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N.2-3 Dicembre 2010

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Museo Geopaleontologico “Ardito Desio” Rocca di Cave Dicembre 2010 N. 2-3 MUSEO QUADERNI del MUSEO QUADERNI del
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Museo Geopaleontologico“Ardito Desio”Rocca di Cave

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� In copertina: Tramonto sull’antico vulcano dei Colli Albani, dal terrazzo della Rocca Colonna(foto F. Grossi). Nel riquadro: plastico dei Colli Albani, aperto per mostrare la struttura profondadel vulcano (sala A del Museo).

Tratta da: Geological Society of America, 2009

Schema di classificazione tassonomica

Schema gerarchico delle categorietassonomiche usate in paleontologiaper la classificazione dei fossili: ognilivello è costituito da un gruppo dielementi compresi nella categoriasottostante e comprende più elementidi quella soprastante. Ad esempio,ogni ordine comprende più famiglie,ciascuna famiglia più generi ecc. (di-segno modificato da Woese, 1990).

Comune di Rocca di Cave

Provinciadi Roma

Regione Lazio Rete Sistemica Naturale

UniversitàRoma Tre

Museo Civico

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ARTICOLI4 Conoscere il territorio. Lungo le rive di un

antico mare. Itinerario guidato - Maurizio Parotto

40 I fossili del Museo “Ardito Desio”.Sauvagesia sharpei - Francesco GrossiNeithea zitteli - Francesco Grossi

60 Prevedere gli eventi naturali.Terremoti e “bufale” - Francesco Grossi

70 Archivi della Terra: il clima. Gli archivi degli antichi mutamenti climatici e le cause delle variazioni climatiche - Maurizio Chirri

82 I Protagonisti.Carlo Felice Parona - Francesco Grossi

95 La conquista dello spazio.12 aprile 1961: l’alba dell’avventura - Paolo D’Angelo

102 Lune di mondi lontani. Una veloce visita alle lune dei pianeti esterni - Sergio Alessandrelli

RUBRICHE26 Geo news (a cura di F. Grossi e C. Amadori)

36 Paleo news (a cura di F. Grossi)

49 Museologia Il Polo Museale della Sapienza - Luigi Campanella

52 Costruire strumenti e modelli. Costruire un orolo-gio solare zodiacale (a cura di M. Chirri e B. Pulcinelli)

80 Meteo. Il tempo che ha fatto. Ottobre-dicembre2010 (a cura dell’Associazione E. Bernacca)

90 Brevi dal Sistema Solare (a cura di M. Chirri)

100 Variabilia. Stelle variabili: RS Ophiuchi(a cura di M. Vincenzi)

106 Il cielo nel mirino (a cura di B. Pulcinelli)

UN LIBRO ALLA VOLTA65 E. Boschi, R. Piumini Non sta mai ferma

(a cura di F. Grossi)

66 Antonio Pennacchi Le iene del Circeo(a cura di A. Billi e M. Mattei)

GEO-QUIZ58 Soluzioni cruciverba (del Quad. 1) e nuovi giochi

(a cura di Akira)

APPUNTAMENTI AL MUSEO89 Attività didattica del museo

105 La rocca delle stelle: serate osservative

Registrazione Tribunale di Roma n. 105 del 4/04/2011

Pubblicazione finanziata con il contributo della Provincia di Roma, L.R. 42/97

Direttore responsabile:Paolo D’Angelo………..

Comitato scientifico:A. Altamore, L. Campanella, A. Kotsakis, C. Marangoni, M. Mattei

Comitato di redazione:Chiara Amadori, Maurizio Chirri, Francesco Grossi, Maurizio Parotto

Collaborazioni redazionali:C. Amadori (disegni, ove non specificamente indicato)

S. Mora (preparazione testi)

Sede:Cooperativa “Archimede”, Via Nomentana, 175 - 00161 RomaE-mail: [email protected]

Impaginazione e grafica:[email protected]

Stampa:Tipografia Rotastampa s.a.s.,Via Giuseppe Mirri, 21 - 00159 Roma

Finito di stampare: Novembre 2011

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PERIODICO QUADRIMESTRALE

Anno I - N. 2-3

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4 CONOSCERE IL TERRITORIO

INTRODUZIONEQuesto itinerario guidato propone unpercorso tra Palestrina e Rocca di Cave,attraverso la scarpata sabina, la soglia oc-cidentale della Piattaforma carbonatica la-ziale-abruzzese e la trasgressione mioceni-ca; più esattamente, attraverso le testi-monianze – rocce e fossili – che hannopermesso ai geologi di ricostruire gliantichi ambienti da cui ha preso originequesta parte dell’Appennino. Il percor-so si svolge su strada e per il tratto Pa-lestrina-Rocca di Cave (che comprendei punti di sosta 1 e 2) richiede l’uso diun mezzo proprio. Se invece si intenderaggiungere Rocca di Cave con mezzipubblici, si può fare facilmente a piedidal paese il tratto di percorso che com-prende le soste 3, 4 e 5.Non serve un abbigliamento «particola-re», bastano scarpe comode… mentresono consigliabili macchina fotografica,una lente (6-9 ingrandimenti) e una sca-la dei tempi, come quella inserita nellaseconda pagina di copertina di questoQuaderno.Prima di partire, conviene recuperarequalche informazione sulle piattaforme

carbonatiche. Premettiamo perciò, perchi sia interessato, una breve introdu-zione su queste imponenti strutture se-dimentarie. Chi conosce già l’argomen-to, può passare direttamente alla descri-zione dell’itinerario.

Cos’è una piattaforma carbonaticaLunghi anni di studi dei diversi pacchidi rocce stratificate che formano i nu-merosi rilievi montuosi grandi e piccolidell’Appennino centrale e meridionale,completati dall’esame di migliaia dicampioni recuperati da sondaggi nelsottosuolo (effettuati per ricerche petro-lifere), hanno permesso di ricostruire ilprocesso sedimentario che ha dato ori-gine ai materiali coinvolti nell’edifica-zione dell’attuale catena montuosa. Si èmesso in luce, così, un processo prolun-gatosi per oltre duecento milioni di an-ni, che ha visto svilupparsi essenzial-mente due tipi di ambienti marini, as-sociati nel cosiddetto sistema piattaformacarbonatica-bacino.Una piattaforma carbonatica in sensogeologico si forma in acque marine bas-se (profonde solo pochi metri), sul cuifondo di depositano grandi quantità disedimenti carbonatici, cioè costituiti dacarbonato di calcio, che nel tempo si

Lungo le rivedi un antico mare

Itinerario guidato alla scoperta delle antiche scogliere di Rocca di Cave

QUADERNI DEL MUSEO

Maurizio Parotto

Maurizio Parotto: Ordinario di Geologia,Università degli studi “Roma Tre”

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5Conoscere il territorio

trasformano nelle rocce ben note comecalcari e – in particolari condizioni – dolomie (carbonato doppio di calcio emagnesio).L’area in cui si forma una piattaformacarbonatica è in lento e continuo spro-fondamento (indicato con il terminesubsidenza) e se la deposizione di sedi-menti, dovuta in gran parte all’attivitàdi particolari organismi, riesce a com-pensare via via lo sprofondamento, fi-niscono per accumularsi uno sull’altromigliaia di strati di carbonati. Una tipi-ca piattaforma carbonatica si presentacon dimensioni areali da decine a cen-tinaia di km e, con il tempo, può rag-giungere spessori di centinaia o mi-gliaia di metri, costituiti pressoché perintero di calcari e dolomie, mentre intorno ad essa si accumulano roccediverse.Ambienti di piattaforma carbonaticacome quello descritto sono distribuiti

oggi nei mari della fascia tropicale, inaree caratterizzate da acque calde, lim-pide e ben ossigenate, e si presentanocon aspetti diversi a seconda che si svi-luppino in prossimità di una costa oisolate in pieno oceano (fig. 1).Le piattaforme isolate costituiscono ilmodello prevalente di quelle ricono-sciute nella storia geologica dell’ Ap-pennino centro-meridionale (identifica-te come laziale-abruzzese, campano-luca-na, apula, ecc.). Negli oceani attuali essesono rappresentate da banchi carbona-tici situati al largo delle piattaformecontinentali, in pieno oceano, circonda-ti da acque profonde centinaia o mi-gliaia di metri.La sedimentazione è diversa tra l’inter-no e il margine della piattaforma. Nellearee più interne e protette (lagune este-sissime e pochissimo profonde), dovel’acqua è pochissimo agitata, si accu-mulano fanghi calcarei, prodotti dall’at-

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Figura 1 - Schema di piattaforme carbonatiche sviluppatesi in prossimità di una costa (orlate, cioècon tratti del margine emersi, e aperte, cioè totalmente sommerse) oppure isolate, in pieno oceano.

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tale posizione si sviluppa-no numerosi tipi di orga-nismi costruttori, come co-ralli, alghe, briozoi, gaste-ropodi, lamellibranchi ealtri ancora, che con le lo-ro parti “dure”, cementateinsieme, formano una ro-busta impalcatura (fig. 3).Rimandiamo per ogni al-tro dettaglio e approfondi-mento all’articolo “Le sco-gliere del passato”, pubbli-cato sul numero scorso diquesta rivista, e descrivia-mo, invece, brevementel’altro membro del siste-ma piattaforma-bacino.

Il bacino pelagico (che inseguito indicheremo sem-plicemente come bacino)indica la parte di mare che

circonda la piattaforma carbonatica: al-l’esterno della soglia, infatti, il fondodel mare scende rapidamente e la pro-fondità delle acque passa a centinaia emigliaia di metri. Il ripido declivio cheparte dalla soglia costituisce la scarpatadella piattaforma e lungo di essa scen-dono e si accumulano per gravità gran-di quantità di detriti, formati a spesedella soglia, le cui strutture sono fre-quentemente aggredite e frammentateda violente mareggiate. Le acque sovra-stanti la scarpata e la sua prosecuzionesono popolate da organismi pelagici, to-talmente diversi da quelli di piattafor-ma, i cui resti si mescolano a sedimentidifferenti da quelli della piattaforma; apartire dalla soglia, sul fondo del maresi trova la fascia di detriti che scendonolungo la scarpata (il cosiddetto “grem-

6 Conoscere il territorio

tività di particolari tipi di alghe e di fo-raminiferi (organismi monocellulari),che costituiscono la principale fonte delcarbonato di calcio (una parte minore èdi tipo puramente chimico). Lungo imargini di tali aree, invece, dove l’ener-gia delle acque (dovuta al moto ondosoe alle maree) e l’ossigenazione sonomolto più elevate, si formano classichescogliere coralligene, costruite dall’attivi-tà di organismi di vario tipo. Le IsoleBahamas, nell’Oceano Atlantico, al lar-go della Florida, costituiscono l’analogoattuale più noto. Per le piattaforme del-l’Appennino si parla perciò comune-mente di “modello bahamiano” (fig. 2).Di tutta la piattaforma, l’ambiente piùricco di vita, che lascia abbondanti restifossili, è la scogliera, più esattamentedenominata soglia della piattaforma; in

QUADERNI DEL MUSEO

Figura 2 - Ricostruzione schematica di un settore della piatta-forma carbonatica laziale abruzzese, al passaggio verso il bacinopelagico umbro-marchigiano. Sono stati rappresentati la soglia,al margine della laguna interna, e la scarpata, con il tipico “grem-biule”, formato dai detriti che scendono dall’orlo della piattaforma.

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7Conoscere il territorio

biule della soglia”) e, man mano che cisi allontana dalla scarpata, strati dimarne, argille, selce, arenaria varia-mente alternati. Come si può compren-dere, le rocce di un bacino si distinguo-no nettamente da quelle di una piatta-forma, sia per la loro natura, sia per ifossili che contengono, e possiamo cosìricostruire il mosaico di ambienti mari-ni che hanno dato origine, in milioni dianni, alle rocce dell’Appennino. Un’ul-tima informazione. Nel tempo, le piat-taforme carbonatiche registrano fedel-mente ogni oscillazione che il livello delmare subisce ciclicamente (con periodiche vanno dalle migliaia alle centinaiadi migliaia di anni) e lo fanno modifi-cando il loro sviluppo per adattarsi allenuove condizioni. In alcuni periodi il li-vello del mare si abbassa gradualmenteper migliaia di anni e finisce per arre-starsi a lungo in quello che viene chia-mato “stazionamento basso”: in tali con-dizioni, a ridosso della vecchia sogliarimasta emersa si forma una fascia di

brecce a grandi blocchi e di detriti de-posti in acqua lungo pendii a forte ac-clività. Nello stesso tempo, l’intera piat-taforma emersa è soggetta a fenomenicarsici e la sua superficie si ricopre dicavità (doline) e di solchi. Quando in-vece il livello del mare si solleva fino araggiunge il massimo del ciclo e vi ri-mane per lunghi periodi (“stazionamen-to alto”), si assiste ovviamente all’avan-zata generale del mare che sommergeabbondantemente la piattaforma. Comeconseguenza, gli organismi responsabi-li della sedimentazione carbonatica mi-grano per rimanere in acque basse (i co-ralli coloniali, per esempio, devono ri-manere a modeste profondità per so-pravvivere) e la fascia della soglia si ri-costituisce in una posizione diversadalla precedente: nuovi accumuli sedi-mentari carbonatici si diffondono sututta l’estensione della piattaforma.Come risultato, strato dopo strato lerocce delle antiche piattaforme carbo-natiche registrano, con il tipo e la distri-

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Figura 3 - (A) Un esempio della ricca associazione di organismi costruttori in una scogliera attuale.(B) Cespi di coralli fossili di una soglia di oltre 200 milioni di anni fa, affioranti nelle Alpi Calcaree Settentrionali.

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8 Conoscere il territorio QUADERNI DEL MUSEO

Figura 4 - Distribuzione dei resti della Piattaforma carbonatica laziale-abruzzese (e di un lembo dellapiattaforma della Maiella, del tutto simile) nell’Appennino centrale; sono stati messi in evidenza i trattidi soglia conservati. Nel processo di deformazione, il grosso «piastrone» di calcari si è lacerato innumerosi settori, spinti ad accavallarsi parzialmente uno sull’altro (come tegole di un tetto), fino a formare le lunghe dorsali montuose che oggi caratterizzano questa parte dell’Appennino.

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9Conoscere il territorio

buzione spaziale dei sedimenti, il conti-nuo “respiro” degli oceani, prodotto danumerosi fattori: alcuni di importanzalocale (sollevamenti e abbassamenti disettori della crosta terrestre), altri diportata planetaria (legati a cause astro-nomiche). Per approfondimenti su que-sti aspetti si rinvia all’articolo “Gli archi-vi dei mutamenti climatici e le cause dellevariazioni climatiche”, pubblicato nelloscorso numero di questa rivista e com-pletato in questo stesso numero.

La piattaforma carbonatica laziale-abruzzese

Come già accennato, nell’antico oceanoin cui si sono formate le rocce dell’Ap-pennino si sono sviluppate alcunegrandi piattaforme carbonatiche, sepa-rate da ampi bacini e bracci di mare.

Dopo circa 150 milioni di anni di lentacrescita, i movimenti della crosta feceromutare profondamente quella geogra-fia: interi settori del fondo oceanico furono deformati e mgrandi pacchi dirocce iniziarono a scivolare uno sull’al-tro, muovendosi da ovest verso est, fi-no a far emergere dal mare lunghe dor-sali, che finirono per costruire l’ossatu-ra della nostra penisola, mentre l’Ocea-no ligure-piemontese (dal quale si eranogià formate le Alpi) si estingueva.Nel corso di tali movimenti, durati mol-ti milioni di anni, ma non ancora deltutto esauriti, i rigidi e grossi “piastro-ni” delle piattaforme carbonatiche siframmentarono in blocchi che si accata-starono in modo complesso, coinvol-gendo nella deformazione anche le roc-ce dei bacini, meno resistenti. I resti diuna di quelle piattaforme, che i geologi

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Figura 5 - Stralcio stradale dell’area dell’itinerario. A Palestrina si può arrivare da S. Cesareo, che siraggiunge con la Via Prenestina o con l’Autostrada A1dir. È messo in evidenza il percorso da Pale-strina a Rocca di Cave; i numeri nei riquadri indicano la posizione dei punti di sosta previsti.

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10 Conoscere il territorio

hanno chiamato laziale-abruzzese, for-mano oggi gran parte dei rilievi mon-tuosi del Lazio centro-meridionale e delcontiguo Abruzzo. La figura 4 mostrauno schema geologico semplificato de-gli affioramenti della piattaforma e deibacini che la circondavano. Come si ve-de, la maggior parte dei rilievi è forma-ta da lembi della piattaforma interna, lalaguna, mentre i resti della fascia di so-glia, che si sono salvati dalle intense de-formazioni e dall’erosione, sono moltopochi e di modeste estensioni: uno diquesti affiora a Rocca di Cave. Quella èla meta del nostro itinerario.

L’ITINERARIO GUIDATO

Da Palestrina a Rocca di CaveL’itinerario inizia da Palestrina, adagia-ta sullo sperone SW dei Monti Prenesti-ni, là dove l’ampio mantello di tufi chericopre gran parte della Campagna Ro-mana si arresta contro i primi contraf-forti dell’Appennino (fig. 5).Palestrina (l’antichissima Preneste, fon-data, secondo Tito Livio, da Telegono,figlio di Ulisse e di Circe) si può rag-giungere da Roma seguendo la Via Pre-nestina Nuova, che ricalca in genere ilpercorso dell’antica via romana (il lun-go rettifilo alberato finale è fiancheggia-to dal basolato originale, in blocchi dilava leucititica del Vulcano laziale, qua-si intatto per lunghi tratti). Meno pitto-resco, ma con migliore sede stradale è ilpercorso lungo la Via Casilina, fino po-co oltre S. Cesareo, e poi lungo la S.S.n°155 di Fiuggi; si può anche raggiun-gere S. Cesareo con l’autostrada Roma-Napoli, uscendo al casello omonimo eproseguendo poi lungo la S.S. n°155.

Entrati in Palestrina, si prosegua amonte della città lungo la carrozzabileche sale a Castel S. Pietro Romano (S.P.58/a Palestrina-Capranica); se non si èinteressati alla visita di Palestrina, unavolta risalito il Viale Pio XII (che dallaS.S. n°155 sale in città) conviene girarea sinistra (in Via A. De Gasperi), se-guendo i segnali per Capranica e CastelSan Pietro Romano, lungo la circonval-lazione che raggiunge la SP 58/a subitoa monte di Palestrina, presso la Porta S.Francesco.

Sosta 1. Sedimenti deposti nel mareche, tra 65 e 12 Ma (milioni di anni) fa,ricopriva le pendici occidentali del-l’antica scogliera di Rocca di Cave,emersa con tutta la piattaforma già al-la fine dell’Era mesozoica, prima delladeformazione.

Lungo tutta la salita per Castel San Pie-tro (ma già qua e là all’interno di Pale-strina) affiorano terreni di età compresatra 65 e 12 Ma fa (Eocene-Miocene me-dio), depostisi ai margini di un bacinomarino che si approfondiva verso oveste verso nord lungo una scarpata a mo-desta pendenza. Alla fine del periodoCretaceo, infatti, l’intera piattaforma la-ziale-abruzzese era emersa e sottopostaa erosione, anche carsica. Il bacino pela-gico che la circondava verso ovest everso nord, i cui resti formano oggi l’os-satura del settore sabino-umbro-mar-chigiano, era invece ancora attivo e inesso si raccoglievano abbondanti sedi-menti marnosi, calcarei e selciferi. Lun-go la scarpata che scendeva dal bordodella piattaforma emersa rotolavanospesso detriti prodotti dall’erosione del-la costa. Come è mostrato dalla fig. 6,

QUADERNI DEL MUSEO

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Figura 6 - Evoluzione geografica del settore di passaggio tra Piattaforma laziale-abruzzese e Bacinoumbro-sabino nel corso dell’Era Cenozoica, ricostruita in tre intervalli di tempo successivi (in alto ilpiù antico). Il mare ha invaso progressivamente la scarpata, accumulando via via grossi spessori disedimenti. Legenda: a) calcari della piattaforma, emersa; b) sedimenti deposti sul fondo del bacino,calcarei, marnosi e selciferi; c) marne alternate a livelli di brecce formate dall’erosione della costa erotolate lungo la scarpata. La freccia con la scritta “peliti” (cioè argille compattate) indica un apportodi materiali detritici fini prodotti dall’erosione di terre emerse lontane. (da Civitelli et al., 1986)

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nacemente cementate, che con-tengono abbondanti resti fossi-li, tra cui gusci di nummuliti(fig. 7). Molto interessante lapresenza di clasti (frammenti)di calcari di piattaforma carbo-natica, di età cretacea: l’areaemersa dal cui smantellamentoprovenivano i clasti delle brecceera il margine della piattaformacarbonatica, localizzabile neirilievi su cui sorge il paese diRocca di Cave, visibile da que-sto punto di sosta direttamenteverso E.

Si riprenda il percorso: inbreve, oltrepassato il trattoorientale delle mura megali-

tiche, la strada comincia ad attraversa-re una continua alternanza di marne ecalcari, che continuerà fino a CapranicaPrenestina.Giunti al bivio per Castel S. Pietro (a si-nistra) vale la pena di fare una brevedeviazione per raggiungere (comoda-mente in macchina) il belvedere in cimaal paese, che offre una splendida vistapanoramica su Roma e l’intero com-plesso vulcanico dei Colli Albani.Tornati sulla strada per Capranica, l’iti-nerario si snoda per alcuni kilometrisempre all’interno della stessa alternan-za di calcari e marne, in quanto gli stra-ti, che, salendo da Palestrina, mostrava-no una modesta pendenza verso W, di-ventano gradualmente quasi orizzonta-li. In pratica, stiamo attraversando inquesto tratto l’ampia sommità appenaarcuata di una piega anticlinale ad assecirca N-S (fig. 8).Il paesaggio merita attenzione; la stradacorre quasi alla sommità di modesti ri-

12 Conoscere il territorio

nel tempo il livello del mare riprese asalire (il fenomeno si chiama ingressionemarina), sommergendo via via nuoveparti della scarpata e finì per raggiun-gere, come vedremo, anche il rilievo diRocca di Cave.Superato il tornante poco fuori Palestri-na, si continui a salire fino a raggiun-gere i resti del tratto occidentale dellemura megalitiche (che partivano dal-l’acropoli, sul colle dove ora sorge Ca-stel S. Pietro, e scendevano fino al pianoper circondare l’antica Preneste) e ci sifermi circa 200 m più avanti (piccoloslargo).

Tornando indietro a piedi lungo il taglio amonte della strada, si riconoscono facilmen-te le litologie che caratterizzano questa par-te della successione, di età compresa tral’Eocene superiore e l’Oligocene; ai calcarimarnosi e marne, che rappresentano la sedi-mentazione “locale”, in un mare aperto, sialternano grossi strati di brecce calcaree te-

QUADERNI DEL MUSEO

Figura 7 - Calcare con nummuliti, protozoi foraminiferi con guscio calcareo fatto a disco, qui sezionati per mostrare lastruttura interna del guscio, formato dall’accrescersi di nume-rose camerette lungo una spirale. Il diametro di questi forami-niferi “giganti” (detti per questo macroforaminiferi) è di circa un centimetro.

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13Conoscere il territorio

lievi, con forme dolci, che contrastanocon il rilievo di Rocca di Cave (visibileavanti a noi verso destra) e con quellialla sommità della dorsale prenestina(davanti a noi verso sinistra), che in di-rezione nord confluisce nei Monti Ti-burtini. Questi diversi aspetti dellamorfologia sono il risultato dell’erosio-ne differenziale, cioè della diversa resi-stenza delle rocce all’erosione naturale,che in queste zone è dovuta in granparte alle acque di scorrimento. Le mar-ne, infatti, sono poco permeabili e l’ac-qua di pioggia scorre su di esse eroden-dole, mentre i calcari dei rilievi di Roc-ca di Cave e dei Prenestini sono note-volmente carsificati, proprio per la loronatura, e le acque vi penetrano facil-mente e scendono in profondità. Un’ul-tima osservazione. Dopo alcuni kilome-tri la strada corre per un centinaio dimetri su una stretta sella; siamo su uno

spartiacque di una certa importanza: leacque di pioggia che alimentano la val-le a destra (sud) raggiungono il fiumeSacco e, percorrendo la Valle Latina,raggiungono il Fiume Liri, per arrivarepoi al Garigliano e, finalmente, al mare.Le acque che cadono a sinistra dellastrada, invece, vengono convogliate ra-pidamente nell’Aniene e, attraverso ilTevere, raggiungono presto il mare.

Sosta 2. I sedimenti della scarpatasabina: le “Marne di Guadagnolo”.

Numerosi buoni affioramenti consento-no ripetute osservazioni (per es., pressole piazzole di sosta al km 6,400); si con-siglia comunque una sosta lungo il ra-mo superiore del tornante in prossimitàdel km 6,800 lungo lo scasso stradaleappena oltrepassato l’ingresso alla Fat-toria “Le Cannucceta”.

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Figura 8 - Sezione geologica attraverso i rilievi tra Castel S. Pietro e Rocca di Cave. La struttura èdeformata in ampie pieghe, con la curvatura verso l’alto (piega anticlinale) o verso il basso (piegasinclinale), a causa di forze che hanno compresso gli strati, spingendoli da Ovest verso Est. Le lineeche tagliano gli strati sono faglie, cioè lacerazioni lungo le quali le rocce si sono mosse come indi-cato dalle piccole frecce.Legenda: 1) terreni più giovani del Miocene; 2) Formazione di Guadagnolo; 3) marne e brecce a ma-croforaminiferi (nummuliti); 4) depositi del bacino pelagico: calcari, marne e selci; 5) soglia più gio-vane (età: Turoniano-Senoniano) della piattaforma carbonatica laziale-abruzzese; 6) soglia più antica(età: Cenomaniano) della stessa piattaforma; 7) calcari della piattaforma del Cretaceo inferiore (a, la-guna; b, soglia, spostata più a Ovest rispetto alle soglie successive). I numeri nei cerchietti indicanoi punti di sosta previsti nell’itinerario.

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14 Conoscere il territorio

Le rocce che ci troviamo di fronte sono piùgiovani di quelle osservate presso Castel S.Pietro, ma continuano a testimoniare lostesso tipo di ambiente, una scarpata chescendeva in mare aperto. Esse differisconoda quelle sottostanti per l’abbondanza dellemarne (rocce che derivano da un miscugliodi argilla e calcare), alle quali continuanoa intercalarsi strati di calcari detritici, cioèformati da clasti di calcari di varie dimen-sioni (da millimetriche a centimetriche).Questi sedimenti detritici che si sono in-tercalati alle marne provenivano, anche inquesto caso, dal margine della piattaformacarbonatica già da tempo emersa (si rivedala figura 6), che scivolavano lungo il pen-dio della scarpata.Sui rilievi di Rocca di Cave (visibili oraverso SE) le Marne di Guadagnolo, co-me sono state denominate, poggiano diret-tamente sui calcari cretacici della piattafor-ma carbonatica e hanno solo pochi metri dispessore (come vedremo direttamente nellasosta 5); nell’area in cui ci troviamo il lorospessore è già di alcune centinaia di metri eva aumentando verso N, dove le marne af-fiorano ampiamente nei Monti Tiburtini eSabini, con molte centinaia di metri dispessore. Da Rocca di Cave alla Sabina èquindi possibile ricostruire la geometriadell’antica scarpata sottomarina di raccor-do tra piattaforma carbonatica e bacino,lungo la quale i sedimenti si accumulava-no con spessori crescenti dalla costa versola base del pendio. Ancora più a N, nel rea-tino, gli arrivi di calcari detritici si fannosempre più rari e gli spessori si riduconodrasticamente, fino a scomparire, e riman-gono solo le marne a testimoniare la storiadel bacino.Nel punto di sosta si può osservare un bre-ve tratto della successione di marne e cal-cari. Le marne appaiono in grossi strati di

colore grigio ceruleo (giallastro per altera-zione in superficie o lungo fratture); i cal-cari detritici sono in banchi di colore chiaroe vi si riconoscono (meglio se ci si aiutacon una lente) numerosi frammenti di fos-sili marini.

