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nel buio dell’oggi -...

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Numero settantasette Maggio 2012 Mensile di cultura e conversazione civile diretto da Salvatore Veca Direttore responsabile Sisto Capra DISTRIBUZIONE GRATUITA www.ilgiornaledisocrate.it la Feltrinelli a Pavia, in via XX Settembre 21. Orari: Lunedì - sabato 9:00-19:30 Domenica 10:00-13:00 / 15:30-19:30 Caro Socrate , c’è una domanda che mi gira per la testa da qualche tem- po. Mi chiedo: perché i giornali ci riempiono or- mai settimanalmente di offerte di ‘classici’? Clas- sici della letteratura, del- la poesia, della filosofia, della scienza, e chi più ne ha più ne metta. Che senso ha tutto ciò, mio saggio amico?”. “Lo sai bene che ho sempre a- vuto una certa passione perversa per le doman- de, diletto Glaucone . Ma questa mi sembra piutto- sto strana. E poi, perché chiedere proprio a me di sciogliere l’enigma? Di giornali non me intendo granché, dopo tutto. Il mio imbarazzo potrebbe essere pari al tuo. E sta- remmo lì, tutti e due, im- barazzati e assorti, ad aspettare da un qualche oracolo uno straccio di risposta”. “Ma tu sei un classico, caro Sileno . Mi sembrava una ragione più che sufficiente per rivolgermi a te, nell’imbarazzo.” Glaucone , lo sai altret- tanto bene che non ho mai scritto una riga in vita mia. Già non mi è andata alla grande al processo, avendo solo parlato e chiacchierato molto. Figurati se avessi scritto.” “Ma tu sei un classico. Non puoi ne- garlo. È vero, lo sei per quello che altri hanno scritto nei secoli a propo- sito di te e di ciò che tu hai detto nella intermina- bile conversazione uma- na. Ma non c’è dubbio sul fatto che tu sia un classico. Devo forse concludere che oggi sei un po’ pigro e semplice- mente non ti va di met- terti alla prova con la sfida dell’ennesima do- manda?”. “E va bene, Glaucone . Anche se il tuo argomento ha un sapore lievemente da sofista, o forse proprio per questo, mi viene vo- glia di cercare con te una risposta alla strana domanda. Sei convinto che quelli che voi chia- mate classici, non lo so- no sempre stati ma lo sono divenuti nel tem- po?” “Certo, Socrate , come potrebbe essere altrimenti?” “Allora do- vremo riconoscere che il classico è qualcosa, un pensiero, un testo, un’opera, un’icona, che ha superato la prova e la sfida evolutiva della du- rata. Qualcosa che ci illumina ancora, anche se da distanze siderali, come fa la luce delle stelle ormai morte nella grande volta del cielo con tutti i suoi epicicli.” È vero, Socrate , anche lasciando in pace Tolo- meo .” “E allora, Glauco- ne , chiediamoci perché e quando è bene per noi cercare la luce?”. “Quando il nostro andare e viaggiare nel mondo è minacciato dal buio. E rischiamo di perderci, senza più saperci orien- tare nel guazzabuglio.” Glaucone , lo senti che le nostre idee comincia- no a connettersi felice- mente nella ricerca della risposta? Come puoi parlare di buio, in un tempo in cui le scienze guadagnano di continuo, a grandi falcate, risultati luminosi e benefici per i nipotini di Prometeo ? Di quale altra luce abbiamo mai bisogno?”. “Hai ra- gione, Sileno . Adesso non so più come rispon- derti. Anche se lo so che c’è qualcosa che non torna nel mio modo di pensare.” Glaucone , il punto è che sappiamo sempre meglio come sono le cose, e com’è fatto il mondo, e come usare al meglio l’arsenale dei mezzi che ci è disponibile. Ma sia- mo incerti e perplessi sui fini degni di essere per- seguiti. Il buio investe lo spazio dei nostri modi di vivere e convivere. For- se, per questo, abbiamo bisogno dei grandi reper- tori di esperimenti e pro- getti di convivenza con- segnati, nel tempo, ai classici della nostra e di altre tradizioni.” “Vuoi dire che negli uffici mar- keting della stampa san- no tutta la faccenda dell’opacità dei fini?”. “Non esageriamo, caro Glaucone . Basta che lo facciano, anche non sanno bene perché lo fanno.” Parola di Socra- te . FONDAZIONE SARTIRANA ARTE A Beirut… 10 anni dopo GIORGIO FORNI PAGINA 15 La luce dei classici nel buio dell’oggi di SALVATORE VECA INTERVISTA IMPOSSIBILE SISTO CAPRA da pagina 2 a pagina 11 Ricerca iconografica PINCA-MANIDI PAVIA FOTOGRAFIA Politica Parola da riscoprire GIOVANNA CORCHIA A pagina 12 Il testamento biologico secondo i Valdesi MONICA FABBRI A pagina 13 Gandhi e i Tessitori della Pace SIMONETTA CASCI A pagina 14
Transcript
Page 1: nel buio dell’oggi - socrate.apnetwork.itsocrate.apnetwork.it/blog/wp-content/uploads/2012/05/socrate77.pdfcon tutti i suoi epicicli. ³ È vero, Socrate, anche lasciando in pace

Numero set tantaset te – Maggio 2012

Mensile di cultura e conversazione civile diretto da Salvatore Veca

Direttore responsabile Sisto Capra

DISTRIBUZIO

NE GRATUITA

www.ilgiornaledisocrate.it

la Feltrinelli a Pavia,

in via XX Settembre 21.

Orari: Lunedì - sabato 9:00-19:30 Domenica 10:00-13:00 / 15:30-19:30

“Caro Socrate, c’è una

domanda che mi gira per la testa da qualche tem-po. Mi chiedo: perché i giornali ci riempiono or-mai settimanalmente di offerte di ‘classici’? Clas-

sici della letteratura, del-la poesia, della filosofia, della scienza, e chi più ne ha più ne metta. Che senso ha tutto ciò, mio saggio amico?”. “Lo sai bene che ho sempre a-vuto una certa passione perversa per le doman-de, diletto Glaucone. Ma questa mi sembra piutto-sto strana. E poi, perché chiedere proprio a me di sciogliere l’enigma? Di giornali non me intendo granché, dopo tutto. Il mio imbarazzo potrebbe essere pari al tuo. E sta-remmo lì, tutti e due, im-barazzati e assorti, ad aspettare da un qualche oracolo uno straccio di risposta”. “Ma tu sei un classico, caro Sileno. Mi sembrava una ragione più che sufficiente per rivolgermi a te, nell’imbarazzo.”

“Glaucone, lo sai altret-

tanto bene che non ho mai scritto una riga in vita mia. Già non mi è

andata alla grande al processo, avendo solo parlato e chiacchierato molto. Figurati se avessi scritto.” “Ma tu sei un classico. Non puoi ne-garlo. È vero, lo sei per quello che altri hanno scritto nei secoli a propo-sito di te e di ciò che tu hai detto nella intermina-bile conversazione uma-na. Ma non c’è dubbio sul fatto che tu sia un classico. Devo forse concludere che oggi sei un po’ pigro e semplice-mente non ti va di met-terti alla prova con la sfida dell’ennesima do-manda?”. “E va bene, Glaucone. Anche se il tuo argomento ha un

sapore lievemente da sofista, o forse proprio per questo, mi viene vo-glia di cercare con te una risposta alla strana domanda. Sei convinto che quelli che voi chia-mate classici, non lo so-no sempre stati ma lo sono divenuti nel tem-po?” “Certo, Socrate, come potrebbe essere altrimenti?” “Allora do-vremo riconoscere che il classico è qualcosa, un pensiero, un testo, un’opera, un’icona, che ha superato la prova e la sfida evolutiva della du-rata. Qualcosa che ci illumina ancora, anche se da distanze siderali, come fa la luce delle

stelle ormai morte nella grande volta del cielo con tutti i suoi epicicli.”

“È vero, Socrate, anche

lasciando in pace Tolo-meo.” “E allora, Glauco-ne, chiediamoci perché e quando è bene per noi cercare la luce?”. “Quando il nostro andare e viaggiare nel mondo è minacciato dal buio. E rischiamo di perderci, senza più saperci orien-tare nel guazzabuglio.” “Glaucone, lo senti che le nostre idee comincia-no a connettersi felice-mente nella ricerca della risposta? Come puoi parlare di buio, in un tempo in cui le scienze guadagnano di continuo, a grandi falcate, risultati luminosi e benefici per i nipotini di Prometeo? Di quale altra luce abbiamo mai bisogno?”. “Hai ra-gione, Sileno. Adesso non so più come rispon-derti. Anche se lo so che c’è qualcosa che non

torna nel mio modo di

pensare.” “Glaucone, il

punto è che sappiamo sempre meglio come sono le cose, e com’è fatto il mondo, e come usare al meglio l’arsenale dei mezzi che ci è disponibile. Ma sia-mo incerti e perplessi sui fini degni di essere per-seguiti. Il buio investe lo spazio dei nostri modi di vivere e convivere. For-se, per questo, abbiamo bisogno dei grandi reper-tori di esperimenti e pro-getti di convivenza con-segnati, nel tempo, ai classici della nostra e di altre tradizioni.” “Vuoi dire che negli uffici mar-keting della stampa san-no tutta la faccenda dell’opacità dei fini?”. “Non esageriamo, caro Glaucone. Basta che lo facciano, anche non sanno bene perché lo fanno.” Parola di Socra-te.

FONDAZIONE SARTIRANA

ARTE

A Beirut… 10 anni

dopo

GIORGIO FORNI

PAGINA 15

La luce dei classici

nel buio dell’oggi

di SALVATORE VECA

INTERVISTA IMPOSSIBILE

SISTO CAPRA

da pagina 2 a pagina 11

Ricerca iconografica

PINCA-MANIDI PAVIA FOTOGRAFIA

Politica

Parola da riscoprire

GIOVANNA CORCHIA

A pagina 12

Il testamento biologico

secondo i Valdesi

MONICA FABBRI

A pagina 13

Gandhi

e i Tessitori della Pace

SIMONETTA CASCI

A pagina 14

Page 2: nel buio dell’oggi - socrate.apnetwork.itsocrate.apnetwork.it/blog/wp-content/uploads/2012/05/socrate77.pdfcon tutti i suoi epicicli. ³ È vero, Socrate, anche lasciando in pace

Pagina 2 Numer o settan taset te - Maggi o 2012

Ecco dove viene distribuito gratuitamente

“Il giornale di Socrate al caffè”

Il giornale di Socrate al caffè Direttore Salvatore Veca

Direttore responsabile Sisto Capra Editore: Associazione “Il giornale di Socrate al caffè”

(iscritta nel Registro Provinciale di Pavia delle Associazioni senza scopo di lucro, sezione culturale)

Direzione e redazione via Dossi 10 - 27100 Pavia 0382 571229 - 339 8672071 - 339 8009549 [email protected]

Redazione: Mirella Caponi (editing e videoimpaginazione), Pinca-Manidi Pavia Fotografia Stampa: Tipografia Pime Editrice srl via Vigentina 136a, Pavia

Comitato editoriale: Paolo Ammassari, Silvio Beretta, Franz Brunetti, Davide Bisi, Giorgio Boatti,

Angelo Bugatti, Claudio Bonvecchio, Roberto Borri, Roberto Calisti, Gian Michele Calvi, Mario Canevari, Mario Cera, Franco Corona, Marco Galandra, Anna Giacalone, Massimo Giuliani, Massimiliano Koch,

Isa Maggi, Arturo Mapelli, Anna Modena, Alberto Moro, Federico Oliva, Davide Pasotti, Fausto Pellegrini, Aldo Poli, Vittorio Poma, Paolo Ramat, Carlo Alberto Redi, Antonio Maria Ricci, Giovanna Ruberto,

Antonio Sacchi, Dario Scotti.

