91 ton-nellate di Co2, l’equivalente di 51 sacchi di rifiuti portati in discarica o di quasi 4.620 chilometri percorsi in macchina. Un mercante riassu-me la questione dicendo: «Potrem-mo ridurre il trasporto di opere solo vendendo a livello locale, ma questo non solo renderebbe impossibile sostenere il nostro budget, ma sarebbe anche con-trario alla responsabilità fondamentale di una galleria».

Un salto sul carro dei vincitoriMentre le opere blue-chip sono in calo, le artiste di colore vanno sempre meglio, specie in asta. Il 23% per valore delle vendite di arte del dopoguerra e contemporanea nel 2019 è stato totalizzato da ope-re realizzate negli ultimi vent’anni (+14% nel 2018). La maggior parte dei mercan-ti considera questo spostamento dell’attenzione da un ristrettissimo gruppo di artisti blue-chip bianchi e maschi come una cosa positiva, ma la McAndrew afferma che «altri si preoccupano di quello che considera-no un “salto sul carro dei vincitori” e degli effetti negativi che potrebbe avere sulla stabilità e la longevità dei mercati di alcuni di questi artisti». Il quadro è ancora sbilanciato: il 2% degli artisti rappresentano il 22% dei contenuti delle mostre delle gallerie commer-ciali in tutto il mondo (di questi l’1% incidono per il 15%). Nei musei, il 2% dei top artist incidono per il 37% sulle mostre a livello globale e l’1% per il 30%.

Donne: c’è ancora da fareNegli ultimi anni si sono spese tante belle parole sulle artiste ma «i cam-biamenti sono stati lenti e irregolari», spiega la McAndrew. Recentemente si sono fatti dei passi in avanti. Nel 2019, ad esempio, la rappresentanza delle artiste donne da parte delle gal-lerie del mercato primario è cresciu-ta dall’8% al 44% e la loro presenza nelle vendite dal 32% del 2018 al 40%. Tuttavia, per le gallerie che operano sul mercato secondario e trattano opere più storicizzate, la quota di ar-tiste si è fermata al 23%, per un tota-le del 17% sulle vendite. La disparità di genere è forse ancora più evi-dente in asta. Nel 2019 le opere del-le artiste sono state appena il 7% dei lotti venduti e il 6% per valore. Solo il 7% di artisti con opere vendute sopra il milione di dollari sono donne, per-centuale che scende al 5% per opere oltre i 10 milioni. I dati raccolti nelle fiere d’arte sono altrettanto preoccu-panti: negli ultimi vent’anni c’è sta-to un incremento del 5% nella pre-senza di donne nella categoria degli artisti emergenti e del 6% in quella degli artisti già affermati. Ma la per-centuale di artiste presenti tra i top artist (il 2% del totale) è leggermente in calo rispetto al 1999. Guardando al futuro, Clare McAndrew prevede che il 2020 sarà «un anno difficile». Il Coro-navirus «avrà sicuramente un impatto; la cancellazione di Art Basel Hong Kong è una cosa grossa», afferma. Oltre a que-sto, le tariffe, le politiche più prote-zioniste adottate da diversi Paesi e la questione della sostenibilità avranno un prezzo sul movimento di persone e opere d’arte. q Anny Shaw