L’itinerario prosegue entro le Marne diGuadagnolo fino a Capranica. Intornoal km 9 gli strati sono ormai orizzontali,mentre dal km 10 le intercalazioni dicalcari detritici si fanno via via più frequenti e di spessore maggiore; il paesaggio di conseguenza comincia acambiare: i versanti si fanno più ripidie compaiono i segni dell’erosione carsi-ca (doline), tipici dei calcari. Verso de-stra si profila Rocca di Cave, prossimasosta.Un suggerimento: se ne avrete l’occa-sione, fate questo percorso nella tardaprimavera e potrete godere la fiorituradelle ginestre, che rivestono tutti i rilie-vi tra Castel S. Pietro e Capranica di uncontinuo mantello giallo dorato.All’ingresso di Capranica (915 m s.l.m.;km 12 da Palestrina) si prenda (a de-stra) la S.P. 17d Capranica-Rocca di Ca-ve (segnale «Itinerario panoramico»).Ben presto si scorge, verso Sud, allasommità di un piccolo rilievo, il paesedi Rocca di Cave e l’imponente fortez-za con l’alto mastio, alla cui sommitàbrilla la cupola dell’osservatorio astro-nomico che completa il Museo. Dopocirca 2 km, all’altezza delle prime casedi Rocca di Cave (che si scorgono in al-to, alla sommità della ripida parete chefiancheggia la strada), si apre a sinistrauno slargo da cui parte una strada bian-ca in leggera discesa (Via di Colle Poz-zo): è questa la località suggerita per laprossima sosta.

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Figura 9 - Principali macrofossili nei calcari della soglia cenomaniana. a: Coralli (Celenterati); a) co-ralli coloniali.; b-c: Gasteropodi; b) Plesioptygmatis nobilis; c) Trochactaeon obtusus; d-f: Capri-nidi; d) forma generale delle caprinidi: Caprina adversa; e) Caprina carinata; f) Neocaprina gigantea;g-h: Radiolitidi; g) forma generale delle radiolitidi: Radiolites angeiodes; h) Sauvagesia nicaisei;i-l: Ammoniti (Cefalopodi); i) Desmoceras latidorsatum. l) Turrilites costatus. (Nelle figure e, f, h:sezioni trasversali del guscio; in e, f il nero indica cavità; i, l: nel rettangolo grigio il disegno della linea di sutura tra le camere. Disegni: a: M.P.; b-h: Simona Carosi).

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Le soglie cretaciche e la trasgressione miocenica di Rocca di Cave.

I rilievi di Rocca di Cave sono di gran-de interesse geologico come una dellepochissime località in cui affiorano i re-sti della soglia occidentale della Piatta-forma carbonatica laziale-abruzzese,cioè della fascia di raccordo tra l’area dilaguna (le cui rocce affiorano oggi neiMonti Simbruini ed Ernici) e la scarpatadi transizione al mare aperto, cioè versoun bacino pelagico (i cui depositi affio-rano nei Monti Prenestini, Tiburtini eSabini). I resti dell’antica soglia sonomolto più antichi delle rocce finora at-traversate dal nostro itinerario: abbia-mo fatto un salto indietro nel tempo fi-no a oltre 100 Ma fa e le rocce che abbia-mo davanti risalgono al periodo Creta-ceo, quando sulle terre emerse viveva-no ancora i grandi dinosauri.In realtà il tratto di soglia affiorante aRocca di Cave è formato da due settoridi età diversa. Negli affioramenti dellaparte centrale e occidentale del rilievosu cui sorge il paese la sedimentazionedella soglia si riferisce al Cenomaniano(da 100 a 90 Ma fa); in quelli a SE, lungola sommità di Colle del Pero, la succes-sione carbonatica arriva, invece, al Tu-roniano-Senoniano (da 90 a 70 Ma fa)(si riveda la figura 8). In ogni caso l’in-tera area è emersa verso la fine del Cre-taceo e mostra gli effetti di un’anticaerosione carsica, con formazione di ta-sche e cavità verticali che sono state col-mate da fanghi calcarei finissimi duran-te un breve ritorno del mare; la succes-siva – e definitiva – emersione della so-glia e dell’intera piattaforma carbonati-ca è durata fino all’inizio del Miocene

(circa 20 Ma fa), quando si è verificatauna nuova generale ingressione mari-na, le cui testimonianze esamineremonella sosta 5).

Sosta 3. La soglia cenomaniana (da100 a 90 Ma fa).

La parete rocciosa che delimita lo slar-go e, più ancora, quella che fiancheggiail sentiero che corre qualche metro amonte della strada bianca (e che si puòseguire per oltre un centinaio di metri,fino a un depuratore abbandonato) rap-presentano uno spettacolare taglio nelcuore dell’antica “scogliera”.

I calcari bioclastici (cioè formati di fram-menti di gusci di varie dimensioni) si alter-nano a veri banchi organogeni formati daorganismi costruttori, spesso conservati in-teri e ancora nella posizione che avevano davivi; sono rocce ricchissime di fossili, tra iquali prevalgono le rudiste (con le Fami-glie Caprinidi e Radiolitidi), in associa-zione con gasteropodi (Famiglie Nerineidie Acteonidi), esacoralli, idrozoi e fram-menti di echinidi (fig. 9).Molto frequenti sono le nerinee, elegantigasteropodi con una spira allungata, chepuò raggiungere i 10 cm e oltre di lunghez-za; spettacolari sono le forme di coralli co-loniali, più rari, ritrovati anche in cespi dialcuni dm. I fossili più diffusi sono, però, lerudiste, bivalvi adattati alla vita di scoglie-ra, con gusci di grosso spessore e una valvadi forma conica, mentre l’altra, più piccola,funziona come un “coperchio” del cono (siveda la Tavola 1, a pag. 24).Di particolare interesse la presenza di restidi ammoniti, trovati poco a Est di Roccadi Cave, segnalati da G. Accordi, G. Bonin-segni e G. Pallini (2001) e raccolti in segui-

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to anche da ricercatori che operano presso ilMuseo geopaleontologico (si riveda la fi-gura 9, i-l). Questi ben noti cefalopodi dal-la conchiglia a spirale (simile al guscio delNautilus, che vive oggi nel Pacifico) sonoqui piuttosto rari e di piccola taglia (qual-che cm), e comprendono sia forme con la ti-pica spirale piana (come il Desmoceras),sia forme con spirale molto allungata (comeil Turrilites), tanto da assomigliare ai ga-steropodi a forma di cono: a differenza diquesti ultimi, però, la loro cavità interna èsuddivisa in numerose camere per mezzo disottili setti, ancorati alla parete del gusciolungo tipiche linee di sutura.(1)

Le ammoniti erano abili nuotatrici e vive-vano in mare aperto: in molte rocce dellaSabina e dell’Umbria, depostesi nell’am-biente di scarpata-bacino che circondava lapiattaforma carbonatica, se ne trovano inabbondanza. Le onde e le correnti potevanoperò facilmente trasportare le loro leggereconchiglie e spingerle ad arenarsi su spiag-

ge o bassi fondali: così è stato per le ammo-niti di Rocca di Cave, i cui resti si sono intal modo mescolati a quelli della scogliera.Una prova della vicinanza del braccio dimare che lambiva la soglia della piatta-forma (fig. 10).I banchi organogeni sono qua e là attraver-sati verticalmente da filoni, larghi da qual-che cm a pochi dm e ramificati, formati dicalcari finissimi, in genere di colore bianco-rosato: sono riempimenti di fessure da par-te di fanghi calcarei, probabilmente legatialle prime fasi di emersione di questa sco-gliera.Nella figura 9 sono raffigurate alcune delleforme più comuni o più significative, maper meglio conoscere (e poi riconoscere sulterreno) quegli organismi conviene esami-nare le splendide collezioni di fossili dellascogliera cenomaniana raccolti nel Museogeopaleontologico di Rocca di Cave, dove,inoltre, un diorama riproduce al naturaleun piccolo tratto della scogliera.Una raccomandazione. I fossili che l’erosio-ne, operando in tempi lunghissimi, ha mes-so in luce sono preziose testimonianze, og-getto di studi specifici, e meritano di essere

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–––––––––(1) Forme con spirale allungata o addirittura in parte svolta compaiono solo nella fase finaledella lunghissima evoluzione delle ammoniti,poco prima della loro estinzione.

Figura 10 - Profilo ecologico attraverso la scogliera cenomaniana. (Da G. Accordi, G. Boninsegni e G. Pallini, 2001). Legenda: 1 Ammoniti. 2 Coralli laminari. 3 Coralli ramificati. 4 Coralli massivi.5 Radiolitidi. 6 Caprinidi. 7 Gasteropodi. 8 Echinidi. 9 Foraminiferi bentonici. 10 Foraminiferi plan-ctonici. 11 Alghe calcaree.

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conservati. Si eviti perciò di tentare di pre-levarli, sia perché l’operazione finirebbe perdistruggerli, sia perché è possibile racco-gliere splendidi e numerosi esemplari neldetrito lungo la strada bianca e nell’areadel depuratore.

Continuiamo a seguire nel tempo lastoria della soglia e passiamo al settorein cui affiora un tratto di soglia più giovane di quella appena vista. Tornatisulla strada per Rocca di Cave, si per-corra l’ampia curva a destra e, dopo cir-ca 300 m, prima di entrare nel paese, sigiri a sinistra in Via di Genazzano e siprosegua per qualche centinaio di me-tri. Poco dopo il campo sportivo si in-contra, sulla sinistra, una carrareccia,che sale a tornanti in direzione dell’altoserbatoio dell’acqua, ben visibile sullasommità di Colle del Pero.

Sosta 4. La soglia turoniano-seno-niana (da 90 a 70 Ma fa).

Parcheggiata l’auto, si risalga la car-rareccia fino al serbatoio, ai piedi delquale si trovano diversi affioramenti dicalcari stratificati che permettono unosguardo su una scogliera di età più gio-vane della precedente. Quando era atti-va, questa soglia passava (in direzionedell’attuale Est) a un braccio di mare unpo’ più profondo, delimitato a sua vol-ta, ancora più a oriente, da una linea disecche che orlavano la grande distesalagunare della piattaforma carbonatica(i depositi di secca affiorano sulle pen-dici del M. Scalambra, chiaramente ri-conoscibile dal punto di sosta) (fig. 11).

La soglia turoniano-senoniana è ricchissi-ma di resti fossili, simili come tipi a quelli

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Figura 11 - Ricostruzione schematica dell’ambiente della soglia turoniana lungo una sezione cheparte dalla scarpata (verso Ovest, dove oggi è Castel S. Pietro), passa attraverso la soglia (Rocca diCave) e raggiunge, al di là di un braccio di mare poco profondo, la piattaforma interna (verso Est,dove oggi è il Monte Scalambra).Legenda: 1) calcari di laguna; 2) calcari di piattaforma in prossimità della soglia; 3) calcari bioco-struiti della soglia; 4) calcari detritici derivati dallo smantellamento erosivo della soglia; 5) detriti cal-carei grossolani che scivolano in canali lungo la scarpata; 6) calcari formati ai piedi della scarpatadall’accumulo di 5; 7) calcari fini e marne dell’ambiente pelagico; 8) strutture superficiali dovute aerosione carsica in zone emerse; 9) nerineidi; 10) coralli massivi; 11) coralli ramificati; 12) caprinidi,13) ippuritidi.

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della soglia cenomaniana, ma con generi especie diverse. Le rudiste sono largamentediffuse, non solo con altre specie della Fa-miglia Radiolitidi, ma anche con formedella famiglia Ippuritidi, accompagnate dacoralli anche in forme isolate e da diversespecie di gasteropodi (fig. 12).

Questa sosta è anche un bellissimopunto panoramico e offre la possibilitàdi localizzare la nostra posizione nello

spazio geografico e nella realtà geolo-gica, poiché le varie soste effettuate cihanno aperto delle «finestre» su tempidiversi. Portiamoci perciò nel punto piùalto e aperto, per avere libero l’interoorizzonte. Il Nord ci è indicato, conbuona approssimazione, da CapranicaPrenestina.Immaginiamo di essere nel periodoCretaceo: sotto i nostri piedi abbiamo lasoglia della piattaforma laziale-abruz-

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Figura 12 - Principali macrofossili nei calcari della soglia turoniano-senoniana. a-b: Radiolitidi; a)associazione a radiolitidi; b) Distefanella salmojraghi; c-e: Ippuritidi; c) forma generale delle ippuri-tidi: Ippurites radiosus; d) Vaccinites narentanus; e) a sinistra: ippuritidi in posizione di vita; a destra:accumulo di gusci di ippuritidi frammentati da tempeste; f: Celenterati; f) coralli isolati: Aulosmilia cuneiformis. (Nelle figure b, d: sezioni trasversali del guscio. Disegni: a: Goffredo Mariotti; b-d, f: Simona Carosi; e: AGIP).

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zese; verso Est, al di là di alcuni mode-sti rilievi sulla cui sommità si ricono-scono i paesi di Bellegra e di OlevanoRomano, si inseguono su più quinte ledorsali dell’Appennino centrale, daquella dei Simbruini, la più vicina, aquella del Monte Velino, la più lontana.Sono essenzialmente rilievi calcarei ecorrispondono ai frammenti della vastalaguna interna dell’antica piattaforma.Altri rilievi analoghi si susseguono ver-so Sud-Est, con i Monti Ernici, e, al di làdella depressione della Valle Latina, an-che verso Sud, con i Monti Lepini. Anche questi rilievi appartengono adorsali calcaree e sono resti della lagu-na interna; solo l’estremità più vicinadei Monti Lepini conserva, presso ilpaese di Cori, un altro lembo di sogliacenomaniana, prosecuzione di quelloche abbiamo visitato. Siamo, quindi, sul margine occidentaledella piattaforma; per poter trovare i resti del margine orientale della piatta-forma, al di là della laguna, bisogna ar-rivare almeno in Marsica e la distesa di rilievi che scorgiamo ci da un’ideadella vastità della parte interna dellapiattaforma carbonatica (si riveda la figura 4).Se ora volgiamo le spalle alla laguna eguardiamo verso Ovest, dobbiamo im-maginare che in quella direzione siaprisse il bacino pelagico che circonda-va la piattaforma. In realtà i resti del bacino sono stati rintracciati, ma sonoin profondità, sepolti sotto la PianuraPontina e la Campagna Romana: glistessi movimenti che hanno dato formaall’Appennino hanno anche fatto suc-cessivamente sprofondare il margineoccidentale della catena appena emer-sa, che è stata quindi prima invasa dal

mare e sepolta da nuovi sedimenti, epoi ricoperta anche dai prodotti delgrande Vulcano Laziale (di cui vediamoi resti nei Colli Albani). Come già ricordato, resti del bacino pe-lagico affiorano invece nei Monti Tibur-tini, in Sabina e, in piccola parte, neiMonti Prenestini. Sono le rocce che abbiamo attraversatolungo il percorso tra Palestrina e Roccadi Cave, ma rappresentano solo la partepiù giovane della storia del bacino,quella del tempo in cui la catena ap-penninica non si era ancora sollevata,ma la piattaforma laziale-abruzzese era già emersa e il mare ne lambiva i mar-gini, nel corso di un lungo periodo distazionamento basso (si ricordino le soste 1 e 2).In seguito, lentamente, il livello di quelmare riprese a salire e le acque avanza-rono lungo la scarpata (si riveda la figu-ra 6), finché ricoprirono i resti della vec-chia soglia. Quando i movimenti della crosta defor-marono le rocce della piattaforma e delcontiguo bacino e fecero emergere defi-nitivamente il settore dell’Appenninoin cui ci troviamo, i resti della soglia ce-nomaniana erano coperti da sedimenticalcarei in grossi strati, ricchi di fossilimarini del periodo Miocenico, quindimolto più giovani della soglia. La de-molizione dei rilievi appenninici negliultimi milioni di anni ha eliminatogrossi spessori delle rocce affioranti, maquesta parte della storia è ben conser-vata proprio nel piccolo rilievo su cuisorge Rocca di Cave.La parte inferiore del rilievo, come sipuò vedere lungo il suo versante set-tentrionale, è formata dai calcari dellasoglia cenomaniana; la sommità del ri-

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lievo è formata, invece, da un grossospessore di strati calcarei di età mioce-nica media, sui quali è stata costruita la rocca che ospita il Museo geopaleon-tolgico. Non solo: lungo il versante occidentaledello stesso rilievo l’erosione ha messoin luce una piccola area in cui è possibi-le osservare il «momento» in cui il ma-re, nella sua avanzata, è tornato a som-mergere la soglia cenomaniana. Vale la

pena di «leggere» quella documenta-zione: lo faremo nella sosta 5.Prima di lasciare questa zona per passa-re alla sosta successiva, è possibile, perchi lo desideri, osservare un altro affio-ramento della soglia turoniana, ricchis-simo di fossili, che si trova lungo il ver-sante occidentale di Colle del Pero. Sce-si di nuovo sulla Via di Genazzano, sicontinui a seguire questa strada perqualche centinaio di metri, fino a uno

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Figura 13 - Affioramento della trasgressione dei terreni miocenici sui calcari cretacei a rudiste, lungola strada tra Rocca di Cave e Cave, poco a SE del cimitero. Sopra: sezione geologica dell’affiora-mento descritto nell’itinerario (da Maxia, 1956); sotto: dettaglio del tratto compreso tra i livelli I e VI(nel riquadro messo in evidenza in grigio).

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slargo che consente un facile parcheg-gio. Si prosegua poi, a piedi, lungo lamulattiera che si dirama a sinistra e cheè segnalata all’inizio come “strada per ifossili” (è il percorso normalmente ef-fettuato come itinerario guidato per ivisitatori del Museo geopaleontologicoche lo richiedano). Dopo qualche affioramento isolato dicalcari ricchi di gasteropodi (acteonidi),si arriva ben presto a un affioramentocontinuo (sulla sinistra della strada, ilcui fondo diventa cementato) di calcariin banchi, con rudiste, coralli e abbon-danti resti di molti altri organismi, chesi possono seguire senza interruzioniper molte decine di metri.Al termine della osservazioni si tornisulla Via di Genazzano e si risalga aRocca di Cave; giunti all’ingresso delpaese, si prosegua in direzione di Cave,seguendo la S.P. 52b (Cave-Rocca di Ca-ve; prosegue il segnale «Itinerario pa-noramico»), fino a raggiungere il tor-nante del cimitero (dove vi è ampiospazio per parcheggiare). Si prosegua,scendendo a piedi, lungo il tratto distrada rettilineo direttamente per circa200 m, fino in prossimità della curva;da qui si torni indietro per le osserva-zioni.

Sosta 5. La «trasgressione mioce-nica» e la «lacuna paleogenica».

Il taglio a lato della strada mette in lucecon ricchezza di dettagli la breve suc-cessione di terreni che, nel Miocene in-feriore, ha segnato il ritorno del maresu un settore rimasto a lungo emerso.(Il fenomeno di avanzata del mare sullaterraferma prende il nome di trasgres-

sione (o anche ingressione), mentre lamancanza di rocce che corrispondano aun periodo di tempo di oltre 40 Ma è in-dicata come «lacuna paleogenica», inquanto Paleogene è il nome del periodogeologico non “documentato”).

Risaliamo lentamente la strada in direzio-ne del cimitero, lungo il lato a monte dellastrada, osservando con attenzione le rocceche vi affiorano, con l’aiuto dello schema di fig. 13.I terreni che compaiono nella prima partedel tratto in esame sono banchi di calcariricchi di fossili come quelli visti nella sosta3: rappresentano la prosecuzione della so-glia cenomaniana. I banchi si immergono verso Nord, cioè indirezione del cimitero, e sono bruscamentericoperti da un banco di circa 2 m di spes-sore di conglomerato, una roccia formata daciottoli di varie dimensioni e di diversa na-tura, a sua volta seguito da un’alternanzadi sottili strati marnosi e calcareo-detritici,con vari altri livelli di conglomerati. I terreni emergono in modo discontinuo,perché sono ricoperti da una coltre di detri-to di falda, la cui presenza mette in eviden-za la facile erodibilità di questi tipi di roccenei confronti dei calcari. L’alternanza di terreni affiora per almenouna ventina di metri, sempre con immer-sione regolare verso Nord, per passare poi,in prossimità del cimitero, a una succes-sione di marne alternate a calcari detriticiidentica a quella che abbiamo già conosciu-to come Marne di Guadagnolo nella so-sta 2. Se si prosegue il percorso verso Nord, oltreil cimitero, si vede che i calcari si fanno viavia più frequenti, come avevamo osservatoproseguendo oltre la sosta 2, in direzione diCapranica.

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Ma torniamo ai terreni che segnano l’arri-vo del mare sull’antica soglia emersa. Unodei primi livelli marnosi è ricco di resti dispugne silicee marine, di minuscole dimen-sioni, ma molti altri resti di organismi ma-rini sono ampiamente diffusi: sono soprat-tutto gusci microscopici di foraminiferi, chehanno permesso di individuare l’età dellerocce che li contengono. Di particolare in-teresse la presenza, nei livelli iniziali dellatrasgressione, di abbondanti granuli di co-lore verde scuro di glauconite (silicatoidrato di ferro e potassio), di dimensionemillimetrica, ma non di rado centimetrica.La datazione radiometrica di questo mine-rale (con il metodo Potassio-Argo) ha forni-to un’età di 21±1 Ma (Discendenti et al.,1971), in buon accordo con i dati paleonto-logici, che riferiscono l’arrivo della tra-sgressione nell’area di Rocca di Cave alMiocene inferiore.

Mancano perciò completamente, nella suc-cessione che stiamo esaminando, terreni re-lativi a gran parte del Cretaceo superiore(successivi al Cenomaniano) e al Paleoge-ne, che abbiamo invece incontrato nei rilie-vi di Palestrina-Castel S. Pietro (visibili indirezione NW, dove abbiamo effettuato lasosta 1); ci troviamo perciò su un settoreche è rimasto emerso più a lungo di altri eche solo nel Miocene inferiore è stato dinuovo raggiunto e sommerso dal mare.Concludiamo la sosta tornando a scenderelungo la strada fino al successivo tornante,in modo da avere una vista d’insieme del rilievo del cimitero, come nella fig. 14. Daquesta posizione si può cogliere l’andamen-to complessivo della superficie di trasgres-sione (che scende dolcemente verso Nord) eil progressivo aumento di spessore dei ter-reni miocenici, da Rocca di Cave andandoverso Nord: nello stesso senso andava au-

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Figura 14 - Panorama del rilievo del cimitero di Rocca di Cave. Si osserva chiaramente l’aumento dispessore dei terreni miocenici in direzione Nord (messi in evidenza in grigio), verso il mare aperto.

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STRUTTURA GENERALE DELLE RUDISTE

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25Conoscere il territorio

mentando, a suo tempo, la profondità delmare da cui emergeva l’antica scogliera cenomaniana.

Il nostro itinerario finisce qui, ma pos-siamo aggiungere ancora qualche rifles-sione. I fossili che ci hanno permesso diriconoscere antiche soglie di piattafor-me carbonatiche ci dicono anche che ta-li strutture si sono formate in un maretropicale: ma oggi siamo molto a Norddella fascia dei tropici. Come si spiega? La soluzione è semplice, ma il processoche essa implica è di portata planetaria.Le rocce di Rocca di Cave si sono for-mate effettivamente nella fascia tropica-le, ma in seguito sono state trasportatenella loro posizione attuale. Del tutto ana-loghe erano le prove paleontologicheche, circa un secolo fa, suggerirono adAlfred Wegener la Teoria della deriva deicontinenti. Oggi quella splendida intuizione di unaTerra mobile è al centro di una teoriaglobale, confortata da numerose provegeologiche e geofisiche, ma il punto dipartenza può essere ancora in osserva-zioni di terreno come quelle che abbia-

mo fatto lungo in nostro itinerario. E allora, proviamo a immaginare laPiattaforma laziale-abruzzese nell’Eramesozoica: siamo al largo di un pic-colo continente che i geologi chiama-no Adria, posto a quel tempo poco a Nord dell’Africa, nelle acque dell’anti-co Oceano ligure-piemontese, al di làdel quale, lungo le rive del continenteEuropa, si andavano formando altrepiattaforme, destinate a fornire mate-riale per la costruzione delle Alpi…

Riferimenti bibliografici

Civitelli G., Corda L. e Mariotti G., 1986 - Il ba-cino Sabino: 2 (sedimentologia e stratigrafiadella serie calcarea e marnoso-spongolitica(Paleogene-Miocene), Mem. Soc. Geol. It., 35,pp. 33-47.

Cosentino D., Parotto M. e Praturlon A. (co-ord.) - Lazio, 14 itinerari. Collana Guide Geo-logiche Regionali, Società Geologica Italiana, Be-Ma editrice, Milano, 1998.

Accordi G., Boninsegni G. e Pallini G., 2002 -Middle Cenomanian (Rhotomagense Zone,costatus Subzone) ammonite assemblagesfrom the carbonate shelf edge of Rocca diCave (Prenestini Mts., Central Apennines,Italy). Geologica Romana, 36, pp. 251-257.

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Quando il Gondwana “accelerò”

Il Gondwana era l’insieme delle massecontinentali che costituiva la metà me-ridionale della Pangea, il superconti-nente formatosi nell’Era paleozoica checomprendeva tutte le terre emerse e chedurò fino al Giurassico inferiore, quan-do iniziò la sua frammentazione. DalGondwana si formarono gli attuali con-tinenti dell’emisfero meridionale: Suda-merica, Africa, Antartide, Australia, aiquali si deve aggiungere l’India, all’ini-zio “incastrata” tra Africa e Antartide.Secondo una recente ricerca effettua-ta da un team di geologi dell’uni-versità di Yale e pubblicata sulla ri-vista Geology, il Gondwana avrebbesubìto una rotazione molto velocedi 60 gradi durante il Cambrianoinferiore (tra circa 530 e 525 milionidi anni) (fig. 1). Il team di ricercatori,guidati da Ross Mitchell, ha analizzatol’antica magnetizzazione delle roccedel bacino di Amadeus, in Australiacentrale, e in questo modo è possibilerisalire allo spostamento delle massecontinentali rispetto ai poli magnetici. È stato calcolato che alcune regioni raggiunsero velocità di almeno 16-20

Quando il Gondwana accelerò. Meteoriti, glaciazioni ed estinzioni.

«Giganti» australiani. La «dieta» delle ammoniti. Un «altro» essere umano. Fuliggine mortale

a cura di Francesco Grossi e Chiara Amadori

Figura 1 - Lo spostamento di alcune parti del supercontinente Gondwana rispetto

al Polo Sud (immagine: Ross Mitchell, Università di Yale); la stella indica il bacino

di Amadeus analizzato dagli autori

cm/anno, spostamenti notevoli separagonati alle più alte velocità deicontinenti attuali, in media di circa 4cm/anno. Come risultato della rotazio-ne, ad esempio, l’area che ora compren-de il Brasile si sarebbe rapidamentespostata da una zona vicino al polo sudverso i tropici.Generalmente, lo spostamento può es-sere sia il risultato della tettonica delle

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placche (il moto individuale delle plac-che continentali tra di loro), sia dellatrue polar wander (una vera “migrazionepolare”), in cui la crosta cui corrispon-dono le terre emerse, solidale con il sot-tostante mantello (che, ricordiamo, arri-va a fino al nucleo liquido esterno, a3.000 km di profondità) ruoterebbe co-me un’unica massa rigida rispetto al-l’asse di rotazione del pianeta; questispostamenti, facendo variare la simme-tria della distribuzione delle masse delpianeta, provocano uno spostamentodell’asse di rotazione e, di conseguenza,fanno variare la posizione dei poli geo-grafici.Il ruolo di tale imponente processo co-me probabile acceleratore del normale“motore” della deriva dei continenti èun tema al centro del dibattito della co-munità scientifica da decenni. In questocaso, Mitchell e i suoi collaboratori sug-geriscono che la “normale” tettonicadelle placche non basti a spiegare glielevati tassi di moto del Gondwana nelCambriano inferiore.Il fenomeno ha sicuramente avuto unnotevole impatto sulle condizioni am-bientali che esistevano in un periodocruciale nella storia della vita sulla Ter-ra, chiamato “Esplosione del Cambria-no”, quando comparvero rapidamentela maggior parte dei principali gruppidi animali complessi.

Secondo Mitchell «ci sono stati dramma-tici cambiamenti ambientali in atto duranteil Cambriano, giusto nel momento stesso incui era in corso il massiccio spostamento diGondwana. A parte la nostra comprensio-ne della tettonica delle placche, la migra-zione dei poli potrebbe avere avuto enormiimplicazioni per l’esplosione della vita delCambriano in quel momento».