Autorizzazione Tribunale di Pavia n. 576B del Registro delle Stampe Periodiche in data 12 dicembre 2002

INTERVISTA IMPOSSIBILE

VITTORIO NECCHI

Quali erano le origini

del Suo cognome?

Necchi era tipico delle

zone di Pavia e di Milano

ed esisteva la variante Necco nel Piemonte. Si faceva derivare dal nome tardo medievale Nechus,

originato dal latino Nequus (iniquo). Po-trebbe anche discen-dere dal soprannome dialettale legato al vocabolo milanese Gnecch (svogliato).

E le origini della

Sua famiglia?

Già dal 1835 noi

Necchi figuriamo nel-le cronache pavesi legati a una azienda commerciale e arti-giana di ferramenta. Questa azienda era del mio bisnonno Ambrogio (1802-1874), passata poi nel 1874 al nonno Giu-seppe (1832-1900) e poi a mio padre Ambrogio (1860-1916, Cavaliere del Lavoro dal 1° dicem-bre 1912). Agli inizi del secolo la fabbrica era in corso Cairoli 3 e occupa-va 150 operai. Eseguiva costruzioni meccaniche, macchine agricole e ave-

va una fonderia di ghisa. Nel 1904 l’attività si tra-sferì nel nuovo stabili-mento costruito dietro la stazione ferroviaria (luogo dove resterà an-che quando diventerà Neca). Qui cominciò la produzione di radiatori per termosifoni che dure-rà quanto la vita dell’azienda. Si produce-vano anche vasche da

(Continua a pagina 3)

Quarant’anni fa Pavia era il se-

condo capoluogo lombardo per numero di imprese industriali. C’erano la Necchi, la Snia, le Offi-cine Meccaniche Moncalvi, la Carlo Pacchetti, le cartiere Pirola, la Neca, la Magneti Marelli, la Cat-taneo e altre ancora.

Di tutti i capitani d’industria pa-

vesi, Vittorio Necchi (1898-1975) è stato il più illustre. Creò un mo-

dello, un esempio, un’epopea. “Il giornale di Socrate al caffè” vuole ricordarlo con una “intervista impossibile”. Anche per sostenere una causa. Ci uniamo ad Agostino Faravelli e al gruppo di cittadini ed ex-dipendenti che nel novembre 2010 ha proposto al sindaco Ales-sandro Cattaneo di intitolare a Vittorio Necchi la rotonda di Bor-

go Calvenzano. È giusto ricorda-re, nell’età della rovinosa deindu-strializzazione, un imprenditore che fece grande la città di Pavia. Finora la Giunta Cattaneo ha ta-ciuto: speriamo che voglia col-mare questa lacuna.

L’ “intervista impossibile” trova il

suo alimento nel bel volume Vitto-rio Necchi, ricordi di un grande uomo e di una grande ditta, edito

nel 2010 da Agostino Faravelli e da Delta 3, aperto dalla presenta-zione di Carmine Ziccardi (sotto, la copertina).

Faravelli è stato impiegato alla

Vittorio Necchi dal 1948 al 1963, fa parte del gruppo “Amis dal dia-lèt” del Circolo Culturale Pavese “Il Regisole” e ha scritto testi in lingua e in dialetto per il teatro dilettantistico pavese.

di SISTO CAPRA

«Dove sono le bici-

clette? Dove sono gli operai? Dove sei Gino? E tu Maria, mia governante? E tu Fredo, mio mag-giordomo? E tu Ge-ni, mio autista? Oh cara Lina, adorata Lina, non c’è più nessuno, nessuno. Tutto è perduto, tut-to dimenticato qui in via Rismondo. Non ci restano nem-meno le lacrime. Pavia, Pavia, che cosa hai fatto!». L’uomo, il Commen-datore, il Cavaliere del Lavoro piangeva in silenzio nel piaz-zale di via Rismon-do. Vittorio Necchi era tornato 36 anni dopo a rivedere la sua fabbrica, la Vit-torio Necchi Spa, la mitica industria da lui fondata che ave-va fatto di Pavia la capitale mondiale

delle macchine per cucire. Era nato nel il 21 novembre 1898 ed era morto il 17 novembre 1975. E non aveva nulla da vedere, perché sem-plicemente non c’era più nulla. La Fabbrica non esi-steva più. Le fabbri-che non c’erano più. «Mi avevano avvertito - mormo-rava - che avrei tro-vato il deserto della cultura industriale. Volevo rendermi conto di persona. È come se oggi mo-rissi di nuovo». Vit-torio Necchi aveva accettato di buon grado la proposta del “Giornale di So-crate al caffè” di rievocare la sua irri-petibile epopea in-dustriale ed era tor-nato. «Su, avanti, mi interroghi pure, pri-ma che il tempo del-

la mia licenza sia trascorso. Non cre-do che la mia testi-monianza servirà a qualcosa, se non a risvegliare tramon-

IL PADRE DI VITTORIO, AMBROGIO NECCHI.

IN ALTO, DUE MODELLI DI MACCHINA PER CUCIRE NECCHI

(L’ANTICA E LA MODERNA)

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Numero set tantaset te - Maggio 2012 Pagina 3

PAOLA PAOLA CASATICASATI MIGLIORINIMIGLIORINI

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bagno in ghisa e fu alle-stita di conseguenza una smalteria a caldo in una nuova area adiacente a via Trieste.

Lei quando nacque?

Il 21 novembre 1898. Il

mio primo cognome era Carcano perché così venni reg is t ra to all’anagrafe. Ebbi il mio vero cognome solo quando mio padre e mia madre Emi-lia Carcano (1870-1953) si sposaro-no. La mia famiglia era agiata e non ebbi una fanciullezza difficile. Ri-cordo un e-pisodio. A-vendo avuto in regalo da un prozio, verso i dodi-ci anni, una c a r a b i n a Flobert, mi divertivo a sparare a quei bianchi isolatori di porce l lana che allora stavano in g r a n d e quantità sui pali telefoni-ci per soste-nere i cavi, rompendone parecchi! Chissà se si trattava di semplice monelleria op-pure se già emergevano in me gli istinti del cac-ciatore che diventai da grande. Frequentai le scuole senza problemi, elementari, medie, liceo

e mi iscrissi alla facoltà di Legge. Ma non ebbi il tempo di frequentare l’ateneo. Nel 1916 persi mio padre a soli 56 anni e, diciottenne, mi trovai con la mamma e con le mie sorelle Gigina e Nedda a dover gestire u-na difficile eredità.

Poi fu chiamato alle

armi.

L a c o n d u z i o n e

dell’azienda venne affi-data a un amministrato-re, il ragionier Giorgi. Eb-bi però la possibilità di essere assegnato al No-no Reggimento Artiglieria di stanza nel Castello Vi-sconteo e per alcuni me-si potei così essere an-

cora vicino alla famiglia e all’azienda. Facevo parte di un gruppo di tecnici che conducevano prove sull’impiego strategico di un mezzo di artiglieria nuovo: un cannone mon-tato su autocarro per ra-pidi spostamenti, il “Camion cannone” co-struito dall’Ansaldo nel 1916. Lo sfondamento del fronte a Caporetto, nell’ottobre del 1917, co-strinse lo Stato Maggiore dell’Esercito a raccattare

tutte le forze di-sponibili per ar-ginare il nemico e anche il repar-to prove del No-no Arti-g l i e r i a fu invia-to al f r on te . Ero te-n e n t e , mi feci il r e s t o d e l l a g u e r r a e mi conge-dai ca-p i tano. In guer-ra feci una co-

noscenza che poi si rive-lò importante.

Chi?

L’allora capitano Cesare

Merzagora (1898-1991), che si era arruolato vo-

lontario nel 1915 negli A r d i t i s u l l ’ I s o n z o . L’amicizia con il milane-se Merzagora, a guerra finita, mi portò in un giro di giovani industriali fra i quali Adriano Olivetti, Vit-torio Cini, Gaetano Mar-zotto, Giuseppe (Pinin) Farina. Merzagora sa-rebbe diventato nel 1938 direttore generale della Pirelli, quindi altis-simo esponente della Democrazia Cristiana, nel 1953 presidente del Senato e dal 1963 sena-tore a vita. In questo pe-riodo conobbi a Milano Arnaldo Mussolini, fratel-lo del futuro duce, che nel 1922 aveva assunto la direzione del “Popolo d’Italia” in sostituzione del fratello.

E trovò moglie.

Non potevo godermi la

gioventù. La perdita pre-matura di papà, le re-sponsabilità nei confronti della famiglia, i problemi che derivavano dalla condirezione della fabbri-ca con mio cognato An-gelo Campiglio, marito di Gigina, con il quale non andavo d’accordo sulle strategie aziendali, non mi lasciavano spazio per una spensierata giovi-nezza. Oltretutto ero timi-do e non avevo facili rap-porti con le donne: al momento di pensare al matrimonio conobbi l’unica donna della mia vita: Lina Ferrari, figlia di un insegnante elementa-re di Parma, di idee so-cialiste e per questo con-finato dal regime a inse-gnare in Trentino. Per la famiglia Ferrari a Parma la vita era difficile, Lina si era inserita nel mondo

del teatro: era la vedette di un avanspettacolo che andava per la maggiore. Fu a Pavia al Kursaal che la vidi. Mi fu presen-tata, su insistenza di mia madre, da una comune amica pavese. In breve giungemmo al matrimo-nio.

Che tipo

era Lina?

Una vera

donna di classe, una vera padro-na di casa, impeccabile nelle molte-plici occa-sioni che ebbe di ri-cevere o-spiti impor-tanti per le nostre rela-zioni socia-li. Fu lei che mi sug-gerì, nel 1925, l’idea di separar-mi dal co-gnato e di b u t t a r m i con deci-sione sulla piccola fab-b r i c a per la c o -struzione di macchine per cucire che io, pur o-steggiato dalla famiglia, avevo avviato nel 1919. Lina amava la musica li-rica, non mancava mai u-na prima alla Scala; con-tribuiva con il suo buon gusto agli allestimenti e agli arredi delle nostre residenze. Non avemmo figli e questo fu il più grande cruccio. Morì do-po breve malattia il 19 a-

gosto 1961.

Visto che conosceva

Merzagora, si occupa-va di politica?