Il fascino del cobra e del museo desertoMilano. I decreti governativi emanati per contenere la pandemia da Coronavirus conferiscono alle nostre città deserte un’atmosfera metafisica. Deserto è anche il ponte di una nave da crociera visto da Luigi Ghirri; e deserta, anche in questo caso per scelta dell’autore, Massimo Listri, e non per un’emergenza, è la sala di un museo d’arte contemporanea, il Castello di Rivoli con il celebre cavallo imbalsamato sospeso al soffitto di Maurizio Cattelan. La prima opera è stata venduta a 7.620 euro (stima 4.200-4.800); la seconda a 6.380 euro (5-6mila), nuovo record italiano per il fotografo fiorentino. È accaduto nell’asta di Fotografia battuta da Finarte lo scorso 17 marzo, online, come si conviene in questo periodo, ma andata tutt’altro che deserta: il venduto sfiora i 390mila euro, segnando un incremento del 40% rispetto alla precedente vendita di ottobre, organizzata dallo stesso dipartimento. Un’asta «affollata», sia pure in remoto, ben oltre le aspettative, durante la quale la bagarre si è scatenata quando sono andati in scena gli artisti-fotografi. Ecco allora Shirin Neshat, con una stampa della serie «Women of Allah», battuta a 10.139 euro; ecco gli attesissimi tre still da video di Cindy Sherman del 1980 (tutti oltre i 30mila euro, con la punta massima di 39.939 per «Untitled n.74», partito da una stima di 20-25mila). E poi Vik Muniz, che con il suo vulcano in eruzione (rivisitazione di un dipinto settecentesco) ottiene 13.899 euro; un Thomas Ruff che piace anche nella sua versione più pittorica e sperimentale (18.859 euro); e due delle cinque artiste italiane che nel 1999 assicurarono al nostro Padiglione nazionale il Leone d’Oro della Biennale di Venezia: Grazia Toderi, con una fotografia aerea di un campo da baseball (2001), battuta a 4.091 euro (2.500-3mila) e Luisa Lambri, con uno dei suoi classici scorci architettonici, a 3.584 (2.200-2.800). Ma la star è stato Peter Beard (1938), straordinaria figura in perfetto equilibrio tra arte e fotografia, vicino a Warhol e a Bacon, che con il collage «Spitting Cobra, Tsavo» (1960, nella foto) triplicava la stima raggiungendo i 21.339 euro. q F.F.©

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Asta in preparazioneRestiamo Connessi! I nostri esperti continuano a fornire valutazioni

e suggerimenti in vista delle prossime aste

48 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

Economia

Le aste di aprile1-3 Roma Babuino Dipinti antichi e del XIX secolo, arredi, argenti e gioielli2-3 Milano Mediartrade Arte moderna e contemporanea3 Parigi Tajan Stampe e multipli3 Vienna Dorotheum Disegni, stampe ante 1900, acquerelli e miniature4-12 Vercelli Meeting Art Arte moderna e contemporanea6 Vienna Dorotheum Design7 Milano Art-Rite Gioielli e orologi8 Milano Art-Rite Arte moderna e contemporanea8-9 Roma Colasanti Arredi e dipinti antichi e del XIX secolo14-21 Londra Sotheby’s Contemporary Curated16 Bologna Gregory’s Dipinti, argenti, arredi e oggetti d’arte16-17 Roma Bertolami Monete e medaglie moderne italiane ed estere17-28 New York Sotheby’s Stampe e multipli20 Parigi Tajan Arte orientale21 Firenze Pandolfini Mobili e arredi21 Londra Bonhams Arte moderna e contemporanea del Medio Oriente21 Roma Arcadia Mobili, arredi, dipinti antichi e del XIX secolo21-23 Milano Il Ponte Arredi e dipinti antichi, argenti, tappeti e tessuti, historica, strumenti musicali, disegni22 Firenze Pandolfini Cornici dal Rinascimento all’Ottocento22 Monaco Neumeister Dipinti e oggetti d’arte22 Roma Arcadia Design e arti decorative del XX secolo24 Milano Il Ponte Arte orientale25-28 Roma Bertolami Monete antiche e moderne e letteratura numismatica25 Vienna Austria Auction Company Arte egizia, antichi bronzi cinesi e antichi tappeti orientali del XIX secolo27 Genova Cambi Libri antichi e rari27 Roma Finarte Grafica internazionale e multipli d’autore28 Brescia Martini Studio d’Arte Arte moderna e contemporanea28 Genova Cambi Antiquariato28 New York Bonhams Dipinti europei del XIX secolo28-30 Firenze Gonnelli Libri & Grafica28-30 Firenze Maison Bibelot Arredi e dipinti di Villa Lazzi29 Genova Cambi Dipinti del XIX e XX secolo29 Genova Cambi Vetri francesi, Art Nouveau e Déco29 Londra Bonhams Gioielli29 Londra Bonhams Stampe e multipli30 Genova Cambi Argenti da collezione

Le aste sopra elencate si svolgeranno esclusivamente online. A causa della situazione in continua evoluzione, le date qui riportate potrebbero subire variazioni. Si consiglia di consultare i siti delle singole case d’asta.