Questi grandi movimenti della massacrostale avrebbero infatti provocato lamodificazione di fattori ambientali qua-li la circolazione oceanica, le concentra-zioni di carbonio e altre variabili che in-fluenzano lo sviluppo e l’evoluzionedelle forme di vita, che subì, anch’essa,una vistosa “accelerazione”.

(F.G.)

Per approfondire

Mitchell, R.N., Evans, D.A.D., Kilian, T.M.,2010. Rapid Early Cambrian rotation ofGondwana. Geology, v. 38 (8), pp. 755-758.(doi: 10.1130/G30910.1)

Meteoriti, glaciazioni ed estinzioni

Sei diversi siti archeologici nordameri-cani hanno consegnato nelle mani di unteam di ricercatori una fitta polvere didiamanti. Le particelle, di dimensioninanoscopiche e determinate attraver-so l’uso del microscopio elettronico,avrebbero avuto origine da uno sciamedi comete o da piccoli asteroidi precipi-tati sulla Terra quasi tredicimila anni fa.Lo ha ipotizzato un gruppo di ricer-catori guidati dall’archeologo DouglasKennett, dell’Università dell’Oregon, edal geologo James Kennett, dell’Uni-versità della California, che ha pub-blicato le proprie analisi sulla rivistaScience nel 2009. Questi piccolissimiframmenti di diamante si produconoquando il carbonio è sottoposto ad al-te temperature e pressioni, condizionimolto frequenti durante gli impatti co-smici. Sulla Terra si formano in seguitoa grandi esplosioni o a processi chimicidi vaporizzazione. I ricercatori hanno

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ora trovato miliardi di microscopicidiamanti nei sedimenti di diversistati degli Usa (Arizona, Oklahoma,Michigan e South Carolina), e indue regioni canadesi (Manitoba eAlberta).Lo strato in cui queste polveri sonostate raccolte si è depositato in unintervallo di tempo che corrispondea un periodo glaciale chiamatoYounger Dryas, che ha caratterizzatola fine del Pleistocene, tra i 12.800 egli 11.500 anni fa. La teoria, che hagià da qualche anno il sostegno diparte della comunità scientifica,propone un’esplosione in atmosferae/o un impatto violento con la Ter-ra di uno sciame di condriti carbo-nacee (1) o comete che caddero su vaste aree del continente, e grazie al rinvenimento dei nanodiamantiquesta teoria avrebbe maggior suppor-to. Secondo gli autori, l’impatto sarebbestato anche causa del raffreddamentoclimatico. L’evento avrebbe avuto enor-mi conseguenze sia per gli esseri uma-ni, con il declino della cultura preistori-ca Clovis (fig. 2), sia per l’ambiente, conl’estinzione dei mammuth nordame-ricani, dei cammelli e di altri grandimammiferi. Gli incendi causati dall’im-patto devastarono tutta la superficie delcontinente, e il freddo dello YoungerDryas avrebbe portato ulteriori conse-guenze sulle popolazioni umane e ani-mali. La conferma del presunto impat-to è fornita dalle analisi compiute sullostrato che segna l’origine dello YoungerDryas, trovato in una cinquantina di siti

dell’età cloviana sparsi per il continen-te. Oltre ai nanodiamanti, lo strato con-tiene altri materiali poco comuni o inconcentrazioni insolitamente elevate:microsferule metalliche, sferule di car-bone, iridio.Tuttavia, alcuni ricercatori sostengonoche l’estinzione della fauna a grandimammiferi avvenuta in Eurasia setten-trionale e nelle Americhe non fosse stata affatto sincrona. Ad esempio, leestinzioni nel Sud America sembranoessere accadute almeno 400 anni dopole estinzioni in Nord America, così co-me l’estinzione dei mammuth lanosi inSiberia sembra avvenuta posteriormen-te rispetto al Nord America. Questo dato diminuirebbe l’importanza della“teoria dell’impatto” sugli ecosistemi alivello globale.

(F.G.)

–––––––––(1) condriti carbonacee: meteoriti rocciose carat-terizzate dalla presenza di condrule, microsco-piche sfere di silicati in vario stato di cristalliz-zazione, e ricche in acqua e carbonio, spessosottoforma di composti organici.

Figura 2 - Punte di lance di forma rastremata, tipica dei nativi nordamericani Clovis

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Per approfondire

Kennett, D.J. et alii, 2009. Nanodiamonds in theYounger Dryas boundary sediment layer.Science, 323 (5910), p. 94.(doi: 10.1126/science.1162819)

Kerr, R.A., 2009. Did the Mammoth Slayer Lea-ve a Diamond Calling Card? Science, 323(5910), p. 26.(doi: 10.1126/science.323.5910.26)

La scomparsa dei“giganti” australiani

Il continente australiano ha subito, ne-gli ultimi 50.000 anni, una notevole per-dita di specie animali: circa un terzodelle specie di mammiferi e gran partedei rettili e uccelli di grandi dimensio-ni. La ragione di questa estinzione è alcentro del dibattito scientifico da parec-chi decenni, e i due scenari che si con-trappongono vedono come principaleresponsabile l’influenza dell’uomo, se-condo alcuni, e il cambiamento climati-co o ambientale secondo altri.Uno dei punti maggiormente dibattutiè l’esatta datazione della scomparsa diciascuna specie. Nel corso degli anni,alcuni siti paleontologici ubicati in ca-verne e su rive di laghi sembrano con-fermare che l’estinzione sia avvenutaprima di 35.000 anni fa, ma altri, al con-trario, fanno pensare che alcuni marsu-piali giganti siano sopravvissuti fino a25.000 anni o anche in tempi più recen-ti. L’esatta datazione è fondamentaleper determinare il “colpevole”: l’uomoha raggiunto il continente australianocirca 50.000 anni fa, mentre a partire da40.000 il clima ha subìto importanti mo-difiche, cambiando in modo drastico glihabitat.La fauna estinta comprende molte spe-cie di grandi dimensioni, soprattutto

mammiferi marsupiali. Tra le specie diquella che è stata appunto ribattezzata“megafauna” c’era il Procoptodon, unaspecie di enorme canguro alto 3 metri edal peso di quasi 250 kg, e il Diprotodon,la versione gigante dell’attuale vomba-to, che raggiungeva le 2 tonnellate dipeso. La megafauna comprendeva an-che alcuni carnivori, come il tilacino olupo marsupiale della Tasmania (Thyla-cinus cynocephalus), il leone marsupiale(Thylacoleo carnifex) e il diavolo della Ta-smania (Sarcophilus harrisii). Tra questi, il tilacino costituisce un’ec-cezione, in quanto “resistette” al primoimpatto antropico e anche alle mutazio-ni climatiche, sopravvivendo nel conti-nente australiano fino a circa 3.000 annifa, mentre in Tasmania si estinse solonel 1936, a causa della caccia indiscri-minata (fig. 3). Tra i grandi uccelli estinti ricordiamo ilGenyornis, esemplare non volatore di 2metri d’altezza e dal peso di 200 kg e,tra i rettili, la Megalania, una lucertola dicirca 5 metri di lunghezza! In totale, su24 generi appartenenti alla megafauna,23 scomparvero nel Pleistocene supe-riore.Nuove, raffinate tecniche di datazionemostrano che i fossili di queste specie ei resti degli strumenti umani risalgonoallo stesso periodo, caratterizzato da unclima mite, in cui gli animali e l’uomoconvissero per un intervallo di temporelativamente breve: sarebbero state,quindi, le attività umane e non un cam-biamento climatico le responsabili del-l’estinzione della megafauna australia-na attorno a 40.000 anni fa.È quanto affermano Richard Roberts,dell’Università di Wollongong, e BarryBrook, dell’Università di Adelaide, gliautori di un recente studio i cui risulta-

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ti sono stati pubblicati sulla rivistaScience all’inizio del 2010.L’uomo introdusse pratiche distruttivedirette, come la caccia, e indirette, comel’uso del fuoco per eliminare la vegeta-zione, che causò evidenti sconvolgi-menti negli ecosistemi: « il dibattito sullepossibili cause delle estinzioni del tardoPleistocene è continuato per più di 150 anni, con gli studiosi divisi su due fronti contrapposti», ha spiegato Brook. «L’Au-stralia è stata colonizzata durante un perio-do in cui il clima era relativamente favore-vole, il che corrobora l’ipotesi che sia statol’uomo, e non il cambiamento climatico, acausare l’estinzione».A rendere ulteriormente contradditto-rio il quadro delle conoscenze era stato,anni prima, il sito di Cuddie Spring(datato da 36.000 a 30.000 anni fa), nella

parte occidentale del New SouthWales, in cui i fossili di enormi can-guri, uccelli giganti e diprotodontifurono trovati negli stessi strati se-dimentari assieme ad utensili dipietra, inducendo i ricercatori ad ac-cettare l’evidenza di una lunga co-esistenza dell’uomo con la mega-fauna.Nel nuovo lavoro, invece, Robertsargomenta che la datazione effet-tuata mostra che i fossili e gli stru-menti umani rinvenuti si sono inrealtà mescolati nell’arco di migliaiadi anni, molto dopo l’estinzione degli animali giganti. «Dato che gliesseri umani arrivarono in Australiatra 60.000 e 45.000 anni fa, l’impattoumano fu il fattore principale che causò l’estinzione», ha aggiunto Brook.Ma, secondo un altro studio da par-te di Fillios e collaboratori sul sito di

Cuddie Springs, i risultati non confer-mano questa ipotesi. Secondo questoteam, ci sarebbero prove sufficienti peraffermare che gli uomini di questa loca-lità lavorassero effettivamente ossa dianimali già morti, ma che la megafaunaesistette, anche se in declino, ancora permolto tempo dopo l’arrivo dei cacciato-ri. Anche l’archeologo James O’Connell,dell’Università dello Utah, ha lavoratonello stesso sito e propende per unaspiegazione conciliante: il clima potreb-be non essere stato il fattore fondamen-tale nel determinare l’estinzione, ma asuo parere giocò un ruolo significativo.Come spesso accade nel mondo scienti-fico, il dibattito costruttivo pone nuovitraguardi da raggiungere e nuovi studisono attesi per dirimere l’enigma dellascomparsa di questi “giganti” austra-liani.

(F.G.)

Figura 3 - Un tilacino appena catturato, in una foto d’epoca

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Per approfondire

Fillios, M., Field, J., Charles, B., 2010. Investiga-ting human and megafauna co-occurrence inAustralian prehistory: Mode and causalityin fossil accumulation at Cuddie Spring.Quaternary International, 21, pp. 123-143.

Jones, C., 2010. Early human wiped out Austra-lian’s giants. Nature.(doi: 10.1038/news.2010.30)

Roberts, R.G., Brook, B.W., 2010. And ThenThere Were None? Science, 327 (5964), pp.420-422. (doi: 10.1126/science.1185517)

La “dieta” delle ammoniti

Le ammoniti sono tra i fossili più notianche al grande pubblico: tra i più ab-bondanti invertebrati marini della sto-ria della Terra, appartenevano alla clas-se dei cefalopodi, quindi antichi parentidegli attuali polpi, seppie, calamari edel Nautilus (l’unico con il quale condi-vidono la caratteristica di essere protet-ti da una conchiglia). Comparvero nelperiodo Devoniano, circa 400 milioni dianni fa, hanno dominato i mari soprat-tutto nel Giurassico e nel Cretacico e sisono estinte 65 milioni di anni fa, du-rante la fase di crisi biologica “famosa”grazie alla scomparsa dei dinosauri.Eppure, anche se molto note e rappre-sentate da innumerevoli reperti fossili,il loro ruolo nella catena alimentare de-gli antichi mari non è del tutto definito,perché, come spesso accade per rappre-sentanti di gruppi estinti, non si hannocorrispettivi attuali di quegli organismied inoltre organi e tessuti degli organi-smi originari si conservano solo in mi-nima parte. Alcuni ritrovamenti ecce-zionali, uniti alle moderne tecnologie,cercano di ridurre queste lacune e didelineare un quadro più chiaro: è il caso

di un recente studio pubblicato sulla ri-vista Science, condotto da ricercatori delMuseo Nazionale di Storia Naturale diParigi e dal Museum of Natural Historydi New York (Kruta et al., 2011).Sulla base di esemplari di Baculites (unodei generi di ammoniti più diffusi nelCretacico superiore) rinvenuti in SouthDakota e ottimamente preservati daltempo, i ricercatori hanno effettuatouna scansione delle strutture interne dialcune ammoniti ben conservate e sonostati così in grado di ricostruire in 3 di-mensioni l’apparato boccale (fig. 4). Laricostruzione, corredata dalla produzio-ne di un video, ha mostrato che questimolluschi avevano le mascelle (quellasuperiore grande circa la metà di quellainferiore) e una radula dentata (l’orga-no raschiatore che usano i molluschiper trovare il cibo): erano quindi teori-camente in grado di mangiare piccoleprede. Questi organi masticatori eranostati riscontrati anche in altri casi, mastavolta i ricercatori hanno anche rinve-nuto un chiaro indizio a proposito dellaloro alimentazione: in uno dei repertisono stati infatti trovati dei resti di pre-de: piccoli crostacei e larve di gastero-podi che vivevano nella colonna d’ac-qua come zooplancton. La ricerca gettacosì luce sul ruolo ecologico e sull’ali-mentazione di questi invertebrati mari-ni, ponendo anche delle ipotesi sulla lo-ro estinzione.Spiega infatti Fabrizio Cecca, uno degliautori della pubblicazione: «Il planctonritrovato rappresenta la prima prova delleabitudini alimentari delle ammoniti e ciaiuta a comprendere le ragioni dell’estinzio-ne di questi animali». L’enorme diminu-zione di plancton registrata 65 milionidi anni fa potrebbe aver così contribuitoalla scomparsa dei suoi predatori.

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Tuttavia, altri gruppi di ammoniti (fillo-ceratidi e litoceratidi) avevano proba-bilmente un apparato boccale e un’ali-mentazione diversa, più simile a quelladella sottoclasse Nautiloidea (compren-dente l’attuale Nautilus), e anch’essi sisono estinti nel medesimo intervallo ditempo, alla fine del Cretacico, al contra-rio dei loro “parenti” più stretti. Comesempre, solo altri resti fossili sottoposti

a nuove analisi potranno scioglieretutti i dubbi ancora irrisolti.

(F.G.)

Per approfondire

Kruta, I., Landman, N., Rouget, I., Cecca,F., Tafforeau, P., 2011. The Role of Am-monites in the Mesozoic Marine FoodWeb Revealed by Jaw Preservation.Science 331, pp. 70-72..(doi: 10.1126/science.1201002)

Il Denisovan, un “altro” essere umano

C’è un nuovo protagonista sullascena della paleontologia umana,ed il suo nome è Denisovan, o Uo-mo di Denisova. È questo il nomeprovvisorio di una nuova specie (osottospecie) umana, nome che deri-va dalla grotta siberiana nella qua-le sono stati trovati, nel 2008, alcu-ni resti fossili di ominidi eurasiaticiarcaici che non appartengono né aHomo sapiens, né a Homo neander-thalensis. Fino a metà dell’800 cre-devamo di essere gli unici rappre-sentanti del genere Homo, fino alla

prima scoperta di H. neanderthalensis.Oggi, con ogni probabilità, dobbiamoancora una volta aggiungere un ritrattonella nostra “foto di famiglia”.La grotta di Denisova è stata frequenta-ta da esseri umani da circa 280.000 annifa, come testimoniano lame, ornamentie altri strumenti in pietra trovati nellagrotta, oltre ai resti del Denisovan. Ilmateriale fossile consiste nel molare diun individuo adulto (fig. 5) e un ossodella falange del mignolo di un indivi-duo di sesso femminile dall’età stimata

Figura 4 - Morfologia tramite scanning della radula e dei denti di Baculites

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tra i 5 ed i 7 anni e che visse attorno a40.000 anni fa. La ricerca ha coinvoltodiversi gruppi di ricerca, con in primalinea gli antropologi del Max Planck In-stitut di Lipsia (Germania) ed i geneti-sti dell’Harvard Medical School di Bo-ston. Anche se i resti fossili non sonomolti, gettano in ogni caso una lucenuova nella nostra “famiglia” umana,proprio grazie ad analisi di biologiamolecolare sul DNA dei reperti rinve-nuti, un tipo di indagine effettuata daigenetisti che permette, laddove possibi-le, di integrare le classiche analisi paleo-antropologiche con gli aspetti biologicie fornire così delle informazioni decisi-ve sull’evoluzione delle forme prese inesame. Fino a pochi anni fa, risultati diquesto tipo erano impensabili e sonopossibili grazie alle moderne tecnichedi analisi biomolecolari.Già dall’analisi morfologica del dente siera intuita l’eccezionalità del ritrova-mento: il molare è più grande di quellodi qualsiasi H. sapiens, ed anche di tuttiquelli noti del Neandertal. I ricercatorisono poi riusciti ad isolare il DNA nu-cleare dall’osso della falange, il qualecontiene un maggior numero di infor-mazioni sul corredo genetico delle spe-cie rispetto al DNA estratto dai mito-

condri, che si usa solitamente per-ché più facile da estrarre. I deniso-viani risultano essere sostanzial-mente diversi sia da noi H. sapiensche dai Neandertal, seppure sonopiù strettamente imparentati conquest’ultimi. Bence Viola, uno degliautori della ricerca, sostiene che ladifferenziazione tra queste due for-me umane sarebbe avvenuta circa350.000-400.000 anni fa, quando le

popolazioni delle forme ancestrali fuo-riuscirono dall’Africa separandosi dailoro antenati e si divisero a loro volta,con i denisoviani che si stanziarono inAsia orientale ed i Neandertal in Eura-sia occidentale. Soltanto successive on-date migratorie dall’Africa portaronol’antenato dell’uomo moderno in Eura-sia dove già esistevano queste popola-zioni di ominidi.I ricercatori sostengono infatti che gliabitanti delle isole pacifiche della Pa-pua Nuova Guinea possiedono nel loropatrimonio genetico il 4-6% di quellodei denisoviani, e sarebbero quindi ilontani discendenti di queste anticheibridazioni. “La nostra ipotesi quindi è che gli ante-nati degli attuali melanesiani abbianoincontrato i denisoviani in Asia sudo-rientale incrociandosi con loro, e che inseguito si siano spostati in Papua Nuo-va Guinea” dice Viola.Appena pochi mesi prima della scoper-ta dell’Uomo di Denisova, altre analisibiomolecolari avevano attestato che an-che tra H. neanderthalensis e H. sapiens cisarebbero stati delle ibridazioni, sugge-rendo la possibilità che gli incroci traesseri umani arcaici e moderni (che al-cuni ricercatori escludevano del tuttonon avendo prove genetiche a soste-gno) fossero molto più frequenti di

Figura 5 - Molare fossile del Denisovan

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quanto anche i più possibilisti ritenes-sero in precedenza.Riassumendo, sono quindi due i nuovi,fondamentali contributi portati dal De-nisovan: una nuova forma all’internodel nostro genere Homo, e la possibilitàche questa abbia incrociato il propriopatrimonio genetico con noi “uominimoderni”.Inoltre, la biologia ci ha insegnato cheindividui di una stessa specie che si ri-producano danno vita a prole fertile,mentre gli ibridi di specie diverse dan-no prole non fertile, ossia che non è ingrado di riprodursi (come i mulo ed il bardotto, “figli” di asino/a e caval-la/o). Date queste evidenze, vi sono al-cuni biologi dell’evoluzione che hannosuggerito di cancellare le differenze trale denominazioni specifiche per umanimoderni (H. sapiens) e neandertaliani, edi considerare entrambi i gruppi di for-me arcaiche (Neandertal e Denisovan)come sottospecie di Homo sapiens, cosìcome era una volta per il Neandertal(H. sapiens neanderthalensis). D’altro can-to, le analisi sul DNA di queste formeumane sono ancora poche per disegna-re con certezza l’albero genealogico del-la nostra famiglia.

(C.A.)

Per approfondire

Reich, D. et alii, 2010. Genetic history of an ar-chaic hominin group from Denisova Cave inSiberia. Nature, 468 (7327), 1053-1060.(doi: 10.1038/nature09710).

Una “fuliggine” mortale

La storia della vita sulla Terra è statacostellata da cinque grandi eventi diestinzione, crisi biologiche che hanno

portato all’estinzione un gran numerodi specie e organismi. Probabilmente lapiù nota è quella avvenuta alla fine delperiodo Cretacico, 65 milioni di anni fa,che pose fine ai dinosauri e assieme adessi a tantissimi altri organismi marinie terrestri. Ma una crisi biologica ancora più cata-strofica fu quella che colpì il mondo vi-vente alla fine del periodo Permiano,circa 250 milioni di anni fa, consideratail più grande evento di estinzione inmassa della storia della vita sulla Terra.Si estinsero infatti più del 90% di tuttigli organismi marini e circa il 70% diquelli terrestri, un vero e proprio crollodella biodiversità globale. Come per lealtre crisi biologiche, anche per quellapermiana, che segna la fine dell’Era Pa-leozoica e l’inizio della Mesozoica, sonostate proposte diverse ipotesi: massicceeruzioni vulcaniche, impatti meteoriti-ci, oceani resi tossici da qualche eventoeccezionale, o l’integrazione di questied altri eventi.Recentemente, una nuova ricerca scien-tifica ha riacceso l’interesse attorno aquesto tema che da sempre affascinapaleontologi, biologi ed evoluzionisti ditutto il mondo, portando all’attenzionedi tutti nuovi dati. La rivista Nature Geoscience ha infattipubblicato il lavoro di Stephen Grasby,del Servizio Geologico del Canada, cheassieme ai suoi collaboratori ha analiz-zato alcune rocce che costituiscono leisole più settentrionali della regione ar-tica canadese, un settore che, 250 milio-ni di anni fa, costituiva un antico marea nord-ovest dell’unico supercontinen-te Pangea. Negli strati di carbone, i ricercatori han-no individuato delle particelle dalla for-ma molto particolare, con delle bolle in-

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cluse (fig. 6), del tutto simili alle “ceno-sfere”, le ceneri e polveri leggere pro-dotte attualmente da una centrale a car-bone o, più semplicemente, da un cami-no, in pratica una fuliggine di carbonefinissimo. Queste particelle si formanoperciò solo quando viene immesso inatmosfera del carbone fuso, e sarebberoquindi la testimonianza diretta delleemissioni vulcaniche appena preceden-ti la fine del Permiano, che produsserola combustione dei depositi di carbonesottostanti.Era infatti noto che, alla fine di questoperiodo, ci furono imponenti eruzionivulcaniche in particolar modo in Sibe-ria, testimoniate dai “Siberian Traps”,un gigantesco espandimento di basal-ti (2) il cui studio ha permesso di stimarela lava eruttata in più di 1.000 miliardi

di tonnellate e una superficie rico-perta di circa 2 milioni di chilome-tri quadrati, praticamente comel’Europa. Flussi di roccia fusa cosìformatesi rilasciarono elevatissimeconcentrazioni di anidride carbo-nica nell’atmosfera che, unite alleforti emissioni di metano e allapresenza di metalli tossici, influen-zarono drammaticamente il ciclodel carbonio a livello globale, conconseguenze disastrose sulla vita,a cui si aggiunse il riscaldamentoglobale e l’effetto serra. Una situa-zione così grave dal punto di vista

degli equilibri biologici fu ulteriormen-te compromessa dalla presenza dellecenosfere: queste hanno circa le stessedimensioni e lo stesso peso delle piùpiccole particelle di cenere vulcanica,per questo si pensa dunque che an-ch’esse siano arrivate ad un’altitudinedi circa 20 km in atmosfera, siano stateprese in carico dai venti e così diffuseglobalmente su tutto il Pangea. Unavolta ricadute negli oceani, queste pol-veri di carbone combusto, arricchite inelementi tossici (metano, arsenico, cro-mo), costituirono una miscela proibiti-va per la sopravvivenza della maggiorparte degli organismi. Sia in terra che inmare, la quasi totalità delle specie vi-venti fu così “soffocata” da un’enormenuvola di cenere tossica, con i soprav-vissuti che, all’inizio dell’Era Mesozoi-ca, iniziarono a ripopolare il mondo.

(F.G.)

Per approfondire

Grasby, S.E., Sanei, H., Beauchamp, B., 2011.Catastrophic dispersion of coal fly ash intooceans during the latest Permian extinction.Nature Geoscience, 4, pp. 104-107.(doi:10.1038/ngeo1069)

–––––––––(2) basalto: roccia effusiva di origine vulcanicadal colore scuro e dal contenuto si silice (SiO2)inferiore al 50%, relativamente basso rispetto adaltre rocce vulcaniche; si forma da un magmasolidificatosi velocemente a contatto dell’aria odell’acqua.

Figura 6 - Una delle particelle di carbone combusto analizzate

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Nel numero precedente di questi Qua-derni avevamo riportato la notizia, datadalla prestigiosa rivista Nature, di unostraordinario ritrovamento: numerosiresti fossili in ottimo stato di conserva-zione, oltre 250 forme, che hanno tuttol’aspetto di organismi pluricellulari, ri-salenti a 2,1 miliardi di anni fa (fig. 1).Poiché dopo la comparsa sulla Terra deiprimi organismi procarioti unicellulari,circa 3,5 miliardi di anni fa, le primeforme di vita pluricellulari finora note

erano le faune tipo Ediacara (localitàdel primo ritrovamento, in Australia) equelle di vari depositi di età cambriana,comparse “solo” poco più di 500 milio-ni di anni fa, sembrava che la storia del-la vita sulla Terra fosse stata prevalen-temente una storia di vita unicellulare.Ma, come avevamo già anticipato, inuovi dati hanno notevolmente modifi-cato quelle conclusioni, per cui vale lapena di dedicare alla notizia qualcheapprofondimento.

Il ritrovamento è stato realiz-zato in un bacino sedimenta-rio vicino la città di Francevil-le, in Gabon (Africa centro-oc-cidentale), da un gruppo in-ternazionale di ricercatori gui-dato da Abderrazak El Albani,dell’Università di Poitiers. I fossili, a cui non sono statiancora attribuiti nomi scien-tifici, presentano forme e di-mensioni molto variabili, conmargini frastagliati e irregola-ri e con elementi radiali. Le lo-ro dimensioni raggiungono i12 centimetri di lunghezzaper uno spessore che non su-pera il centimetro.