Non presi mai parte alla

vita politica attiva, ero di dichiarate simpatie mo-

narchiche e votai per la monarchia anche nel re-ferendum del 2 giugno 1946; avevo accettato il fascismo in quanto av-vallato da Casa Savoia. Le sorelle Nedda e Gigi-na già dal 1924 si erano iscritte al Fascio Femmi-nile, facendo una precisa scelta di campo. Natural-mente, come fecero altri industriali del tempo, uti-

(Continua da pagina 2)

(Continua a pagina 4)

VITTORIO NECCHI

INTERVISTA IMPOSSIBILE

RITAGLI DI GIORNALI D’EPOCA. NELL’OVALE, LA MOGLIE LINA FERRARI.

IN ALTO A SINISTRA, LA FONDERIA DI CORSO CAIROLI 3; A DESTRA, LA FABBRICA AGLI INIZI

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Pagina 4 Numer o settan taset te - Maggi o 2012

lizzai i mezzi e le perso-ne che il regime poteva offrire per lo sviluppo del-le aziende. Il veicolo più efficace fu l’autarchia im-posta dal governo: l’Italia doveva ridurre al massi-mo le importazioni. Qua-le occasione migliore per lanciare le macchine per cucire nel mercato italia-no fino ad allora domina-to dalle aziende america-ne e tedesche (Singer e Pffaf)! Coniato lo slogan “Il prodotto Italiano ha nome Italiano”, fu assai più facile conquistare il mercato.

Indossava la camicia

nera?

Nelle occasioni ufficiali

si doveva indossare ca-micia nera, fez e orbace. Chiamavo la divisa fasci-sta “il vestito da operet-ta”. La più nota occasio-ne fu la visita di Mussoli-ni con la moglie Rachele agli stabilimenti di via Ri-smondo nel 1938. La ri-serva di caccia nella te-nuta di Portalupa era una grande possibilità per a-vere ospiti importanti sia del regime che del mon-do industriale. Ogni volta che un gerarca o un alto funzionario fascista arri-vava a Pavia per ragioni politiche, era quasi d’obbligo essere miei o-spiti per una battuta di caccia. Ospiti frequenti erano Arnaldo Mussolini e Cesare Merzagora e, attraverso questi, Italo Balbo, presunto delfino di Mussolini, Attilio Ter-ruzzi, il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio. Le visite di Umberto di Savoia e della moglie Maria Josè erano quasi abituali, non solo a Por-talupa ma anche nella ri-serva di pesca di Cogne. Il Duce, invece, non ac-cettò mai l’invito a cac-cia: affermava che le ar-mi dovevano avere un impiego più consono ai

destini della Patria! Dopo l’8 settembre 1943, pro-prio perché di fede mo-narchica, non godetti di alcuna simpatia né tra i neofascisti né presso i tedeschi e dovetti allon-tanarmi da Pavia. Andai a vivere a Barasso, un paesino sopra Varese, in casa di Gigina e di Ange-lo Campiglio e vi rimasi fino alla fine della guerra. Nel dopoguerra non mi interessai di politica, sal-vo mantenere la salda a-micizia con Cesare Mer-zagora.

Tracciamo ora il Suo

profilo come industria-le.

Che fossi un industriale

di razza l’avevo già di-mostrato lanciando la fabbrica di macchine per cucire (I.R.I., Industrie Riunite Italiane) contro l’idea della famiglia di ge-stire e sviluppare la fon-deria di papà, che già dava ottimi risultati. So-stenuto anche da mia moglie, nel 1925 arrivai a un compromesso con la famiglia: alle sorelle, con Angelo Campiglio, anda-rono le fonderie di ghisa e le smalterie, io mi tenni

la fabbrica di macchine per cucire. Libero da o-gni necessità di discutere e di mediare con altri o-gni mia decisione, potei così scatenare tutta la mia voglia di fare. Riuscii a smentire i famigliari, non solo conquistando il mercato italiano ma svi-luppando un’azienda di valore mondiale. Il 27 ot-tobre 1935 ebbi, per no-mina reale, il titolo di Ca-valiere del Lavoro per i meriti acquisiti nel campo dell’industria meccanica.

Come furono i suoi

rapporti con la Confin-

dustria?

Non proprio idilliaci. Ero

considerato con sospet-to, come se fossi una scheggia impazzita. Ero solito dire, a chi si la-mentava per le troppe spese per il personale, che la retribuzione delle 200 ore (la gratifica nata-lizia, come si chiamava allora la tredicesima mensilità) sarebbe stato giusto e conveniente ero-garla almeno due/tre vol-te all’anno, poiché questi soldi sarebbero usciti dalla porta ma sarebbero

(Continua da pagina 3)

(Continua a pagina 5)

A SINISTRA, LA GALLERIA CENTRALE INTERNA IN UNA DELLE FONDERIE NECCHI A PAVIA NEGLI ANNI VENTI.

SOPRA, OPERAI IN FONDERIA. SOTTO, UNA VEDUTA DEGLI STABILIMENTI NECCHI DEI PRIMI ANNI.

NELL’ALTRA PAGINA, IN ALTO , DOPO UNA BATTUTA DI CACCIA ALLA PORTALUPA, LA VILLA NELL’IMMAGINE

INTERVISTA IMPOSSIBILE

Decisi di puntare sulle macchine

per cucire, anche se questo mi costò

la rottura in famiglia

VITTORIO NECCHI

Con la Confindustria i miei rapporti erano tutt’altro che idilliaci Avevo aumentato le retribuzioni ...

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Numer o settan taset te - Maggi o 2012 Pagina 5

subito entrati dalla fine-stra: i dipendenti li avreb-bero potuti spendere, muovendo sensibilmente i consumi e il mercato. Per certe orecchie que-sta era musica stonata. Ecco cosa scriveva di me Indro Montanelli nel libro “Gente qualunque”: «…il capitalismo che Vit-torio impersona è al-quanto diverso da quello che viene raffigurato nei libri dai suoi apologeti e dai suoi detrattori… e via via che mangiavamo, e-gli mi parlava di un gran-de progetto che veniva sviluppando nella sua mente in favore dei di-pendenti che andavano in pensione…». Monta-nelli si riferiva alla mia i-dea di istituire un vitalizio di diecimila lire mensili per integrare la pensio-ne, già allora piuttosto magra, per i dipendenti, specialmente per quelli di basso livello. Realizzai il progetto nel 1955. Quando i miei uomini mi-gliori cominciarono a ca-pire che la macchina per cucire non avrebbe potu-

to avere un futu-ro e prospettaro-no la necessità di avviare produzio-ni alternative, io, già stanco e non più in salute, mi trovai in disac-cordo con loro. È di quei tempi la mia frase: «La Necchi è nata con le macchine per cucire e con le macchine per cucire morirà!». Acconsentii, tut-tavia, agli accordi con gli americani della Kelvinator per produrre i compressori er-metici per frigori-feri.

Quali erano le

Sue abitudini?

Benché gli affari si svol-

gessero ormai in tutto il mondo, non amavo viag-giare e delegavo i miei collaboratori a rappre-sentarmi. Tuttavia, quan-do era necessaria la mia presenza, il mezzo di tra-

sporto che utilizzavo era l’auto, anche per lunghi viaggi, (Roma, per esem-pio); raramente usavo il vagone letto e ripudiavo l’aereo. Amavo guidare da me l’auto, seppure con l’autista seduto di fianco. La passione per le auto mi portò a posse-

derne molte e di vario ti-po. Dalla Fiat 501 nel 1919, alla lussuosa Isot-ta Fraschini 8 A del 1923; nel 1949 mi presi il capriccio di acquistare una Fiat 1100 S (sport ti-po Mille Miglia), con la quale giornalmente sfrecciavo da Portalupa,

dove risiedevo, alla fab-brica di via Rismondo. Nel 1955, spinto da chi riteneva che un industria-le come me dovesse di-stinguersi con un’auto social simbol, acquistai una lussuosa auto ameri-cana, una Oldsmobile di 5000 cc. di cilindrata, io

che non avevo mai, per principio, abbandonato il prodotto nazionale. Que-sta macchina era dotata di cambio automatico, ancora poco diffuso da noi. La usai per la prima volta per recarmi a Roma al matrimonio della figlia di Merzagora. Guidai personalmente per tutto il viaggio per gustarmi il mio nuovo gioiello ma, a h i m è , p a g a i l’inesperienza nell’uso del cambio automatico. Il motore si surriscaldò ol-tre misura e mi trovai a Roma con l’auto inutiliz-zabile. Ci volle una lauta mancia agli addetti di un’autofficina perché la-vorassero tutta la notte per consentirmi di pre-senziare l’indomani alla cerimonia con l’auto a-mericana. Amavo alleva-re canarini, e questo per pura passione. A tal pro-posito ricordo ancora ciò che scriveva Montanelli: «… e del capitalismo mi mostrò solo uno dei lati più simpatici: una mensa imbandita con varietà e dovizia, pur senza peri-coli di indigestione, un buon vinello, un eccel-lente caffè… si sentì una specie di trillo che veniva dall’altra stanza. Il com-mendatore tacque di col-po, … poi “Non si mera-vigli” disse “ sono i miei canarini… sono care be-

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VITTORIO NECCHI

Amavo le automobili e con una fuoriserie

andai a Roma alle nozze della figlia di Cesare Merzagora

INTERVISTA IMPOSSIBILE

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Pagi na 6 Numero set tantaset te - Maggio 2012

stiole…Mi fa un tale pia-cere sentire i canarini vi-cino a me …” e aveva la voce commossa. Però questo capitalismo con i canarini, chi lo direb-be?». Un’altra mia pas-sione poco nota era la coltivazione delle orchi-dee, novello Nero Wolf. Ottenni anche ottimi ri-sultati in mostre impor-tanti, fra cui l’esposizione mondiale del fiore di Ge-nova, nel 1958.

Lei ottenne molte be-

nemerenze.

Sì molte. Ho già detto

del titolo di Cavaliere del Lavoro il 27 ottobre 1935; nell’aprile del 1940 fui insignito del titolo di Grand’Ufficiale della Co-rona d’Italia. Ma certa-mente il riconoscimento che più apprezzai, per-

c h é v e n i v a d a un’istituzione della mia città, fu il conferimento da parte dell’Università di Pavia e del Rettore Ma-gnifico Plinio Fraccaro della laurea in fisica ho-noris causa nel 1955. La città di Pavia, nel 1962, mi proclamò Cittadino benemerito, fondatore della grande azienda che porta il suo nome, nota e apprezzata in tutto il mondo, per aver contri-buito in modo determi-nante allo sviluppo eco-nomico e al progresso della Città. Nel 1963 rice-vetti dall’Università di Pa-via una medaglia di be-nemerenza.

Nel 1950, intanto, si e-

ra ammalato?