Qui sopra, l’amaca di Alexander Calder venduta da Piasa a 32.500 euro; sotto, il divano «La Cova» (1973) di Gianni Ruffi venduto da Cambi a 22.500 euro

Design

È più comoda l’amaca o il nido? Tra aste prepandemia e poche superstiti, i prezzi continuano a volare

Brescia, Milano, Parigi. Ancora inden-ne dall’emergenza pandemica, la prima vendita del 2020 dedicata al design da Piasa a Parigi il 20 feb-braio ha totalizzato quasi 1,6 milio-ni di euro. Una serie di 10 tavolini di Ettore Sottsass in legno compensa-to dipinto del 1954 ha catalizzato nu-merose offerte: venduti ciascuno tra 13-20mila euro, ne hanno accumula-ti quasi 160mila di aggiudicazione globale. La rara coppia di poltrone disegnate intorno al 1964 da Gio Ponti per l’Hotel Parco dei Principi di Roma, scelleratamente smantel-lato in epoca successiva, ha ampia-mente superato la stima massima con un’aggiudicazione a 65mila eu-ro. Rimanendo in ambito italiano, è

stata molto apprezzata una lampada da terra in mosaico dorato Bisazza su metallo disegnata da Alessandro Mendini nel 2002 e prodotta in edi-zione limitata per la Galerie kreo di Parigi: stimata 15-20mila euro, è sta-ta venduta per 42.900. Bene anche Angelo Lelii con la sua nota lam-pada da soffitto «6 Lune» del 1961 ca esitata per 28.600 euro contro una stima di 10-15mila. In ambito scan-dinavo, il top lot spetta ad Hans J. Wegner e alla sua «Sedia romana», in quercia e pelle, del 1960 battuta per ben 84.500 euro (stima 60-90mi-la), ma molto entusiasmo ha susci-tato anche una coppia di poltrone in legno e lana disegnata da Märta Blomstedt intorno al 1940: la sua

stima massima è stata quadruplica-ta raggiungendo i 75.400 euro. Nel design francese ha primeggiato Le Corbusier con una coppia di poltro-ne in teak ideate nel 1955-56 per la Suprema Corte di Giustizia di Pen-djab a Chandigarh in India: stimata 35-45mila euro, è stata aggiudicata per 72.800. Ha giustamente riscos-so interesse una rara amaca in co-tone dipinto di Alexander Calder del 1974 battuta per 32.500 euro, il doppio della stima massima. Il 12 marzo, la casa d’aste parigina ha organizzato una vendita di gioielli d’artista, con opere di Line Vautrin, Matta, Arman, Dalí, Cocteau, Meret Oppenheim, Derain, Claude Lalanne, Sottsass, Mendini, Rotella, Mimmo

