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ETHICA Forum di riflessione
ASTI
MASTER IN
CIVIC EDUCATION
II CICLO 2010/2011
Mitologie politiche della Costituzione
Sulla neutralizzazione dell’evento costituente
di Marco Tabacchini
MAGGIO 2011
Tabacchini Marco
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Tabacchini Marco
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Indice
5 Introduzione
8 1. Evento Costituente
12 2. Lo scandalo della Costituzione
17 3. Neutralizzazione e spoliticizzazione
20 4. Mitologia politica
25 Post-scriptum – La democrazia (non è) incisa nella pietra
28 Bibliografia
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Introduzione
Con il termine di «mitologie giuridiche», Paolo Grossi intendeva
criticamente riferirsi ai molteplici nodi di certezze assiomatiche reperiti lungo la
propria attività di storico del diritto. Nodi mitologici, dunque, concrezioni
accettate per la loro semplice carica fondativa, e lentamente sedimentatesi tanto
nella storia quanto nello stesso agire giuridico: ciascuno di essi allude ad un
particolare problema sapientemente aggirato, a una certa carica aporetica elusa – o
meglio: forclusa – attraverso la costruzione di finzioni indubitabili. L’analisi di
Grossi si rivolgeva, in particolare, alla mitizzazione giuridica quale «processo di
assolutizzazione di nozioni e principii relativi e discutibili», «oggetti enfiati da
una propaganda bisecolare»1 che si è sempre rivelata capace di recuperare e
piegare ogni elemento di novità alla fattuale continuità dei poteri e delle
istituzioni. A partire dallo stesso concetto di «sovranità popolare», passando per la
perfetta legittimazione della legge sulla base della sua pretesa razionalità, fino ad
interessare cardini delle moderne democrazie quali possono essere il dogma della
dimensione esclusivamente statale del diritto o la stessa nozione di
«rappresentatività», la costruzione e il dispiegamento di un simile arsenale di
finzioni giuridico-politiche si sono instancabilmente avvalsi della declinazione
spesso squisitamente mitologica delle stesse. Una declinazione che ne ha esaltato
l’efficacia a scapito della verità, e che ne ha rilevato l’intensità senza per questo
comprendere la reale posta in gioco sottesa ad un loro possibile utilizzo.
Nell’avvicinarsi a tali concrezioni mitologiche e dogmatiche, al contatto
con simili fondazioni meta-storiche della modernità giuridica, «lo storico avverte
di trovarsi di fronte a prodotti storici assolutizzati nella coscienza collettiva e
profondamente deformati nel loro volto originario»2. Suo compito primo
1 P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, Milano 2001, pp. 3-9. 2 Ibidem, p. 46.
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coinciderà allora con il tentativo di ricondurre fenomeni e concetti alla loro
precisa dimensione storica, impedendo loro di accedere all’assoluto promesso dal
mito. Impedendo loro di permanere nella stessa pratica giuridica come costruzioni
o valori d’indubbia efficacia e attendibilità, come altrettanti fondamenti mistici –
secondo le precisissime parole di Montaigne – eretti a difesa dell’ordinamento.
Che ogni ordinamento, del resto, abbia sempre confessato, più o meno
esplicitamente, il proprio desiderio di fondamento e al tempo stesso la propria
fame di miti, è costante stessa tanto del suo intimo funzionamento quanto, di
conseguenza, della particolare prospettiva per mezzo della quale lo storico
avvicina tali questioni. Già nel 1957, Roland Barthes individuava per mezzo del
concetto di ricorrenza «il maggior potere del mito», e nella società a lui
contemporanea «il campo privilegiato delle significazioni mitiche»3, luogo di
applicazione e insieme posta in gioco dell’universalizzazione e della
depoliticizzazione – seguita, beninteso, da una ripoliticizzazione – delle figure
catturate all’interno di tali significazioni. Le successive elaborazioni del concetto
di mito non potranno che confermare tali analisi: Furio Jesi parlerà in proposito di
persévérance, tanto del mito quanto della Gewalt che da esso trae continuo
fondamento4; più recentemente, Roberto Esposito ha definito il mito come
l’Ininterrotto, come ciò che «non è altro dall’assenza di interruzione»5, un
montaggio continuo e in perenne movimento dei materiali più eterogenei, asserviti
alla pretesa (di) continuità di determinati rapporti di potere. Per tale motivo riteniamo di non poter seguire Grossi nel suo tentativo di
chiudere con la questione contemporanea del mito, laddove egli scrive: «le
mitologie, che hanno giocato un ruolo tanto fondativo nel progetto giuridico
borghese, non reggono di fronte ai bisogni e alle richieste della società
3 R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1974, pp. 216-218. 4 F. Jesi, Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke, Quodlibet, Macerata
2002, p. 29. 5 R. Esposito, Nove pensieri sulla politica, il Mulino, Bologna 1993, p. 127.
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contemporanea, estremamente complessa sotto i profili sociale, economico,
tecnologico»6. Come per la modernità, la quale – nonostante l'incontestabile opera
di «smantellamento di antiche mitizzazioni sedimentate e abbarbicate nel
costume»7 – non ha potuto che riproporre sempre nuove mitizzazioni, soggiacenti
a diverse regole di montaggio e diverse configurazioni di rappresentazione,
similmente anche l'età contemporanea ha conservato al cuore stesso delle relazioni
di potere, quale forza informativa del politico, una dimensione mitologica di cui
solo recentemente si è iniziato a comprenderne la portata8.
Ogniqualvolta si è sentita la necessità di legittimare un ordinamento, di
sancire in maniera incontrovertibile la sua esistenza mediante un’opera di
fondazione, la dimensione mitologica ha costituito, se non necessariamente il
fattore principale di coagulazione, quanto meno l’orizzonte comune a ciascuno di
questi processi. Nemmeno la Costituzione Italiana, fin dai tempi della sua stesura,
si è mai dimostrata immune nei confronti di simili operazioni, moltiplicatesi del
resto con la progressiva spettacolarizzazione della politica e l’inasprirsi degli
scontri suscitati dal processo di decostituzionalizzazione dell’ordinamento
italiano. Lungi dall’identificarsi con un mero retaggio del passato, il problema di
una mitologizzazione della Costituzione, così gravido di implicazioni, costituisce
una delle questioni fondamentali dell’attuale dibattito politico, nel momento in cui
ogni voce in esso – senza alcuna distinzione di sorta – sembra accogliere con
favore crescente tanto la riproposizione dei miti quanto l’efficacia delle
“narrazioni”.