Nuove testimonianze fossilisui primi organismi pluricellulari

2,1 miliardi di anni!Francesco Grossi

Figura 1 - Alcuni tra gli eccezionali resti fossili

a

b

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I ricercatori hanno appurato l’origineorganica dei campioni in base alla mi-surazione dei rapporti relativi degli isotopi di zolfo in essi contenuti, graziea una sofisticata tecnica di scansione in 3D, la microtomografia a raggi X (fig. 2). Con questa analisi sono stati ingrado di ricostruire con buona precisio-ne la struttura interna dei fossili senzadanneggiarli.Spesso non è facile distinguere coloniedi organismi unicellulari da un organi-smo pluricellulare, specie in rocce cosìantiche, ma in questo caso, secondo gliautori, la morfologia chiaramente defi-

nita suggerisce che ci fosse comunica-zione tra le singole cellule della colo-nia, caratteristica tipicamente associataall’organizzazione multicellulare dellavita.La classificazione di questi organismirisulta non facile in quanto non esisto-no forme di vita (attuali o fossili) com-parabili, se non alcune colonie batteri-che di dimensioni nettamente inferiori.Oltre alle dimensioni, anche la lorostruttura tridimensionale escluderebbela possibilità che si tratti di unicellularistraordinariamente grandi e propende-rebbe per l’ipotesi di organismi colonia-

li che rappresenterebberoil primo (finora conosciu-to) tentativo di strutturapluricellulare.Come già anticipato, dal-l’analisi delle strutture se-dimentarie dello straordi-nario giacimento gabone-se i ricercatori hanno ap-purato che questi organi-smi vivevano in prossimi-tà delle coste alla profon-dità di circa 20-30 metri, inacque ricche in ossigeno egeneralmente calme, maperiodicamente interessa-te da episodi di tempesta.Non è ancora chiaro, per ilmomento, in che modo ot-tenessero l’energia neces-saria per vivere. Vediamoallora perché questo ritro-vamento può segnare un

Figura 2 - Microtomografia a raggi X di alcuni resti, con ricostruzione virtuale delle relative sezioni

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punto di svolta nelle nostre conoscenzesull’evoluzione della vita sulla Terra.La vita apparve sul nostro pianeta 3,5miliardi di anni fa, quando fecero la lo-ro comparsa i primi procarioti (ossia or-ganismi unicellulari privi di nucleo), lestromatoliti, strutture biosedimentarie(ossia costituite in parte da resti organi-ci e in parte da sedimenti) derivate dal-l’intrappolamento di fanghi e sabbie daparte di cianobatteri; questi ul-timi rappresentano un phylumdi batteri fotosintetici ancoraattualmente molto diffusi, so-prattutto in ambienti caratteriz-zati da clima temperato-tropi-cale. Successivamente, circa 1,4miliardi di anni fa, comparve-ro i primi unicellulari eucarioti(ovvero con cellula provvista dinucleo), gli Acritarchi, come di-mostrano alcuni resti fossili inrocce argillose degli Urali (Rus-sia) e del Montana (Stati Uniti).L’esistenza della vita complessaprima del miliardo di anni fa è moltocontroversa. Questi probabili primi plu-

ricellulari sono molto impor-tanti, in quanto retrodatano l’o-rigine della pluricellularità dioltre 1,5 miliardi di anni. Fino ad oggi, infatti, le più an-tiche forme di vita pluricellula-ri certe appartengono alle fau-ne tipo Ediacara, risalenti a cir-ca 570 milioni di anni or sono(figg. 3-4), e a quelle della piùfortunata “esplosione di vita”del Cambriano (più recente di40 milioni di anni), mentre so-

no datate circa 900 milioni di anni al-cune tracce fossili interpretate come attività di scavo, sebbene molto primi-tive, e come tali riferite a organismi pluricellulari.L’esistenza di vita complessa preceden-te la radiazione adattativa della faunadi Ediacara era, quindi, prima di questiritrovamenti, un fenomeno piuttosto in-certo, a parte il caso di Grypania spiralis,un organismo eucariota (o una coloniadi organismi) di forma tubolare ritortalunga circa 1 centimetro, risalente a cir-

Figura 3 - Dickinsonia costata, uno dei fossili della fauna di Ediacara

Figura 4 - Spriggina fluondersi, altro rappresentante della fauna precambriana

38 Paleo news QUADERNI DEL MUSEO

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ca 2 miliardi di anni fa, rinvenuta in se-dimenti del Michigan negli anni ’70 edalla posizione sistematica ancora nondefinita (fig. 5).Proprio come avvenne anche per l’e-splosione di vita cambriana, questo pri-mo “esperimento” di pluricellularitàsarebbe stato possibile solo grazie algrande evento di diffusione di ossigenonell’atmosfera terrestre che si verificòproprio tra 2,45 e 2 miliardi di anni orsono, dovuto all’azione di fotosintesidei cianobatteri, i quali utilizzavanol’acqua come fonte di idrogeno liberan-do ossigeno (come fanno i cianobatteriviventi).L’aumento delle concentrazioni di ossi-geno favorì lo sviluppo di un livello dicomplessità degli organismi viventimai raggiunto fino a quel momento. Gliorganismi ora scoperti, così come laGrypania spiralis, sono comparsi infattiproprio quando l’atmosfera terrestre simodificò radicalmente, arricchendosi diossigeno e provocando un’estinzione di

massa di tutti i primitivi or-ganismi anaerobici. La cata-strofe dell’ossigeno o grandeevento di ossidazione si puòforse considerare il primocaso di inquinamento terre-stre ed è considerato il feno-meno che ha innescato l’e-voluzione della vita nelleforme che poi oggi cono-sciamo. Il fatto che questiorganismi complessi si sia-no sviluppati proprio in unperiodo immediatamentesuccessivo a questo evento è

coerente con l’ipotesi che il cambiamen-to della composizione chimica dell’at-mosfera, degli oceani e del clima terre-stre abbiano favorito la nascita di formedi vita più articolate, che hanno svilup-pato parti del corpo capaci di comuni-care tra loro e specializzate per funzionidifferenziate.Le analisi su questi eccezionali fossilisono lontane dall’essere concluse, cosìcome molte sono ancora le domandeche attendono una risposta: vedremo,anzitutto, se verrà confermata la naturapluricellulare di questi organismi vissu-ti più di 2 miliardi di anni fa e, in secon-do luogo, se rimarranno un isolatoframmento di vita nel tempo profondoo verranno invece affiancati da nuovi,straordinari ritrovamenti.

Per approfondire

Abderrazak El Albani et alii. Large colonial or-ganisms with coordinated growth in oxyge-nated environments 2.1 Gyr ago. Nature,2010; 466 (7302), pp. 100-104.(doi: 10.1038/nature09166)

Gould S.J., 1990. La vita meravigliosa. Feltri-nelli, pp. 240.

Figura 5 - Grypania spiralis, eucariota vissuto 2 miliardi di anni fa

39Paleo newsDICEMBRE 2010 - N. 2-3

Page 40: N.2-3 Dicembre 2010

Sauvagesia sharpei

Come già precisato nel numero precedente di questi Quaderni, la rubrica prendein esame, per ciascun numero della rivista, uno o più fossili tra quelli presentinella collezione del Museo “Ardito Desio”, esaminandone brevemente gli aspettiriguardanti la sistematica, la descrizione morfologica, l’antico ambiente e l’inter-vallo cronologico in cui vissero, per conoscere un po’ più da vicino i protagonistidelle antiche scogliere presenti nell’area di Rocca di Cave un centinaio di milionidi anni fa.Ricordiamo che, in paleontologia, ciascuna specie è inserita, dal punto di vistadella classificazione, in un genere di appartenenza assieme ad altre specie adessa comparabili, così come più generi, simili tra loro per alcune caratteristiche,sono inseriti in una stessa famiglia, e così via per livelli superiori (si veda lo sche-ma a colori nella seconda pagina di copertina). Sono, queste, le categorie tasso-nomiche, ordinate in maniera gerarchica, secondo una nomenclatura codificataper la prima volta dal famoso botanico svedese Carl von Linné (Linneo) nel 1758.La prima parte della scheda identificativa dell’organismo fossile riguarda la suacollocazione nella grande famiglia di appartenenza, cui segue la cosiddetta si-nonimia, ossia la lista delle più importanti citazioni di quella stessa specie in la-vori paleontologici. Questo elenco serve al paleontologo per vedere come, nelcorso del tempo, dalla prima istituzione, sia eventualmente cambiato il genere diappartenenza della specie in esame, in seguito a nuovi studi, e anche per cor-reggere eventuali errori di classificazione del passato; inoltre, è comunque unostrumento importante per chi volesse approfondire le informazioni sulla speciein questione.

Phylum MOLLUSCAClasse BIVALVIAOrdine HIPPURITOIDAFamiglia RADIOLITIDAEGenere Sauvagesia BAYLE, 1887

Sauvagesia sharpei (Bayle, 1857)

1857 Sphaerulites sharpei Bayle, p. 6901886 Sphaerulites sharpei - Choffat, p. 29, tavv. 2-4, fig. 1

Francesco Grossi

40 I FOSSILI DEL MUSEO “ARDITO DESIO” QUADERNI DEL MUSEO

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La specie Sauvagesia sharpei è un bival-ve appartenente al grande gruppo dellerudiste (ordine Hippuritoida) e alla fa-miglia Radiolitidae, istituita nel 1857 daBayle e inizialmente riferita dall’Autorea un diverso genere, Sphaerulites. Nel1891 Douvillé attribuì questa specie algenere Sauvagesia.S. sharpei è una forma frequente nei de-positi dell’Italia centrale-meridionalema è stata segnalata anche nel Carsogoriziano; in particolare, nell’area diRocca di Cave è una delle specie di ru-diste maggiormente diffuse, anche sespesso è stata rinvenuta con individui

frammentari. Come vedremo, fortuna-tamente il riconoscimento di alcuni ca-ratteri morfologici di S. sharpei ne per-mette l’identificazione anche se l’esem-plare è conservato solo in parte o se èinglobato, come spesso succede, nellaroccia calcarea, tanto da lasciare visibileall’osservazione solo una sezione delguscio.Tutte le rudiste appartenenti alla fami-glia Radiolitidae sono caratterizzate dauna valva destra allungata, di forma co-nica o cilindrica, che si fissava al sub-strato, mentre la sinistra, di forma ap-piattita o cupoliforme, fungeva da“opercolo” (fig. 1). Inoltre, tutte le spe-cie appartenenti a questa famiglia han-no il guscio costituito da una strutturavacuolare detta “cellulo-prismatica”,

1891 Sauvagesia sharpei - Douvillé, p. 669, fig. 11904 Sauvagesia sharpei - Douvillé, p. 1741909 Sauvagesia sharpei - Toucas, p. 88, fig. 56, tav. 17, figg. 5-71911 Sauvagesia sharpei - Parona, p. 2851912 Sauvagesia sharpei - Parona, p. 161926 Sauvagesia sharpei - Parona, p. 34, tav. 4, fig. 51930 Sauvagesia sharpei - Zuccardi Comerci, p. 12, tav. 1, fig. 31932 Sauvagesia sharpei - Kühn, p. 1661938 Sauvagesia sharpei - Voorwijk, p. 64, tav. 4, fig. 201957 Sauvagesia sharpei - Pejovic, p. 93, tav. 32, figg. 1-4, tav. 33, fig. 1-21957 Sauvagesia sharpei - Pasic, p. 118, tav. 15, fig. 3, tav. 29, fig. 1, tav. 33, fig. 21965 Sauvagesia sharpei - Torre, p. 77, tav. 2, fig. 12, tav. 3, fig. 11966 Sauvagesia sharpei - Pamouktchiev, p. 35, tav. 5, fig. I1967 Sauvagesia sharpei - Polsak, p. 85, fig. 24, pl. 46, figg. 1-51971 Sauvagesia sharpei - Carbone, Praturlon, Sirna, p. 1501973 Sauvagesia sharpei - Plenicar, p. 219, tav. 2, fig. 1, tav. 11, figg. 2-31976 Sauvagesia sharpei - Charvet, Decrouez, Polsak, tav. 3, fig. 21980 Sauvagesia sharpei - Carbone, Russo, Sirna, p. 2041980 Sauvagesia sharpei - Iannone, Laviano, p. 224, fig. 301981 Sauvagesia sharpei - Carbone, Sirna, p. 434

Francesco Grossi: PhD, Dipartimento ScienzeGeologiche Università degli studi “Roma Tre”;E-mail: [email protected]

41I Fossili del Museo “Ardito Desio”DICEMBRE 2010 - N. 2-3

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con laminae e muri trasversali che lascia-no tra loro dei vuoti utili per alleggerireil guscio. Inoltre, sono molto sviluppatele bande radiali o sifonali, scanalaturesulla superficie della conchiglia nellequali si appoggiavano i sifoni inalantied esalanti.All’interno della famiglia, il genere Sau-vagesia è poi caratterizzato da una cre-sta ligamentare (una spatola calciticache serviva da sostegno per il legamen-to), molto evidente, da una strutturacellulo-prismatica poligonale e da lami-nae spesso ripiegate tanto da generareun’ornamentazione finemente costola-ta, molto evidente sulla superficie ester-na del guscio.Una buona sezione per poter identifica-re la specie è quella trasversale, ossiaquella che taglia il bivalve perpendico-larmente rispetto alla crescita in altezzadella valva conica o cilindrica, perchépermette di osservare la struttura cellu-lo-prismatica, la cresta ligamentare e al-tri caratteri morfologici interni.Oltre a tutte le caratteristiche propriedella famiglia Radiolitidae e del genereSauvagesia, la specie S. sharpei è caratte-rizzata da una forma tipica delle banderadiali: quella posteriore (S) è larga cir-

ca la metà dell’anteriore (E); entrambesono piuttosto appiattite e separate dauna zona, detta “di interbanda”, conca-va. Su entrambe le bande radiali sonopresenti numerose piccole pieghe. Altracaratteristica tipica di S. sharpei è la cre-sta ligamentare dalla forma triangolare.In Tavola I sono illustrati alcuni esem-plari di S. sharpei ancora in roccia espo-sti nelle vetrine del Museo “Ardito De-sio” (I:1), insieme a un calcare ricco diquesta specie presente in affioramentolungo il sentiero geopaleontologico(I:2). Le immagini mettono in evidenzail contatto ravvicinato del guscio di di-versi elementi: una modalità di vita“gregaria” che era propria di tutte le ru-diste e che permetteva loro di abitareambienti marini ad elevata energia delmoto ondoso (come quello della sco-gliera biocostruita) fissando la propriavalva al substrato calcareo accanto adaltri individui della stessa specie.Per quanto riguarda la distribuzionepaleogeografica e cronostratigrafica, S.sharpei è stata segnalata nei livelli dalCenomaniano superiore al Turonianoinferiore (ossia tra circa 100 e 90 milionidi anni fa) di Italia, Portogallo, Francia(Provenza), Algeria ed Istria.

Bibliografia

Carbone, F., Praturlon, A., Sirna, G., 1971. The Cenomanian shelf-edge of Rocca di Cave (Prenestini Mts., Latium). Geologica Romana, 10, pp. 131-198.

Cestari, R., Sartorio, D., 1995. Rudists and facies of the Periadriatic Domain. Agip S.P.A., San Donato Milanese, pp. 1-207.

Cestari, R., 2008. Le rudiste come vincolo stratigrafico per il rilevamento geologico in alcunelocalità fossilifere dell’Appennino centrale. Memorie Descrittive della Carta Geologica d’Italia, LXXVII, pp. 41-60.

Iannone, A., Laviano, A., 1980. Studio stratigrafico e paleoambientale di una successione cenomaniano-turoniana (Calcare di Bari) affiorante presso Ruvo di Puglia. Geologica Romana, 19, pp. 209-230.

42 I Fossili del Museo “Ardito Desio” QUADERNI DEL MUSEO

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a

b c

Struttura generale delle radiolitidi

a. Morfologia e nomenclatura delle rudiste Radiolitidae (modificato da Cestari e Sartorio, 1995);b. Sezione longitudinale naturale di un radiolitide accompagnata da un disegno (vd: valva destra;vs: valva sinistra) (da Cestari, 2008); c. Disegno di Sauvagesia sharpei

Figura 1

43I Fossili del Museo “Ardito Desio”DICEMBRE 2010 - N. 2-3

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Sauvagesia sharpei (Bayle)

1 - Sezioni trasversali naturali (per erosione) di alcuni esemplari di S. sharpei. Si noti il con-tatto tra gli esemplari presenti. 2 - Altre sezioni in roccia lungo il percorso geopaleontologico.

TAVOLA I

1

2

44 I Fossili del Museo “Ardito Desio” QUADERNI DEL MUSEO

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Neithea zitteli

Phylum MOLLUSCAClasse BIVALVIASuperordine PTERIOMORPHIAOrdine PTERIOIDAFamiglia PECTINIDAEGenere Neithea DROUET, 1825

Neithea zitteli (Pirona, 1884)

1884 Janira Zitteli Pirona, p. 10, tav. III, figg. 1-151901 Neithea Zitteli - Redlich, pp. 76-811926 Neithea Zitteli - Parona, p. 52, tav. V, fig. 31992 Neithea zitteli - Dhondt & Dieni, pp. 212-214, fig. 12011 Neithea zitteli - Grossi & Amadori, p. 44

Francesco Grossi

Figura 1 - Ritratto di Giulio Andrea Pirona e prima pagina del lavoro del 1884 in cui l’Autore istituisce la specie Neithea zitteli.

45I FOSSILI DEL MUSEO “ARDITO DESIO”DICEMBRE 2010 - N. 2-3

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La specie Neithea zitteli è un bivalve della famiglia Pectinidae istituito nel1884 da Giulio Andrea Pirona (fig. 1),nei terreni cretacici del Friuli e inizial-mente riferito dall’Autore ad un diver-so genere, Janira. Nel 1901, Redlich attribuì questa specieal genere Neithea, taxon già istituito nel1825 da Drouet (fig. 2). Dal punto di vista della nomenclatura,è interessante notare come anche il no-me specifico, oltre quello generico, siainizialmente riportato in maiuscolo enon in minuscolo come dovrebbe: aitempi, così si usava nel caso la speciefosse dedicata a una personalità delmondo scientifico, in questo caso al no-to paleontologo tedesco Karl Zittel. N. zitteli è una forma frequente nei de-positi dell’Italia nord-orientale, mentrenell’area di Rocca di Cave, e in gene-rale nell’Appennino centrale, ne esisteuna sola segnalazione, relativa all’e-semplare conservato nel Museo “Ardi-to Desio”.È una specie caratterizzata da una for-ma trigona, allungata, di dimensioninotevoli, fortemente inequivalve (cioècon morfologia delle due valve moltodiversa), con angolo apicale di circa 65°.La valva destra è piuttosto grande (po-co meno di 10 cm) e molto convessa,

con umbone molto spesso e incurvato,mentre la sinistra è più piccola, menoconvessa, quasi appiattita, con un mar-gine depresso, un rapporto lunghez-za/larghezza circa pari a 1 e umbonepiano e liscio. La superficie esterna èsolcata da 6 coste maggiori, negli inter-valli delle quali vi sono 2 o 3 coste se-condarie, tondeggianti.In Tavola II è illustrato l’esemplareesposto al Museo, di cui è ben conser-vata la valva destra, osservabile nella fi-gura I,1; in Tavola II,2 è visibile lo stes-so esemplare in norma laterale, ancoraparzialmente inglobato nella roccia cal-carea nella quale è stato rinvenuto.Le biofacies nelle quali è stata rinvenu-ta N. zitteli e la sua morfologia moltorobusta suggeriscono un ambiente conalta energia del moto ondoso, comequello di avanscogliera (Dhondt e Die-ni, 1992).Per quanto riguarda la distribuzionepaleogeografica e cronostratigrafica, N.zitteli era stata finora segnalata nel Ce-nomaniano (circa 100 milioni di anni fa)dell’Italia nord-orientale e della Slove-nia occidentale, ed il reperto rinvenutonei livelli cenomaniani di Rocca di Ca-ve permette quindi di estendere la suadistribuzione areale anche all’Appenni-no centrale.

Bibliografia

Dhondt A.V., Dieni, I., 1992. Non-rudist bivalves from the late Cretaceous rudist limestonesof NE Italy, Memorie di Scienze Geologiche, 45 (1992), pp. 165-241.

Grossi F., Amadori C., 2011. Il bivalve Neithea zitteli (Pirona, 1884), prima segnalazione inAppennino Centrale. XI Giornate di Paleontologia, Abstract, p. 44.

Parona C. F., 1926. Ricerche sulle rudiste e su altri fossili del Cretacico superiore del Carsogoriziano e dell’Istria. Memorie dell’Ist. Geologico della R. Università di Padova, 7, 56 pp.

Pirona G.A., 1884. Nuovi fossili del terreno cretaceo del Friuli. Memorie dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, 22, 1-12.

46 I Fossili del Museo “Ardito Desio” QUADERNI DEL MUSEO

Page 47: N.2-3 Dicembre 2010

a

c

d

I bivalvi e Neithea

a. Caratteri morfologici dei bivalvi; b. Valva destra di N. zitteli (da Pa-rona, 1926); c. Particolare della tavola in cui Pirona (1884) istituisce lanuova specie; d. Particolare del diorama del Museo “Ardito Desio” chericostruisce il fondale dell’antico mare cretacico.

b

Figura 2

47I Fossili del Museo “Ardito Desio”DICEMBRE 2010 - N. 2-3

Page 48: N.2-3 Dicembre 2010

Neithea zitteli (Pirona)

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TAVOLA II

1

2

48 I Fossili del Museo “Ardito Desio” QUADERNI DEL MUSEO

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1. Identità

Il Polo Museale della Sapienza rispon-de a tre aspetti fondamentali.■ È un insieme di opportunità culturali,

scientifiche e tecnologiche; un parco distrutture museali e relativi spazi orga-nizzati accomunati dall’appartenenzaallo stesso mega-Ateneo, dalla vici-nanza geografica, dai comuni interes-si, costituiti in un sistema teso a svi-luppare il senso dei luoghi e a valoriz-zare l’identità delle comunità umani-stico-scientifiche della Sapienza.

■ Documenta e conserva le testimo-nianze dei grandi eventi della “storiadelle esperienze” scientifiche didatti-che, formative e professionali matura-te – in 710 anni di vita – nei luoghidella Sapienza, in sinergia con il terri-torio circostante e svolte sotto lo sti-molo delle scuole di ricerca e di cultu-ra che hanno dato lustro al più grandeAteneo d´Europa.

■ È un grande laboratorio didattico eculturale, un insieme di luoghi del sapere, della storia, delle tradizioni,propizi per rintracciare l’origine dellemoderne esperienze professionali, neicontenuti preziosi di archivi, raccolte,strumentazioni.

2. Struttura

Il Polo Museale della Sapienza è strut-turato in 5 aree, ciascuna costituita damusei per un totale di 20 unità:• Area archeologica (antichità etrusche

e italiane, arte classica, origini, vicinooriente).

• Area arte contemporanea (museo-la-boratorio di arte contemporanea).

• Area medica (storia della medicina,anatomia patologica).

• Area scientifico-tecnologica (chimi-ca, fisica, idraulica, merceologia, artee giacimenti minerari, matematica)

• Area naturalistica (mineralogia, geo-logia, paleontologia, anatomia com-

Il Polo Museale della Sapienza

Luigi Campanella: Ordinario di Chimica analitica,Università “Sapienza” di Roma, Presidente dellaSocietà Chimica Italiana, Presidente del MUSIS

Luigi Campanella

Figura 1 - Il logo del Polo Museale

49MUSEOLOGIADICEMBRE 2010 - N. 2-3

Page 50: N.2-3 Dicembre 2010

parata, antropologia, zoologia, ortobotanico, erbario).

3. Visione

L’orientamento strategico del Polo Mu-seale della Sapienza opera per la condi-visione e la razionalizzazione delle ri-sorse e per giungere a specifiche intesevolte alla realizzazione di forme coor-dinate di gestione, offerta e promozionedi funzioni e di servizi culturali.Il Polo attiva il coordinamento degli interventi di didattica museale che co-prono tutte le tipologie museali presen-ti nel sistema, anche attraverso la for-mazione degli operatori museali e loscambio da un lato di esperienze e ma-teriali e dall’altro di studenti a livellocoordinato.Promuove iniziative ed eventi culturalipresso le comunità universitarie e terri-toriali a supporto e integrazione delleattività dei singoli complessi museali,per incrementarne la conoscenza e lacapacità propositiva, eradicarne il ruolo socia-le nella conoscenza so-cio-territoriale. Dal pun-to di vista organizzati-vo, è così coordinata lafruibilità dei musei, laripartizione delle risor-se, la richiesta di finan-ziamenti ad Enti e Istitu-zioni, la risposta a bandiper progetti culturali edi promozione turistica,la partecipazione a ini-ziative di coordinamen-to e consulenza promos-se dal sistema universi-tario italiano.

4. Obiettivi

L’orientamento strategico si concretizzain una serie di obiettivi.

• Costruire itinerari ideali e articolatiche colleghino le multiformi espres-sioni della memoria storica e della ri-cerca dell’Ateneo, e che corrono nonsolo attraverso e all’interno dei Mu-sei, ma anche verso il territorio.

• Assicurare una migliore visibilità deimusei anche al fine di adeguarli alleesperienze e alla domanda/offerta in-ternazionali.

• Armonizzare la gestione delle strut-ture museali equilibrandone i conte-nuti impiantistici, scientifici, tecnolo-gici e culturali, in modo da rendereomogenea l’offerta rispetto alle variearee.

• Ottimizzare l’uso delle risorse dispo-nibili, stabilendo priorità, emergen-ze e urgenze e procedure per rispet-tarle.

Figura 2 - Tassidermisti al lavoro nel Museo di Zoologia

50 Museologia QUADERNI DEL MUSEO

Page 51: N.2-3 Dicembre 2010

Inoltre, il Polo promuo-ve una gamma di servi-zi nelle singole struttu-re museali, compatibilecon le risorse e il perso-nale disponibile qualiaree attrezzate per “na-vette”, reception (acco-glienza), ascolto infor-matico (supporto au-diologico con cuffiette),spazi per la didattica ela divulgazione scienti-fica frontale (esperienzein vivo/dimostrazioni).A tal fine opera attra-verso un sistema di co-municazione telematica

strutturato su organico sito web perl’intero Polo, su prodotti culturali e bol-lettini di informazione online, su news-letter e su punti video collocati nellestrutture museali.

ConclusioniPassando da un’articolazione – quelladel passato – dei Musei di Ateneo comestrutture riferite soltanto ai Dipartimen-ti di appartenenza, ad un modello inte-grato – come l’attuale – si è voluto ac-crescere la qualità e soprattutto la ric-chezza dell’offerta culturale, anche inrelazione a possibili forme di outsour-cing da attività a sostegno del turismo edella richiesta culturale. Al tempo stesso si è inteso dotare l’Ate-neo nelle sue tre componenti, docenti,amministrativi e tecnici, studenti, di unvero e proprio sistema scientifico basa-to sulla storia ed evoluzione delle disci-pline, sulla disponibilità di testimo-nianze e reperti, sull’apprendimento“in vivo”.

5. Futuro

I progettiIl Polo Museale della Sapienza si basasu un “sistema informatizzato unitario”per l’intero Polo unificando le procedu-re informatiche di catalogazione dei be-ni materiali ed immateriali possedutidalle singole strutture museali, anche inrelazione con altri progetti informatici eculturali della Sapienza.Il Polo Museale realizza specifici per-corsi didattico-museali per singole areetematiche, anche in sinergia con enti lo-cali (Ufficio Scolastico Regionale) e isti-tuzioni centrali (MIUR); nello stessotempo attiva un articolato spettro di re-lazioni con quotidiani, organi di infor-mazione telematica, Aziende di Promo-zione Turistica, Tour Operators, al finedi diffondere le informazioni indispen-sabili per la conoscenza e la frequenta-zione dei musei del Polo, ed accrescer-ne il richiamo, soprattutto sui più gio-vani.

Figura 3 - Ingresso del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza che ospita il Museo di Geologia

51MuseologiaDICEMBRE 2010 - N. 2-3

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52 COSTRUIRE STRUMENTI E MODELLI QUADERNI DEL MUSEO

OROLOGIO SOLARE ZODIACALEIstruzioni per la costruzione e l’uso (a cura di B. Pulcinelli)

L’orologio solare segna le ore diurne dalle 8 alle 16 e indica inoltre il segno zodiacale corrispon-dente alla posizione apparente del Sole lungo l’eclittica. Le ore sono identificate dalle linee verti-cali, mentre le linee curve, delimitano il periodo corrispettivo dell’anno (i numeri a lato di ogni fa-scia indicano la durata, in giorni, del periodo). Per costruire la meridiana si devono eseguire al-cune semplici operazioni, indicate di seguito, con l’aiuto delle illustrazioni a pagina 57.

1. Incollare su un cartoncino leggero la doppia pagina centrale.2. Ritagliare la scala laterale (righello), graduata con le latitudini da 0° a 90°.3. Piegare il foglio lungo la linea centrale, in modo che i due quadranti della meridiana rimangano

verso l’esterno. Ripiegare poi in senso opposto le due fasce grigie con i simboli delle costella-zioni zodiacali, seguendo le linee estate-autunno e inverno-primavera (vedi la foto a pag. 57).

4. Forare le due facce in corrispondenza del centro dei quadranti e inserire in ognuno dei fori unostuzzicadenti che sporga di 48 mm, per fungere da gnomone (vedi la fig. 1 a pag. 57).

5. Poggiare il foglio, piegato a forma di tetto, sopra il righello (fig. 2) oppure a lato del righello(come nella foto), in modo che la base di uno dei quadranti sia allineata con il triangolino nerodella scala graduata, mentre la base dell’altro quadrante sia allineata con la posizione della la-titudine del luogo (per Roma: 42°; fig. 2). Il righello va fissato al foglio con nastro adesivo.

6. Rivolgere a Sud la faccia corrispondente alla stagione corrente, con l’aiuto di una bussola).7. La punta dell’ombra dello stilo centrale indicherà l’ora solare vera*, il segno zodiacale in cui si

osserva apparentemente il Sole.* L’ora vera si discosterà di un periodo variabile fino a oltre 15 minuti da quella degli orologi che usano l’ora civile,mentre nei giorni 16 aprile, 15 giugno, 2 settembre, 26 dicembre corrisponderà esattamente, a meno di uno scartodovuto alla differenza di longitudine della località rispetto al centro del fuso orario.