Paladino, Sandro Chia, Cleto Munari e Fausto Melotti, cui spetta l’aggiu-dicazione più alta per il collier «Gra-ta» in oro degli anni ’80, venduto per 13.650 euro contro una stima di 6.500-8mila. Nello stesso giorno è stata esitata una collezione priva-ta europea di oggetti in smalto su rame e di vetri italiani del XX seco-lo, con risultati che hanno rispetta-to le stime, a dire il vero piuttosto contenute. Da segnalare due piccole sculture da tavolo, disegnate da Gio Ponti e realizzate da Paolo De Poli intorno al 1950, stimate 2-3mila euro e aggiudicate per 4.550, oltre a una «Faraona», in vetro soffiato e bronzo, tra i primi lavori per il «Bestiario» ideato da Toni Zuccheri per Venini a partire dal 1964, stimata 5-7mila euro e venduta a 8.450. In Italia, a marzo, molti appuntamenti impor-tanti sono slittati a data da definirsi, fatto salvo le aste online che hanno offerto lotti dalle stime contenute, come nel caso della Capitolium Art di Brescia che ha proposto più di 400 lotti tra il 18 e il 19 marzo. Gli acquisti hanno rispettato le stime, con qualche eccezione tra cui: una credenza in legno di rovere di Gu-glielmo Pecorini, pezzo unico per la casa di Urbano Zaccagnini, Firenze 1935, stimata mille-1.200 euro e ven-duta per 3.150; un divanetto attribu-ito a Paolo Buffa, valutato 700-mille euro ed esitato per 3.024; una cop-pia di poltrone di Aldo Morbelli per la Isa di Bergamo, anni ’50, stimata mille-1.500 euro e battuta a 2.898 e, a dimostrazione di quanto la quali-tà o la singolarità prevalgano anche in caso di anonimato, tre panchette

in legno di noce dalla seduta «a vas-soio», probabilmente realizzate in Italia durante gli anni ’40, hanno sbaragliato la stima di 100-200 euro con un’aggiudicazione di 2.646. Un appuntamento importante che ha resistito alla pandemia è stata l’a-sta di 200 lotti organizzata a Milano da Cambi il 23 marzo, battuta via web e telefonicamente con risultati confortanti. A primeggiare è stato Osvaldo Borsani con un divanetto del 1940 ca in legno, impreziosito da dettagli intagliati e dorati, rivestito in skai: stimato 2-4mila euro, è sta-to venduto a 31mila; a seguire, per 30mila euro è stata aggiudicata la lampada a sospensione mod. 2056, con coppa in cristallo satinato ed elementi diffusori in cristallo mo-lato, prodotta da Fontana Arte nel 1960 ca su disegno di Max Ingrand (stima 15-20mila). Una grande lam-pada da terra di Tommaso Barbi del 1970 ca, con riflettori in ottone cesellato a forma di ampie foglie di ginkgo biloba, antesignana della modaiola linea «Ginkgo» lanciata da Claude Lalanne negli anni Novanta, è stata contesa fino a 27.500 euro (stima 15-20mila) e un’icona del Pop design, il divano «La Cova» di Gianni Ruffi per Poltronova del 1973, ha su-perato la stima massima attestando-si a 22.500 euro. Molto bene anche le ceramiche di Alessandro Mendini, le lampade di Gino Sarfatti, i divani «Camaleonda» di Mario Bellini, che oggi vanno per la maggiore, i tavoli di Angelo Mangiarotti e i mobili ra-zionalisti del meno noto architetto livornese, naturalizzato genovese, Giulio Zappa. q Carla Cerutti ©

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IL GIORNALE DELL’ARTE

Reggia di Venaria. Mostra «Architetture e prospettive. Massimo Listri alla Venaria Reale»

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Questo mese:Le mostre che aspettiamo di vedere e rivedere.

Visite a porte chiuse.La classifica mondiale 2019 delle mostre più visitate.

IL GIORNALE DELLE MOSTRE

A cura di Franco Fanelli (Arte contemporanea e Gallerie)Anna Maria Farinato (Arte antica) Laura Giuliani (Archeologia)Walter Guadagnini (Fotogra a)

«IL GIORNALE DELL’ARTE» | APRILE 2020

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Le mostre che aspettiamo di vedere e rivedere.