6 P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, cit., p. 51. 7 Ibidem, p. 43. 8 Per quanto riguarda la letteratura sul tema, si rimanda il lettore agli studi di Furio Jesi, per
mezzo dei quali il mitologo ha configurato il modello di «macchina mitologica»; in particolare, si veda Jesi F., Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea, Einaudi, Torino 2001, e Id., L’accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
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1. Evento costituente
Negli articoli pubblicati al termine del 1945, Norberto Bobbio affrontava
la difficile questione del rapporto tra uomini e istituzioni, nella convinzione che
proprio questo celasse la posta in gioco della militanza democratica: l’effettiva
deposizione delle scorie di totalitarismo, così come l’abbandono di ogni logica
che ancora potesse diffonderne i resti. In altre parole, si trattava di mostrare come
un mutamento degli uomini avrebbe dovuto giocoforza seguire e presupporre una
guarigione delle istituzioni, la quale non poteva che darsi se non nei termini di una
ri-fondazione delle stesse in chiave democratica. La tanto desiderata svolta, dalla
quale ciascuno attendeva la definitiva rottura nei confronti del fascismo, avrebbe
dovuto interessare innanzi tutto le istituzioni, poiché solo da queste, e dalla
ridefinizione dei costumi necessariamente conseguente, sarebbe dipeso il felice
incontro tra sostanza e fine del nuovo assetto democratico:
Nessuno di noi attende miracoli da un’assemblea che dovrà decidere quale sarà l’assetto del
nuovo Stato italiano, e nessuno di noi pertanto è disposto a presentare al pubblico un nuovo
mito, il mito della Costituzione, onnipresente, onnisciente, onniveggente. Ma ciascuno deve
sapere che il nuovo assetto dello Stato italiano, cioè le nuove istituzioni, che dalla
Costituente dipendono, saranno il fondamento della nostra vita politica, e quindi deve
guardare alla Costituente come ad una svolta veramente decisiva.9
La distinzione operata da Bobbio – tra mito e fondamento, tra aspetto mitico e
quasi miracoloso della fondazione dello Stato e il suo effettivo evento costituente
quale fondamento dell'istituzione democratica – non è da ritenere semplicemente
retorica, né tanto meno da ascrivere alle pur dovute cautele di fronte a una
situazione tanto fragile quanto inattesa. In effetti, non si trattava di istituire un
9 N. Bobbio, Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana, Donzelli, Roma 1996,
pp. 24-25.
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mito originario allo scopo di sorreggere e giustificare il nuovo assetto, bensì di
originare una Costituzione in grado di dettare, con la forza trascinante di un
vortice, il ritmo stesso del divenire democratico, il nuovo assetto della società
italiana. Solo in questo modo, solo operando questo divenire, la Costituzione
avrebbe potuto porsi quale garante e fondamento della democrazia, forza
immanente alla società, lettera viva di contro alla lettera morta di una Costituzione
sradicata dai costumi. (Fu proprio entro lo spazio costituito da un simile scarto, fra
essere e dover essere della democrazia, fra la resistenza del materiale sociale e la
debolezza della forza costituente, che s’inabissò secondo Bobbio l'esperienza di
Weimar, durante la quale «la democrazia era rimasta negli articoli della
costituzione, non era entrata nel costume»10.) La paura condivisa, che imponeva di
non gridare al miracolo, riguardava la sempre possibile ineffettività normativa
della Costituzione, ineffettività che avrebbe relegato la stessa al mero rango di
mistificazione ideologica.
In questo senso, la rottura irrevocabile nei confronti del fascismo non può
essere pensata nei termini di una necessaria contingenza storica né quale momento
fondativo definitivamente relegato nel passato: tale rottura va intesa, al contrario,
quale cifra costitutiva della Costituzione, cifra viva che permetterà alla stessa di
negare esplicitamente il fascismo con la stessa intensità con cui questo si era
posto, a sua volta, quale negazione della democrazia.
Opponendosi alla sempre possibile invenzione di un mito della
Costituzione, Bobbio si poneva criticamente in contrasto con la prassi della
mitologia politica del fascismo, il quale aveva – seppur inutilmente11 – giocato la
10 Ibidem, p. 32. 11 Indagando il rapporto tra il fascismo storico e il nuovo fascismo del consumo, Pier Paolo
Pasolini mostrava come l’ideologia del primo non fosse mai riuscita a penetrare nei costumi e nei corpi degli italiani. Cfr. P. P. Pasolini, 9 dicembre 1973. Acculturazione e acculturazione, in Id., Scritti corsasi, Garzanti, Milano 2000, p. 22: «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi
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carta del mito quale coagulante privilegiato per l’unificazione delle masse. Se la
Costituente intendeva porre la Costituzione e la democrazia quali inscindibili
fondamenti del nuovo assetto politico dello Stato, il fascismo aveva tentato di
porre il mito dello Stato quale fondamento di ogni espressione della vita politica.
Riprendendo le teorie del mito di George Sorel, il movimento fascista proponeva
di considerare le rappresentazioni mitiche alla stregua di puri catalizzatori –
alludendo alla loro qualità motrice come forza in grado di trasmutare, seppur con
modalità impreviste, semplici aspirazioni in realtà. Nei discorsi di simili
mitografi, parole quali Stato, Nazione o Italia non costituiscono concrete forze
storiche sulla base della loro presunta attuabilità, ma soltanto miti da condividere,
miti a tal punto efficaci da «introdu[rre] una chiarezza nuova»12 e trascinare
all’azione politica (un’azione, beninteso, innestata fin dal principio all'interno
della partizione fondata dal mito stesso).