Tempo delle meridiane e Tempo civile (a cura di M. Chirri)

Il Sole, nel suo moto apparente, ritorna al meridiano dell’osservatore con periodi maggiori o mi-nori di 24 ore, a seconda del periodo stagionale. Questo è conseguenza della rotazione annualedella Terra che si compie, secondo la II legge di Keplero, a velocità variabile. In effetti, nel solsti-zio invernale la durata del giorno solare è di 24 h 11 s, nel solstizio estivo è di 23 h 34 s. La diffe-renza fra tempo vero, misurato dalla meridiana, e tempo medio, usato a scopi civili (ora dell’oro-logio), si ricava dalla cosiddetta Equazione del Tempo (E.T.), che esprime graficamente la diffe-rente durata del dì in relazione all’orbita della Terra. Come si può vedere nel grafico qui sotto, lapiccola differenza fra la durata del giorno solare vero e quello civile si accumula giorno dopogiorno, fino a due massimi (il mezzogiorno vero anticipa quello civile) e due minimi (il mezzo-giorno vero ritarda su quello civile); mentre in 4 giorni dell’anno la differenza si annulla e i due pe-

riodi si equivalgono. Di conseguenza, per trovare l’ora civile è ne-cessario sottrarre all’ora della meridiana il valore espresso dall’E.T.giorno per giorno, che si ricava dal grafico qui a lato.Inoltre, se la località dell’osservatore non si trova lungo il meridianocentrale del fuso orario di appartenenza, l’ora della meridiana deveessere ulteriormente corretta, aggiungendo (se si trova a Ovest, osottraendo se ad Est) la differenza dovuta alla longitudine: 4 minutiper 1°. (Per esempio: Roma ha longitudine 12° 30’ Est, per cui la dif-ferenza rispetto al meridiano centrale del fuso, posto a 15° E, è di 2°30’, pari a 10 minuti; poiché Roma si trova a Ovest del fuso centrale,questi minuti vanno sommati all’ora solare vera).

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53Costruire strumenti e modelliDICEMBRE 2010 - N. 2-3

Attenzione➠ STACCARE LE PAGINE CENTRALI PER COSTRUIREUN OROLOGIO SOLARE.

INCOLLARE QUESTA FACCIATA SU UN SUPPORTO(VEDERE LE ISTRUZIONI ALLE PAGINE 52 E 57)

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56 Costruire strumenti e modelli QUADERNI DEL MUSEO

Attenzione➠ STACCARE LE PAGINE CENTRALI PER COSTRUIREUN OROLOGIO SOLARE.

INCOLLARE QUESTA FACCIATA SU UN SUPPORTO(VEDERE LE ISTRUZIONI ALLE PAGINE 52 E 57)

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57Costruire strumenti e modelliDICEMBRE 2010 - N. 2-3

Segue da pagina 52: istruzioni per la costruzione e la messa in opera

Fig. 1

Fig. 2

48 mm

Per garantire la perpendicolarità tra i due gnomoni ei due semiquadranti può essere utile infilare duestuzzicadenti in due dischi di sughero, ricavati da untappo tagliato a fettine, avendo cura che sporgano di48 mm. I due semiquadranti vanno forati in corrispon-denza dei crocicchi disegnati sulle facce anteriori; idue gnomoni, montati sui dischi di sughero, vanno in-filati dal retro, incollando poi i dischi sul cartoncino.

due stuzzicadentiinfilati nei tappi

tappo di sugherotagliato a fettine

retro del doppio orologio

Posizionare la base di un quadrante in corrispondenza del triangolino nero che indica i 90°

Posizionare la base dell’altro semiquadrante in corrispondenzadella latitudine del luogo

righello delle latitudini

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58 GEO-QUIZ QUADERNI DEL MUSEO

SOLUZIONI DEL CRUCIVERBA DEL NUMERO PRECEDENTE

In questo riquadro sono nascosti i nomi di fossili e mi-nerali. Le parole possono essere scritte anche al con-trario, oblique e dal basso verso l’alto... TROVATELI!

RUDISTA - QUARZO - CALCITE - PIRITE - SMERALDO - GRAFITE - CORALLO - PIROSSENO - MOLLUSCO - GESSO

1. GEO-CRUCINTARSIO

...e allora provate a risolvere questi altri quiz!

Facili, no?...

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59Geo-QuizDICEMBRE 2010 - N. 2-3

...sparsi qua e làci sono 11 fossili:

sul letto, per esempio, c’è un dente di squalo.

Dove sono gli altri 10 fossili?

Sono due tipici abitantidelle antiche scogliere di Rocca di Cave.Con l’aiuto delle figuredel Quaderno 1 e di questo quaderno,provate a rispondere:

a. Chi è N?

b. Chi è A?

c. Quanto tempo fa vivevano?

2. IL CERCAFOSSILI

3. LI RICONOSCETE?

a cura di Akira

N A

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–––––––––(1) UTC: Tempo Coordinato Universale, otempo civile, è il fuso orario di riferi-mento da cui sono calcolati tutti glialtri fusi orari nel mondo. Coincide ameno di approssimazioni infinitesi-mali con il GMT (Tempo Medio diGreenwich), ma è basato su misurazio-ni condotte con orologi atomici anzi-ché su fenomeni celesti, come nel ca-so del GMT.

Il Museo “Ardito Desio” si è recente-mente dotato di due sismografi, uno perla rilevazione in continuo dei dati sismi-ci e uno, collegato a un computer, desti-nato agli aspetti divulgativi e a disposi-zione dei visitatori nella sala A (fig. 1). Ilsismografo SL07 permette anche di regi-strare tutti i segnali rilevati su una me-moria a stato solido SD, che consente lostoccaggio di tutti i dati per un eventua-le, successivo utilizzo anche a distanzadi tempo, ed è dotato di un ricevitoreGPS grazie al quale è continuamentesincronizzato con l’orario UTC(1) in mo-do da rendere fruibili i dati raccolti.L’INGV (Istituto Nazionale di Geofisicae Vulcanologia) si occupa del monito-raggio sismico a scala nazionale e delcoordinamento delle iniziativedi monitoraggio locale: in que-st’ottica, il sismografo in uso alMuseo potrà entrare a far partedella rete e mettere a disposi-zione della comunità scientificai dati registrati, oltre che per-mettere ai visitatori di vedere in

60 PREVEDERE GLI EVENTI NATURALI

Il sismografo del Museo, la prevenzione e le false previsioni

Terremoti e “bufale”

QUADERNI DEL MUSEO

Figura 1 - Sismografo in funzione

Francesco Grossi

tempo reale la rilevazione di onde si-smiche non percepite dall’uomo.Il terremoto è forse l’evento naturalepiù “spettacolare”, e assieme alla testi-monianza diretta di come il nostro siaun pianeta vivo porta con sé anche l’i-nevitabile timore delle conseguenze, so-prattutto tra le popolazioni di quei ter-ritori che, per la loro storia geologica,sono fortemente sismici, come quelli delbacino del Mediterraneo. In un substra-to ambientale così sensibile, possonodestare allarmismo anche notizie smen-tite più volte dalla comunità scientifica,che purtroppo non riesce spesso ad ave-re la stessa visibilità.È il caso del presunto devastante terre-moto che avrebbe dovuto colpire Roma

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61Prevedere gli eventi naturali

nel mese di maggio 2011: voci rimbalza-te da trasmissioni televisive di “fanta-scienza” a siti internet, “previsioni” sen-za alcun fondamento scientifico. La datafatale per la Città Eterna doveva esserel’11 maggio, poi, secondo altri sedicentiNostradamus, sarebbe stata procrasti-nata al 10 giugno, forse neanche più aRoma, ma in un imprecisato punto del-l’Italia centrale… chissà se, alla data dipubblicazione di questo numero de “IQuaderni”, sarà stata ancora rinviata,tanto per far parlare ancora di sé graziea delle vere e proprie “bufale” mediati-che… vediamo perché.Tutto sembra partito dagli studi di Raf-faele Bendandi (fig. 2), il romagnolo defi-nito “l’uomo dei terremoti” perché si di-ceva fosse in grado di prevedere i sismiosservando i pianeti… Ma chi era Ben-dandi? Nacque nel 1893 a Faenza, citta-dina che non abbandonò mai e in cui sispense nel 1979, lasciando un’enormemole di appunti, strumentazioni e note,tutto ora esposto nella sua stessa abita-zione, divenuta Osservatorio GeofisicoRaffaele Bendandi. Conclusi gli studicon la quinta elementare, sviluppò unasorprendente manualità come orolo-giaio, forse la sua abilità più spiccata, chegli consentì, in futuro, di costruire degliottimi sismografi, alcuni dei quali ancoraperfettamente funzionanti. Si dice abbiainiziato a interessarsi di terremoti dopolo spaventoso sisma che nel 1908 colpìMessina (fig. 3): a 15 anni, da completoautodidatta nel settore, Bendandi comin-ciò a sviluppare le sue teorie.Secondo il faentino, così come la Luna eil Sole riescono a provocare delle mareeliquide sulla Terra, gli stessi astri, co-adiuvati dagli altri pianeti in particolaricondizioni di allineamento, possono de-

terminare delle “maree solide”, deglispostamenti di masse continentali cheprovocherebbero i terremoti. A questo,aggiungeva delle influenze dovute al ci-clo delle macchie solari, che avrebberoprovocato delle tempeste magnetiche ta-li da produrre sismi. Bendandi fece cen-tinaia di previsioni, in alcuni casi ancheconfermate, se non fosse che in molti ca-si c’era un errore di centinaia di chilome-tri nella localizzazione dell’epicentro.Inoltre, ogni giorno, nel mondo, ci sonoun paio di scosse con magnitudo supe-riore a 6.0: essendo note le aree maggior-mente sismiche del pianeta e indicandoun settore molto vasto, non è difficile,prima o poi, azzeccare qualche previsio-ne, come sostengono i sismologi…

DICEMBRE 2010 - N. 2-3

Figura 2 - Raffaele Bendandi

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del Sole. Le maree, moti periodici checombinano gli effetti dell’attrazione gra-vitazionale e della forza centrifuga delsistema Terra-Luna in rotazione, sonoquindi influenzate dagli altri pianeti inmaniera davvero trascurabile: ad esem-pio, l’influenza di Venere, il pianeta cheesercita sulla Terra la maggiore attrazio-ne dopo Luna e Sole, è di 0,000056 voltequella del nostro satellite, e quella diGiove (massa assai maggiore ma benpiù distante da noi) è 0,000006. Tutto ciò non ha quindi nessuna rilevanza nel provocare dei terremoti: dovremmoavere un sisma devastante ad ogni ciclomareale! Insomma, in qualsiasi discus-sione sui terremoti (a tutti i livelli, com-presi quelli mediatici e amministrativi),il motto dovrebbe essere: più prevenzio-ne e meno false previsioni.Un filone della ricerca scientifica si oc-cupa da tempo di stabilire se si possa fa-re affidamento su alcuni precursori si-

62 Prevedere gli eventi naturali

Raffaele Bendandi lasciò moltissimi ap-punti, alcuni salvati dalla volontà delromagnolo di bruciare tutto dopo la suamorte (su una busta scrisse “distruggerefuoco”), forse ultimo atto vendicativoverso chi lo aveva sbeffeggiato in vita…Nel carnet di note che riguardano glianni 1997-2012, in molti casi sono se-gnate esclusivamente date, senza alcu-na associazione a luoghi specifici; soloper il 2011 l’elenco è composto da 70 date, tra le quali non figura neanche l’11 maggio!Le influenze esercitate dai pianeti del si-stema solare sulla Terra, pur se in per-fetto allineamento, non bastano peròper supportare le teorie di Bendandi.L’attrazione gravitazionale è diretta-mente proporzionale alle masse e inver-samente proporzionale al quadrato del-la distanza tra i corpi: la Luna, relativa-mente piccola ma molto vicina, esercitaun’attrazione doppia rispetto a quella

QUADERNI DEL MUSEO

Figura 3 - Foto d’epoca dopo il terremoto di Messina del 1908.

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63Prevedere gli eventi naturali

smici, come ad esempio il gas radon,cioè se vi sia o meno un nesso (ed even-tualmente in che misura) tra l’incremen-to misurato, in particolari condizioni,della fuoriuscita di radon dal sottosuoloe gli eventi sismici. L’emissione di que-sto gas nobile in atmosfera è fortementeinfluenzata dalla conformazione geolo-gica, e in caso di variazioni di pressioneo di spostamenti di masse rocciose lun-go i piani di faglia si è notata una varia-zione nelle emissioni del gas, che trovauna via di fuga lungo nuove fessure nel-le rocce che si fratturano. Ad oggi perònon risultano studi accettati dalla comu-nità scientifica che ne dimostrino un li-vello di affidabilità tale da rendernepossibile l’uso nell’ambito di protezionecivile, così come non hanno prodotto ri-sultati certi altre ricerche su precursoricome la conducibilità elettrica del suolo,l’emissione di onde radio e altri.Oltre ad intervenire sulla vulnerabilitàdelle strutture in fase di progettazione oanche successivamente (interventi chesembrano scontati ma troppo spessonon tradotti in pratica), c’è un altro mo-do per poterci parzialmente “difendere”dai terremoti: un settore in forte espan-sione è infatti quello che riguarda glistudi sull’early warning sismico (EW), si-stemi di allerta precoce che permettono di

rilevare le prime manifestazioni di unsisma e mettere così in moto i meccani-smi di allarme, anticipando di alcunedecine di secondi l’arrivo delle scossepiù distruttive. Questo è reso possibiledal fatto che le onde con cui si propagaun evento sismico sono composte dalleonde P (primarie), veloci e ad alta fre-quenza, e dalle onde S (secondarie), piùlente, a bassa frequenza ma portatricidella maggior parte dell’energia sismi-ca. In questo modo, una rete di sensoripuò “avvisare” dell’arrivo delle onde Sin tempo per, ad esempio, rallentare tre-ni, interrompere interventi chirurgici,allertare gli aeroporti e attivare altreazioni di messa in sicurezza in temporeale. Diversi paesi si servono già diqueste strumentazioni, tra cui il Giap-pone (fig. 4) e il Messico, mentre inCampania una rete simile è da anni infase di sperimentazione, benché non siaancora attiva: è la ISNet (Irpinia SeismicNetwork), costituita da circa 30 stazioniinstallate nell’Appennino meridionale, icui sensori registrano in continuo le vi-brazioni del suolo.Il background scientifico delle ultimedecine di anni permette di poter dispor-re di sempre migliori strumenti per conoscere l’evento naturale “terremoto”e alcune nazioni sono all’avanguardia

DICEMBRE 2010 - N. 2-3

Figura 4 - Schema didattico di early warning della JMA (Japan Meteorological Agency

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to M= 6.0, con la più forte a M=7.4, benal di sopra della massima scossa che hacolpito l’aquilano nel 2009 (Mw 6.3). LaMw si misura con una scala logaritmica:un punto in più equivale a un’energialiberata dal sisma di circa 30 volte supe-riore: il sisma dell’aquilano, quindi, fucirca 25.000 volte meno “potente” diquello di Sendai… nonostante ciò, inte-ri paesi sono stati completamente rasi alsuolo, raggiungendo quindi, purtroppo,il massimo grado nella scala Mercalli,che valuta i danni. Ancora una volta, inItalia ci siamo fatti trovare impreparati,e sembra che ogni volta si debba inizia-re daccapo…

Testi consigliati

Gasparini, P., Manfredi, G., Szchau, L (eds.),2007. Earthquake Early Warning. Springer-Verlag.

Iervolino, I., Gasparini, P., Manfredi, G., Zollo,A., 2011. A pochi secondi dal sisma. Le Scien-ze, 512, pp. 46-54.

64 Prevedere gli eventi naturali

non solo nella progettazione, ma anchenelle campagne di sensibilizzazione deicittadini. Il Giappone è stato duramentecolpito in termini di vittime dal recenteterremoto di Sendai, il cui numero è sta-to molto elevato non tanto per il crollodi strutture o infrastrutture raggiuntedalle onde sismiche, quanto a causa del-lo tsunami innescato dal sisma (fig. 5).C’è da tener presente che la magnitudodel momento sismico (2) (Mw) ha raggiun-to il valore di 9.0, che ne fa il quarto ter-remoto della storia per energia liberata,veramente un evento eccezionale perpotenza distruttiva. Ci sono state ben 21aftershocks (repliche) che hanno supera-

QUADERNI DEL MUSEO

Figura 5 - Gli effetti del devastante tsunami che ha colpito la costa orientale di Honshu (Giappone)

–––––––––(2) momento sismico (Mw): valore adimensionaleche misura la “forza” di un terremoto in termi-ni di energia liberata. La scala basata sulla Mwfu sviluppata negli anni ’70 come aggiorna-mento della scala Richter: essa prende in consi-derazione i parametri geometrici del piano difaglia e gli spostamenti avvenuti, ed è quindimolto più accurata.

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Roberto Piumini, noto scrittore di narra-tiva per ragazzi, ed Enzo Boschi, per tan-ti anni Presidente dell’INGV (IstitutoNazionale di Geofisica e Vulcanologia),insieme per raccontare la storia di un ra-gazzino e del terremoto di Messina del28 dicembre 1908. Il libro è pubblicatoper i tipi della casa editrice Gallucci e faparte di una collana interamente rivoltaa ragazzi e adolescenti, con un bel cor-pus di opere di narrativa e saggistica de-dicato alla divulgazione scientifica.Il protagonista di questa storia ha 9 annie si chiama Michele Paternò, detto Mico.Vive a Messina e ha sempre tanta vogliadi ascoltare le storie di suo zio, Zi’ Tore,stravagante esploratore che sembra sa-perne tantissime, storie che parlano ditempi antichi, di eventi naturali, di se-greti custoditi dalla madre Terra. Mico sirenderà conto che conoscere la storia

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Enzo Boschi, Roberto Piumini

“Non sta mai ferma”

UN LIBRO ALLA VOLTA

a cura di Francesco Grossi

Enzo Boschi, Roberto Piumini“Non sta mai ferma”Carlo Gallucci Editore, 2005, 109 pp.,collana UAO - Universale d’Avventure e d’Osservazioni.

della Terra e i suoi meccanismi è l’unicomodo per non farsi trovare impreparatiquando, assieme ai suoi familiari e aicompagni di classe, si troverà a fron-teggiare il terremoto, e imparerà che il sisma è una delle tante manifestazionidella vitalità del pianeta che permette lanostra stessa vita.Al termine della storia, un’appendice pu-ramente saggistica (curata dall’INGV)spiega la realtà dei terremoti, al di là diogni finzione letteraria. Una serie diparagrafi molto didattici, corredati da di-segni, hanno come oggetto la deriva deicontinenti, l’interno della Terra, le ondesismiche, gli tsunami, la potenza dei ter-remoti, senza tralasciare alcune semplicima fondamentali regole comportamen-tali in caso di scossa sismica. “Non si pre-vede, ma si previene” è il giusto titolo diquest’ultima parte del volumetto, e comeogni campagna di sensibilizzazione deicittadini è meritoria perchè permette dicomprendere al meglio il “fenomeno ter-remoto” e ridurre rischi e pericoli.Il libro di Boschi e Piumini è quindi si-curamente consigliato ai lettori più gio-vani ma anche ai bambini “cresciuti” chevogliano apprendere alcuni concetti es-senziali sui terremoti e sul “motore” checaratterizza l’interno della Terra.

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(denominato Cranio Guattari 1; figura1) è stato l’elemento principale su cuisi sono basate le ricostruzioni sullecapacità cognitive e sul comporta-mento dei neandertaliani. Il cranio, molto ben preservato e ca-ratterizzato dall’allargamento delforamen occipitale (figura 1b), fuinterpretato come l’oggetto e la te-stimonianza di cannibalismo ritua-le da parte dei neandertaliani du-rante il Paleolitico medio (Blanc,1939). Nel 1989 questa interpretazione,fino a quel momento largamenteaccettata dalla comunità scienti-fica internazionale, fu ribaltatadurante il convegno internazio-nale tenuto a Sabaudia in occa-sione del 50° anniversario del

ritrovamento del cranio. La presenza nella grotta del cranioneandertaliano fu attribuita all’attivitàpredatoria delle iene, di cui la grotta co-stituiva la tana. Da quel momento il mi-to del cannibalismo rituale dei neander-taliani, basato sul ritrovamento del Cir-ceo, fu decisamente accantonato.Il libro di Pennacchi viene pubblicato inun momento in cui le conoscenze sullastoria evolutiva dell’uomo e dei suoiantenati sono in una fase di rapido e co-

UN LIBRO ALLA VOLTA QUADERNI DEL MUSEO66

Dal momento della sua accidentale scoperta nel 1939 (Science News, 1939;Nature Research Items, 1940), il craniodella Grotta Guattari del Monte Circeo

Antonio Pennacchi

“Le Iene del Circeo”a cura di Andrea Billi e Massimo Mattei

Andrea Billi: Consiglio Nazionale delle Ricer-che, IGAGEmail: [email protected] Mattei: Dip. di Scienze Geologiche,dell’Università degli studi “Roma Tre”Email: [email protected]

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stante progresso (si veda, per esempio:Reich et al., 2010). Il libro ha il pregio diportare all’attenzione dei lettori questostraordinario reperto fossile dell’arearomana, dando allo stesso tempo l’op-portunità alla comunità scientifica di riconsiderare criticamente le diverse interpretazioni suggerite per il CranioGuattari dal momento del suo ritrova-mento. In breve, il 24 febbraio 1939 alcuni ope-rai scoprirono accidentalmente l’entra-ta di una grotta, sepolta al di sotto di uncorpo di frana, nelle vicinanze di unpiccolo albergo del Circeo: l’albergoGuattari. All’interno della grotta venne ritrovatoun cranio di Neandertal, successiva-mente datato 50.000 anni BP (Before Pre-sent, prima di oggi) (Schwarcz, 1991),adagiato sul terreno all’interno di uncerchio di pietre (fig. 1). Il giorno successivo il Prof. Alberto Car-lo Blanc, paletnologo dell’Università“La Sapienza” di Roma, visitò la grotta,incontrò gli operai che avevano scoper-to il cranio e prelevò il cranio, che fupoi analizzato all’Istituto di Antropolo-gia insieme al Prof. Sergi.I successivi anni di studio portarono ilProf. Blanc e i suoi collaboratori allaconclusione che il cerchio di pietre el’allargamento artificiale del foramenoccipitale costituivano significative evi-denze di cannibalismo rituale celebratodai neandertaliani nella Grotta Guattaridurante la parte finale del Paleoliticomedio (Blanc, 1962).Alla fine degli anni ‘80 una revisione ditutti i ritrovamenti della Grotta Guatta-ri da parte di studiosi italiani e statuni-tensi raggiunse la conclusione che il

Un libro alla voltaDICEMBRE 2010 - N. 2-3 67cranio di Neandertal era stato portatonella grotta e danneggiato dalle iene,che avevano utilizzato la grotta per lun-go tempo, come dimostrato dalla pre-senza di coproliti e da resti di ossa divertebrati che mostravano evidenti se-gni di morsi di iene (Stiner, 1991; White& Toth, 1991). Allo stesso modo i danni rinvenuti sulCranio Guattari 1 vennero ritenuti com-patibili con il morso delle iene (Whiteand Toth, 1991), mentre il cerchio dipietre di Blanc fu reinterpretato comeun accumulo casuale legato alla norma-le dinamica evolutiva della grotta (Sti-ner and Kuhn, 1992). Nonostante il permanere di numerosiproblemi irrisolti per la piena accetta-zione di ambedue le interpretazioni, l’i-potesi delle iene ha da quel momentoampiamente eclissato l’interpretazionedel rituale neandertaliano nella lettera-tura scientifica e anche nella presenta-zione del Museo Preistorico Pigorini diRoma, dove il cranio è conservato at-tualmente. In questo libro Pennacchi ripercorre cri-ticamente la storia del cranio del Cir-ceo, dal momento della sua scoperta einiziale interpretazione da parte delProf. Blanc, fino alla più recente ipotesirelativa al ruolo delle iene. Sebbene l’Autore durante l’intera narra-zione si esprima apertamente in favoredell’ipotesi del cannibalismo dei nean-dertaliani, il libro contiene una notevolequantità di osservazioni e obiezioni re-lative ad ambedue le ipotesi, mettendoin risalto una serie di problemi ancoraaperti che sarebbero altrimenti statisottovalutati e dimenticati nella genera-le e acritica accettazione dell’ipotesi del-

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le iene. In sostanza il libro ha il pregiodi stimolare la curiosità dei lettori neiconfronti del Cranio Guattari 1, rappre-sentando anche l’occasione per un rin-novato interesse scientifico verso questostraordinario reperto dell’area romana(Billi & Mattei, 2011).L’elemento di maggior interesse scienti-fico, che assume la rilevanza di un veroe proprio scoop, lo si incontra alla fi-ne del libro (nell’addendum), quando

QUADERNI DEL MUSEO68 Un libro alla volta

Figura 1 - (a) La sala interna della Grotta Guattari (Monte Circeo) secondo il disegno di Blanc(1958). La freccia 1 indica il cranio di Neandertal Guattari I all’interno di un cerchio di pietre,mentre le frecce 2, 3, e 4 indicano ossa di vertebrati. (b) Il cranio di Neandertal giace sul pavi-mento della grotta all’interno di un cerchio di pietre, come disegnato da Blanc (1958). (c) Vistalaterale del cranio di Neandertal proveniente dalla grotta Guattari (Mallegni, 1991). (Tratto daBilli & Mattei, 2011)

l’Autore scopre in maniera fortuita cheil suo amico di lunga data, l’ex Senatoredella Repubblica Ajmone Finestra, ave-va visitato la Grotta Guattari nelle pri-me ore subito dopo la sua scoperta, pri-ma dell’arrivo del Prof. Blanc. Nella sua testimonianza il senatore Fi-nestra conferma in pieno la descrizionedella scoperta del cranio di Neandertaldata da Blanc, testimoniando come ilcranio si trovasse sul pavimento della

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Un libro alla voltaDICEMBRE 2010 - N. 2-3 69

Antonio Pennacchi

“Le Iene del Circeo”Editori Laterza, 2010, 211 pp.,Collana “Contromano”

Bibliografia

Billi A. & Mattei M. (2011) - Top of Form Le Iene del Circeo, A. Pennacchi. [The Hyenas of Circeo] Editori Laterza, Bari, Italy (2010). 211 pp., V 10, ISBN: 978 8842092841. Quater-nary Science Reviews. doi:10.1016/j.quascirev.2011.05.008.

Blanc A.C., 1939. L’homme fossile du Mont Circé. L’Anthropologie 49, 253-264.

Blanc A.C., 1958. Torre in Pietra, Saccopastore, Monte Circeo: On the position of the Mousterian in the Pleistocene sequence of the Rome area. In: Koeningswald, G.H.R. (Ed.), Hudert Jahre Neanderthaler. Böhlau-Verlag, Köln, pp. 167-174.

Blanc A.C., 1962. Some evidence for the ideologies of early man. In: Washburn, S.L. (Ed.), The Social Life of Early Man. Routledge, Chicago, pp. 119-136.

Mallegni F., 1991. On the possibility that the Circeo II mandible may have belonged to the same individual as the Circeo I cranium. In: Piperno, M., Scichilone, G. (Eds.), Cranio Neander-taliano Circeo I. Studi e Documenti. Istituto Poligrafico dello Stato, Rome, pp. 391-408.

Nature Research Items, 1940. Fossil man of Monte Circeo, Italy. Nature 144, 106-106.

Reich D. et alii, 2010. Genetic history of an archaic hominin group from Denisova Cave in Siberia.Nature 468, 1053-1060.

Schwarcz, H.P., 1991. On the reexamination of Grotta Guattari: uranium-series and electron-spin resonance dates. Current Anthropology 32, 313-316.

Science News, 1939. A Neanderthal skull found in cave near Rome. Science (Supplement) 90,12-13.

Stiner M.C., 1991. The faunal remain from Grotta Guattari: a taphonomic perspective. CurrentAnthropology 32, 103-117.

Stiner M.C., Kuhn S.L., 1992. Subsistence, technology, and adaptive variation in Middle Paleo-lithic Italy. American Anthropologist 94, 306-339.