Visite a porte chiuse: i catalogue de poche di Raffaello a Roma, del Barocco a Venaria e di Artemisia a Londra

La classi� ca mondiale 2019 delle mostre più visitate

IL GIORNALE DELLE MOSTRE

A cura di Franco Fanelli (Arte contemporanea e Gallerie)Anna Maria Farinato (Arte antica) Laura Giuliani (Archeologia)Walter Guadagnini (Fotogra a)

«IL GIORNALE DELL’ARTE» | APRILE 2020

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Visite a porte chiuse: i catalogue de poche di Raffaello a Roma, del Barocco a Venaria e di Artemisia a Londra

La classi� ca mondiale 2019 delle mostre più visitate

49IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

Economia

Il de Chirico venduto per 11 milioni

Il fisco voleva la sua parte, la Commissione lo bloccaUn’aggressiva azione fiscale stava per tassare il diritto dei collezionisti di prestare opere ai musei

Il caso è un de Chirico, alienato per 11 milioni di euro. Al collezionista che ne era proprietario era stato contestato che il profitto ricavato dalla cessione dell’opera (oltre 9 milioni) dovesse essere sottoposto a imposizione fiscale, sul presup-posto che l’alienazione della stessa fosse espressione di attività com-merciale per il fatto che il dipinto, nel corso degli anni, era stato valo-rizzato grazie all’esposizione in una serie di mostre internazionali e ven-duto quando la sua valutazione sul mercato era ai livelli massimi. Per il Fisco la plusvalenza era da considerarsi reddito diverso e come tale tassabile. La senten-za della Commissione tributaria di Trento dell’11 giugno 2019 è interes-sante perché riafferma principi di diritto che costituiscono un prezio-so precedente per casi futuri. Il trat-tamento impositivo delle plusvalen-ze derivanti da cessione occasionale di opere d’arte era stata risolta dalla giurisprudenza con esiti incerti, di-versi caso per caso. Il tema riguarda la riconducibilità o meno della som-ma ricavata dalla vendita di un’ope-ra ai «redditi diversi» derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente, ai sensi e per gli ef-fetti dell’art. 67, comma 1, lett. i del D.p.r. 917/86 (c.d. Tuir, ovvero Testo unico delle imposte sui redditi).In campo vi sono due opposti orien-tamenti. Il primo di fatto parifica la figura del collezionista a quella del mercante d’arte: ogni plusva-lenza conseguita a cessione, pur se occasionale, di un’opera andrebbe

sempre assoggettata a tassazione, a eccezione della sola ipotesi in cui il bene oggetto di alienazione sia per-venuto a titolo di liberalità (legga-si: per donazione). Secondo l’altro orientamento, fatto proprio anche dalla Suprema Corte (cfr. Cassazio-ne, sez. V, sentenza n. 21776/11), ciò che caratterizza l’attività commer-ciale è «la stretta relazione funzionale tra l’atto di acquisto e quello successivo di vendita» oppure «una serie di atti in-termedi volti ad incrementare il valore del bene in funzione della successiva ven-dita». Pertanto, tale connotazione di attività commerciale esclude che in essa possano rientrare quelle con-dotte che si esauriscono nel sempli-ce atto traslativo del diritto, quale, tipicamente, una compravendita.Ma torniamo al de Chirico in que-stione. La Commissione tributaria trentina rileva che tra l’acquisto dell’opera e la sua vendita non si sono frapposti atti volti alla valorizzazione della medesima «non potendo all’evidenza ritenersi tali l’esposizione del dipinto in varie mostre». L’argomentazione è la se-guente: «È del tutto notorio, fino ad essere ritenuta nozione acquisita, come l’importanza artistica di de Chirico, soprattutto relativamente alle ope-re pittoriche più risalenti nel tempo, è un dato scollegato dalla estensione (sic, Ndr) delle opere». E aggiunge: «Il dipinto di de Chirico, insomma, si è apprezzato negli anni non in ragione della sua partecipazione a mostre, ma solamente per l’intrinseco contenuto artistico riconosciuto dalla critica».La conclusione è scontata: l’ogget-