Contro tale utilizzo del mito, a nulla vale la posizione critica assunta da
Mann nel Doktor Faustus, il quale denunciava l’intimo carattere di finzione delle
narrazioni mitiche fabbricate per le masse, fiabe, fantasie e invenzioni la cui
diffusione esaltava «la violenza come vittoriosa antitesi della verità, [...] apriva
così uno stacco ironico fra verità e forza, verità e vita, verità e comunità»13. Ed è
esattamente la peculiare connessione operata dal mito, tra forza, vita e comunità,
che impedisce di decidere in merito alla sua verità, e che lo assimila così a
qualcosa come una finzione. Accomunati da un'efficacia tale da produrre
«determinazioni effettive della realtà»14, sia il mito che la finzione sono situabili
in un luogo indecidibilmente posto tra verità e non-verità, luogo dal quale
lavorano alla creazione di nuove verità. Contrassegnato da tale indecidibilità, il
mito sembra riposare pienamente nella sua componente di ineluttabilità e di
modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole».
12 G. Sorel, Riflessioni sulla violenza, in Id., Scritti politici, UTET, Torino 2006, p. 225. 13 T. Mann, Doktor Faustus, Mondadori, Milano 2010, p. 419. 14 G. Solla, Finzioni, in E. H. Kantorowicz, I misteri dello Stato, a cura di G. Solla, cit., p. 9.
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destino tautegorico, al punto tale da dimostrarsi intaccabile nella sua potenza di
fronte a qualsiasi opera di smascheramento: esso risulta efficacie per la semplice
consapevolezza che la sua intima verità si dovrà pur mostrare. E tale movimento
di dimostrazione mitica si prova semplicemente girando in tondo: tornando
indietro, ripetendosi, proiettandosi e continuando ad affermare, sul terreno in cui
ormai tutto risiede, che è solo di ciò, della sua intima verità, che tutti saranno
testimoni. Preparandosi alla marcia su Roma, nell'ottobre del 1922, Mussolini
disse in proposito: «Abbiamo creato un mito, il mito è una fede, un nobile
entusiasmo, non ha bisogno di essere realtà, è un impulso e una speranza, fede e
coraggio. Il nostro mito è la nazione, la grande nazione, che noi vogliamo rendere
realtà concreta»15.
L’evento costituente si opporrà a tutto ciò con la fragile forza di un nuovo
fondamento della vita politica, un fondamento radicalmente estraneo ai tentativi
reiterati di fondazione mitica operati dal fascismo. Il nuovo Stato Italiano e la
democrazia non sono più ascrivibili alla semplice sfera dei miti tecnicizzati16:
sono al contrario realtà concrete – per quanto precarie – la cui sopravvivenza
dipenderà dagli stessi costumi democratici degli italiani. È attorno a una simile
rottura – con il passato fascista ma anche con le sue stesse tecnologie di potere e
consenso, così come coi suoi valori, immaginari e miti – che si configura la
Costituzione, come patto o compromesso (ri)fondativo tanto dell'unità nazionale
quanto della convivenza civile17. Da qui prende le mosse l'«obbligo di portare a
compimento la Costituzione»18, unica possibilità concessa alla società italiana per
15 Discorso riportato in C. Schmitt, La teoria politica del mito, in Id., Posizioni e concetti. In lotta
con Weimar-Ginevra-Versailles, a cura di A. Caracciolo, Giuffré, Milano 2007, p. 24. 16 Tecnicizzati in quanto evocati ed asserviti alla tecnica di propaganda politica. Per una
delucidazione esaustiva del concetto si rinvia a K. Kerényi, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, in Id., Scritti italiani (1955-1971), a cura di G. Moretti, Guida, Napoli 1993, p. 117.
17 Su questo punto si rimanda allo scritto di M. Viroli, Sull’antifascismo non si tratta, in «Il Fatto Quotidiano», 3 aprile 2011.
18 P. Calamandrei, La Costituzione e le leggi per attuarla, Giuffré, Milano 2002, p. 23.
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12
sventare di fatto la continuità dello Stato, e per compiere quella rivoluzione – al
contempo politica, morale e giuridica – che sola avrebbe permesso la definitiva
sepoltura di ogni scoria o traccia fascista.
2. Lo scandalo della Costituzione
Uno storico del diritto come Grossi, da sempre attento al divario tra diritto
e legge così come allo scarto che divide e contemporaneamente lega tra loro
società e Stato, definisce giustamente la Costituzione come «l’immagine della
società che si auto-ordina in base a precisi valori meta-giuridici e dello
Stato/apparato che è chiamato a sottomettersi a essi»19. Si tratta niente meno che
della cifra costitutiva stessa dello stato costituzionale di diritto, la soggezione
dello stesso al diritto sia per quanto riguarda le forme che per i contenuti, sia nei
termini dell’«essere» che in quelli del «dover essere» del diritto. In tal senso, si
può sostenere che l’evento costituente mostrò, per la prima volta, il diritto sotto
una ben diversa luce: contro le precedenti concezioni del positivismo giuridico e
del principio di mera legalità, ora il diritto si presentava quale «sistema artificiale
e imperfetto di norme eterogenee, di ognuna delle quali è sempre in questione la
legittimità costituzionale rispetto a quei valori politici che sono i principi di
giustizia incorporati nella Costituzione»20. Pur mantenendo la ben nota relazione
di isomorfismo che sempre sussiste fra sistema politico e sistema giuridico, la
Costituzione ha invertito il corso della relazione stessa. Prima dell’assetto
costituzionale, il diritto non era altro che lo strumento privilegiato di
conservazione, nonché di imposizione, della sovranità, una costruzione per mezzo
della quale quest’ultima poteva rifondare e informare il politico secondo le
19 P. Grossi, Prima lezione di diritto, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 68. 20 L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 69.
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proprie esigenze di sopravvivenza. In diretto contrasto con ciò, a partire
dall’evento costituente «non è più il diritto ad essere subordinato alla politica
quale suo strumento, ma è la politica che diventa strumento di attuazione del
diritto, sottoposta ai vincoli ad essa imposti dai principi costituzionali»21. Il
compimento della Costituzione – e, al contempo, della democrazia stessa – non
poteva che passare, in tal modo, per una vera e propria rivoluzione
dell’ordinamento e delle istituzioni, rivoluzione da compiersi nel rispetto e
secondo i principi della nuova carta.