Alla fine dell’anno venni

ricoverato al San Matteo per una calcolosi epati-

ca. Operato dal profes-sor Morone, la mia de-genza andò per le lun-ghe e in azienda si te-mette il peggio. Ma mi ri-stabilii completamente. Ricordo che, quando rientrai in azienda, i 5.200 dipendenti si riuni-rono davanti alla portine-ria per salutarmi. Fu una grande dimostrazione di affetto. Nel corso del 1972 si manifestò un do-lore alle gambe e comin-ciai a camminare con dif-ficoltà. La mia presenza in azienda andò pian pia-no diradandosi. Non così invece per le abituali bat-tute di caccia: mi ero fat-to allestire un sedile gire-vole nella parte posterio-re della Campagnola Fiat e con quel mezzo conti-nuai ancora per qualche tempo a frequentare la ri-serva. La malattia pro-grediva: si trattò all’inizio di artrosi, aggravata dal

sovrappeso, poi si ag-giunsero complicanze flebitiche e infine il diabe-te. Il quadro clinico era aggravato dalla difficoltà respiratoria per essere stato un accanito fumato-re. Fui ricoverato in varie riprese nella clinica San Raffaele di Milano, dove l’ultima degenza si pro-trasse per quasi un an-no. I medici, per un ulti-mo tentativo di prolun-garmi la vita avevano p r o g r a m m a t o l’amputazione di una gamba, ma alla vigilia dell’intervento il 17 no-vembre 1975 morii. Avrei compiuto 77 anni quattro giorni dopo. L’annuncio pubblico avvenne ad e-sequie avvenute, il 19 novembre. I funerali si svolsero nella tenuta di Portalupa, nella chiesetta che che avevo voluto per i dipendenti. Erano pre-senti: il personale di ca-

sa, i lavoratori della a-zienda agricola e i loro famigliari. Per rappresen-tare la Ditta erano pre-senti Luigi Bono e Giu-seppe Luraghi, che dopo la sua clamorosa uscita dall’Alfa Romeo era en-trato nel consiglio d’amministrazione della Vittorio Necchi insieme a Nedda Necchi, Reno Ferrata e al Bono stesso.

Pavia l’ha dimenticata,

non ha nemmeno tro-vato il modo di onorar-La nella toponomasti-ca.

Ebbene sì. Come si di-

ce, nemo propheta in pa-tria. Il colmo fu una noti-zia che uscì sul “Corriere della Sera” del novembre 2002. Recitava: “Il Co-mune ha dimenticato Vit-torio Necchi, fondatore della più importante fab-

brica pavese, lasciando al buio la sua tomba nel Cimitero Maggiore per-ché nessuno, visto che non ci sono eredi, ha mai pagato il canone per i servizi cimiteriali. Nei giorni scorsi alcuni ex o-perai dell’azienda di Pa-via, che per Ognissanti avevano deciso di depor-re fiori sulla tomba dell’imprenditore pavese, hanno scoperto con in-credulità che la cappella non era più illuminata. Pensando ad un guasto elettrico, hanno chiamato il custode, il quale ha spiegato che la lampada votiva era stata staccata perché nessuno pagava per il servizio (10 € all’anno!). Il caso è già arrivato in consiglio co-munale. «Il Comune - conferma l’assessore ai Servizi cimiteriali - ha studiato un piano di inter-

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INTERVISTA IMPOSSIBILE

La benemerenza più gradita fu quella

concessami dalla città di Pavia

Laurea honoris causa

VITTORIO NECCHI

GRUPPO DI DIPENDENTI CACCIATORI DOPO UNA BATTUTA NELLA RISERVA DELLA PORTALUPA. SONO RICONOSCIBILI: AL CENTRO, IN BORGHESE, GINO GASTALDI,

CONSIGLIERE DELEGATO DELLA SOCIETÀ, E PIERLUIGI ORLANDI, IL QUARTO IN PIEDI DA SINISTRA, AMMINISTRATORE DELLA TENUTA DI PORTALUPA

(NELLA FOTO IN ALTO)

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Pagina 7 Numero set tantaset te - Maggio 2012

vento per le cappelle sto-riche del Cimitero Mag-giore, lunedì presentere-mo il progetto per il re-stauro delle tombe dei Garibaldini, mentre pre-sto sia la cappella della famiglia Necchi sia quel-la del premio Nobel Ca-millo Golgi saranno ri-messe a nuovo»”.

Apriamo ora il capitolo

delle attività assisten-ziali alla Necchi.

Sicuramente il più ap-

prezzato fu il FAI (Fondo assistenza interno), isti-tuito l’11 maggio 1944) che garantiva l’intera re-tribuzione in caso di ma-lattia, mentre la retribu-zione dell’INAM (mutua obbligatoria) era del 50% dello stipendio a partire dal quarto giorno di as-senza. Inoltre il FAI ave-va un ambulatorio inter-no alla fabbrica, con at-trezzature diagnostiche moderne e personale medico a disposizione di tutte le maestranze. Si poteva anche fruire di turni di riposo in monta-gna presso la casa di Lanzo d’Intelvi o al mare, a Ospedaletti o a Gatteo Mare, per la convale-scenza dopo ricoveri in ospedale. Creai il Grup-po Donatori di Sangue, affiliato all’AVIS naziona-le, fondato il 18 marzo 1955 e che raggiunse i 514 donatori. Istituii una borsa di studio riservata ai figli dei dipendenti che dimostravano buona pre-disposizione agli studi. Verso la fine degli anni ‘50 istituì il premio “Maestri del Lavoro” per premiare gli operai parti-colarmente capaci nelle loro mansioni. Sorse un intero villaggio, ancora oggi chiamato Villaggio Necchi, alla fine di via O-levano. Per la mia gene-rosità il Policlinico San Matteo mi intitolò il padi-glione delle cliniche di o-torino, odontoiatria e ra-diologia. Per il tempo li-bero creai organizzazioni specifiche: il Moto Club, il Gruppo Escursionisti per gli appassionati della montagna per le escur-

sioni d’estate e le sciate d’inverno, la Bocciofila, la quadra di calcio, il Necchi club per gli ap-passionati di teatro, il Gruppo Vogatori Necchi Ticino, una Compagnia teatrale verso la metà degli anni ‘50, il Gruppo Cacciatori alla riserva di caccia della Portalupa. Sponsorizzai la Pallaca-nestro Necchi Pavia, che dal ’55 al ‘58 militò nella

massima serie.

E passiamo a un altro

capitolo, quello dei Suoi collaboratori, con cui Lei fece grande la Necchi.

Un uomo può avere

l’idea, i mezzi, l’iniziativa, ma non potrà mai avere un grande successo sen-za l’aiuto di validi colla-boratori. Può essere ne-cessaria perspicacia nel cercarli, questi collabora-tori, ma certamente an-che una buona dose di fortuna nel trovarli. Io eb-bi entrambe queste cose. La guida dell’azienda agli inizi era stata dura, ho già ricordato il ragionier G i o r g i p e r l’amministrazione. Il pri-mo salto di qualità av-venne agli inizi degli anni ‘ 3 0 . A l l a g u i d a dell’azienda, con me,

c’erano due ingegneri di alta levatura: Emilio Cer-ri, che veniva dalla Fiat, per il settore Macchine per cucire, e Antonio Beccalli, grande tecnico metallurgico, anche lui proveniente dalle fonde-rie Fiat-Lingotto, per il settore Fonderia. Cerri nel 1938 progettò e bre-vettò il sistema di cucitu-ra a zig-zag. Vincendo la mia ritrosia ad assumere

parenti in azienda, mia moglie mi convinse a far entrare nella direzione un mio cognato, il ragio-nier Gino Gastaldi, mari-to di Graziella, sorella di Lina. Gino fu senz’altro la persona più importan-te che ebbi al mio fianco: egli rivoluzionò il settore della vendita creando le concessionarie. A Ga-staldi affiancai i vice di-rettori Mario De Paoli e Dino De Paoli, rispettiva-mente per il settore com-merciale e amministrati-vo, e Giuseppe Manidi che resterà sempre in a-zienda con funzioni sem-pre più importanti e che poi sostituirà Gastaldi co-me consigliere delegato quando questi lascerà la società. Gastaldi fu nel contempo anche presi-dente della Banca del Monte di Pavia, banca con la quale la Necchi in-tratteneva la maggior

parte dei suoi rapporti fi-nanziari. Si era creato così un circolo virtuoso: i risparmi dei pavesi, deri-vati in larga misura dal reddito dei dipendenti Necchi, affidati alla Ban-ca del Monte rientravano così ad alimentare l’economia locale. Tutto l’apparato che gestiva la parte finanziaria era sta-to affidato ad un ammini-stratore di razza: France-

sco Gaiano. Potei avva-lermi anche della colla-borazione di un giovanis-simo contabile, il ragio-nier Repossi, assunto nell’ottobre 1930 con uno stipendio di 450 lire al mese, che rimase in a-zienda fino all’età della pensione, diventando a sua volta direttore ammi-nistrativo, oltre che presi-dente del FAI. Con que-ste persone Gastaldi tra-ghettò l’azienda fuori dal-la difficile crisi.

Come affrontò la guer-

ra e il dopoguerra?

La tranquillità economi-

ca non durò a lungo: nel 1940 iniziò la guerra e per la Necchi si ripresen-tarono tempi duri. L’azienda aveva a quel tempo 2500 dipendenti, produceva 52 mila mac-chine per cucire, riuscen-

do a esportarne più di 10 mila, e circa 5 mila ton-nellate di ghisa. Per i pri-mi tre anni di guerra il mercato italiano non subì grandi flessioni: nel pae-se servivano divise mili-tari per l’esercito, nelle famiglie si acquistavano macchine per cucire per permettere alle donne di avere queste commesse e compensare la man-canza di reddito per la

chiamata alle armi degli uomini. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 la fabbrica dovette collabo-rare con produzioni belli-che, ma qui il genio di Gastaldi si manifestò: mentre la Necchi produ-ceva otturatori per armi da fuoco per i tedeschi, continuava a produrre macchine per cucire (oltre 30 mila solo nel 1944) nascondendole o-ve possibile, evitando co-sì la requisizione e l’invio in Germania. Quando nel 1945, a guerra finita, l’azienda ricominciò a la-vorare con regolarità, la vendita delle macchine che erano state occultate assicurarono un cespite importante per la tran-quillità finanziaria nel momento della ricostru-zione industriale. Nel giu-gno del 1958 Gino Ga-staldi venne nominato Cavaliere del Lavoro.

Un dirigente di prima

grandezza che Lei scel-se nel 1948 fu l’ingegner Gino Marti-noli.