White T.D., Toth N., 1991. The question of ritual cannibalism at Grotta Guattari. Current Anthropology 32, 118-138.

grotta all’interno di un cerchio di pietreche, secondo la sua opinione, era dichiara origine artificiale.A questo proposito, Pennacchi ha inter-vistato il senatore Finestra e la sua in-tervista è ora disponibile su YouTube(http://www.youtube.com/watch?v=bMyTqkRS-5k). Se il suo racconto fosse vero, quello sco-perto nel 1939 non sarebbe stato un ac-

cumulo casuale di pietre e l’ipotesi del-le iene sarebbe sostanzialmente inde-bolita.

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70 ARCHIVI DELLA TERRA: IL CLIMA QUADERNI DEL MUSEO

Gli studi relativi agli influssiastronomici sulla sedimenta-zione marina, che oggi costi-tuiscono una parte della Stra-tigrafia denominata Ciclostra-tigrafia orbitale, presero avviodalla Stratigrafia sequenziale(introdotta durante gli anni70 dai classici lavori del teamgeologico della Exxon per leindagini petrolifere: Vail P.,Haq B. e altri), per spiegare lascoperta di cicli sedimentariad altra frequenza. Questi la-vori si sono ampliati rapida-mente, portando contributinotevoli alla Stratigrafia e al-la Sedimentologia, definen-do con maggiore ampiezzaobiettivi e risultati della nuo-va disciplina. Nell’originariaformulazione di Vail (fig. 1),nella sedimentazione marinasono riconoscibili cicli di vario ordine,indicati con i numerali tra I-IV. Di que-sti, quelli del III-IV ordine sono ricon-ducibili alle variazioni globali dei para-metri chimico-fisici degli oceani, parti-colarmente quelle indotte da oscillazio-ni climatiche conseguenti alle variazio-ni astronomiche della curva di Milan-kovitch, con periodi rispettivamente di

23 mila (solo precessione) e 200 mila an-ni (periodo dovuto alla somma in fasedi precessione, obliquità, eccentricità)(fig. 2). Variazioni più ampie in meritoai mutamenti climatici, e per tempi piùestesi, si realizzano quando gli stessifattori astronomici entrano in fase conla tettonica globale, effetto geologico

Gli archivi degli antichi mutamenti climaticie le cause delle variazioni climatiche

Maurizio Chirri

(parte seconda)

Maurizio Chirri: Direttore del Museo, Docentea contratto, Università degli studi “Roma Tre”

Figura 1 - Tavola con le principali variazioni dellivello marino nel Cenozoico. Si riconoscono 15 alti e 12 bassi; da notare il brusco flesso

in corrispondenza dei livelli 10-11

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del motore termico terrestre, generandoi cicli di I e II ordine (periodicità da mi-lioni a centinaia di milioni di anni), in-fluenzati anche da risonanze con altripianeti, che intensificano le ciclicità diMilankovitch.Gli studi del gruppo del Bureau des Lon-gitudes di Parigi (Laskar J., Robutel P.,2004) hanno condotto a identificare duerisonanze notevoli: quella con l’orbitadi Marte, con periodicità di 405 mila an-ni, e una seconda con le orbite di Giovee Venere, avente periodicità di 2,4 mi-lioni di anni.Attraverso questi contributi sisono ulteriormente ampliati irisultati del Programma GSSP(Global Stratotype Section andPoint), mirato a identificare adaltissima risoluzione cronologi-ca i limiti fra le diverse gerar-chie stratigrafiche (ere, periodi,epoche, età). Per un numerocrescente di località, gli stratoti-pi sono stati confermati e me-glio precisati cronologicamentegrazie all’indagine ciclostrati-grafica (fig. 3).

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Per l’Era cenozoica (66,5 Ma-At-tuale), particolarmente nel baci-no del Mediterraneo, i risultatihanno consentito di migliorarele datazioni, con una precisioneche si avvicina a 10-100 mila an-ni, per il periodo Neogene, e acirca 100-200 mila anni per il Paleogene.Le indagini nell’ultimo decen-nio si sono estese a tutto il Me-sozoico, permettendo un affina-

mento della risoluzione cronologica perl’intera era a meno di 1 milione di anni.L’indagine ciclostratigrafica si applica or-mai a bacini sedimentari corrispondentia un’ampia varietà di condizioni pa-leoambientali, dalle piattaforme carbo-natiche, ai domini di transizione, ai baci-ni pelagici. I fenomeni che caratterizza-no le sequenze cicliche coinvolgono:

TettonicaEustatismoApporto sedimentarioClima

I primi due fattori definiscono la loca-lizzazione e l’evoluzione del bacino se-

Figura 2 - Ciclicità dovute all’eccentricità nella Formazione dei Trubi, età Zancleano.Punta di Maiata, Agrigento

Figura 3 - Limite Miocene-Pliocene (5,33 Ma) (freccia),presso il G.S.S.P. di Eraclea Minoa, Agrigento

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dimentario, gli altri due le mo-dalità di deposizione.I fenomeni che riflettono le ci-clicità astronomiche sono l’eu-statismo e il clima, capaci dimodulare la sedimentazioneciclica, attraverso la ripetizio-ne di un limitato numero di li-totipi.Gli studi ciclostratigrafici con-sentono ai geologi di identifi-care fasi trasgressive e regres-sive e di correlarle con metodidi datazione radiometrica ba-

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sati su rapporti isotopici, qualiK/Ar, o 87Sr/86SrPer esempio, gli strati del Mes-siniano che fanno parte dellaFormazione Gessoso-solfifera con-sentono di lavorare a una scaladi elevato dettaglio: in tal casogli strati sono correlati con levariazioni dell’eccentricità se-condo fasi di 200 mila o 400 mi-la anni (figg. 4-5).Negli ultimi 30 anni la ciclostra-tigrafia ha innescato un ampiodibattito, coinvolgendo geologidel sedimentario, sedimentolo-gi, stratigrafi, fisici, statistici,studiosi di dinamica del Siste-ma solare.Contemporaneamente le inda-gini si sono estese a tutto l’EoneFanerozoico (550 Ma-Attuale).Come già evidenziato, i risulta-ti, soprattutto per il Cenozoico,hanno prodotto convincenti ri-sultati, fino a stabilire parallela-

mente alla SSTG (Scala Stratigrafica delTempo Geologico), una SSTA (ScalaStratigrafica del Tempo Astronomico),che permette il riconoscimento dei limi-

Figura 4 - Tavola per le correlazioni con il para-metro insolazione delle ciclicità sedimentariedella Formazione Gessoso-solfifera nell’areamediterranea

Figura 5 - Strati del Messiniano, presso Gibliscemi

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ti cronostratigrafici con un det-taglio di un ordine di grandez-za in più.Al Convegno dell’ICS (Inter-national Commission on Strati-graphy) - IAMG (InternationalAssociation of Mathematical Geo-logy), svoltosi a Liegi nel 2006,si è ipotizzato che entro il se-condo decennio del secolo laciclostratigrafia diventerà unostrumento diagnostico tale damigliorare la conoscenza dellastoria geologica di almeno unordine di grandezza.

Paleoclimi e tettonica

Il riconoscimento di estese gla-ciazioni e di periodi geologicicaratterizzati da temperaturemedie maggiori di quelle at-tuali sono interpretati come ilriflesso di imponenti fenomenitettonici che scandiscono e in-tensificano i cicli astronomici. Nellastratigrafia sequenziale sono riconduci-bile ai cicli di I-II ordine. Le ciclicità del-le ere glaciali dalla recente (5 Ma-Attua-le), a quella Permo-carbonifera (250Ma), all’Ordoviciana (450 Ma), a quellaProterozoica superiore (650 Ma) e Pro-terozoica media (900 Ma) e, infine, adaltre più antiche, sembrano essere scan-dite da intervalli di circa 250 milioni dianni (Rhodes W. Fairbridge, 1987: circala metà del periodo previsto per il ciclodel supercontinente) (fig. 6).Durante gli ultimi 570 milioni di anni,nell’eone Fanerozoico, le registrazionipaleoclimatiche, raccolte in numerosempre maggiore, evidenziano una di-stribuzione regolare delle fasce climati-

che e una scarsa o assente stagionalitàalle basse latitudini. Questi indizi con-fermano un’inclinazione dell’asse di ro-tazione prossima ai valori attuali. Cadecosì l’ipotesi di una ridotta obliquitàdurante l’Era mesozoica, che alcuni au-tori avevano suggerito per giustificarela presenza di foreste alle paleolatitudi-ni circumpolari, o gli inesplicabili dino-sauri antartici.

Glaciazioni enigmatiche

Per il Proterozoico, l’eone che si esten-de fra 2500 e 570 milioni anni fa, i dati

Figura 6 - Schema delle tre principali glaciazioni e corrispondente obliquità

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geologici e paleoclimatici sono inveceenigmatici. I geologi hanno riconosciu-to tre principali glaciazioni proterozoi-che. Una antichissima, verificatasi circa2500 milioni di anni fa, e due più recen-ti che si sono susseguite fra 800 e 600milioni di anni fa. Le tracce della piùantica glaciazione, chiamata Huronia-na, sono ben evidenti in Canada nellazona a nord del lago Huron. Quelle del-le due glaciazioni più recenti sono spar-se in diversi continenti. In numerose lo-calità si trovano affioramenti geologiciriferiti al Proterozoico superiore, ov-vero rocce antiche fra 800-600 milioni di anni fa. Il Proterozoico superiore èun’era geologica di importanza crucia-le per la storia della Terra e per l’evolu-zione della Biosfera. Circa 800 milionidi anni fa, il periodico “gioco” delleplacche spinse le terre emerse a riunirsiin un unico supercontinente, chiamatodai geologi Rodinia (in greco, ([Terra]dell’alba, fig. 7).

Dove i continenti s’incastrarono fra diloro, lunghe catene montuose si innal-zarono a segnarne le suture. Tali restisegnano oggi le orogenesi Panafricana eBrasiliana. Molte di quelle rocce con-tengono le testimonianze del passaggiodi antichissimi ghiacciai e mostranoun’insolita caratteristica. Le loro paleo-latitudini, ricavate grazie alle analisi delmagnetismo residuo, indicano ambientidi formazione prossimi ai tropici o ad-dirittura vicini all’equatore dell’epoca.Diversamente dalla Pangea, il successi-vo raggruppamento continentale che siformò circa 280 milioni di anni fa, i siticon tracce di un’antica glaciazione era-no disposti prevalentemente lungo lafascia paleotropicale di Rodinia, che oggi corrisponde a settori di crosta di-stribuiti dall’Australia occidentale, al-l’Antartide, al Nord America occidenta-le, alla Namibia (Africa del Sudovest)(fig. 8).Inoltre altri dati sono problematici: gli

oceani di quelle lontane epo-che erano popolati da sem-plici microrganismi, quali lealghe azzurre cianoficee. Tra iprodotti della loro attività c’e-rano anche le stromatoliti cheformarono le prime scogliere,nei mari caldi del precam-briano e lungo le coste dellepiattaforme continentali diRodinia. Sono state trovatestromatoliti proterozoiche inScandinavia e nelle Svalbard,

Figura 7 - Ricostruzione del super-continente Rodinia; i pallini scuri cor-rispondono a depositi sedimentari ri-feribili a tilliti, antiche morene depo-stesi a latitudini intertropicali

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a quell’epoca collocate a latitudini me-dio-alte. Dunque i ghiacciai della Terraal tempo di Rodinia si spingevano finoai mari equatoriali, e le scogliere tempe-rate proliferavano in prossimi-tà dei circoli polari. La Terravista dallo spazio, sarebbe ap-parsa come una palla di ghiac-cio, o come una strana sferagelata all’equatore. Si fecestrada l’ipotesi che il pianeta apiù riprese avesse subito dellebrusche strigliate climatiche,dovute a rapide variazioni ointerruzioni del ciclo geochi-mico del carbonio. Si ipotizza-rono imponenti variazioni del-la CO2 atmosferica in grado diprodurre vicissitudini climati-

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che estreme. Tuttavia si è presto ricono-sciuto che nessuna plausibile variazio-ne della composizione chimica atmo-sferica poteva spiegare una flessionedella temperatura media globale di cir-ca 30 °C rispetto all’attuale, necessariaper giustificare i ghiacciai lungo la lineadei tropici. Fu anche ipotizzata una diminuzionecospicua della costante solare, decisa-mente smentita dagli astrofisici. Perconfronto, all’apice dell’ultima glacia-zione la temperatura media annua ri-sultava di 8 o 9 °C inferiore all’attualevalore medio (15,2 °C).

Una possibile spiegazione alternativa: la Terra come Urano

Le prove geologiche, sia pure con alcu-ni dubbi relativi ad alcuni dati sulle an-tiche latitudini, indicano con chiarezzala portata delle passate vicissitudini cli-matiche a testimoniare che la Terra peruna lunga parte della sua storia è incor-sa in disastrose glaciazioni, alternate aclimi inspiegabilmente torridi fino aipoli. Ma i dati di terreno sono a loro

Figura 8 - Namibia, Skeleton Coast:falesie del Proterozoico superiore con massi erratici glaciali

Figura 9 - Ricostruzione pittorica della Terra con le distese glaciali all’equatore; l’asse di rotazione rivolto

al Sole è inclinato di 50°

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spazio, in una condizione chela renderebbe irriconoscibile ainostri occhi. Piegata quasi co-me Urano, puntava i suoi polidirettamente verso il Sole, (fig.9). L’antico equatore ricevevameno energia delle regioni allealte latitudini, e quando il mo-tore di Gaia spostava le plac-che nel giusto assemblaggio, sirendevano possibili, come og-gi, estese glaciazioni. La dispo-sizione chiave era opposta a

quella che rende attiva oggi la macchi-na del freddo, le terre emerse dovevanocollocarsi prevalentemente ai tropici.La registrazione geologica secondoquesta ipotesi torna a una corretta in-terpretazione. Le aree glaciali erano allebase latitudini, mentre nelle zone dellealte latitudini dei due emisferi si trova-vano i climi caldi o temperati. Le testi-monianze geologiche fuori posto, qualile tilliti nella Scandinavia e nelle Sval-

bard del Proterozoico, risulte-rebbero dovute a ghiacciaimontani (figg. 10-11).

Il nostro satellite e la Biosfera

Proprio alla fine dei lunghissi-mi eoni della “vita primordia-le”, un meccanismo mirabileha prodotto le condizioni per-ché il pianeta subisse una bru-sca metamorfosi delle condi-zioni della sua orbita e dellamacchina del clima. La Luna,un satellite insolitamente gran-de per un pianeta di tipo terre-stre, ha determinato con i suoiimponenti effetti mareali, un

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volta contraddetti dai limiti dell’evolu-zione chimica dell’atmosfera e dalla“costanza” della costante solare. Lacontraddizione, tuttavia, potrebbe esse-re solo apparente. Un’ipotesi alternati-va è stata avanzata da Williams (1994).Per miliardi di anni la piccola sfera ter-restre probabilmente ha rotolato nello

Figura 10 - Imponenti falesie del Proterozoicosuperiore; Spitsbergen, Norvegia)

Figura 11 - Tillite proterozoica

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costante allungamento della durata deldì. 500 milioni di anni fa il giorno dellaTerra durava circa 22 ore. Una testimo-nianza diretta di tale fenomeno derivadalla paleontologia. Ancora nel periodoDevoniano, 400 milioni di anni fa, glianelli di accrescimento annuale dei co-ralli erano costituiti da circa 400 laminediurne (fig. 12).L’anno durava 400 gior-ni perché, rimanendo in-variato il semiasse mag-giore dell’orbita, ovverola durata dell’anno, legiornate erano più cor-te. Proprio la durata delgiorno di 22 ore avrebbeindotto un effetto di ri-sonanza con il periododi rotazione del confinenucleo-mantello, origi-nando un accrescimentoesponenziale della dissi-

pazione meccanica tra le due geosfere.Queste poderose forze endogene sareb-bero responsabili della brusca diminu-zione (fig. 13) del valore angolare del-l’inclinazione dell’asse di rotazione da50° a 25°, realizzatasi in circa 100 milio-ni di anni.In ultima analisi il nostro satellite natu-rale sarebbe il regolatore di importantiaspetti della dinamica del pianeta. Tut-tavia, per alcuni autori gli effetti dellaLuna sarebbero ancora più ampi.Forse la costruzione di stromatoliti, dal-l’Archeano e per tutto il lunghissimoProterozoico, si erano perfettamenteadattate a un mondo con giorni, stagio-ni e climi così diversi da quelli conosciu-ti durante gli ultimi 500 milioni di anni.Ma si possono avanzare forti dubbi, chela successiva complessità dei viventi sisarebbe sviluppata altrettanto bene inun mondo dove le regioni delle ombrelunghe si trovavano tra le immense dis-tese tropicali. Circa 600 milioni di annifa, mentre Rodinia si frammentava e ighiacciai si scioglievano, concordemen-te una rivoluzione investiva la Terra ela Vita.

Figura 13 - Diagramma della storia dell’obliquità della Terra:in evidenza il brusco flesso del Proterozoico superiore

Figura 12 -Tetracorallo

del periodoDevoniano

(416-359 Ma);sull’epiteca

si riconoscono oltre 400 lamine

di accrescimento diurno per anno

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organismi appartenen-ti a rami dell’alberodella vita che non han-no avuto seguito, maanche organismi in cuisi riconoscono i pianiorganizzativi dei phylache oggi costituisconola grande varietà deiviventi. Fra questi ulti-mi compare un piccolofossile, Pikaia, lungopochi centimetri, chemostra un chiaro detta-glio, un’asse, una cor-da interna, che ne fan-no il probabile antena-to di tutti i vertebrati.

La vita ha mostrato in quel periodo unarepentina fioritura e si sono affermate,in quello che geologicamente è unistante, comunità biologiche pluricellu-lari profondamente innovative, con unaloro complessa ecologia.Solamente una coincidenza ha sincro-nizzato gli orologi della Terra, della Lu-na e della Vita? Cosa sarebbe accadutose la Terra, come gli altri pianeti terre-stri, non avesse avuto un satellite di di-mensioni significative? Simulazioni della dinamica della Terrain assenza della Luna dimostrano che laTerra sarebbe andata incontro a disa-strose variazioni epocali dell’inclina-zione (fig. 14).Questo verosimilmente è quanto è acca-duto a Marte a causa delle modestissi-me dimensioni dei suoi satelliti, Phobose Deimos: l’inclinazione dell’asse delpianeta rosso varierebbe caoticamentetra i 10° e 60° in modo decisamente piùampio di quanto precedentemente pre-visto.

Forze immani, in parte endogene e inparte cosmiche, raddrizzavano l’assedel pianeta, e la Biosfera conoscevaun’improvvisa esplosione di forme. Inuna località dell’Australia chiamataEdiacara, nel 1946 furono trovati i restidei più antichi organismi pluricellularifino ad allora scoperti, risalenti a circa570 Ma fa. In realtà, oggi sappiamo cheorganismi pluricellulari sono comparsimolto prima (si veda la rubrica PaleoNews in questo stesso numero), ma glieventi biologici verificatisi tra la finedel Proterozoico e l’inizio del Paleozoi-co appaiono straordinari. All’inizio delsecolo scorso, infatti, nei pressi di Bur-gess Pass, nelle Montagne Rocciose del-la Columbia Britannica, furono trovati iresti straordinariamente ben conservatidi organismi pluricellulari, contenuti instrati argillosi di 520 Ma fa. Tra le circa50 specie identificate, sono state descrit-te forme incredibilmente strane, a cui ipaleontologi hanno dato nomi caratte-ristici, quali Hallucigenia e Anomalocaris,

78 Archivi della Terra: il clima QUADERNI DEL MUSEO

Figura 14 - Diagramma che illustra il ruolo stabilizzatore della Luna,in merito all’obliquità dell’asse: A in presenza della Luna, B obliquitàcaotica nell’ipotesi di una Terra senza Luna

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79Archivi della Terra: il clima

Tra gli addetti ai lavori si fa strada ilconvincimento che un satellite di gran-di dimensioni sia un requisito essenzia-le per un asse di rotazione stabile. Inqualunque periodo della storia del pia-neta, la nostra Luna ha quindi svoltouna funzione simile a un “pacemaker”planetario. La lunghissima infanzia del-la vita e la sua successiva evoluzioneverso la complessità hanno goduto diun privilegio che nell’universo potreb-be risultare raro. Quando le future mis-sioni di telescopi spaziali a interferome-tria ottica, con obiettivi TPF (TerrestrialPlanet Finder), rinvieranno a Terra le im-magini di altri sistemi planetari, un’ul-teriore sfida tecnologica sarà rappre-sentata dalla capacità di identificare isatelliti dei pianeti rocciosi. Lo statodelle attuali conoscenze indica che pro-babilmente la famosa equazione di Dra-ke sulle civiltà extraterrestri è costituitada un ulteriore termine.

Bibliografia

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Schopf J. William, La culla della vita, Adelphi,2003.

Glossario

Archeano: Eone corrispondente alla parte anticadel Precambriano (4000 Ma-2500 Ma). All’ini-zio dell’Archeano si erano già differenziate la cro-sta oceanica e la crosta continentale, alla fine sisvilupparono gli organismi eucarioti. Precedutodall’Adeano, e seguito dal Proterozoico.

Eustatismo: termine introdotto dal geologo E.Suess (1906) per le fluttuazioni del livello mari-no, le cui cause sono riferibili a influssi astro-nomici (teoria astronomica delle glaciazioni), oriflesso della tettonica globale.

Epiteca: rivestimento esterno del calice del coral-lite.

Huroniana (glaciazione): antichissima glaciazio-ne del Proterozoico medio, le cui tracce sono par-ticolarmente riscontrabili in Canada, presso laregione dei Grandi laghi.

Proterozoico: Eone corrispondente alla parte piùrecente del Precambriano (2500 Ma-542 Ma).Durante il Proterozoico l’atmosfera si arricchìprogressivamente in ossigeno, permettendo allafine dell’Eone, lo sviluppo dei metazoi (organismicomplessi).

Piattaforma carbonatica: area marina di scarsaprofondità, con isole e lagune, estesa da decine acentinaia di km, caratterizzata da una sedimen-tazione carbonatica, avente spessori da centinaiaa migliaia di metri. Esempio attuale le Bahamas.

Tilliti: nome di origine scozzese: rocce costituite dasedimenti di origine glaciale.

Stromatoliti: strutture sedimentarie calcaree diambiente di mare sottile, costituite da finissimelamine sovrapposte, costruite dall’attività di al-ghe cianoficee. Rappresentano l’evidenza macro-scopica di attività biologica fin dall’Archeano inferiore (3600 Ma-Attuale).

Tetracoralli (o Rugosa): ordine di coralli paleozoi-ci, classe Anthozoa, comparsi nel periodo Ordo-viciano, estintosi nel Permiano superiore (485Ma-260 Ma).

Risonanza: in meccanica celeste, si dicono in riso-nanza quei rapporti fra i periodi di caratteristi-che orbitali di satelliti e pianeti esprimibili comefrazioni di numeri interi (p.e. risonanza 1:2 fra i periodi orbitali di Europa e Io: Io compie due orbite nello stesso intervallo in cui Europa necompie una).

DICEMBRE 2010 - N. 2-3

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METEO

In questo spazio vengono presentati i dati registrati dalla stazione meteorologicadel Museo Geopaleontologico:

temperatura (minima e massima), vento (direzione dominante e velocità), precipitazioni (pioggia - neve) e stato del cielo (S = sereno, M = misto, C = coperto).

Il tempo che ha fattoAssociazione Onlus Edmondo Bernacca

QUADERNI DEL MUSEO80

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Meteo

Associazione Edmondo Bernaccaonlus

Figura 1 - La centralina meteo posta sulla terrazza della Rocca

DICEMBRE 2010 - N. 2-3 81L’Associazione Edmondo Bernacca - Onlus “racconta”la scienza del tempo attraverso la divulgazione e l’in-formazione della meteorologia passata, presente e fu-tura. Fra i soci fondatori, il figlio di Edmondo, Paolo, ilGen. Andrea Baroni, la Dott. Franca Mangianti (Presi-dente dell’Associazione), responsabile dell’Osservato-rio meteorologico del Collegio Romano di Roma, e inoti meteorologi Giancarlo Bonelli e Francesco Lau-renzi. Proprio in quest’ottica è nato il Progetto CLIMA,in cui rientra la centralina meteo di Rocca di Cave, unsito importante vista la sua posizione dominante sullaProvincia Romana.

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82 I PROTAGONISTI QUADERNI DEL MUSEO

Carlo Fabrizio Parona nacque a Mele-gnano nel 1855, ed è stato uno dei piùinfluenti geologi e paleontologi italiani(figg. 1 e 7). Laureatosi in Scienze Naturali all’Uni-versità di Pavia nel 1878, fu assunto daTorquato Taramelli come assistente allacattedra di Geologia della stessa uni-versità, dove rimase, sotto la guida delsuo mèntore, fino al 1890. Taramelli eraun’eminente figura di geologo-naturali-sta, una delle più importanti dell’epoca,e da lui Parona apprese moltissimo,conservandone sempre un’affettuosavenerazione. Fu poi assunto come professore di geo-logia dall’Università di Torino nel 1889,ruolo che ricoprì per oltre un quaran-tennio, dirigendone anche il Museogeopaleontologico, fino al 1930, l’annodel pensionamento. In questo lungo pe-riodo di tempo, oltre a portare avanti lesue ricerche, fu il maestro per diversegenerazioni di geologi, che costituiro-no, grazie a lui, una vera e propriascuola nel campo geopaleontologico.Fu nominato Presidente della SocietàGeologica Italiana per due volte, nel1901 e nel 1913.Dopo diversi anni dedicati allo studiodella geologia e delle faune fossili delGiurassico lombardo (ma non solo), lasua successiva specializzazione furonoi depositi cretacici, in particolare le fa-cies di scogliera con i loro fossili così

particolari tra cui le rudiste, bivalviadattati a questi ambienti ad altissimaenergia. Ma Parona fu geologo a tutto tondo co-me era in uso a quei tempi, prima dellaframmentazione della ricerca scientificae del sapere dei decenni successivi. Fu-rono, quelli di Parona, anni in cui lespecializzazioni analitiche permisero

Carlo Fabrizio Paronaricercatore e divulgatore

Francesco Grossi

Figura 1 - Carlo Fabrizio Parona ritratto nell’opera celebrativa di Federico Sacco (1930)

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un incredibile balzo in avanti delle co-noscenze geologiche, ma senza maiperdere di vista l’obiettivo finale, ossial’integrazione di tutte le conoscenze aservizio di una sintesi che poneva le ba-si per la comprensione della geologiad’Italia e non solo.

All’inizio del ’900 Parona è già un auto-revole punto di riferimento, soprattuttoper un’importante pubblicazione sul-le rudiste dell’Appennino meridionale(Parona, 1900, fig. 2) tanto che a lui sono dedicate specie, tra cui Radiolitesparonai (Dainelli, 1901), una specie dirudista della famiglia Radiolitidae orariferita al genere Sauvagesia.Il suo interesse per le scienze della Ter-ra fu molto ampio, come testimoniatoda un importante testo sulla geologiad’Italia (Trattato di geologia con partico-lare riguardo alla geologia d’Italia, 1903)così apprezzato e ricercato da avereuna seconda edizione nel 1924. La seconda metà dell’800 vide la nasci-ta delle prime esplorazioni scientifichesui ghiacciai alpini: nel 1904 fu istituitaun’apposita Commissione per lo studiodelle variazioni periodiche dei Ghiacciai(quella che in seguito diverrà il Comita-to Glaciologico Italiano), e Parona ne funominato Presidente dal 1910 al 1913.Gli indiscutibili, altissimi meriti scienti-fici fecero sì che tutte le più importantiAccademie dell’epoca lo elessero a so-cio: l’Accademia dei Lincei (che già nel1904 gli aveva conferito un Premio Rea-le), l’Istituto Lombardo e la prestigiosaAccademia delle Scienze di Torino (fig.3), solo per citarne alcune, che lo nomi-nò suo socio nazionale nel 1899 e Presi-dente nel 1928, carica confermata anchealla scadenza del mandato triennale.