to dell’accertamento tributario (la vendita del dipinto) si era risolto in un unico atto traslativo del diritto a titolo oneroso che non poteva per questo motivo farsi rientrare nella nozione di  «attività  commerciale» tassabile ai sensi del Tuir.Lapsus calami a parte (estensione anziché ostensione), colpisce la pe-rentorietà di una tale affermazio-ne quando è invece noto che alla pratica, senz’altro meritoria, di concedere opere in comodato a musei per pubbliche esposizioni è talora sottesa anche la legitti-ma speranza di valorizzarle ai fini economici di una rivaluta-zione delle stesse. Se così fosse, franerebbe la motivazione della Commissione tributaria per sottrar-re a imposizione fiscale la plusva-lenza dell’opera. Verrebbe infatti negato che il comodato di un’opera a un museo possa essere attribuito prevalentemente a mecenatismo, privilegiando invece un’implicita prospettiva di ritorno economico in ragione della quale la plusvalenza in una compravendita successiva all’esposizione diverrebbe tassa-bile. In tal caso la pratica dei pre-stiti ai musei verrebbe seriamente compromessa. In una tematica così delicata bisognerebbe più corret-tamente valutare di volta in volta le circostanze e ogni elemento del singolo caso, senza la pretesa di ele-vare a paradigma un unico aspetto al quale ancorare il giudizio sul trat-tamento impositivo.q Luca Giacopuzzi avvocato e collezionista

La gentildonna del PrincipatoGenova. A inizio marzo, da Wannenes, nella storica sede genovese di Palazzo del Melograno (Piazza Campetto, 2), si sono tenute due aste che, complessivamente, hanno raggiunto un totale di 3.438.003 euro. La parte del leone l’hanno fatta gli arredi, le ceramiche, le sculture e gli oggetti d’arte provenienti dalle «Collezioni di una gentildonna del Principato di Monaco» che nelle due giornate del 3 e 4 marzo hanno totalizzato 2.203.782 euro con una percentuale di venduto per lotto del 78.9%. Il risultato più importante è stato raggiunto da una placca in avorio cesellata da Christoph Daniel Schenck (Costanza, 1633-91) alta 20 cm e raffigurante una «Pietà» (nella foto) caratterizzata da uno struggente plasticismo che, partita da una stima di 600-800 euro, è stata aggiudicata a 350.100, una parte consistente dei 464.830 euro ricavati dai 24 lotti eburnei proposti. Altrettanto combattuta è stata l’aggiudicazione di una coppia di tavoli da gioco modenesi del XVIII secolo impiallacciati in legno e radica di noce: la stima di 4-6mila euro è stata facilmente superata fino a raggiungere i 75.100 euro, mentre partiva da una stima di 12-15mila euro per essere battuta a 62.600 una serie di 6 pannelli in scagliola del XVIII secolo tratti da alcune tavole di Giuseppe Vasi (Palermo, 1710 - Roma, 1782). Incisore, architetto e vedutista, il maestro di Giovanni Battista Piranesi fu autore anche dei monumentali 10 volumi de Le Magnificenze di Roma antica e Moderna (1747-61), tra le fonti di ispirazione di queste scagliole. La quasi totalità dei 1.239.221 euro (pari all’85% di venduto per lotto) raggiunti dall’asta del 5 marzo è riconducibile ai dipinti antichi: top lot della vendita è stata una «Crocefissione con san Domenico e un devoto» di Orazio di Jacopo (Bologna 1385-1449), una tempera su tavola firmata e datata 1442, aggiudicata a 162.600 euro ma proposta con una stima di 8-12mila, la stessa attribuita a una «Natura morta» di Giovanni Battista Recco esitata a 112.600.