Martinoli lo scelsi come

direttore generale tecni-co con il compito di svi-luppare la produzione per fronteggiare le richie-ste del mercato naziona-le in espansione e so-

prattutto per affrontare i nuovi mercati internazio-nali che si andavano a-prendo, primo fra tutti proprio quello statuniten-se. Gino Levi (il cogno-me Martinoli fu adottato nel 1938 in seguito all’approvazione in Italia delle leggi razziali) era nato a Firenze nel 1901, figlio di un professore dell’Ateneo torinese, si e-ra laureato in ingegneria chimica presso il Politec-nico di Torino. Dopo la laurea si trasferì a Ivrea e nel corso del 1924 co-minciò a lavorare presso la Olivetti, dove rimase per ventidue anni curan-do l'organizzazione pro-duttiva degli impianti in veste di direttore genera-le tecnico dal 1932. Nel 1945 entrò a far parte del Consiglio Industriale Alta Italia e successivamente della Sottocommissione

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VITTORIO NECCHI

INTERVISTA IMPOSSIBILE

VILLA NECCHI ALLA PORTALUPA. SOPRA A SINISTRA, 1936: LA CONSEGNA DEI PACCHI DONO NATALIZI

AI DIPENDENTI NECCHI. A DESTRA, VEDUTA AEREA DELL’INTERO COMPLESSO NECCHI A PAVIA

NEGLI ANNI ‘70

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Industria Alta I-talia; dopo un breve periodo passato alla Na-valmeccanica, ricoprì a Milano l’incarico di i-spettore della direzione gene-rale dell’IRI per le industrie mec-caniche setten-trionali. Con lui arrivarono alla Necchi le novità per un’industria che doveva ra-dicalmente inno-vare se voleva sopravv ivere . Martinoli era co-gnato di Adriano Olivetti (questi aveva sposato sua sorella Pao-la) e proprio at-traverso Olivetti face parte negli anni ’30 e ’40 di una delle prime esperienze di businnes school italiane: l’IPSOA di Torino. Per prima cosa, in Necchi, Martinoli decise in favo-re di un aumento della manodo-pera che portò subito a un au-mento della produzione, ma che comportò anche un parallelo ca-lo della produttività. Martinoli cominciò con il chiamare alla Necchi molti tecnici che aveva-no lavorato con lui o presso l’Olivetti oppure nell’esperienza con l’IPSOA.

Vuole citarne qualcuno?

L’ingegner Alessandro Pagni

all’Ufficio Progetti, l’ingegner Gianfranco Clavello all’Ufficio Controllo Qualità, il dottor Giulio Volta all’Ufficio Centrale Analisi Tempi e Metodi, l’ingegner Giu-lio Borello cui affidammo il siste-ma gestionale dell’ impresa (l’espandersi della fabbrica ri-chiedeva una costante analisi dei costi di produzione, della produttività, dell’impiego del per-sonale operativo e di conse-guenti tempestivi interventi), il progettista di macchine utensili Carlo Alghisi, il responsabile del servizio attrezzeria Galileo Ton-dinetti. Voglio poi ricordare gli ingegneri responsabili delle quattro direzioni di produzione: Vittorio Scherillo (Macchine Fa-miglia), Luigi Bono (Macchine industriali), Giuseppe Rossi (Fonderia), Alessandro Valvas-sori (Mobili). Avviata la ristruttu-razione dell’azienda, Martinoli e Gastaldi si posero presto anche un problema chiave: aveva dav-vero un futuro la macchina per cucire? Non sarebbe stato bene diversificare? Il patrimonio di e-sperienza della Necchi era giu-dicato dallo stesso Martinoli ec-cezionale. Perché non sfruttarlo in nuovi settori che già si stava-no delineando come estrema-mente promettenti? Gastaldi, pur sapendo della mia contrarie-tà a tradire la macchina per cu-

cire, coltivò questa idea e strin-se i primi accordi con l’americana “Kelvinator” per la costruzione su licenza dei compressori ermetici per frigorifero. A regime l’impianto arrivò a produr-re mille compressori all’ora. Nel 1985 si pro-dusse il 50 milionesimo compressore; nel solo an-no 1989 se ne produssero 4.451.000. Nel corso del 1956, per via di alcuni contrasti sorti con la vecchia direzione e con me, Martinoli abbandonò la Necchi e tornò a Milano.

Poi venne la crisi, la caduta

del mercato delle macchine per cucire.

Anche in Italia il mercato si ri-

dusse notevolmente. Nella fami-glia media italiana degli anni ‘50 la donna lavorava fuori casa e non aveva più il tempo per met-tersi a cucire capi disponibili già finiti e che l’industria di confezio-ni produce in grandi serie e a prezzi abbordabili. Mentre altri elettrodomestici ( lavatrice, la-vastoviglie, eccetera) erano di a-iuto alle donne di casa, la mac-china per cucire richiedeva tem-po per usarla, tempo che non c’era più. Oltretutto quella che e-ra stata la prerogativa alla base del successo delle macchine Necchi ne divenne una delle cause della crisi: la grande qua-lità del prodotto ne determinò u-na durata tale che le macchine si tramandavano da madre a fi-glia per diverse generazioni, prova ne è che la vendita oggi è ridotta ai minimi termini. Tuttavia la ditta Alpian Italia di Ariccia (Roma), divenuta proprietaria del marchio Necchi, faceva pro-durre in Cina una macchina per cucire che promuoveva alla ven-dita in spot televisivi.

Facendo un bilancio, quanti

dipendenti ha avuto la Necchi nella sua storia e quante mac-chine per cucire ha prodotto?

Le cifre che Le fornisco sono

state pubblicate sulle Riviste Necchi. Nel 1928 la forza lavoro era costituita da 7 dirigenti, 23 impiegati e 439 operai (di cui 100 alle macchine per cucire e 339 alla fonderia); la produzione fu di 1.500 tonnellate di ghisa e 18.500 macchine per cucire. Nel 1950 ecco le cifre: 18 dirigenti, 551 operai e 3.555 operai; la produzione fu quell’anno di 6.000 tonnellate di ghisa e 122.023 macchine per cucire, di cui 4.869 ad uso industriale. Le macchine per cucire esportate passarono dalle 2.646 del 1930 alla 58.461 del 1950. Negli anni Cinquanta e Sessanta il mercato delle macchine per cucire rag-giunse il suo massimo. La Nec-chi arrivò a produrre mille mac-chine al giorno. Tutto intorno a Pavia fiorirono piccole industrie che producevano macchine complete con i loro marchi: Vi-gorelli, Casati, Mariani, Simdac. Oltre ad esse, comparvero ditte di componentistica. Pavia diven-

ne la capitale italiana della mac-china per cucire e nel 1950 ospi-tò una mostra internazionale.

Frattanto Lei aveva creato nel

1937 una scuola professiona-le con lo scopo di preparare i futuri specialisti e tecnici d’officina. L’aveva chiamata con il nome di Suo padre, Am-brogio Necchi.

La scuola era nata nel 1917 per

iniziativa della Pia Casa d’Industria in via Volta 19, aveva 24 allievi, poi si trasferì in piazza Ghislieri. Ebbe, in quegli anni, vita stentata per la scarsa cultu-ra industriale di allora. Riuscii a coinvolgere nell’iniziativa alcuni industriali pavesi e alcuni enti lo-cali, incaricai l’architetto Carlo Morandotti di redigere il progetto e feci costruire il grande edificio di piazza Marconi. L’edificio co-priva una superficie di un miglia-io di metri quadrati, su un’area di oltre quattromila, messa a di-sposizione gratuitamente dal Comune di Pavia. Qui, final-mente, la scuola ebbe la sua se-de adeguata, con locali per aule, laboratori, officina, palestra e ampi spazi aperti per sperimen-tazioni pratiche. La direzione

della scuola fu per più di trent’anni affidata ad Aristide Annovazzi, figura notissima a Pavia, oltre che per la sua ele-vata capacità tecnica, anche per il suo impegno culturale come fi-lologo e dialettologo di fama. Quando nel 1950 l’Annovazzi (simpaticamente il Gnassi per gli allievi) lasciò la scuola, fu sosti-tuito dall’ingegner Gribaudo, che continuò l’attività didattica con altrettanto impegno, svilup-pando anche un settore dedica-to all’elettricità: formò elettrotec-nici validi che furono anche as-sunti dall’Enel e da altre aziende del settore. Poi nel 1962, nell’ambito della riforma della scuola media e della conse-guente unificazione della scuola secondaria, le scuole professio-nali furono abolite. Ci volle del tempo perché i legislatori si ac-corgessero del vuoto lasciato con questa decisione. Corsero ai ripari con l’istituzione di corsi triennali (IPSIA) dove però l’insegnamento pratico era se-condario rispetto alle materie te-oriche e al nozionismo tipico delle nostre scuole. Anche la scuola Necchi fu assorbita da questa riforma e diventò statale a tutti gli effetti.

Per vendere una macchina

per cucire era assolutamente necessario creare il desiderio nell’acquirente dimostrando le possibilità di lavoro che la macchina forniva, ma era an-cor più importante insegnare a usarla, ottenendo da essa il massimo della resa.

La rete commerciale Necchi in

Italia aveva ormai raggiunto una diffusione notevole: in ogni città, in ogni borgo di rilievo erano sorti concessionari, produttori, negozi di vendita e di assisten-za; in ognuna di queste realtà commerciali si istituirono corsi gratuiti di taglio, cucito e ricamo a scopo didattico e propagandi-stico. Presso i concessionari, o addirittura in azienda, veniva formato il personale per inse-gnare in questi corsi. In questo ambito venivano donate cospi-cue partite di macchine a enti benefici e assistenziali del regi-me e della Chiesa. Specialmen-te le Suore Educatrici, capillar-mente diffuse sul territorio, che da sempre attiravano le giovani a imparare a ricamare a mano la biancheria del corredo, allestiva-no questi corsi per le future ca-salinghe e pertanto future clienti

Necchi. Era allora considerata una vera fortuna avere una macchina per cucire come dono di nozze e l’entusiasmo che ge-nerava nelle allieve l’uso delle Necchi in questi corsi di cucito era un veicolo promozionale per le vendite. La Direzione com-merciale chiamò tutto questo “Continuità di Servizio” che com-prendeva, oltre ai cicli di cucito e ricamo, permanenti o tempora-nei, dimostrazioni didattiche, collaborazione tecnica, merceo-logica, organizzativa per tutta la clientela Necchi con l’ausilio dei circa 10 mila negozi situati in o-gni parte del mondo.

Un importante fattore di suc-

cesso dell’organizzazione Necchi nel mondo fu sicura-mente l’Assistenza Tecnica.

Ogni rappresentante o conces-

sionario in ogni parte del mondo era in grado di assistere il clien-te per qualsiasi necessità. I tec-nici riparatori venivano inviati a Pavia, e qui addestrati per inter-venire su tutti i modelli della rete vendita, inoltre venivano adde-strati anche per tenere i corsi di cucito nelle loro sedi. La tecno-logia costruttiva delle macchine

Necchi, utilizzando criteri tecno-logici e metrologici rigidissimi, consentiva di avere pezzi di ri-cambio perfetti in ogni parte del mondo.

Un nome si incontra a un cer-

to punto nella storia della Necchi, quello di Leon Jolson. A lui è legato il sogno ameri-cano.