Si trattò, in primo luogo, di una rivoluzione da compiersi contro tutto quel
che il fascismo aveva potuto incorporare e utilizzare: dai miti alle tecniche di
propaganda, dalla gestione dei diritti alla repressione delle libertà,
all’attualizzazione di determinate ideologie o culture. L’attuazione della
Costituzione non poteva dimenticare la realtà di un’Italia sì democratica, ma «che
recava il fascismo nel proprio Dna e che continua a conservarlo nella propria
memoria genetica»22 come un orizzonte sempre passibile di nuove attualizzazioni.
Non solo: la Costituzione stessa si configurava quale unica via percorribile per
scongiurare il pericolo fascista, poiché solo il suo esercizio avrebbe portato
all’effettiva produzione della democrazia. (Da qui il grido disperato di Pasolini di
fronte all’opportunità mancata di estirpare definitivamente il fascismo: «non
abbiamo fatto nulla perché i fascisti non ci fossero. Li abbiamo solo condannati
gratificando la nostra coscienza con la nostra indignazione; e più forte o petulante
era l’indignazione più tranquilla era la coscienza».23)
Per quanto sia possibile concordare con Bobbio, il quale escluse, in via
generale, l'esistenza di una «cultura fascista» capace di produrre «iniziative o
21 Id., Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 10-11. 22 G. De Luna, M. Revelli, Fascismo/Antifascismo: le idee, le identità, La Nuova Italia, Firenze
1995, p. 65. 23 P. P. Pasolini, 24 giugno 1974. Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo, in Id., Scritti
corsari, cit., pp. 48-49.
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imprese durature e storicamente rilevanti»24, non va tuttavia sottovalutato il fatto
che il fascismo abbia costituito non tanto un'eccezione e un’irruzione
dell’imprevedibile nella storia politica italiana, quanto piuttosto l’emersione di
tensioni già da tempo presenti e connaturate alla stessa – tensioni proprie della
vita politica italiana al punto da permanere e sopravvivere alla stessa caduta del
regime fascista. È importante ricordare, seguendo il suggerimento di Ferrajoli25,
che furono gli stessi teorici delle tesi totalitarie ad accorgersi per primi di questo
legame; essi, del resto, non mancarono nemmeno, e a più riprese, di rilevare la
diretta filiazione del fascismo dalla comprovata scienza politica liberale. Non una
cultura prettamente fascista, dunque, ma una «cultura di destra»26 – secondo
l’espressione di Jesi – che si alimentava del consumo indifferenziato del passato e
della produzione di immagini giuridico-mitologiche, quali veicoli privilegiati per
la diffusione dell’ideologia della classe dominante.
Il lento e faticoso processo di costruzione della democrazia italiana doveva
così scontrarsi con un nemico ben più tenace del fascismo storico, poiché meno
appariscente, più diffuso e assoluto, del quale l’intera società italiana era
permeata. Questo nemico non corrispondeva ad altro se non al crogiolo di
«tradizioni e comportamenti sedimentati nelle strutture profonde della nostra
mentalità collettiva»27. L’importanza che Bobbio attribuiva alla questione dei
costumi democratici nasceva dalla lucidissima consapevolezza che solo su questo
terreno le nuove istituzioni avrebbero potuto contrastare tutto ciò che del
24 N. Bobbio, La cultura e il fascismo, in G. Quazza (a cura di), Fascismo e società italiana,
Einaudi, Torino 1973, p. 229. 25 Cfr. L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1999, p.
46: «Del resto, una vera rottura [in ambito giuspubblicistico] non era, sul piano teorico, neppure necessaria, essendo la continuità assicurata proprio da quell’idea della sovranità dello Stato che la giuspubblicistica liberale aveva elaborato e che, come non mancò di rilevare Alfredo Rocco, conteneva in sé i germi del totalitarismo».
26 F. Jesi, Cultura di destra, Garzanti, Milano 1979. 27 G. De Luna, M. Revelli, Fascismo/Antifascismo: le idee, le identità, cit., p. 120. Gli autori
specificano inoltre che, secondo una tesi non dissimile da quella di Jesi, fu proprio «in quella zona grigia che prosperò la continuità tra l’Italia fascista e quella repubblicana».
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totalitarismo era stato ben più di una semplice premessa. Agli italiani era così
necessariamente richiesto di mettere in questione tutto ciò che del passato ancora
li costituiva, ogni sopravvivenza delle antiche strutture culturali – quelle stesse
che permisero con tale facilità l'espansione dell’ideologia fascista. (A questo
punto, sembra legittimo considerare il tentativo di garantire la democrazia,
mettendola al riparo anche – e soprattutto – dalla stessa volontà popolare, quale
testimonianza incontrovertibile della «profonda [...] diffidenza maturata in un
secolo di storia unitaria nei confronti della capacità di tenuta democratica delle
nostre istituzioni e dei nostri comportamenti collettivi»28.)
Ben si comprende a questo punto la problematicità di una tale situazione: a
fronte della radicale novità apportata dalla Costituzione, l’intero ordinamento
dovette in un certo senso opporsi a questa, frenare quel potere costituente che –
secondo l’aporia propria della democrazia costituzionale – non soltanto preesiste
alla Costituzione quale sua intima necessità, bensì sorregge la stessa fino al punto
da coincidervi e giustificare così ogni appello al suo compimento.
Per questi motivi possiamo parlare di scandalo della Costituzione: essa
irruppe nella dialettica tra inclusione ed esclusione del diritto, per scardinarne
l'equilibrio e deporre definitivamente i vecchi paradigmi tecnico-giuridici di
scientificità autonomia e continuità; paradigmi da sempre funzionali alla
neutralizzazione del politico – con le sue tensioni, i suoi movimenti – nonché alla
sua esclusione dalla sfera normativa del diritto. Fu proprio tale carattere di
scandalo a motivare le prime letture programmatiche e non strettamente normative
della carta. Esse relegarono la Costituzione in una dimensione poco più che
ideologica, quale summa di valori utopica e dunque non ordinativa. Simili letture
non condussero ad altro se non alla conseguenza di moltiplicare le antinomie
presenti tra norme superiori e norme gerarchicamente inferiori: entrambe di fatto 28 Ibidem, p. 164. Sulla crisi della rigidità costituzionale e sulla relativa «responsabilità dei
politici e della dottrina», si rimanda a A. Pace, La causa della rigidità costituzionale, Cedam, Padova 1996, p. VII.