Già attribuita a Dirck van Baburen (Wijk bij Duursterde 1595 - Utrecht 1624), ma ora ricondotta al catalogo del pittore barocco fiammingo Charles Wautier, l’elegante tela con «Apollo e Marsia», che soprattutto nella figura del satiro che osò sfidare il dio della musica evoca le opere di Mathias Stomer, è invece stata battuta a 62.600 euro (stima 7-10mila). Tra i dipinti dell’Ottocento, l’esito migliore, 8.850 euro (stima 3-4mila), è quello ottenuto dal sorridente «Volto di donna» del pittore, illustratore e cartellonista palermitano Aleardo Terzi (1870-1943), seguito dalla «Veduta di Palermo dal mare» vicina alla maniera di Gian Gianni, attivo a Napoli tra il 1865 e 1885 e uno dei capostipiti della pittura di paesaggio e di marina dell’Ottocento, venduta, entro le stime, a 8.250 euro.

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50 IL GIORNALE DELL’ARTE Numero 407, aprile 2020

Rilevazioni di mercato: i prezzi indice

Il fascino irresistibile del valore

Gli importi sono comprensivi dei diritti d’asta. Il loro equivalente in euro si riferisce ai cambi medi più recenti. I risultati di vendita pubblicati sono stati selezionati tra i lotti dichiarati venduti dalle case d’asta.

* Le rilevazioni retrospettive sulle vendite sono state desunte da artnet.com. I prezzi sono espressi al cambio dell’epoca, non rivalutati e, per comodità, sempre tradotti in euro.

A cura di Carlotta de Volpi

Arte moderna e contemporanea 1.193.350 Robert Indiana, «LOVE», 1967, olio su tela, 91,4x91,4 cm, Christie’s, New York, 5 marzo 2020

[stima € 900mila-1,3 milioni] ill. 1 1.032.450 Robert Indiana, «LOVE», 1967, olio su tela, 91,4x91,4 cm, Christie’s, New York, 5 marzo 2020

[stima € 900mila-1,3 milioni] ill. 2 764.300 KAWS, «IMAGINARY FRIENDS», 2012, acrilico su tela su pannello (in due parti), 267x202 cm e 26,5x89 cm,

Christie’s, New York, 5 marzo 2020 [stima € 600-900mila] ill. 3 732.100 Alma Thomas, «Flash of Spring», 1968, olio su tavola, 61x45,7 cm, Christie’s, New York, 5 marzo 2020

[stima € 400-580mila] ill. 4 550.000 Yoshitomo Nara, «Girl with a Knife», 1998, acrilico, inchiostro e grafite su pannello, 28x25,7 cm, Christie’s,

New York, 5 marzo 2020 [stima € 450-625mila] ill. 5 550.000 Eddie Martinez, «Keys to a Defunct Castle», 2015, olio, acrilico, smalto e vernice spray su tela, 183x274 cm,

Christie’s, New York, 5 marzo 2020 [stima € 450-600 mila] ill. 6 550.000 Andy Warhol, «Jackie», 1964, acrilico e serigrafia su tela, 50,8x40,6 cm, Christie’s, New York, 5 marzo 2020

[stima € 550-715mila] ill. 7 507.000 Wojciech Fangor, «M9», 1969, olio su tela, 121x121 cm, Christie’s, New York, 5 marzo 2020

[stima € 180-270mila] ill. 8 469.300 Kenny Scharf, «LOVE», 1982, acrilico e vernice spray su tela, 152,4x182,9 cm, Christie’s, New York,

5 marzo 2020 [stima € 27-45mila] ill. 9 430.000 Wifredo Lam, «Les Jumeaux, II», 1963-69, olio su tela di iuta, 120,7x111,7 cm, Bonhams, Londra, 12 marzo

2020 [stima € 360-470mila] ill. 10 404.000 Keith Haring, «Dog», 1986, vernice a smalto e serigrafia su compensato, 128x96x4 cm, Bonhams, Londra,

12 marzo 2020 [stima € 225-338mila] ill. 11 222.000 Christo, «The Pont Neuf Wrapped (Project For Paris), in two parts», 1979, pastello a olio, pastello a cera,

gesso, grafite e carta stampata su supporto di cartoncino, pannello superiore: 38x244 cm; pannello inferiore: 107x244 cm, Bonhams, Londra, 12 marzo 2020 [stima € 135-200mila] ill. 12