Leon Jolson arrivò dalla Polonia

negli USA con la moglie Anna dopo la fine della seconda guer-ra mondiale, nel 1947; egli, e-breo, era sfuggito ai campi di concentramento nazisti e aveva aderito alla resistenza lavorando segretamente alle intercettazioni delle radio tedesche per il resto del conflitto. Ai Jolson ora si presentava il problema di rico-minciare la loro vita nel nuovo paese. Leon tornò a lavorare su ciò che conosceva bene: la macchina per cucire. A Varsavia la famiglia Jolson era agente di vendita e assistenza tecnica per la Necchi. A New York cominciò a offrire un servizio di riparazio-ne porta a porta. Durante la guerra era impossibile trovare parti di ricambio, perciò erano tante le macchine fuori uso

presso le famiglie americane. Jolson allestì allora una officina di riparazioni nell’appartamento nel Bronx. Gli affari non andava-no male; inoltre Jolson, avendo per le mani molte marche di macchine per cucire americane, poté rendersi conto che nessu-na di queste poteva competere con le Necchi che lui aveva trat-tato a Varsavia. L’America sa-rebbe stato il mercato ideale per la Necchi. Jolson contattò la dit-t a i t a l i a n a p e r a v e r e l’assegnazione in prova di alcu-ne macchine. Evidentemente la direzione commerciale Necchi non condivise l’entusiasmo di quest’uomo, perciò non ci fu ri-sposta. Non venne meno però la convinzione di Jolson della bon-tà della sua idea. Ottenne altri 2 mila dollari di prestito. Con que-sta somma e una forte fede con-vinse due uomini d’affari, Ben Krisiloff e Milton Heimlich, a in-vestire nell’affare 50 mila dollari. Con queste credenziali contattò la Vittorio Necchi. Questa volta la risposa fu positiva: così Jol-son e Krisiloff vennero a Pavia a colloquio con me e con Gastaldi suscitando il loro interesse per il mercato americano. Compra-rono subito 135 macchine, nel giro di una settimana giunse un altro ordine di 3.500 e nelle suc-cessive l’ordine arrivò a 7 mila.

Lei amava autode-

finirsi un malà ad la preja, (malato del mattone ) che per i pavesi si dice di persona appassio-nata alla costruzio-ne, ristrutturazione o modifica di fab-bricati. In effetti, mai come in questo caso la realtà con-fermava la defini-zione. Guardando la cronologia delle Sue residenze si nota che, ultimata appena la prima fa-se della costruzio-ne della fabbrica in via Rismondo, che era iniziata nel 1919, cominciò la

serie, pressoché ininterrotta, delle ville che via via divenne-ro le Sue residenze, tempora-nee o fisse.

Nel 1923 iniziai la costruzione

della villa di Pavia, che, attraver-so varie modifiche in corso d’opera si protrasse fino al 1929. Seguì il rifacimento totale della villa di Portalupa, che era stata fino ad allora una villa d’appoggio per la riserva di cac-cia. Nel 1937 diedi il via alla villa di Cogne, da utilizzare per l’estate e per la riserva di pesca. Fu completata nella primavera del 1939. Una pausa dovuta pri-ma ai fatti bellici, poi all’impegno per la costruzione dei nuovi ca-pannoni in fabbrica (1950-1952), e rieccoci con la villa a Nervi, or-dinata all’Architetto Tommaso Buzzi nel 1953 e completata nel 1956.

Mi parli un po’ della Villa di

Piazza Castello.

La palazzina che feci costruire

per la mia famiglia a partire dal 1924 sorgeva nell’attuale corso Matteotti, nell’area (ora occupa-ta dal condominio al n° 73) com-presa tra la Roggia Carona a ponente e il Pio Istituto Pertusati a levante. Affidai il progetto all’architetto Carlo Morandotti. Il progetto, di stile aulico, cin-quecentesco, prevedeva una spaziosa e pretenziosa villa a due piani, con dépendances per i garage e la portineria, un la-ghetto davanti alla facciata e un ampio giardino, l’ortaglia, il cani-le, il recinto per il gioco delle bocce. Tuttavia, già nel gennaio del 1925 l’architetto Morandotti modificò il tutto aggiungendo, nella porzione centrale, un attico sopraelevato e raccordato alla balconata sottostante con due grandi statue di dèi semisdraiati reggenti canestri di frutta e fiori, opera dello scultore Ambrogio Casati. Altra variante nel 1928: al primo piano furono aggiunti due nuovi saloni e altri servizi, mentre al secondo piano altre camere da letto. L’ampliamento fu realizzato con l’aggiunta di nuovi corpi verso il giardino. Su scelta dell’architetto, per questi

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INTERVISTA IMPOSSIBILE

SOPRA DA SINISTRA, VITTORIO NECCHI CON LA MOGLIE; LA CHIESETTA DELLA TENUTA PORTALUPA;

VILLA NECCHI IN VIALE MATTEOTTI A PAVIA; VITTORIO NECCHI CON UN FAGIANO.

QUI A DESTRA, IL DISEGNO DI VILLA NECCHI A GAMBOLÒ, RAFFIGURATA NELLA FOTO ACCANTO AL TITOLO.

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Industria Alta I-talia; dopo un breve periodo passato alla Na-valmeccanica, ricoprì a Milano l’incarico di i-spettore della direzione gene-rale dell’IRI per le industrie mec-caniche setten-trionali. Con lui arrivarono alla Necchi le novità per un’industria che doveva ra-dicalmente inno-vare se voleva sopravv ivere . Martinoli era co-gnato di Adriano Olivetti (questi aveva sposato sua sorella Pao-la) e proprio at-traverso Olivetti face parte negli anni ’30 e ’40 di una delle prime esperienze di businnes school italiane: l’IPSOA di Torino. Per prima cosa, in Necchi, Martinoli decise in favo-re di un aumento della manodo-pera che portò subito a un au-mento della produzione, ma che comportò anche un parallelo ca-lo della produttività. Martinoli cominciò con il chiamare alla Necchi molti tecnici che aveva-no lavorato con lui o presso l’Olivetti oppure nell’esperienza con l’IPSOA.

Vuole citarne qualcuno?

L’ingegner Alessandro Pagni

all’Ufficio Progetti, l’ingegner Gianfranco Clavello all’Ufficio Controllo Qualità, il dottor Giulio Volta all’Ufficio Centrale Analisi Tempi e Metodi, l’ingegner Giu-lio Borello cui affidammo il siste-ma gestionale dell’ impresa (l’espandersi della fabbrica ri-chiedeva una costante analisi dei costi di produzione, della produttività, dell’impiego del per-sonale operativo e di conse-guenti tempestivi interventi), il progettista di macchine utensili Carlo Alghisi, il responsabile del servizio attrezzeria Galileo Ton-dinetti. Voglio poi ricordare gli ingegneri responsabili delle quattro direzioni di produzione: Vittorio Scherillo (Macchine Fa-miglia), Luigi Bono (Macchine industriali), Giuseppe Rossi (Fonderia), Alessandro Valvas-sori (Mobili). Avviata la ristruttu-razione dell’azienda, Martinoli e Gastaldi si posero presto anche un problema chiave: aveva dav-vero un futuro la macchina per cucire? Non sarebbe stato bene diversificare? Il patrimonio di e-sperienza della Necchi era giu-dicato dallo stesso Martinoli ec-cezionale. Perché non sfruttarlo in nuovi settori che già si stava-no delineando come estrema-mente promettenti? Gastaldi, pur sapendo della mia contrarie-tà a tradire la macchina per cu-

cire, coltivò questa idea e strin-se i primi accordi con l’americana “Kelvinator” per la costruzione su licenza dei compressori ermetici per frigorifero. A regime l’impianto arrivò a produr-re mille compressori all’ora. Nel 1985 si pro-dusse il 50 milionesimo compressore; nel solo an-no 1989 se ne produssero 4.451.000. Nel corso del 1956, per via di alcuni contrasti sorti con la vecchia direzione e con me, Martinoli abbandonò la Necchi e tornò a Milano.

Poi venne la crisi, la caduta

del mercato delle macchine per cucire.

Anche in Italia il mercato si ri-

dusse notevolmente. Nella fami-glia media italiana degli anni ‘50 la donna lavorava fuori casa e non aveva più il tempo per met-tersi a cucire capi disponibili già finiti e che l’industria di confezio-ni produce in grandi serie e a prezzi abbordabili. Mentre altri elettrodomestici ( lavatrice, la-vastoviglie, eccetera) erano di a-iuto alle donne di casa, la mac-china per cucire richiedeva tem-po per usarla, tempo che non c’era più. Oltretutto quella che e-ra stata la prerogativa alla base del successo delle macchine Necchi ne divenne una delle cause della crisi: la grande qua-lità del prodotto ne determinò u-na durata tale che le macchine si tramandavano da madre a fi-glia per diverse generazioni, prova ne è che la vendita oggi è ridotta ai minimi termini. Tuttavia la ditta Alpian Italia di Ariccia (Roma), divenuta proprietaria del marchio Necchi, faceva pro-durre in Cina una macchina per cucire che promuoveva alla ven-dita in spot televisivi.

Facendo un bilancio, quanti

dipendenti ha avuto la Necchi nella sua storia e quante mac-chine per cucire ha prodotto?

Le cifre che Le fornisco sono

state pubblicate sulle Riviste Necchi. Nel 1928 la forza lavoro era costituita da 7 dirigenti, 23 impiegati e 439 operai (di cui 100 alle macchine per cucire e 339 alla fonderia); la produzione fu di 1.500 tonnellate di ghisa e 18.500 macchine per cucire. Nel 1950 ecco le cifre: 18 dirigenti, 551 operai e 3.555 operai; la produzione fu quell’anno di 6.000 tonnellate di ghisa e 122.023 macchine per cucire, di cui 4.869 ad uso industriale. Le macchine per cucire esportate passarono dalle 2.646 del 1930 alla 58.461 del 1950. Negli anni Cinquanta e Sessanta il mercato delle macchine per cucire rag-giunse il suo massimo. La Nec-chi arrivò a produrre mille mac-chine al giorno. Tutto intorno a Pavia fiorirono piccole industrie che producevano macchine complete con i loro marchi: Vi-gorelli, Casati, Mariani, Simdac. Oltre ad esse, comparvero ditte di componentistica. Pavia diven-

ne la capitale italiana della mac-china per cucire e nel 1950 ospi-tò una mostra internazionale.

Frattanto Lei aveva creato nel

1937 una scuola professiona-le con lo scopo di preparare i futuri specialisti e tecnici d’officina. L’aveva chiamata con il nome di Suo padre, Am-brogio Necchi.

La scuola era nata nel 1917 per

iniziativa della Pia Casa d’Industria in via Volta 19, aveva 24 allievi, poi si trasferì in piazza Ghislieri. Ebbe, in quegli anni, vita stentata per la scarsa cultu-ra industriale di allora. Riuscii a coinvolgere nell’iniziativa alcuni industriali pavesi e alcuni enti lo-cali, incaricai l’architetto Carlo Morandotti di redigere il progetto e feci costruire il grande edificio di piazza Marconi. L’edificio co-priva una superficie di un miglia-io di metri quadrati, su un’area di oltre quattromila, messa a di-sposizione gratuitamente dal Comune di Pavia. Qui, final-mente, la scuola ebbe la sua se-de adeguata, con locali per aule, laboratori, officina, palestra e ampi spazi aperti per sperimen-tazioni pratiche. La direzione

della scuola fu per più di trent’anni affidata ad Aristide Annovazzi, figura notissima a Pavia, oltre che per la sua ele-vata capacità tecnica, anche per il suo impegno culturale come fi-lologo e dialettologo di fama. Quando nel 1950 l’Annovazzi (simpaticamente il Gnassi per gli allievi) lasciò la scuola, fu sosti-tuito dall’ingegner Gribaudo, che continuò l’attività didattica con altrettanto impegno, svilup-pando anche un settore dedica-to all’elettricità: formò elettrotec-nici validi che furono anche as-sunti dall’Enel e da altre aziende del settore. Poi nel 1962, nell’ambito della riforma della scuola media e della conse-guente unificazione della scuola secondaria, le scuole professio-nali furono abolite. Ci volle del tempo perché i legislatori si ac-corgessero del vuoto lasciato con questa decisione. Corsero ai ripari con l’istituzione di corsi triennali (IPSIA) dove però l’insegnamento pratico era se-condario rispetto alle materie te-oriche e al nozionismo tipico delle nostre scuole. Anche la scuola Necchi fu assorbita da questa riforma e diventò statale a tutti gli effetti.