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vigenti, ma le prime ineffettive – poiché valide ma non ottemperate dalle norme di
cui regolano la produzione – e le seconde invalide – poiché, pur se effettive, non
ottemperanti le norme che regolano la produzione. Non si trattò tuttavia di
grossolani seppur gravi errori d’interpretazioni, bensì di una strategia politica
definita, mirante ad istituire e confermare nella pratica l’antico dogma della
continuità giuridica dello Stato, minato in questo dall’irruzione della Costituzione
quale evento democratico. Già nel 1955, Piero Calamandrei osservava acutamente
come il fatto di
attribuire carattere precettivo o programmatico a una norma costituzionale può essere
l'espediente dialettico di cui alcuni si servono per affrettare l'attuazione della Costituzione
democratica ed altri viceversa per confinarla nel limbo, e intanto lasciare in vigore e dar
nuovo credito alle vecchie leggi del regime fascista, fino a che venga il momento, da essi
auspicato, di poterla anche formalmente abolire.29
Ed è ancora la volontà di opporsi all’irruzione democratica ad accompagnare
puntualmente, oggi come allora, i continui e reiterati tentativi di decidere in
merito allo statuto stesso della Costituzione. In altri termini: di decidere della sua
stessa posizione, della sua definitiva inclusione o esclusione dal diritto. Questo,
del resto, non può esimersi dal confronto con la radicale indecidibilità connessa al
potere costituente, potere che, per definizione, «è al tempo stesso interno al diritto,
quale suo criterio normativo di unificazione e d'invalidazione, e ad esso
irriducibilmente esterno in quanto suo fondamento assiologico ed etico-
politico»30.
29 P. Calamandrei, La Costituzione e le leggi per attuarla, cit., p. 28. 30 L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, cit., pp. 69-70.
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3. Neutralizzazione e spoliticizzazione
Conflitto fondamentale della nostra società è così quello che tenta di
venire a capo di tale indecidibilità, decretandone ora la neutralizzazione per
esclusione (decretandone quindi l’abbandono a favore della costituzione
materiale), ora la neutralizzazione per inclusione (quale summa mitica di
principi), ora invece appellandosi ad essa e continuare così l’opera di compimento
della Costituzione. Si tratta di un conflitto che prende le mosse dallo scarto che
oppone essere e dover-essere del diritto, che rileva dalla mancata coincidenza fra
vigore e validità delle norme, fra normatività ed effettività. È da questo conflitto
che sembra dipendere l’aporia costitutiva della democrazia, descritta da Luigi
Ferrajoli nei termini di una «latente e strutturale illegittimità giuridica dello stato
di diritto, dovuta all'ambizione delle promesse formulate ai suoi livelli normativi
superiori e non mantenute ai suoi livelli inferiori»31.
La necessaria collocazione della Costituzione al vertice delle fonti quale
pietra di volta dell'intero ordinamento, dalla cui solidità dipende quella di tutte le
altre norme, comporta in primo luogo la diretta dipendenza dell'ordinamento nei
confronti della codificazione costituzionale: esso deve così rispettare non solo le
norme formali relative alla produzione degli atti giuridici, bensì, più radicalmente,
le norme costituzionali stabilenti gli stessi significati giuridici (quelli che possono
o non possono essere espressi così come quelli che devono essere espressi). Ciò
ha determinato nei fatti la messa in questione (della validità) dell’intero sistema
precedente di diritto quale espressione privilegiata di una cultura – quella pre-
democratica e proto-fascista, se non fascista tout court – ormai deposta –ma non
estirpata – dalla Resistenza e dall’evento costituente.
Ben si comprende allora come la mancata assunzione di un simile
problema da parte della cultura giuridica e politica abbia sempre coinciso con
31 Id., Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 907-908.
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un’operazione, più politica che giuridica, volta a neutralizzare l’illegittimità
giuridica dello stato di diritto passando tuttavia per la neutralizzazione stessa della
Costituzione, la destituzione del suo potere costituente, la negazione di ogni sorta
di compito o di compimento relativo alla stessa.
A fronte di tale illegittimità strutturale, è possibile individuare un duplice
movimento, la compresenza di due diverse correnti le quali, pur con opposte
finalità, concorrono di fatto entrambe all'erosione della Costituzione. Da una parte
si possono annoverare i tentativi di ridimensionare il potere della stessa,
proponendo interpretazioni restrittive, tentando di riformarne lo statuto formale
per farla meglio coincidere con la cosiddetta «costituzione materiale», fino a
perseguire, al limite, una vera e propria decostituzionalizzazione dell'ordinamento.
Si tratta, secondo Luigi Ferrajoli, del processo in atto di radicale trasformazione
del sistema politico italiano, alla base del quale starebbe niente meno che il totale
rifiuto portato dall’attuale ceto di governo nei confronti dei valori, morali e
politici, che sorreggono la Costituzione stessa; un rifiuto che non può che tradursi
nella diretta opposizione allo stesso costituzionalismo come principio garantista
della democrazia.
Ne è conseguita la progressiva trasformazione di fatto del nostro sistema politico in una
forma di democrazia plebiscitaria fondata sull’esplicita pretesa dell’onnipotenza della
maggioranza e della neutralizzazione di quel complesso sistema di regole, di separazioni e
contrappesi, di garanzie e di funzioni e istituzioni di garanzia che costituisce la sostanza
della democrazia costituzionale.32
Il compito di attuare la Costituzione nel tentativo di garantire ai cittadini una vita
democratica al riparo di eventuali (e sempre possibili) derive totalitarie, il compito
proposto al popolo italiano dall’Assemblea Costituente con l’approvazione del 22
dicembre 1947, ha dovuto confrontarsi più volte con i numerosi tentativi di 32 Id., Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana, cit., p. VII.
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opposizione e delegittimazione, e tuttavia, mai come oggi, esso pare rigettato e
disconosciuto in favore della palese accettazione di uno stato di diritto più
oligarchico che democratico. (A questo alludono i palesi tentativi di
conservazione e protezione dello Stato, passanti sempre più attraverso la
legittimazione ideologico-politica del diritto invalido vigente e la squalifica della
carta costituzionale. Del resto, simili operazioni di squalifica sono state sostenute
e motivate dalle più diverse necessità: il bisogno di fronteggiare le cosiddette
situazioni di emergenza, la volontà di proteggere specifiche cariche dello Stato, la
delegittimazione del nemico o dell’avversario politico, la tanto semplice quanto
demagogica richiesta di una maggiore libertà d’azione politica a fronte degli
impedimenti previsti dalla Costituzione33.)