83I protagonistiDICEMBRE 2010 - N. 2-3

Nell’epoca del colonialismo in Africasettentrionale e centrale, come Presi-dente della Commissione Geo-agrologi-ca per la Tripolitania (una carica gover-nativa) fu uno dei più importanti scien-ziati che si adoperarono con ricerche eprospezioni per il miglioramento agra-rio dei territori libici, senza peraltro ri-nunciare alla sua cifra di paleontologo:è del 1913 il volume La Tripolitania set-tentrionale, mentre ancora nel 1933 pub-blica Di alcune rudiste della Tripolitania,solo per citarne un paio. Produsse an-che diversi lavori di geomorfologia epaleontologia a seguito di spedizioni inSomalia.Al Piemonte, sua terra d’adozione, de-dica molte delle sue monografie. Da ri-cordare, sopra tutti, due

Figura 2 - Frontespizio di uno dei primi lavori dell’Autore sulle rudiste (1900)

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volumi: Caratteri ed aspetti geologici delPiemonte (1922, (fig. 6) e Il Piemonte e isuoi paesaggi (1935a).Anche gli aspetti applicativi della geo-logia non sfuggirono allo spirito polie-drico di Parona: studi idrogeologici percaptare acque potabili, relazioni su sor-genti termo-minerali, progetti per pos-sibili comunicazioni ferroviarie tra Tori-no e la Svizzera, oltre a numerose appli-cazioni in campo agrario.Ma, come visto, la sua produzionescientifica fu ampia ed estesa anche dalpunto di vista geografico, caratteristicache crebbe con la sua fama, tanto chemolte spedizioni all’estero di suoi colle-ghi, anche in territori mol-to lontani, richiedevano lasua consulenza per offrirealla comunità scientificadelle analisi sicuramentepiù puntuali. È il caso, ad esempio, di una pubblicazione del1935 (Parona, 1935b), nellaquale sono descritte diver-

se specie di rudiste raccol-te da Ardito Desio duranteuna spedizione in Persia,nella catena dello ZardehKuh; Desio, campione an-che di longevità (è scom-parso nel 2001 all’età di104 anni!), fu anch’egligrande geologo oltre che

esploratore, e in una delle sue “avven-ture” mediorientali « ebbe occasione diraccogliere interessanti appunti geografici egeologici e di riunire una collezioncina dirudiste, che, con cortesia della quale gli sonogratissimo, volle offrirmi in studio», comescrive Parona nella sua pubblicazione.E come poteva l’Autore tenersi lontanoda quella che fu una delle più memora-bili spedizioni italiane di sempre, quel-la effettuata da De Filippi e altri versol’Himalaya (fig. 4), “quando l’Himalayaera più lontano delle stelle”, come reci-ta il titolo di un recente volume dedica-to a quella storica spedizione (Mazzonie Anastasio, 2008)? La spedizione fu ef-

84 I protagonisti QUADERNI DEL MUSEO

Figura 3 - L’Accademia delle Scienze di Torino in una stampa d’epoca

Figura 4 - I componenti della spedizione De Filippi

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fettuata nel 1913-1914: furono condottistudi geologici, meteorologici, fisici(misure di magnetismo e gravità), rilie-vi topografici, osservazioni antropolo-giche, e negli anni successivi furonopubblicati tutti i contributi scientifici. AParona spettarono le sue amate faunefossili mesozoiche, con due pubblica-zioni (1927a,b) sui fossili del Triassico edel Cretacico.Nel 1930, Parona compie 75 anni e, do-po aver dato un contributo fondamen-tale alla paleontologia e in generale alleScienze della Terra, arriva così alle so-glie della pensione. Per l’occasione, viene omaggiato da Fe-derico Sacco con un’opera che ne riper-corre la carriera scientifica. Sacco fusenza dubbio uno dei più at-tivi e influenti geologi italia-ni di sempre: autore di centi-naia di pubblicazioni, diret-tore per diversi anni del Ser-vizio Geologico, ebbe intui-zioni straordinarie dal puntodi vista scientifico e sotto lasua spinta il Servizio Geo-logico produsse moltissimifogli della carta geologicad’Italia.L’opera da lui compilata perParona contiene un ritrattofotografico autografo del-l’autore (fig. 1), a cui seguel’elenco delle sue pubblica-zioni scientifiche, 174 lavoriordinati cronologicamentesenza note biografiche. L’illustre redattore tiene aprecisare, nella sua nota in-troduttiva, le ragioni di que-sta apparente manchevolez-za. Scrive infatti Sacco:

85I protagonistiDICEMBRE 2010 - N. 2-3

«In occasione del 75° anniversario del Prof.Carlo Fabrizio Parona, chiudendosi per leg-ge la sua carriera didattica, svoltasi attra-verso mezzo secolo, con operosità e sapereammirevoli, dapprima a Pavia poi a Torino,i suoi colleghi, amici e discepoli avrebberodesiderato di tributare allo scienziato insi-gne ed al Maestro amatissimo, solenni ono-ranze e porgergli segni tangibili della lorogrande ammirazione e del loro profondo af-fetto. Ma per la somma modestia di Lui che,intuendo detta idea, si mostrò assolutamen-te contrario a manifestazioni di tale genere,si dovette limitare la desiderata commemo-razione alla pubblicazione di un fascicoloche, assieme all’immagine buona di Lui, se-gnali, almeno in sintesi nominale, l’immen-sa sua opera scientifica».

Figura 5 - Esemplare di Cossmannea edoardiParona (sezione longitudinale naturale)

esposto al Museo “Ardito Desio”

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na qualche giovane paleontologorichiedesse la sua consulenza.Il Museo “Ardito Desio” ha ap-profondito la figura di Carlo Fa-brizio Parona durante la risiste-mazione delle sue collezioni: ilpatrimonio geopaleontologicodel Museo comprende infattianche un esemplare di Cos-smannea edoardi Parona (fig. 5),un gasteropode della famigliaNerineidae istituito dall’auto-re nella sua imponente mono-grafia sulla fauna cretacicadei Monti d’Ocre (1909), unlavoro di oltre duecento pa-gine pubblicato nelle Memo-rie Descrittive della CartaGeologica d’Italia.È una forma di nerineide didimensioni medie di formaconica regolare, diffusa neilivelli riferibili al Cenoma-niano (circa 100 milioni dianni fa) in Appennino cen-trale e segnalata nell’area

di Rocca di Cave già da Carbone etal. (1971).Inoltre, a parte questa specie di gastero-pode, ogni ricerca approfondita sulgruppo delle rudiste al fine di classifi-carle e di avere informazioni sull’anticoambiente di vita, deve necessariamentepassare per la figura di Carlo Parona,che nel campo è stato uno dei massimiesperti. Parona non si trovò mai a lavo-rare sulle successioni rocciose di Roccadi Cave; è del 1908 un lavoro sulla fau-na a rudiste dei Monti Affilani pressoSubiaco (Valle dell’Aniene), ma al di làdelle peculiarità locali nelle associazio-ni fossili, alcune analisi sono universalie spendibili ovunque, basti pensare al

86 I protagonisti

Ma anche negli anni successivi alla pen-sione, Parona continuò ugualmente lesue ricerche, dimostrando come la pas-sione per le scienze della Terra andasseoltre alle cariche e agli onori ricevuti incarriera: si “ritirò” in un ufficio conces-sogli dall’Accademia delle Scienze diTorino (alla quale aveva donato tutta lasua immensa biblioteca geo-paleontolo-gica) e produsse ancora diversi lavori,circa una quarantina, alcuni dei qualidivulgativi, oltre a offrire i propri con-sigli e le sue puntuali analisi non appe-

QUADERNI DEL MUSEO

Figura 6 - Copertina della monografia sulla geologia del Piemonte (1922)

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87I protagonisti

rapporto tra morfologia della conchi-glia fossile, modalità di vita e ambientesedimentario. Anche prendendo in con-siderazione gli aspetti paleogeografici,l’Autore studiò a fondo le successionidell’Appennino centrale il quale era,nel Mesozoico, un’unica, grande piatta-forma carbonatica al cui margine pro-speravano scogliere a rudiste, racco-gliendo una enorme mole di dati mor-fologici, sistematici e paleoambientalitale da rendere ancora oggi imprescin-dibile il suo lavoro.Oltre agli aspetti “cattedratici” del suoessere geologo, era ben conscio dell’im-portanza di divulgare le conoscenzescientifiche a un pubblico il più vastopossibile, come scrive nell’introduzionedi uno delle sue monografie sulla geo-logia del Piemonte (1935a), mostrandola sua consueta modestia:

«Cresciuto alla scuola dello Stoppani e delTaramelli e, non avendomi le forze concessodi raggiungere i Maestri insigni, ho cercatodi seguirli, sia pure da lontano, nell’esem-pio da loro dato tanto brillantemente di di-vulgare le nozioni di geologia anche ex ca-thedra, mezzo altrettanto utile ed efficace,per quanto più difficile».

È compito di chi studia le scienze geo-logiche avvicinare le persone alle bel-lezze naturali, rendere comprensibile ilchiaro legame tra la storia geologica e ilpaesaggio, come scrive nel suo lavorodel 1922 (fig. 6):

«L’essenza del paesaggio, comunque esso sipresenti, è sempre fortemente geologica.(…) Le bellezze naturali vogliono esserecomprese ed apprezzate, non soltanto guar-date ed ammirate: a questo fine, fra gli altri,mirano le Scienze Naturali. Ora, vorrei chele spiegazioni del geologo avessero la virtù

di attirare lo sguardo e insieme l’attenzionedell’osservatore sui monumenti naturali esui paesaggi (…) anche perché essi sianostudiati ed interpretati nelle loro origini,nei loro elementi e fattori, oltre che nelle at-trattive del loro aspetto».

Divulgatore e, allo stesso tempo, raffi-nato uomo di ricerca nel senso pienodel termine, come è sintetizzato da unaltro brano, tratto ancora dalla mono-grafia sulla geologia del Piemonte:

«Le conquiste nel campo delle idee per in-cessanti ricerche, e le scoperte nel campo deifatti, sulla costituzione e struttura, sulle de-formazioni, sulla storia della corteccia ter-restre e della sua superficie, determinarononella mente degli studiosi il succedersi ed ilsostituirsi di concetti, che sottoposti a criti-ca e selezione, con arresti nell’evolversi del-le idee, deviazioni ed anche ritorni a visioniantiche, portarono a concezioni geologichesempre più complesse, le quali, mentre han-no risolto molti problemi, altri nuovi nehanno prospettati e proposti alla ginnasticadell’intelletto, dimostrando quanto la con-quista del vero sia troppo spesso lontana,contrariamente alle apparenze. Ma qui,stando nei limiti delle induzioni e deduzionigeologiche attendibili, perché appoggiate aifatti, possiamo proporci di rispondere, conconvinzione d’essere nel vero, a parecchiedomande, suggerite dalla contemplazionedel panorama che ci sta dinnanzi».

Carlo Fabrizio Parona muore nel gen-naio del 1939 a Busto Arsizio, colpito da

DICEMBRE 2010 - N. 2-3

Figura 7 - Firma dell’Autore

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88 I protagonisti

nefrite all’età di 84 anni, dopo aver tra-scorso, come ogni anno, le festività na-talizie con la sua famiglia. Tra i ricordi di molti eminenti colleghied allievi dell’epoca scegliamo ancorauna volta le parole di Federico Sacco(1939), puntuali ed allo stesso temposentite e commoventi:

“Apprezzai in pieno non solo l’acuto spi-rito scientifico di Carlo Fabrizio Parona,ma anche la nobiltà dell’animo suo, laspiccata integrità del suo carattere e lagrande bontà del suo cuore. Ma la miapenna è incapace di scrivere degnamentedi Lui (…). Quale fu lo scienziato, talel’Uomo: superiore”.

Bibliografia

Carbone, F., Praturlon, A., Sirna, G., 1971. TheCenomanian shelf-edge of Rocca di Cave(Prenestini Mts., Latium). Geologica Romana,10, pp. 131-198.

Dainelli, G., 1901. Appunti geologici sulla partemeridionale Del Capo di Leuca. Boll. D. S. G.It., vol. XX, p. 646, tav. XIII, fig. 1.

Mazzoni M., Anastasio, S., 2008. Quando lestelle erano più lontane dell’Himalaya. Acca-demia dei Fisiocritici, Siena, pp. 1-47.

Parona, C.F., 1900. Sopra alcune rudiste senonia-ne dell’Appennino meridionale. AccademiaReale delle Scienze di Torino, pp. 1-22, tavv. 3.

Parona, C.F., 1903. Trattato di geologia con par-ticolare riguardo alla geologia d’Italia. F. Val-lardi, Milano, pp. 1-730, tavv. 20.

Parona, C.F., 1908. Notizie sulla fauna a rudistedella pietra di Subiaco nella Valle dell’Anie-ne. Bollettino della Società Geologica Italiana,vol. XXVII, (3), pp. 299-311.

Parona, C.F., 1909. La fauna coralligena delCretaceo dei monti d’Ocre. Memorie Descrit-tive della Carta Geologica d’Italia, 5: 3-235.

Parona, C.F., 1913. La Tripolitania settentriona-le, voll. I e II. Tip. Naz. Bertero, Roma.

Parona, C.F., 1918. Prospetto delle varie facies eloro successioni nei calcari a rudiste dell’Ap-pennino. Bollettino della Società Geologica Ita-liana, pp. 1-12.

Parona, C.F., 1922. Caratteri ed aspetti geolo-gici del Piemonte. S. Lattes e C., Torino, pp.1-128.

Parona, C.F., 1927a. Faunette triassiche del Ca-racorùm e degli altopiani tibetani. In: Spedi-zione Italiana De Filippi nell’Himàlaya, Ca-racorùm e Turchestàn cinese (1913-1914). N.Zanichelli, Bologna, serie 2, vol. VI, pp. 1-40,tavv. 7.

Parona, C.F., 1927b. Faune cretaciche del Cara-corùm e degli altopiani tibetani. In: Spedi-zione Italiana De Filippi nell’Himàlaya, Ca-racorùm e Turchestàn cinese (1913-1914). N. Zanichelli, Bologna, serie 2, vol. VI, pp.103-147, tavv. 5.

Parona, C.F., 1933. Di alcune rudiste della Tri-politania. Bollettino del Regio Ufficio Geologico,vol. LVIII.

Parona, C.F., 1935a. Il Piemonte e i suoi paesag-gi. G.B. Paravia e C., Torino, pp. 1-169.

Parona, C.F., 1935b. Di alcune rudiste dello Zar-deh Kuh in Persia. Accademia Reale delleScienze di Torino, pp. 1-17, tav. 1.

Sacco, F., 1930. Carlo Fabrizio Parona. Accade-mia Reale delle Scienze di Torino, pp. 1-16.

Sacco, F., 1939. Carlo Fabrizio Parona. Accade-mia Reale delle Scienze di Torino, pp. 1-28.

QUADERNI DEL MUSEO

Page 89: N.2-3 Dicembre 2010

89DICEMBRE 2010 - N. 2-3

ATTIVITÀ DIDATTICHE DEL MUSEO

Ufficio Comune (lunedì-sabato ore 9-13.30):tel. 06 9584098/9574952; fax 06 9584025

siti web: [email protected] / www.hipparcos.it

mail: [email protected]

Orari di apertura: Pubblico: sabato e domenica: 10.00 - 13.00 e 16.00 - 19.00

Scuole e gruppi: martedì e venerdì su prenotazione (per scuole e gruppi superiori alle 20 unità). Costi: euro 4-5 (per tipologia di attività).

Note: Le attività si svolgono durante l’intero periodo scolastico. Attività previste:Visita al museo; Laboratorio; Percorso esterno; Intervento in classe: su richiesta.

■ SCUOLE PRIMARIE - Alla scoperta delle rocce e dei fossili.Età: 8-10 anni; classi: 3-4-5; durata attività: 3 ore; costi: 4 euro.

Obiettivi didattici: Introduzione all’osservazione del territorio della regione, l’orientamento geografico, il riconoscimento delle rocce e dei fossili.

■ SCUOLE MEDIE - La storia del Lazio raccontata dalle rocce e dai fossili.Età: 10-13 anni; durata: 3 ore; costi: 4 euro.

Obiettivi didattici: Introduzione all’osservazione del territorio della regione, l’orientamento geografico, il riconoscimento delle rocce e dei fossili, le fasi del-l’evoluzione dell’Appennino.

■ SCUOLE MEDIE SUPERIORI - Sulle sponde di un altro mare: l’evoluzione geologica dell’Appennino centrale.Età: 14-18 anni; durata: 3 ore; costi: 4 euro.

Obiettivi didattici: Introduzione all’osservazione del territorio della regione, il riconoscimento delle rocce e dei fossili, le principali fasi dell’evoluzione e dellastrutturazione della catena appenninica, la nascita del Mar Tirreno e dei vulcanilaziali.

MODULO DIDATTICO “ESPLORIAMO IL CIELO”

Laboratorio: Serata astronomica (o Planetario didattico, sostitutivo per cause me-teorologiche o su richiesta); durata: 150’-180’; costi: 5 euro.

Attività previste: Visita al museo; Seminario; Osservazione astronomica; Plane-tario (opzionale); Percorso esterno.

Obiettivi didattici: Favorire l’acquisizione delle conoscenze di base dell’Astronomia.

APPUNTAMENTI AL MUSEO

Page 90: N.2-3 Dicembre 2010

sima nube. Proprio l’elevata eccentricità(0,85) dell’orbita di Sedna, un pianetinodi dimensioni simili a Plutone, con 1800km di diametro, indicherebbe che unoggetto massiccio è presente ad almeno500 volte la distanza di Nettuno, ovverocirca 15 000 U.A. Ma in questo caso nonsi tratterebbe di Nemesis, la nana bruna,a lungo cercata dagli astronomi, possi-bile compagna minore del Sole, bensì diun pianeta (fig. 1).La massa e le dimensioni di questo ipo-

tetico oggetto, calcolate sul-la base degli effetti prodot-ti, sarebbero tipici dei “gi-ganti gassosi”. La massa diTyche è stata ipotizzata 4volte quella di Giove, conun diametro leggermentemaggiore rispetto al gigan-te del Sistema. Il pianetacompirebbe l’orbita in circa1,5 milioni di anni. Gli au-tori dell’ipotesi, gli astrono-mi John Matese e DanielWhitmire (University ofLouisiana), si ripropongonodi esaminare la mole di datiraccolta dal satellite WISE(acronimo per Wide-fieldInfrared Survey Explorer),

Tyche: un possibile nuovo pianeta ai confiniestremi del Sistema

Alcune anomalie nei parametri orbitalidi un pianetino della Fascia di Keuper(KBO), il “plutino” Sedna, starebbero aindicare la presenza di un corpo mas-siccio situato nella cosiddetta Nube diOort (fig. 1), in grado di catapultareverso la zona interna del Sistema alcunidei cometesimi che popolano la lontanis-

Tyche. Il Rover su Marte. La cometa 9P/Tempel.Saturno ed Enceladus.

a cura di Maurizio Chirri

Figura 1 - La nube di Oort, comparata con le dimensioni del Sistema solare, NASA JPL

90 BREVI DAL SISTEMA SOLARE QUADERNI DEL MUSEO

Page 91: N.2-3 Dicembre 2010

il telescopio spaziale della NASA perl’osservazione nell’infrarosso. In effettil’ipotetico pianeta, sarebbe così freddo,circa 50 K (-223 °C), da emettere ben po-ca radiazione su tutto lo spettro, e la lu-ce solare vi giungerebbe circa 25 milavolte più debole rispetto aNettuno. La traccia del pia-neta sarebbe identificabileproprio nell’infrarosso, labanda spettrale esaminatadal telescopio della Nasa.Una precedente ricerca effet-tuata da J. Matese utilizzan-do i dati del satellite IRAS(acronimo per Infra RedAstronomical Satellite), ope-rativo nel 1983, ha avuto esi-to negativo, contribuendo adeterminare proprio i limitisuperiori di distanza e mas-sa dell’oggetto ricercato. Lascelta del nome Tyche, colle-gata alla mitologia classica, siriferisce alla dea greca della“Fortuna”, e indica insieme ilcaso e la sorte favorevole.

Marte: roverOpportunity, diario di un esploratore

Il rover giunto su Marte il24 gennaio 2004 (tre setti-mane dopo il gemello Spi-rit), ha compiuto all’iniziodel 2011 il settimo anno diattività esplorativa. La sua vita operativa fuoriginariamente previstadai tecnici del Jet Propul-sion Laboratory (JPL) in 90giorni. Dopo aver compiu-to un percorso di oltre 25

km, si trova attualmente sul bordo su-dorientale di un cratere da impatto di90 metri diametro, denominato SantaMaria (figg. 3-4), a circa 7 km dalla suc-cessiva tappa: il grande cratere Ende-vour, di circa 20 km di ampiezza. L’inte-

Figura 2 - Ricostruzione pittorica di Tyche comparata con le dimensioni di Giove

Figura 3 - La camera panoramica del rover mostra da ovestl’interno del cratere Santa Maria, riempito da dune di sabbieeoliche, indizio di una formazione non recente. NASA 2011

91Brevi dal Sistema SolareDICEMBRE 2010 - N. 2-3

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Incontro con la cometa: 9P/Tempel raggiunta dallasonda STARDUST

La sonda interplanetariaSTARDUST ha raggiunto,il 14 febbraio, la cometaTempel 1, effettuando unfly by (sorvolo ravvicinato)a 178 km di distanza. Lacometa 9P/ Tempel, sco-perta nel 1862 dall’astrono-mo Tempel (noto per glistudi sui corpi minori), ri-sulta il primo fra i cosid-detti “corpi minori” del Si-stema ad avere ricevuto la

ra regione mostra signifi-cative proprietà minera-logiche, identificate dallospettrometro di bordo del-la sonda Mars Reconnais-sance Orbiter (MRO). Nell’area è stata ricono-sciuta nel regolite la pre-senza di fillosilicati e solfatiidrati. Tali minerali sonoindicativi di un ambientedi formazione con la pre-senza di acqua liquida.

Figura 4 - Area del cratere di S. Maria; il cerchio indica la posizione del rover che studial’interno del cratere.MRO Mars Reconassance Orbiter. NASA 2011

Figura 5 - Fotomosaico di 9P/Tempel, ripreso dalla sonda.

La freccia in basso indica l’area modificata dall’impatto

del 2005. NASA 2011

92 Brevi dal Sistema Solare QUADERNI DEL MUSEO

Page 93: N.2-3 Dicembre 2010

visita di due sonde. Infatti nel 2005 erastata raggiunta dalla sonda DEEP IM-PACT, una missione NASA dedicata al-lo studio della composizione mineralo-gica delle comete di “corto periodo”. Ledimensioni dell’oggetto, 14x4x4 km, nefanno una vera e propria “patata” spa-ziale; il periodo orbitale è di circa 5 annie la sua orbita è compresa fra quelle diMarte e di Giove (perielio 1,5 U.A., afe-lio 4,7 U.A.): appartiene infatti alla co-siddetta “famiglia cometaria di Giove”.Lo studio della dinamica e della com-posizione di questi corpi è un obiettivoimportante della planetologia. Infattil’attivazione di getti cometari al perie-lio, ed eventuali perturbazioni orbitaliprodotte da Giove all’afelio, possonocausare frequenti modifiche dei para-metri orbitali, rendendo questi oggettipotenzialmente pericolosi anche perl’orbita terrestre. Quando raggiunse lacometa, il 4 luglio 2005, la sonda DEEPIMPACT rilasciò una massa di 350 kgche colpì la superficie della Tempel,causando la formazione diun cratere con un diametrodi 200 metri e profondo cir-ca 30 (fig. 5). Scopo dellamissione era l’analisi spet-troscopica del materiale dif-fuso dall’impatto, che evi-denziò la presenza di sili-cati, carbonati, solfuri me-tallici e idrocarburi policicli-ci, determinando quindi lacomposizione di un oggettodi tipo “primordiale”. LaSTARDUST ha effettuato ri-prese fotografiche dell’areadell’impatto e del cratere ar-tificiale. Per compiere que-sta missione la sonda è sta-

ta riattivata, con il nome STARDUST-NExT (STARDUST New Exploration ofTempel). Aveva infatti già compiuto, nelgennaio del 2004, l’incontro con la co-meta Wild 2, di cui con successo avevaraccolto campioni delle polveri cometa-rie, catturate grazie a una delle due su-perfici di un dispositivo costituito daun disco di uno speciale gel. L’altra su-perficie ha raccolto invece polveri inter-stellari. Quando la sonda si è trovatanuovamente in prossimità della Terra, il 15 gennaio del 2006 il dispositivo si è staccato ed è ritornato con un modu-lo di rientro, toccando il suolo in unaregione dello Utah (USA), permettendoil recupero diretto delle preziosissimepolveri.

Saturno: la luna Enceladus e i vulcani di ghiaccio

La sonda Cassini, giunta al settimo an-no di operatività (vedi “I quaderni”

Figura 6 - Ripresa dei geyser criovulcanici di Encelado, NASA 2011

93Brevi dal Sistema SolareDICEMBRE 2010 - N. 2-3

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braio 2011, è il 24° della missione Cassi-ni rivolto a Encelado, con l’obiettivo diriprendere le zone attive della regionepolare meridionale. La straordinaria attività vulcanica dellapiccola luna è causata da un peculiaretipo di riscaldamento esogeno. Infattil’oggetto di modesto diametro, che nondispone quindi di risorse interne suffi-cienti, subisce gli effetti indotti dalla“risonanza” 2:1, che esprime il rapportofra il suo periodo orbitale e quello dellaluna più esterna, Dione.Il fenomeno, simile a quello attivo suIo, nel sistema di Giove, determina unripetuto sollevamento e abbassamentodella crosta, e questa imponente defor-mazione meccanica indotta si dissipa incalore, permettendo il riscaldamentoplanetario (fig. 7).È lecito supporre che, sotto la crostaghiacciata, potrebbero esistere ampi vo-lumi del mantello allo stato fluido o se-mifluido, forse un oceano d’acqua, cherende Encelado un obiettivo delle ricer-che astrobiologiche (come già Europa,satellite di Giove).

n° 1, p. 64) continua il programma diesplorazione delle lune di Saturno. Nelmirino, fra gli altri, Enceladus, il secon-do satellite, scoperto da W. Herschel nel1789, con un diametro di circa 500 km euna densità di 1,6 g/cm3. La luna fu raggiunta per la prima voltadalle sonde Voyager I e II, rispettiva-mente nel dicembre del 1980 e nell’ago-sto del 1981. Il fly-by ravvicinato di Voyager II misein evidenza una impressionante varietàdi formazioni geologiche, compresearee di recente formazione. In effettiEnceladus, insieme a Io (Giove) e Trito-ne (Nettuno), è uno dei tre satelliti nelSistema dove è attivo un intenso edesteso vulcanismo (fig. 6). In questo ca-so si tratta del cosiddetto criovulcani-smo, le cui temperature di emissioneoscillano fra -30 e 0 °C, contribuendocosì a spiegare le anomalie termiche dialcune regioni. L’anomalia sud-polare,per esempio, arriva a circa 160 K (-110°C), un valore decisamente elevato ri-spetto alla media superficiale di 70 K.L’ultimo sorvolo ravvicinato, del 20 feb-

Figura 7 – Blocco-diagramma della crosta

ghiacciata e del sottostante mantello

parzialmente fuso, che alimenta “cameremagmatiche” di acqua

liquida all’origine dei geysers

94 Brevi dal Sistema Solare QUADERNI DEL MUSEO

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95LA CONQUISTA DELLO SPAZIODICEMBRE 2010 - N. 2-3

Alle ore 10:00 locali del mattino di mer-coledì 12 aprile del 1961, Radio Moscaannunciò al mondo che un uomo, ilmaggiore sovietico Yuri AlekseyevichGagarin, di 27 anni, era stato lanciatonello spazio. Poche laconiche parole,quelle dello speaker Yuri Levitan, cheebbero però un effetto dirompente inogni angolo del pianeta. Iniziava così,quel giorno, l’avventura umana allaconquista dello spazio. Sono passatiesattamente 50 anni ma il ricordo diquel volo durato solamente 1 ora e 48minuti resta scolpito nella Storia. Per laprima volta un uomo si avventurava

nel spazio, sfidando l’incognita di unnuovo ambiente ostile e dando contem-poraneamente agli abitanti della Terrala sensazione che l’intera Umanità daquel momento sarebbe diventata “co-smica”. È difficile per un giornalista oggi descri-vere l’avvenimento al di là della puracronaca di quanto successe quel giorno.Ci sono momenti nei quali l’emozioneprevarica il fatto e pone l’Uomo un pas-so più avanti. Quel mattino del 12 apri-le 1961 ogni abitante della Terra, ap-prendendo la notizia del lancio del pri-mo cosmonauta della Storia, capì chedal quel momento l’Uomo era andatoavanti nel suo percorso di civilizzazio-

12 Aprile 1961:l’alba dell’avventura

Paolo D’Angelo

Paolo D’Angelo: giornalista scientifico

Figura 1 - Yuri Alekseyevich Gagarin

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96 La conquista dello spazio QUADERNI DEL MUSEO

ne e di coscienza universale. Un uomoera uscito per la prima volta dalla sua“culla” e come per ogni grande eventostorico ognuno, ancora oggi, ricorda do-ve era esattamente e cosa stesse facendoquando ne apprese la notizia.La semplice cronaca di quei giorni rac-conta invece di un crescendo di vociche davano per imminente un sensazio-nale lancio spaziale da parte dell’URSS(Unione delle Repubbliche Socialiste Sovie-tiche). Già il 10 aprile alcuni quotidianiitaliani indicavano per prossimo unlancio umano da parte dell’URSS. All’o-rigine di questa notizia trapelata in oc-cidente, c’era un giornalista britannicocorrispondente da Mosca che, essendoamico di alcuni dirigenti dell’Accade-mia delle Scienze, aveva avuto questa“soffiata”.