Per vendere una macchina

per cucire era assolutamente necessario creare il desiderio nell’acquirente dimostrando le possibilità di lavoro che la macchina forniva, ma era an-cor più importante insegnare a usarla, ottenendo da essa il massimo della resa.

La rete commerciale Necchi in

Italia aveva ormai raggiunto una diffusione notevole: in ogni città, in ogni borgo di rilievo erano sorti concessionari, produttori, negozi di vendita e di assisten-za; in ognuna di queste realtà commerciali si istituirono corsi gratuiti di taglio, cucito e ricamo a scopo didattico e propagandi-stico. Presso i concessionari, o addirittura in azienda, veniva formato il personale per inse-gnare in questi corsi. In questo ambito venivano donate cospi-cue partite di macchine a enti benefici e assistenziali del regi-me e della Chiesa. Specialmen-te le Suore Educatrici, capillar-mente diffuse sul territorio, che da sempre attiravano le giovani a imparare a ricamare a mano la biancheria del corredo, allestiva-no questi corsi per le future ca-salinghe e pertanto future clienti

Necchi. Era allora considerata una vera fortuna avere una macchina per cucire come dono di nozze e l’entusiasmo che ge-nerava nelle allieve l’uso delle Necchi in questi corsi di cucito era un veicolo promozionale per le vendite. La Direzione com-merciale chiamò tutto questo “Continuità di Servizio” che com-prendeva, oltre ai cicli di cucito e ricamo, permanenti o tempora-nei, dimostrazioni didattiche, collaborazione tecnica, merceo-logica, organizzativa per tutta la clientela Necchi con l’ausilio dei circa 10 mila negozi situati in o-gni parte del mondo.

Un importante fattore di suc-

cesso dell’organizzazione Necchi nel mondo fu sicura-mente l’Assistenza Tecnica.

Ogni rappresentante o conces-

sionario in ogni parte del mondo era in grado di assistere il clien-te per qualsiasi necessità. I tec-nici riparatori venivano inviati a Pavia, e qui addestrati per inter-venire su tutti i modelli della rete vendita, inoltre venivano adde-strati anche per tenere i corsi di cucito nelle loro sedi. La tecno-logia costruttiva delle macchine

Necchi, utilizzando criteri tecno-logici e metrologici rigidissimi, consentiva di avere pezzi di ri-cambio perfetti in ogni parte del mondo.

Un nome si incontra a un cer-

to punto nella storia della Necchi, quello di Leon Jolson. A lui è legato il sogno ameri-cano.

Leon Jolson arrivò dalla Polonia

negli USA con la moglie Anna dopo la fine della seconda guer-ra mondiale, nel 1947; egli, e-breo, era sfuggito ai campi di concentramento nazisti e aveva aderito alla resistenza lavorando segretamente alle intercettazioni delle radio tedesche per il resto del conflitto. Ai Jolson ora si presentava il problema di rico-minciare la loro vita nel nuovo paese. Leon tornò a lavorare su ciò che conosceva bene: la macchina per cucire. A Varsavia la famiglia Jolson era agente di vendita e assistenza tecnica per la Necchi. A New York cominciò a offrire un servizio di riparazio-ne porta a porta. Durante la guerra era impossibile trovare parti di ricambio, perciò erano tante le macchine fuori uso

presso le famiglie americane. Jolson allestì allora una officina di riparazioni nell’appartamento nel Bronx. Gli affari non andava-no male; inoltre Jolson, avendo per le mani molte marche di macchine per cucire americane, poté rendersi conto che nessu-na di queste poteva competere con le Necchi che lui aveva trat-tato a Varsavia. L’America sa-rebbe stato il mercato ideale per la Necchi. Jolson contattò la dit-t a i t a l i a n a p e r a v e r e l’assegnazione in prova di alcu-ne macchine. Evidentemente la direzione commerciale Necchi non condivise l’entusiasmo di quest’uomo, perciò non ci fu ri-sposta. Non venne meno però la convinzione di Jolson della bon-tà della sua idea. Ottenne altri 2 mila dollari di prestito. Con que-sta somma e una forte fede con-vinse due uomini d’affari, Ben Krisiloff e Milton Heimlich, a in-vestire nell’affare 50 mila dollari. Con queste credenziali contattò la Vittorio Necchi. Questa volta la risposa fu positiva: così Jol-son e Krisiloff vennero a Pavia a colloquio con me e con Gastaldi suscitando il loro interesse per il mercato americano. Compra-rono subito 135 macchine, nel giro di una settimana giunse un altro ordine di 3.500 e nelle suc-cessive l’ordine arrivò a 7 mila.

Lei amava autode-

finirsi un malà ad la preja, (malato del mattone ) che per i pavesi si dice di persona appassio-nata alla costruzio-ne, ristrutturazione o modifica di fab-bricati. In effetti, mai come in questo caso la realtà con-fermava la defini-zione. Guardando la cronologia delle Sue residenze si nota che, ultimata appena la prima fa-se della costruzio-ne della fabbrica in via Rismondo, che era iniziata nel 1919, cominciò la

serie, pressoché ininterrotta, delle ville che via via divenne-ro le Sue residenze, tempora-nee o fisse.

Nel 1923 iniziai la costruzione

della villa di Pavia, che, attraver-so varie modifiche in corso d’opera si protrasse fino al 1929. Seguì il rifacimento totale della villa di Portalupa, che era stata fino ad allora una villa d’appoggio per la riserva di cac-cia. Nel 1937 diedi il via alla villa di Cogne, da utilizzare per l’estate e per la riserva di pesca. Fu completata nella primavera del 1939. Una pausa dovuta pri-ma ai fatti bellici, poi all’impegno per la costruzione dei nuovi ca-pannoni in fabbrica (1950-1952), e rieccoci con la villa a Nervi, or-dinata all’Architetto Tommaso Buzzi nel 1953 e completata nel 1956.

Mi parli un po’ della Villa di

Piazza Castello.

La palazzina che feci costruire

per la mia famiglia a partire dal 1924 sorgeva nell’attuale corso Matteotti, nell’area (ora occupa-ta dal condominio al n° 73) com-presa tra la Roggia Carona a ponente e il Pio Istituto Pertusati a levante. Affidai il progetto all’architetto Carlo Morandotti. Il progetto, di stile aulico, cin-quecentesco, prevedeva una spaziosa e pretenziosa villa a due piani, con dépendances per i garage e la portineria, un la-ghetto davanti alla facciata e un ampio giardino, l’ortaglia, il cani-le, il recinto per il gioco delle bocce. Tuttavia, già nel gennaio del 1925 l’architetto Morandotti modificò il tutto aggiungendo, nella porzione centrale, un attico sopraelevato e raccordato alla balconata sottostante con due grandi statue di dèi semisdraiati reggenti canestri di frutta e fiori, opera dello scultore Ambrogio Casati. Altra variante nel 1928: al primo piano furono aggiunti due nuovi saloni e altri servizi, mentre al secondo piano altre camere da letto. L’ampliamento fu realizzato con l’aggiunta di nuovi corpi verso il giardino. Su scelta dell’architetto, per questi

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VITTORIO NECCHI

LA FOTOGRAFIA DI VILLA NECCHI A PAVIA COMPARE NELLA COPERTINA DEL VOLUME

GUGLIELMO CHIOLINI PALAZZI, SCALE E CORTILI DI PAVIA

EDITO NEL 2011 DALL’ASSOCIAZIONE “SOCRATE AL CAFFÈ PER LA CULTURA

E LA CONVERSAZIONE CIVILE” E DALL’ASSOCIAZIONE CULTURALE

PAVIA FOTOGRAFIA

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Pagina 1 0 Numero set tantaset te - Maggio 2012

nuovi fabbricati fu abban-donato lo stile preceden-te a favore di soluzioni più sobrie. Gli ambienti interni di rappresentanza erano ornati e arredati con grande sontuosità secondo il gusto neo-settecentesco. Nel sot-terraneo trovavano posto la sala biliardo, la sala da gioco e un tiro a segno. Durante il secondo con-flitto mondiale, mentre e-ravamo sfollati a nord di Varese, nel comune di Barasso, ospiti dei co-gnati Campiglio, la villa fu prima requisita dai mi-litari tedeschi per farne la sede del comando della piazza di Pavia, poi dal colonnello Wendel E. Phillips, del Comando

Militare Alleato per lo stesso scopo. In quel periodo difficile cedetti definitivamente la villa a un altro industriale pave-se, Oreste Casati, che l’abitò per breve periodo. Ma alla morte di Casati, il figlio Giancarlo si rese conto che gestire una di-mora così sontuosa era al di sopra delle sue pos-sibilità, così la condannò alla demolizione utiliz-zando la vasta area per costruire un grande cen-tro residenziale di lusso.

Situata a Gambolò, fra-

zione Molino d’Isella, la tenuta chiamata “La Portalupa” comprende-va, oltre alla Sua villa, un assieme di villette

per la residenza del personale che lavorava a vario titolo nella tenu-ta stessa. Lei aveva do-tato il villaggio di una piccola scuola per i fi-gli dei dipendenti e an-che di una chiesetta.

Era un’oasi, una immen-

sa distesa di verde, di boschi e di radure pro-prio come si addice a u-na grande riserva di cac-cia. La Portalupa diven-ne la mia residenza sta-bile dopo la cessione della villa di Pavia. Era u-na grande tenuta agrico-la, con varie cascine, in un terreno che alternava radure a boschi e a ce-spugli, l’ideale per la cac-cia. L’area era in parte di

proprietà e in parte in af-fitto agricolo. Erano natu-ralmente presenti tutte le strutture necessarie per l’allevamento dei fagiani per il mantenimento della riserva di caccia, cioè i locali per le incubatrici, per i pulcini e per le o-vaiole. Frequentatori as-sidui delle battute di cac-cia erano, a turni, i di-pendenti della fabbrica, che sotto l’egida del Gruppo Cacciatori Nec-chi erano ospitati da me, che scendevo con loro, doppietta a tracolla. Una giornata di caccia nella riserva di Portalupa era un avvenimento atteso con ansia dai dipendenti. Nella riserva la selvaggi-na era abbondante. Inol-tre una schiera di battito-

ri, attrezzati con vari ag-geggi per far rumore, di-sposti a semicerchio a-vanzavano lentamente portando letteralmente la selvaggina verso il grup-po di cacciatori, per i q u a l i c ’ e r a s o l o l’imbarazzo della scelta. La giornata si conclude-va con festosi saluti da parte di tutti i presenti, ma molti ricordano che nel commiato ero solito aggiungere: «Ehi, am racumandi, duman mati-na tüti a timbrà al cartlin, nevera?». (Ehi, mi racco-mando, domani mattina tutti a timbrare il cartelli-no, vero?)