Alla seconda forma di erosione dell’assetto costituzionale appartengono,
invece, tutti quei tentativi che vorrebbero restituire nuova forza alla Costituzione,
nuova legittimità e autorità, mediante una sorta di processo autopoietico, una
mitizzazione della stessa tutta tesa a giustificarne l’esistenza come valore in sé,
universalmente vigente. A fronte dell’attuale slittamento della politica verso il suo
versante oligarchico e populista, si è spesso sentita la tentazione di mitizzare la
Costituzione e la storia italiana, di inventare una narrazione sacrale ed opporre
così un rinnovato principio di legittimità al vigente potere anti-democratico, per
quanto questo si sia dimostrato più volte insensibile e intoccabile rispetto a
qualunque richiamo alla legalità (essendo, secondo le parole di Gianluca Solla,
33 I discorsi relativi al contrasto tra la rigidità costituzionale e un agire politico in grado di
rispondere alle situazioni contingenti non sono certo un prodotto dell’odierno dibattito politico italiano. In tempi e luoghi meno sospetti, Michel Guénaire, sostenitore di una concezione della politica come «puissance de décision et de volonté», ha potuto delineare nel seguente modo la presunta incompatibilità tra diritto e politica, a fronte dell’urgenza nella quale la seconda è chiamata ad operare: «Synonyme de procédures détaillées dans son corps, la Constitution a décliné dans un encadrement prudent de l’activité politique. Elle veut tout prévoir, elle veut pourvoir à tout… […] La crise de la politique moderne ne provient pas que d’une perte du sens, cause par l’effacement des idéologies; elle naît aussi de l’application de procédés qui n permettent plus son activité». Cfr. M. Guénaire, La Constitution et la fin de la politique, in «Le Débat», II (1991), n. 64, pp. 154-157.
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«un potere ubuesco, non screditabile perché già massimamente screditato»34).
Se la prima tendenza è stata oggetto negli anni di numerose analisi e
critiche35, non si può certo dire altrettanto della seconda, spesso considerata
superficialmente con favore, in virtù delle sue finalità. È tuttavia doveroso
passare al vaglio simili posizioni, siano esse teoriche o politiche, in quanto
recanti, più o meno esplicitamente, la negazione delle fondamenta dello stato di
diritto e della democrazia. Tanto la decostituzionalizzazione quanto l’elaborazione
mitologica della carta alimentano nei fatti lo stesso processo decostituente,
mirante non solo a depotenziare – se non a deporre – la Costituzione del ’48, bensì
a mettere in questione l’essenza del costituzionalismo quale sistema politico di
limitazione dei poteri e garanzia dello stato di diritto, e quale precario equilibrio
tra il politico e il giuridico.
4. Mitologia politica
Affrontare la questione del mito significa, innanzi tutto, affrontare diverse
questioni intimamente implicate fra loro. Vi è la questione della storia, e di come
ogni qualità storica venga piegata, attraverso l’elaborazione mitologica, in
direzione di una sua assolutizzazione. Tale operazione, si può ben intuire, non è
senza conseguenze: il prezzo da pagare, affinché il mito possa elevare qualcosa a
verità naturalizzata, è niente meno che la perdita dei tratti propri che hanno reso
singolare un dato evento, un dato oggetto o un dato concetto. Come ha scritto
Barthes, «il mito si costituisce attraverso la dispersione della qualità storica delle
34 G. Solla, L'Osceno. La Società immaginaria e la fine dell'esperienza, in C. Chiurco (a cura di),
Filosofia di Berlusconi. L'essere e il nulla nell'Italia del Cavaliere, ombre corte, Verona 2011, p. 131.
35 Cfr. L. Ferrajoli, La decostituzionalizzazione del sistema politico italiano, in «Progetto Lavoro», II (2011), n. 2, pp. 37-41.
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cose: le cose vi perdono il ricordo della loro fabbricazione»36, così come la traccia
delle reali poste in gioco sottese alla loro nascita, la loro emergenza. Ogni
mitopoiesi comporta sempre, in qualche modo, un furto di storia, e una
restituzione della stessa sotto forma di sopravvivenza. Ma non si tratta che di una
sopravvivenza fantasmatica e spettrale, una sopravvivenza che ha sottratto il
vigore della contingenza e della storia all’euforia di un’eternità artefatta, tanto
immobile quanto imbalsamata.
Non è possibile inoltre prescindere dalla questione concernente l’evento e
la sua irruzione, la frattura che esso provoca nel suo semplice darsi. In particolare,
nel caso del mito, è tanto l’evento della sua produzione che quello della sua
(continua) narrazione ad interessare.
Sia il caso delle diverse operazioni di mitizzazione della Costituzione, più
o meno scoperte, a cui si è assistito nel corso degli ultimi anni. Alcune di queste
non solo provenivano da autorità tutt’altro che sospette, ma si dimostravano
sostenute dalle intenzioni più meritevoli. Si potrebbe citare, a titolo di esempio, la
posizione di Valerio Onida, espressa nel recente La costituzione ieri e oggi. Pur
condividendo le critiche mosse da Onida nei confronti di chi, volendo leggere
l'evento costituzionale esclusivamente quale «patto politico fra determinate forze
nazionali»37, riduceva lo stesso alla sua mera dimensione provinciale, alla
contingenza di un evento squisitamente italiano, non possiamo che nutrire riserve
in merito all'intempestiva opportunità di una «visione più distaccata, in cui il
valore e la portata della Carta possano e debbano essere apprezzati al di fuori e in
un certo senso indipendentemente dalle caratteristiche del nostro sistema politico
e dei suoi cambiamenti, e dagli specifici problemi e indirizzi che esso esprime»38.
Per sostenere la propria posizione Onida insiste, seguendo la posizione di
Giuseppe Dossetti fino a citarlo espressamente, sul carattere universale del
36 R. Bartes, Miti d'oggi, cit., p. 223. 37 V. Onida, La costituzione ieri e oggi, il Mulino, Bologna 2008, p. 9. 38 Ibidem.