148.000 Mel Ramos, «Toblerone Tess: The lost painting of 1965 #57», 2006, olio su tela, 91x152,5 cm, Bonhams, Londra, 12 marzo 2020 [stima € 90-135] ill. 13

130.000 Manuel Rivera, «Metamorfosis (Imagen)», 1960, rete e filo in cornice di metallo, 81x60 cm, Bonhams, Londra, 12 marzo 2020 [stima € 22-33mila] ill. 14

113.000 Carla Accardi, «Negativo (ideogramma)», 1954, vernice a smalto e caseina su tela, 88,5x116,5 cm, Bonhams, Londra, 12 marzo 2020 [stima € 50-72mila] ill. 15

108.000 Lucio Fontana, «Crocifisso», 1948-50, ceramica dipinta e smaltata, 37x21,6x12,8 cm, Bonhams, Londra, 12 marzo 2020 [stima € 90-135mila] ill. 16

94.200 Yan Pei-Ming, «Paysage International, retour sur le lieu du crime 003», 1999, olio su tela, 180x300,5 cm, Bonhams, Londra, 12 marzo 2020 [stima € 20-28mila] ill. 17

80.000 Martha Jungwirth, «Senza titolo», 1990, tecnica mista su cartoncino su tela, 186x142 cm, im Kinsky, Vienna, 4 marzo 2020 [stima € 40-60mila] ill. 18

71.500 Maurice de Vlaminck, «Saint-Martin-la-Garenne», 1912 ca, olio su tela, 65x81 cm, Artcurial, Parigi, 10 marzo 2020 [stima € 60-80mila] ill. 19

62.400 Samson Flexor, «La musique avant toute chose», 1955, 30x60 cm, Artcurial, Parigi, 10 marzo 2020 [stima € 6-8mila] ill. 20

54.000 Lucio Fontana, «Concetto Spaziale», 1964, inchiostro su carta, 47,5x33,5 cm, Bonhams, Londra, 12 marzo 2020 [stima € 33-56mila] ill. 21

50.700 Bernard Buffet, «Bateaux à marée basse», 1948, olio su carta su tela, 50x65 cm, Artcurial, Parigi, 10 marzo 2020 [stima € 20-30mila] ill. 22

46.800 Robert Combas, «Tête à corne rouquine et bronzée», 1989, acrilico su tela, 73x92 cm, Artcurial, Parigi, 11 marzo 2020 [stima € 12-15mila] ill. 23

32.500 Jean Messagier, «Paysage clitocybe», 1967 ca, olio su tela, 131x191 cm, Artcurial, Parigi, 11 marzo 2020 [stima € 5-7mila] ill. 24

1. Robert Indiana 1.193.350

2. Robert Indiana 1.032.450

12. Christo 222.000

13. Mel Ramos 148.000

20. Samson Flexor 62.400 5. Yoshitomo Nara 550.000

16. Lucio Fontana 108.000

21. Lucio Fontana 54.0006. Eddie Martinez 550.0007. Andy Warhol 550.00018. Martha Jungwirth 80.000

23. Robert Combas 46.800 24. Jean Messagier 32.500 19. Maurice de Vlaminck 71.500 8. Wojciech Fangor 507.000 9. Kenny Scharf 469.300

17. Yan Pel-Ming 94.200

14. Manuel Rivera 130.000 10. Wifredo Lam 430.000

4. Alma Thomas 732.100 22. Bernard Buffet 50.700

15. Carla Accardi 113.000 11. Keith Haring 404.000

3. KAWS 764.300

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In conclusione:

#iorestoacasaIl Giornale che scrive ogni mese la storia dell’arte del nostro tempo.

Sempre. Nessuno sa di arte tutto quello che sanno i lettori del Giornale dell’Arte

Fotografia tratta da Instagram Pandolfiniaste #ilgiornaledellarte


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