Pochi, però, erano al corrente che quellostesso giorno tre uomini, tre cosmonau-ti, erano in piedi davanti ad una com-missione in attesa di un verdetto cheavrebbe cambiato la loro vita. I tre era-no Yuri Gagarin, German Titov e Grigo-ri Nelyubov che insieme ad altri 17 era-no stati selezionati già nel febbraio del-l’anno 1960 per compiere un’impresainseguita anche dagli Stati Uniti d’A-merica: mettere un uomo in orbita in-torno alla Terra. La scelta cadde su Ga-garin e tra le varie motivazioni ci fu an-che il fatto di essere figlio di un sempli-ce operaio, emblema del socialismo diallora. Titov, scelto come sua prima ri-serva, era invece figlio di un maestroelementare, appartenente quindi aduna classe più agiata. Gagarin doveva,oltre che sfidare per primo lo spazio,

Figura 2 - Prima pagina di un quotidiano statunitense del 12 aprile 1961

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97La conquista dello spazioDICEMBRE 2010 - N. 2-3

rappresentare l’eroe sovietico per eccel-lenza: di umili origini, lavoratore in-stancabile e soprattutto devoto alla Ma-dre Patria Russa.Il cosmonauta, insieme alle sue riserve,terminò le ultime fasi dell’addestra-mento presso la base spaziale di Bayko-nur, nella regione del Kazakhstan, in at-tesa del lancio previsto intorno alle ore11:00 locali (le 9:00 a Mosca) del 12 apri-le. Artefice di questo volo, come di tuttii successi ottenuti nello spazio dai russifin dal 1957, fu il costruttore capo Ser-gei Korolev. La mattina del 12 aprile fulo stesso Korolev a svegliare Gagarin eTitov che dormivano in una piccola da-cia poco lontano dal centro di controllo.Dopo la vestizione i due cosmonauti sa-lirono su un bus che in mezz’ora li por-tò ai piedi della rampa di lancio nume-ro 1, dove il giorno prima era stato eret-

to il vettore Semiorka (conosciuto in oc-cidente come R-7). Lo stesso razzo ave-va messo in orbita 4 anni prima anche ilprimo satellite della storia: lo Sputnik.Alle 9:10 Yuri Gagarin era seduto all’in-terno della capsula e alcuni problemicirca la perfetta chiusura del portelloneritardarono i controlli finali. Quandotutto fu finalmente risolto, alle 11:07 ilrazzo si staccò dalla rampa. “Poyekhali!”che tradotto dal russo significa “siamopartiti!” furono le prime parole pronun-ciate dal cosmonauta subito dopo il de-collo. Alle 11:21 arrivò a Terra il segnaleche la capsula chiamata Vostok (“orien-te” in lingua russa) con il suo preziosocarico umano era entrata in orbita conuna inclinazione di 65,07° rispetto alpiano equatoriale. All’interno della Vo-stok (annunciata senza il numero pernon far capire in occidente che fosse l’i-

Figura 3 - Gli ultimi controlli sulla navicella Vostok prima del lancio

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nizio di un nuovo programma) Gagarinera in contatto con la Terra e trasmette-va le sue sensazioni e ciò che riusciva ascorgere dal piccolo oblò posto sopra lasua testa. Rimarranno nella storia le suefamose parole: «vedo la Terra azzurra».Nel frattempo, come detto, Radio Mo-sca annunciava l’evento quando ancorail cosmonauta era in orbita. Nell’Unio-ne Sovietica ci fu il tripudio ma la noti-zia, corredata con le prime foto del gio-vane sorridente, finirono su tutti i gior-nali del mondo usciti in edizione straor-dinaria. La foto di Gagarin diffusa dal-l’agenzia di stampa russa TASS cam-peggiava sui quotidiani e suscitò, inogni parte della Terra, simpatia e am-mirazione. La notizia non fu appresa daparte americana con “terrore”, comesuccesse per lo Sputnik nell’ottobre del1957. Questa volta in orbita era un uo-mo e non una macchina con chissà qua-li potenziali armamenti come si credet-te allora. L’uomo aveva una faccia sem-plice e pulita e questa fu un’ulterioremossa vincente, almeno sotto il profilopropagandistico, voluta dall’allora pre-mier russo Nikita Kruscev. Gagarin in-tanto, finita la sua unica orbita, si ap-prestò al rientro. Una sola orbita, un solo giro intorno alnostro pianeta segnò l’inizio della storiadei voli spaziali umani. Un volo durato108 minuti a un’altezza massima di 302chilometri. Gagarin al rientro, avvenu-to alle 10:55 di Mosca nel deserto dellaregione di Saratov, fu accolto festosa-mente da contadini che accorsero in suoaiuto. Le prime persone ad avvicinarsia quell’insolito uomo che, in tuta aran-cione, scendeva dal cielo appeso a unparacadute, fu un’anziana insieme allasua nipotina. Gagarin dovette faticare

non poco per tranquillizzarle e spiegar-gli chi fosse e soprattutto da dove ve-nisse. Altrettanti festeggiamenti furonotributati al cosmonauta due giorni do-po sulla Piazza Rossa di Mosca, dovetutto il Politburo, schierato con Kruscevin testa, lo accolse come il figlio dellapatria insignendolo del titolo dell’Ordi-ne di Lenin, ossia Eroe dell’Unione So-vietica, una delle più alte onorificenze.Il premier sovietico lo presentò al mon-do come il prototipo dell’eroe russo cheper primo, con coraggio, aveva sfidatol’ignoto, portando a termine una mis-sione perfetta. Solo oggi sappiamo invece che il co-smonauta russo rischiò di diventare ilprimo martire della conquista dellospazio. Nelle fasi di rientro nell’atmo-sfera il modulo di servizio non si distac-cò completamente dalla sfera abitata daGagarin. Fortunatamente l’intenso calo-re generato dall’attrito bruciò i cavi chetenevano ancora agganciati i due mo-duli ed il viaggio si concluse come pre-visto con l’atterraggio nelle campagnepresso la città di Saratov. Altra omissione taciuta dalle autoritàsovietiche, per anni, fu quella riguar-dante il fatto che il cosmonauta si eiettòdalla capsula quando era ancora a circa7.000 metri di quota atterrando con ilproprio paracadute. Questa uscita pre-matura dalla navicella avrebbe invali-dato agli occhi della Federazione Inter-nazionale di Astronautica (IAF) il volo,non classificandolo come un completovolo spaziale. Per la IAF si intende volospaziale umano quando il pilota parte erientra all’interno della capsula. L’emo-zione nel mondo però era tanta e ancoraoggi si dubita che la Federazione avreb-be potuto non riconoscere un’impresa

98 La conquista dello spazio QUADERNI DEL MUSEO

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L’URSS celebrò il volo di YuriGagarin nel 1961, con l’emis-sione di tre francobolli comme-morativi. Il valore di 3 copechiporta il ritratto di Gagarin; men-tre il 10 copechi ricorda la datadello storico evento. Il 6 copechiè in due parti: nella parte supe-riore compaiono alcuni simbolidelle ricerche spaziali (tra i qualiil satellite Sputnik e la Vostok),edifici civili e scientifici (il Crem-lino, radiotelescopi, osservatorî)e due scritte: “L’uomo della na-zione dei soviet nello spazio” (in alto) e“Gloria alla scienza e alla tecnica sovietica” (nellascia del missile). Nella parte inferiore del francobollo una frase del premier russo: “Il no-stro popolo per primo ha aperto il cammino verso il socialismo. Lui, penetrando nellospazio, ha aperto una nuova era di sviluppo scientifico. N. S. Chruščëv”.

così eroica come fu quella del cosmo-nauta russo. Perché Yuri Gagarin è statodavvero un eroe della nostra epoca.Con il suo coraggio ha sfidato per pri-mo l’ignoto. Oggi andare nello spazio è“relativamente semplice” o almenoogni astronauta sa a cosa va incontro econosce le sensazioni che lo attendono.Per Gagarin non fu così. Al tempo, non-ostante fossero stati inviati nello spazioanimali di ogni sorta, i medici non sa-pevano quale reazione avrebbe avuto ilcorpo umano soprattutto a livello cere-brale. Tra le varie ipotesi si pensava an-che alla possibilità che un uomo nellospazio potesse impazzire e quindi nonessere in grado di governare la capsula.

Per questo motivo Gagarin, all’internodella sua Vostok, non aveva specificicompiti di guida ma doveva solo auto-controllarsi per capire ogni tipo di rea-zione alla quale andava incontro nelnuovo ambiente. Tutte le operazioniche la capsula doveva svolgere in orbitavenivano gestite dal centro di controllodi Terra. Fin qui la cronaca di quello storico volocompiuto il 12 aprile 1961. Si tornò aparlare di Yuri Gagarin il 27 marzo del1968, quando l’eroe sovietico morì tra-gicamente insieme a un altro espertopilota collaudatore in un incidente ae-reo che ancora oggi resta incomprensi-bile nella sua dinamica.

99La conquista dello spazioDICEMBRE 2010 - N. 2-3

Le Poste Italiane hanno ricordato il 50° anniversario delprimo volo umano nello spazio con la pubblicazione di unfrancobollo su Gagarin. Il francobollo è stato emesso nel2011 e ha un valore di 0,75 euro. Nell’immagine compare inprimo piano il volto di Yuri (o Jurij) Gagarin, in secondo pianol’astronave Vostok 1 sull’orizzonte della Terra e, nello sfondo,il Sistema solare.

Astronautica e filatelia (a cura di Maurizio Chirri)

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irregolare. Gli aumenti improvvisi displendore di questo oggetto sono statiregistrati a partire dal 1898, con succes-sive repliche negli anni 1933, 1958, 1967e 1985, mentre gli studi su di essa sonostati intrapresi con una certa regolaritàa partire dal 1918; da quel momento,sono state raccolte circa 34.000 osserva-zioni, condotte per lo più da astrofili econsultabili presso il database interna-zionale dell’AAVSO (American Associa-tion of Variable Star Observers). In parti-colare, l’evento del 1933 fu scoperto ca-sualmente da un osservatore italiano,Eppe Loreta, che lavorava da Bologna,e che quella sera, mentre osservavaun’altra variabile (Y Oph), si accorsedell’aumentata luminosità della nostra.Durante e immediatamente dopo la fa-se esplosiva, mentre la stella sta lenta-mente ritornando alla fase di quiete, an-che il suo colore varia, virando violen-temente verso il rosso, sintomo questo

dell’enorme emissione di energiache avviene in corrispondenzadella riga alfa dell’idrogeno.

Le fasi dell’esplosioneUna tipica esplosione di RS Oph,mostra un rapidissimo aumentodi luminosità dal minimo fino alla quinta magnitudine circanell’arco di circa 24 ore. Dopo ilparossismo esplosivo, il ritornoverso la fase quiescente avviene

VARIABILIA QUADERNI DEL MUSEO100

La stella di cui ci occupiamo è RSOphiuchi, una variabile classificata comevariabile cataclismica, e appartenente alsottogruppo delle novae ricorrenti.Questa categoria di stelle presenta deicaratteri distintivi che sono un po’ amezza strada tra quelli tipici di una no-va classica e quelli di una nova nana. Inparticolare, le novae ricorrenti varianola loro luminosità in un range che vadalle 4 alle 9 magnitudini, su tempi-sca-la che spaziano dai 10 ai 100 anni.RS Oph, tipicamente, varia, nella bandavisuale, da una magnitudine minima dicirca 12,5 a una massima, nei periodi dioutburst di circa 4,8 rendendosi così vi-sibile anche a occhio nudo.La stella, osservata da oltre un secolo,ha mostrato soltanto cinque esplosioniche si sono succedute con frequenza

Stelle variabili: RS OphiuchiMarco Vincenzi

Figura 1 - Rappresentazione artistica della costellazione di Ofiuco

Marco Vincenzi: Gruppo Astrofili Hipparcos -Sezione Variabili. Membro AAVSO

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in tre fasi ben distinte:una prima fase di ve-loce caduta di lumi-nosità e che dura me-diamente intorno ai 40giorni, e nella quale laluminosità diminuiscedi circa 0,1 magnitudi-ni al giorno; una se-conda fase di declino più lenta, sempredi durata media intorno ai 40 giorni, enella quale la luminosità diminuisce dicirca 0,02 magnitudini al giorno; infine,una terza fase che dura anch’essa circa40 giorni, nella quale la luminosità di-minuisce di circa 0,05 magnitudini algiorno.La durata quindi complessiva del feno-meno, dall’accensione improvvisa dellastella fino al momento in cui questa tor-na al suo stato di quiescenza, dura al-l’incirca 120 giorni. Altri fenomeni chesi osservano una volta che la variabile èritornata al minimo, sono una tendenzadi nuovo a ritornare verso la nona ma-gnitudine dopo circa 700 giorni dalmassimo e un’oscillazione che si attestatra 1 e 3 magnitudini e che non sembramostrare alcun segno di periodicità.

Osservazioni recenti

L’ultimo episodio esplosivo registrato èstato quello del 1985, e in quella occa-sione la comunità astronomica interna-zionale non si è lasciata sfuggire l’occa-sione per osservare questa variabile intutte le lunghezze d’onda investigabili.Si è così potuto far luce su alcuni aspet-ti peculiari dal punto di vista astrofisi-co, che caratterizzano questa interes-

VariabiliaDICEMBRE 2010 - N. 2-3 101

sante categoria di oggetti, che, al mo-mento attuale, conta soltanto sette rap-presentanti classificati con certezza.

RS Oph e gli astrofiliIl contributo degli astrofili nel monito-raggio e nel successivo studio dell’atti-vità delle variabili cataclismiche e inparticolare delle novae ricorrenti puòessere determinante. Con una strumentazione anche abba-stanza semplice, e seguendo delle me-todologie standard ormai collaudatissi-me, è possibile tenere sotto controlloquesto tipo di oggetti, comunicando aorganizzazioni internazionali, come lagià citata AAVSO, qualunque accennodi risveglio si dovesse riscontrare nelcomportamento di questa interessantis-sima categoria di oggetti.

Bibliografia

AA. VV., 1995. AAVSO Monograph #7: RSOphiuchi 1890.

AA. VV. AAVSO Charts for 1744-06 RS Oph.Bode, M.F. (ed.), 1987. RS Ophiuchi and the Re-

current Nova Phenomenon. VNU Science P,Utrecht.

Hack, M., la Dous C. (eds), 1993. CataclysmicVariables and Related Objects. NASA Scien-tific and Technical Information Branch, Wa-shington D.C.

Figura 2 - Curva di luce di RS Oph

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L’introduzione delle tecnologie digitali,in particolare dei personal computer edei dispositivi di ripresa elettronici ba-sati su sensori CCD/CMOS, ha appor-tato negli ultimi dieci anni una vera ri-voluzione nell’astronomia amatoriale. Oggi, con mezzi tutto sommato econo-mici, è possibile ottenere risultati di no-tevole valore sia dal punto di vistascientifico che dal punto di vista esteti-co, per chi si diletta nella ripresa foto-grafica degli oggetti celesti: risultati fi-no a poco tempo fa appannaggio dellestrutture professionali, in grado di ope-rare con strumentazione di elevato va-lore tecnologico ed economico. Dal punto di vista fotografico, l’astrofi-lo ottiene immagini sorprendenti. Più di una volta vedendo foto di Giove,di Marte o di qualche cratere lunare,pubblicate su riviste del set-tore, o sullo schermo del PC acasa di amici, mi è capitato didomandarmi se non fosseroimmagini riprese da qualchesonda e di ripensare alle vec-chie foto sgranate, su pellico-le bianco e nero, di osservatò-ri anche professionali comequello mitico del Pic du Midi,nei Pirenei francesi. Accadeanche che degli astrofili ri-escano a scoprire, riprenden-dolo dal vivo, l’impatto dipiccoli asteroidi con la densaatmosfera di Giove, a distan-

za di ormai quindici anni dagli spetta-colari impatti che ebbero per protagoni-sti i frammenti della cometa Shoema-ker-Levy 9.Cosa occorre quindi per iniziare? Nonmolto, come già accennato, dal punto divista strumentale (fig. 1): un telescopiodi medio diametro tra i 20 e i 30 cm diapertura, a bassa ostruzione, perfetta-mente collimato, cui sia stato lasciato iltempo di stabilizzarsi termicamentecon l’ambiente esterno; una camera diripresa, che può essere una semplicewebcam ovvero una appositamenteprogettata per l’imaging planetario (sela camera è in bianco e nero potremmousare qualche filtro, per evidenziare

LUNE DI MONDI LONTANI QUADERNI DEL MUSEO102

Una veloce visita alle lunedei pianeti esterni

Sergio Alessandrelli

Figura 1 - Tutto (o quasi) quello che occorre per iniziare

Sergio Alessandrelli: Ingegnere informatico.Gruppo Astrofili Hipparcos

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maggiormente alcuni dettagli superfi-ciali o atmosferici); lenti di barlow peringrandire l’immagine; ovviamente uncomputer con del software specifico dielaborazione (disponibile gratuitamen-te su Internet). Quello poi che non si paga ma che è al-trettanto fondamentale, è poter svolge-re le nostre osservazioni da un sito ca-ratterizzato da una bassa turbolenza at-mosferica e il tempo libero dagli impe-gni lavorativi per poter apprendere eapplicare le tecniche di elaborazione.Su tutti questi aspetti torneremo neiprossimi numeri per specificare megliocosa intendiamo e per introdurre le tec-niche di ripresa, elaborazione e misura.

Nello spazio rimasto, presentiamo alcu-ni corpi che sono di rado oggetto dellaripresa amatoriale, per via della loroesigua luminosità. Stiamo parlando dei satelliti dei pianetipiù esterni del Sistema Solare. Tempo faavevo svolto una serie di riprese trami-te il telescopio principale del GruppoAstrofili Hipparcos, al fine di verificarele potenzialità in ambito planetario del-la telecamera ad alta sensibilità appenaacquistata dall’associazione. I risultati sono stati più cheincoraggianti e anzi mi han-no fatto ripensare, con unpo’ di emozione, alle primevolte che con strumentazio-ne ben più semplice riusciva-mo a puntare i pianeti ester-ni aiutandoci con le coordi-nate e i cerchi graduati dellenostre montature equatoria-li. Allora non pensavamoproprio ai satelliti di questiremoti mondi. Vediamo di

cosa stiamo parlando. Il Sistema solareviene suddiviso in interno, compren-dente i corpi rocciosi fino a Marte, e inSistema esterno, i cui corpi principalisono i pianeti Giove, Saturno Urano eNettuno. Come sappiamo, Plutone non viene piùconsiderato un pianeta, in quanto lascoperta da parte degli astronomi diuna grande quantità di corpi di dimen-sioni paragonabili, ha spinto la comuni-tà scientifica a rivedere la definizione dipianeta, introducendo nuove classifica-zioni degli oggetti in base al diametro,all’orbita etc. I quattro pianeti esterni a loro volta rap-presentano dei piccoli sistemi planetari,essendo circondati da un folto numerodi corpi di dimensioni e caratteristicheassai varie. Questi satelliti sono in gran parte aste-roidi o nuclei di comete catturati daicampi gravitazionali dei giganti gasso-si. Altri sono dei veri e propri pianeti inminiatura più grandi della nostra Lunae a volte dotati di una propria atmosfe-ra e di attività geologica. Il numero totale di satelliti è di alcunedecine (di Giove se ne conoscono oltre60), ed il conteggio tende ad aumentare

Lune di mondi lontaniDICEMBRE 2010 - N. 2-3 103

Figura 2 - Saturno e alcuni dei suoi satelliti

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poiché nuove missioni spaziali o sem-plicemente la rielaborazione di vecchiefoto possono portare alla scoperta dinuove lune. Vediamo allora qualche risultato. Il primo mondo su cui ci rechiamo è Saturno. Il gigante con gli anelli possie-

de un grande satellite, Tita-no, di 5150 km di diametro euna densa atmosfera di azo-to e idrocarburi (vedi artico-lo sul numero precedentedella rivista, a pag. 64). Glialtri satelliti sono molto piùpiccoli: passiamo, infatti, daicirca 1500 km di Rea e Gia-peto, ai pochi km della mag-gioranza degli altri (fig. 2).Questi evidentemente sonocomete o asteroidi catturati.Facciamo ora un salto di 19UA (l’unità astronomica, os-

sia la distanza media della Terra dal So-le, pari a 1.5x108 km), verso Urano. An-che questo pianeta possiede una nutritaschiera di satelliti di cui siamo facil-mente riusciti a riprendere i quattroprincipali (fig. 3). Il quinto, Miranda, scoperto solo nel1948, rappresenta un target decisamen-te più difficile per via della bassa lumi-nosità e della vicinanza al pianeta (ilraggio orbitale è di circa 129x103 kmcon un periodo orbitale di circa 1,4 gior-ni). Urano lo sovrasta in luminosità diquasi 10 magnitudini. Tenteremo anco-ra la ripresa in condizioni geometrichepiù favorevoli.

Veniamo infine all’ultimo dei pianeti ri-conosciuti del sistema solare, ossia aNettuno (fig. 4). Qui le cose si fanno dif-

Lune di mondi lontani104

Figura 3 - Urano e i suoi principali satelliti

Raggio Densità Magni-Nome medio media tudine

(Km) (g/cm3) V0

Triton 1353.4 ± 0.9 2.059 ± 0.005 13.54

Nereid 170. ± 25 1.5 19.2R

Proteus 210. ± 7 1.3 19.75

Raggio Densità Magni-Nome medio media tudine

(Km) (g/cm3) V0

Ariel 578.9 ± 0.6 1.592 ± 0.092 13.70

Umbriel 584.7 ± 2.8 1.459 ± 0.092 14.47

Titania 788.9 ± 1.8 1.662 ± 0.038 13.49

Oberon 761.4 ± 2.6 1.559 ± 0.059 13.70

Miranda 235.8 ± 0.7 1.214 ± 0.109 15.79

Raggio Densità Magni-Nome medio media tudine

(Km) (g/cm3) V0

Titan 2574.73 ± 0.09 1.882 ± 0.001 8.4

Rhea 764.30 ± 1.10 1.233 ± 0.005 9.6

Dione 561.70 ± 0.45 1.476 ± 0.004 10.4

Tethys 533.00 ± 0.70 0.973 ± 0.004 10.2

Enceladus 252.10 ± 0.10 1.608 ± 0.003 11.8

Mimas 198.20 ± 0.25 1.150 ± 0.004 12.8

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ficili. Nettuno orbita a circa 30 UA, pre-sentandosi come un dischetto azzurrodi poco più di 2”, con magnitudinemassima vicina a otto. Di satelliti ne ab-biamo solo uno alla portata di strumen-ti amatoriali medio piccoli, ossia Trito-ne. Questo è anzi tra i più grandi, e in-trinsecamente luminosi, con un albedodi 0.76.

Qui si conclude questa breve introdu-zione alla ripresa fotografica dei pianetie delle loro lune. Speriamo di aver crea-to in voi la curiosità su questi remoti(eppur astronomicamente vicinissimi)mondi e di poter approfondire a breve,da queste pagine, le metodologie di ri-presa ed elaborazione.

Bibliografia

AA.VV., Le missioni Voyager, Le Scienze Editores.p.a.

Biafore Francesco, In viaggio nel sistema solare,Gruppo B.

Guaita Cesare, I giganti con gli anelli, Gruppo B.Mobberley Martin, Lunar and Planetary Webcam

User’s Guide, Springer-Verlag.

Figura 4 - Nettuno e Tritone

Sabato 22 ottobre 2011ore 21:00 – 23:30 info 06-5566271

Sabato 19 novembre 2011ore 18:00 – 21:00 info 335-6575023

Sabato 3 dicembre 2011 - Serata Lunaore 18:00 – 21:00 info 06-5566271

Sabato 21 gennaio 2012ore 18:00 – 21:00 info 335-6575023

Sabato 18 febbraio 2012 - Serata pianetiore 18:00 – 21:00 info 06-5566271

Sabato 17 marzo 2012 - Serata pianetiore 18:30 – 21:30 info 335-6575023

Sabato 31 marzo 2012 - Serata Luna e Saturnoore 21:00 – 23:30 info 06-5566271

MUSEOGEOPALEONTOLOGICO

“ARDITO DESIO”GRUPPO ASTROFILI HIPPARCOS

LA ROCCA DELLE STELLESERATE OSSERVATIVE

ottobre 2011/marzo 2012

Il programma prevede una breve confe-renza introduttiva seguita dall’osserva-zione guidata della volta celeste a occhionudo, al binocolo e al telescopio. Il calen-dario può subire delle modificazioni perimprevisti meteorologici: si consiglia ditelefonare alcuni giorni prima al numeroindicato per ogni serata. L’appuntamentoè fissato alla Rocca Colonna. Le serate sisvolgono a circa 1000 metri di quota, per-tanto si consiglia un abbigliamento ade-guato. Non serve prenotazione e il costodel biglietto è 5 euro.

APPUNTAMENTI AL MUSEODICEMBRE 2010 - N. 2-3 105

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IL CIELO NEL MIRINO QUADERNI DEL MUSEO106

Luna, Giove e altri corpi celesti

a cura di Bruno Pulcinelli

Il terrazzo alla sommità della Rocca Colonna ospita una stazione per l’osservazionedella volta celeste, sia direttamente, sia utilizzando strumenti astronomici, conl’aiuto e la guida degli astronomi dell’Associazione Hipparcos. La strumentazione,che comprende un telescopio principale Celestron C14 (diametro 360 mm, lunghez-za focale 3950 mm), consente anche di ottenere splendide immagini degli oggetticelesti: prosegue quindi anche in questo numero de “I Quaderni” la serie di imma-gini astronomiche realizzate a Rocca di Cave.

Nella pagina a fronte

Figura 1 - La Luna di 12 giorni è un mosaico di 10 immagini rea-lizzate al fuoco diretto del telescopio principale con una CanonEOS350D a 400 ISO, con tempi di posa di 1/500 s.

Figura 2 - La nebulosa Trifida (M20), “catturata” attraverso il ri-flettore-guida Schmidt-Cassegrain montato in parallelo allo stru-mento principale (diametro 80 mm, lunghezza focale 500 mm),somma di 3 pose da 8 minuti.

Figura 3 - Giove e il suo satellite Io, ripresi nell’agosto del 2008mediante una webcam Philips SPC900C al fuoco diretto del te-lescopio principale C14: dal filmato ottenuto (in formato .avi) èstato effettuato uno stacking di 300 fotogrammi.

Figura 4 - La Luna al tramonto ripresa dalla torre della RoccaColonna in direzione delle luci di Roma (Canon EOS350D conzoom 17-70 mm).

Nell’ultima pagina di copertina

Cespo di coralli fossili al momento del ritrovamento, lungo un ta-glio stradale che ha interessato la scogliera cenomaniana diRocca di Cave, formatasi circa 100 milioni di anni fa. La lar-ghezza del campione è di circa 40 centimetri.

Gruppo Astrofili Hipparcos - Sezione Gnomonica.Socio UAI

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Rocca di CaveCoralli fossili del Cretaceo


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