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costituzionalismo novecentesco, «uno spirito universale e in certo modo
transtemporale»39, fiorito quale conseguenza della generale presa di coscienza
seguita alla seconda guerra mondiale. Tuttavia, affinché la Costituzione possa
essere ascritta alla dimensione propria di tale spirito universale e transtemporale,
essa deve essere come spoliata e depurata da ogni traccia di contingenza e
storicità, eradicata dal campo di tensioni che l’hanno prodotta. Non solo: assieme
ad essa, sarà tutto il crogiolo stesso di tensioni ad essere estirpato e cancellato,
ridotto a mero accidente dell’universale che nel mito e per mezzo del mito si
pretende mostrare. E così si vedranno cancellate dall’intima sostanza della
Costituzione tanto il delirio totalitario, così intimamente connesso con l’intera
storia dell’Occidente e del suo «spirito universale»40, tanto la Resistenza, ridotta
in tal modo ad «un’ideologia antifascista di fatto coltivata da certe minoranze»41:
di fronte a tutto ciò resterà soltanto lo spettro, tanto immateriale quanto
transtemporale, di una Costituzione ridotta a pura forma e a pura vigenza.
Si tratta di un’opera di mitizzazione, un atto di mitopoiesi, una
deformazione sacralizzante. In altri termini, «una deliberata, tecnicizzata,
evocazione di un mito»42, funzionale alla produzione di nuove significazioni. La
definizione particolarmente felice di Furio Jesi ha il merito di porre in evidenza i
tre caratteri di tale operazione: in primo luogo, essa è deliberata, voluta e
perseguita da coloro i quali ne trarranno in qualche modo un certo beneficio; essa
è perciò anche tecnicizzata, ovvero funzionale ad un certo disegno o progetto,
piegata ad una determinata teleologia. A questo punto si può ben comprendere
39 G. Dossetti, I valori della Costituzione, Ed. S. Lorenzo, Reggio Emilia 1995, p. 68. 40 Su questo si rimanda al fondamentale testo di P. Lacoue-Labarthe, J.-L. Nancy, Il mito nazi, il
melangolo, Genova 1992. 41 G. Dossetti, I valori della Costituzione, cit., p. 63. Ben si comprende come lo stesso legame qui
proposto tra democraticità della Costituzione e universalità della volontà che in essa si manifesta è, se non arbitrario, per lo meno mitologico. Una Costituzione è democratica perché garantisce tutti, senza alcun riferimento alla maggioranza o alla totalità che l’ha voluta: è democratica per le condizioni giuridiche e politiche pattuite in essa e non per il grado di consenso accordato all’atto costituente.
42 F. Jesi, Mito, Aragno, Torino 2008, p. 131.
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come il mito sia così evocato, richiamato ed attualizzato secondo le – non sempre
precise o palesi – finalità dei mitizzatori. Tornando all’esempio sopra citato, ben
si comprende come la finalità di un simile tentativo sia quella, legittima e
auspicabile, di rimuovere tutte quelle posizioni ideologiche che si sono rivelate
essere altrettante limitazioni della democraticità della Costituzione. Ciò che rende
inaccettabile e, in un certo senso, persino impraticabile tale tentativo, sono il suo
desiderio e al tempo stesso la sua necessità procedurale di separare una forma di
autorità dal suo stesso fondamento, inciso in essa come unica via di accesso tanto
alla sua comprensione quanto alla sua attuazione. Senza restituire – di questo si
tratta – la giusta importanza all’antifascismo quale fattore di democraticità (e non
solo in qualità di ideologia) non si riuscirebbe a comprendere la portata stessa
della Costituzione, la sua radicale rottura nei confronti dell’intera storia
occidentale, quale storia esemplare dell’assenza costitutiva di democrazia. Aver
separato l’evento costituente dal suo piano d’immanenza – in altri termini: dal
fardello che ancora grava su di esso – non ha potuto comportare niente meno che
la «separazione della veste giuridica dal flusso storico, con il risultato del suo
ridursi a corteccia rinsecchita avulsa dalla linfa vitale sottostante»43.
La principale conseguenza di una mitopoiesi della Costituzione è ora
evidente: essa coincide nientemeno che con la rimozione del momento costituente
dello Stato quale momento sempre connaturato alla sua vita stessa, nonché con la
depoliticizzazione di questa stessa vita nel momento stesso in cui viene affermato
lo Stato quale entità immobile, sostenuta da una fondazione extra-storica ed extra-
politica in grado di cancellare le attuali poste in gioco. Se ogni articolo della
Costituzione «individua un campo di forze, disegna una trama di poteri»44, l’opera
di mitopoiesi servirà a cristallizzare queste tensioni anestetizzandole, ad impedire
che esse emergano puntualmente nel politico e nel giuridico quali zone grigie,
43 P. Grossi, Prima lezione di diritto, cit., p. 9. 44 S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano 2009, p. 158.
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segmenti di democrazia ancora da compiere. La mitizzazione della Costituzione si
è così rivelata nel tempo la modalità privilegiata per sfuggire alla constatazione
che, nonostante tutto, nonostante l’interruzione coincidente con la Resistenza e la
seconda guerra mondiale, forti e ineludibili elementi di continuità sono
sopravvissuti, in modo più o meno latente, nei diversi tessuti sociali, politici e
giuridici.
L’elaborazione mitologica promette di risolvere – dunque neutralizzare – il
fondamento nell’evento mitologico della fondazione, al prezzo di spostare
l’attenzione dalle modalità d’esercizio del potere a quelle della sua legittimazione.
Significa occultare il lavorio dell’evento costituente, la sua contemporaneità, e
relegare il fondamento stesso della democrazia in una sorta di presupposto,
l’arché trascendente e trascendentale a un tempo, ma senza alcuna presa nella
concretezza della storia o della società. È questa la posta in gioco della mitopoiesi
giuridica:
una rimozione ideologica, volta ad accreditare l’idea di un'ontologica naturalità del diritto e
ad impedirne una compiuta e totale secolarizzazione quale prodotto contingente,
interamente storico e umano. Ne risulta pertanto offuscata la comprensione dei fondamenti,
sia empirici che assiologici, del diritto positivo e delle istituzioni politiche.45
Ascrivendo Costituzione ed evento costituente alla sfera del mitologico, essi
perdono i tratti della storicità e della contingenza per acquisire quelli propri di
un’entità meta-storica, naturale e neutrale: si assolutizzano, diventano oggetti di
credenze, miti giuridici tecnicizzati da rivolgere contro il divenire democratico.
«In altre parole, si esaspera la dimensione autoritaria del “giuridico”», la sua
pretesa compiutezza e legittimità, «esasperando altresì la sua allarmante
45 L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia. 2. Teoria della democrazia,
Laterza, Roma-Bari 2007, p. 158.
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separazione dal ‘sociale’»46.
Post-scriptum – La democrazia (non è) incisa nella pietra
Mentre scrivo, tengo al mio fianco un libro sulla Costituzione destinato ai
ragazzi, un libro dal chiaro intento educativo. È tuttavia l’immagine di copertina
ad attrarre la mia attenzione: un colossale blocco di pietra, un monolite d’altri
tempi recante incisa sulle proprie pareti una lista interminabile d’articoli,
pressoché illeggibili. A lato, due bambini osservano, non senza un certo distacco –
curiosità? –, le numerose iscrizioni come fossero altrettanti reperti archeologici. Si
tratta, chiaramente, di una metafora di stampo biblico, volta a fondare il valore
della Costituzione attraverso un presunto carattere dogmatico, teologico-giuridico:
essa è perché è Legge – una legge immemoriale, scolpita da mani invisibili e
trascendente, nella sua immobilità, ogni evento storico così come ogni forma di
vita. Ma più si persevera nel tentativo di avvicinare la Costituzione alle tavole
della legge ricevute da Mosè sul monte Sinai – più si dona ad essa la consistenza
della pietra e la durata del mito –, più questa sembra allontanarsi dalla sua
materialità propria e dalla dimensione tanto storica quanto attuale a cui essa
appartiene senza riserve.
Lungi dal poter essere considerata un’operazione sporadica o eccezionale,
l’irrigidimento della Costituzione nella sua forma mitica – da un lato fantasmatica
e spettrale, dall’altro efficacemente politica – ha segnato più volte le modalità di
avvicinamento alla stessa, finendo spesso per identificarsi con l’unica forma di
conoscenza o di accesso alla carta messa a disposizione. Si tratta di una
consuetudine talmente diffusa da determinare le stesse modalità culturali
attraverso le quali i singoli cittadini si rapportano alle fondamenta del proprio
46 P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, cit., p. 51.
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vivere in comune. Non è certo un caso che Grossi abbia più volte insistito sul fatto
che «il nemico culturalmente da battere con ogni sforzo da parte del giurista» –
così come da parte del filosofo, o del semplice cittadino – «è la riduzione di una
“costituzione” o di una “legge” in un testo cartaceo, riducendo la giuridicità
nell'ossequio a quel testo»47: una Costituzione ridotta a lettera morta incisa nella
pietra, privata del minimo soffio di forza costituente, è norma senza intensità e
pertanto impossibilitata a garantire il divenire democratico di una società.
Non si tratta di una questione secondaria: in gioco vi è la tenuta stessa
della vita democratica in quanto tale. Ogni discorso sulla Costituzione – e questo,
con particolare evidenza, nell’Italia presente, non può che riversarsi e modificare
direttamente, senza alcuna soluzione di continuità, le stesse modalità entro le quali
si articola l’esistenza della democrazia. Soltanto se si tiene a mente questo nesso è
possibile cogliere la reale effettività dei processi di mitizzazione della
Costituzione e della conseguente produzione di forme irrigidite, nelle quali
verrebbero a risolversi tanto l’intensità della carta quanto la democrazia stessa. A
fronte di ciò, non ci si stancherà di ribadire come, strettamente intesa, la
democrazia non è una forma, né tanto meno – e a maggior ragione – una forma di
Stato: essa è sempre al di qua o al di là delle forme che questo presenta. Più
precisamente, la democrazia è tanto il fondamento egualitario quanto l’attività
politica e comune (pertanto fuori dall’illusoria dialettica tra pubblico e privato) da
cui dipende la legittimità stessa – se non la sopravvivenza – dello Stato. Allo
stesso modo, la definizione di democrazia fornita da Stefano Rodotà, secondo il
quale «la democrazia si svela come un processo, mai compiuto e sempre più
esigente»48, mostra chiaramente la stessa in tutta la sua incompiutezza e
precarietà, colta nella sua qualità di processo costituente che accompagna le
metamorfosi della società. Senza mai toccare la propria fine, senza giungere al suo
47 Id., Prima lezione di diritto, cit., pp. 78-79. 48 S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 40.
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decisivo compimento49, coinvolgendo nel suo stesso dispiegarsi tanto le istituzioni
quanto i costumi – e questo ben al di là di qualsiasi distinzione possibile, di
qualsiasi conflitto fra i due.
Del resto, lo stesso Bobbio, pur rilevando il compito delle istituzioni,
aveva chiaramente compreso come una simile separazione, il sempre possibile
conflitto tra istituzioni e costumi, non potesse certo essere pacificata mediante
ulteriori legittimazioni: non di miti necessitava il divenire democratico, bensì di
atti umani – singolari, fragili e precari. Ed è questa stessa fragilità, oggi come
allora, a costituire la forza e il valore della democrazia stessa, a tal punto essa non
è «garantita da nessuna forma istituzionale. Non è portata da nessuna necessità
storica e non ne porta nessuna. È affidata solo alla costanza dei propri atti»50. Se
essa è tale, è proprio in favore della cifra fondante di ogni Costituzione: non un
comando trascendente, né tanto meno un’imposizione che irrompe dall’alto, ma
l’intrecciarsi di politica e società nella reciproca invenzione, quali ramificazioni
che seguono e innervano le direttrici e i solchi del vivere (in) comune.
49 In questo senso, può sembrare improprio, o per lo meno riduttivo, denunciare la presente
situazione descrivendola nei termini di una «crisi della democrazia»: la democrazia in quanto tale, secondo la cifra stessa del proprio statuto ontologico, non può che darsi in perenne crisi.
50 J. Rancière, La haine de la démocratie, La fabrique, Paris 2005 (trad. it. L’odio per la democrazia, Cronopio, Napoli 2007, p. 117).
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