Un’altra passione per

Lei era la pesca.

Per questo, nel 1937 mi

ero fatto costruire una villa in montagna, preci-samente a Cogne, nella vallata omonima in Val d’Aosta. La valle è una grande spianata prospi-ciente il massiccio del Gran Paradiso. È solca-ta da due torrenti, (Grauson è il più gran-de), le cui acque proven-gono dal ghiacciaio, scendono dalle cascate di Lillaz, e si uniscono a valle del paese, poi giun-gono attraverso una stretta gola ad Aosta, per diventare affluenti della Dora Baltea. Benché tut-ta la zona facesse parte del Parco del Gran Para-diso, io riuscì ad avere la

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INTERVISTA IMPOSSIBILE

VITTORIO NECCHI

GLI INTERNI DI VILLA NECCHI A PAVIA. IN ALTO A SINISTRA LA SALA DA PRANZO; A DESTRA LA SALA DA BILIARDO. IN BASSO, DA SINISTRA: IL SALOTTO, L’INGRESSO, LA SCALA. SOTTO A SINISTRA, L’INTERNO DEL REPARTO MACCHINE PER CUCIRE DELLA “VITTORIO NECCHI”; A DESTRA, L’INTERNO DELLA SCUOLA PER MECCANICI

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concessione per attuare in queste acque una ri-serva di pesca per trote. Dovetti accettare come unica condizione che i miei guardia pesca colla-borassero con la Guar-dia Forestale nel control-lo del bracconaggio nel Parco. Questa collabora-zione fu fattiva, la caccia e la pesca abusive erano una calamità per il Par-co. In una di queste oc-casioni avvenne che un cacciatore sparò a un magnifico esemplare di aquila reale; l’intervento di una guardia pesca Necchi fece arrestare il bracconiere ma, purtrop-po, per l’aquila era trop-po tardi: finì, impagliata, nel museo del Parco a Valnontey. Anche per la pesca si verificò la fre-quenza di personaggi importanti per i miei rap-porti sociali e industriali. In particolar modo era assidua la presenza di Maria Josè, moglie di Umberto di Savoia, ap-passionata pescatrice, che diventerà poi la Re-gina di Maggio.

Per finire, ricordiamo

la Villa di Nervi.

La villa di Nervi fu ordi-

nata all’architetto Tom-maso Buzzi nel 1953. Ebbe fin dall’inizio una gestazione difficile: il luo-go dove doveva sorgere era un bellissimo parco demaniale, con alberi se-colari, situato fra la linea ferroviaria e il mare, su un piano che declinava fino al mare stesso. Se già fu difficile ottenere le autorizzazioni tecniche e amministrative, fu ancora più duro vincere l’ostilità degli abitanti: se era pur v e r o c h e l’amministrazione locale riteneva conveniente ce-dere una parte di parco in cambio dei vantaggi e-conomici e turistici che ne derivavano, per gli a-bitanti era pur sempre la privazione di uno spazio bellissimo della costa. Tuttavia la cosa andò in porto poiché, per chi ne ha i mezzi, esistono sempre vie per giungere ad accordi. La villa fu completata nel 1956. L’architetto Buzzi aveva nel suo curriculum la co-struzione di ville impor-tanti e bellissime sulla ri-viera ligure, e non solo, pertanto anche la villa

Necchi a Sant’Ilario di Nervi fu una grande rea-lizzazione. Quando, nel 1961, scomparve mia moglie Lina, il mio inte-resse per la villa di Nervi si esaurì. Era Lei che

l’aveva fortemente voluta e c u r a t a nell’arredamento e io non ci tornai mai più. Il 14 ottobre del 1966 la casa d’aste Finarte prov-vide a battere tutte le o-

pere d’arte della villa, di-sperdendole nel vasto mondo dei collezionisti.

Sisto Capra

(Continua da pagina 10)

VITTORIO NECCHI

di Nervi quando morì la mia carissima Lina

I lavoratori in festa al mio ritorno dall’ospedale

INTERVISTA IMPOSSIBILE

La passione per le case. Invitavo i miei dipendenti a caccia alla Portalupa. Vendetti la villa

QUI SOPRA, LA LINEA DI MONTAGGIO ALLA “VITTORIO NECCHI”. QUI A DESTRA, VITTORIO NECCHI ALLA PREMIAZIONE DEL GRUPPO ANZIANI D’AZIENDA. AL TAVOLO DEL DIRETTIVO SI RICONOSCONO (DA DESTRA): FOGLI, VECCHIO, NECCHI, MANIDI (SEMINASCOSTO)

E AGNES. IL PREMIATO È IL SUO AUTISTA, GENI.

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Premessa

Non penso che si

debbano aggiunge-re parole per spie-gare la scelta di questa mia riflessio-ne sulla Politica, parola da riscoprire. Dalla Costituzione Art. 3

Tutti i cittadini han-

no pari dignità so-ciale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni perso-nali e sociali. È compito della Re-pubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economi-co e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipa-zione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Pae-se. Da Antonio Gramsci

Odio gli indifferenti. Credo

[…] che vivere vuol dire esse-re partigiani. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non esse-re cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è paras-sitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferen-ti. (11 febbraio 1917)

Ho ripreso l’art. 3 della nostra

Costituzione come leitmotiv della mia riflessione sulla buo-na politica. Non ci sarebbe bisogno di nessun aggettivo per accompagnare la parola ma la realtà che scorre sotto i nostri occhi ce lo impone. Ho poi ripreso brevi citazioni da Antonio Gramsci perché ne condivido il contenuto. So-no anch’io partigiana ma sen-za mai perdere di vista il con-fronto con gli altri e il bisogno di mediare, senza mai mette-re da parte l’interesse genera-le. Almeno, lo spero. La politi-ca, la buona politica non è equidistanza da ogni cosa, al contrario è presa di posizione, impegno, idee forti sostenute da intelligenza, autorevolez-za. Chi dice “La politica non è cosa mia, me ne sto alla lar-ga, tanto sono tutti uguali” non sa che questa sua presa di posizione è “fare politica” nel peggiore dei modi, chiu-dendosi in se stesso, ignoran-do che l’impegno per una buona amministrazione della cosa pubblica è anche salva-guardare il proprio interesse. Gramsci sosteneva: “Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città”. Questo imperativo morale è stato, è spesso disatteso e a soffrirne sono tutti i membri della città e la città non è solo il proprio ristretto cerchio di appartenenza, è anche il pro-

prio paese, membro di una comunità sempre più vasta, sino ad abbracciare il mondo. La buona politica è rifiuto di un’accettazione passiva della realtà. I problemi che si pre-sentano sono problemi di tutti, farsene carico è sentirsi parte integrante della città, sino alla città mondo. Ancora Antonio Gramsci scriveva: “Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare […] La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illuso-ria di questa indifferenza, di questo assenteismo”. Per vari motivi, nel nostro presente, molti si allontanano dalla città di cui fanno parte. Per loro la politica non merita nessuna attenzione, perché i politici sono tutti uguali… Trionfa co-sì l’antipolitica, l’indifferenza, l’assenteismo. Questi atteg-giamenti di presa di distanza non aiutano a trovare buone soluzioni in nessun campo e ancora meno servono alla convivenza civile. Che fare di fronte ai gravi problemi che toccano tutti? È necessario “essere vigili, presenti, anima-ti da reciproca simpatia”. Una buona dose di utopia, si obiet-terà, ma senza non si può guardare al futuro con spe-ranza. Due anni fa, avvicinan-domi a una soglia importante della mia vita, i miei 70 anni, ora da poco varcata, ho senti-to il bisogno di una partecipa-zione più vigile e attiva a quel-la che chiamerò, d’ora in poi, la città, e questo per non es-sere un’estranea alle sue sor-ti, per non essere tra coloro che pensano che essere par-tigiani non serva a niente in una realtà in cui gli indifferenti sono di gran lunga la maggio-ranza. Quale città?

Per rispondere alla domanda

“Quale città?” ricorrerò a una pagina ricca di stimoli di rifles-sione, il “Discorso di Pericle

agli Ateniesi” - 461 a.C. - Tu-cidide “La guerra del Pelopon-neso”, disarticolandolo in pa-ragrafi, seguiti da brevi note.

Qui il nostro governo favori-

sce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così.

Favorire i molti invece dei

pochi è una garanzia di rispet-to del bene comune.

Le leggi qui assicurano una

giustizia uguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricom-pensa al merito, e la povertà non costituisce un impedi-mento. Qui ad Atene noi facciamo così.

Le leggi, è scritto, assicurano

una giustizia uguale per tutti. Pensando al nostro oggi, que-sto principio di uguaglianza, sancito dall’art.3 della nostra Costituzione, è, molte volte, disatteso. Non ignoriamo mai i meriti, sottolinea con forza Pericle. Questo non avviene sempre nel nostro presente: molti giovani, tra le eccellen-ze, sono costretti ad andare altrove, dove le loro qualità sono apprezzate e producono cultura e ricchezza. Una per-dita per il nostro paese in tutti i campi. Pericle aggiunge che il merito è riconosciuto ad A-tene indipendentemente dal censo. Anche questa è una lezione da imparare in casa nostra, nel nostro presente.

La libertà di cui godiamo si

estende anche alla vita quoti-diana; noi non siamo sospet-tosi l’uno dell’altro e non infa-stidiamo mai il nostro prossi-mo se al nostro prossimo pia-ce vivere a modo suo. Noi

siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tutta-via siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi perico-lo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quan-do attende alle proprie fac-cende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici af-fari per risolvere le sue que-stioni private. Qui ad Atene noi facciamo così.

I cittadini di Atene sono liberi

ma nel rispetto della libertà degli altri, e, sottolineatura importante, senza mai trascu-rare i pubblici affari anche quando ci si occupa dei propri e senza mai servirsi della co-sa pubblica a proprio vantag-gio. Credete forse che questa sia la condotta di noi tutti og-gi? La regola di non anteporre mai i propri affari a quelli pub-blici è forse valida sempre oggi? Pensate che si possano far rientrare tra i cittadini ideali di Atene tutti i nostri uomini pubblici?

Ci è stato insegnato di rispet-

tare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è di buon senso. Qui ad Atene noi facciamo così.

E noi? Abbiamo forse dimen-

ticato l’insegnamento imparti-to ai cittadini ideali di Atene? Pensiamo che sia realmente la regola da noi il rispetto dei magistrati e delle leggi, anche quelle non scritte purché risie-dano nel sentimento universa-le del giusto e di ciò che è di buon senso?

Un uomo che non si interes-

sa allo Stato noi non lo consi-deriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in gra-

do di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudi-carla. Noi non consideriamo la discussione co-me un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frut-to della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. Insom-ma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ate-niese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la

fiducia in se stesso, la pron-tezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero. Qui ad Atene noi facciamo così."

Nel discorso di Pericle sono

richiamati più di una volta l’attenzione e il rispetto di cia-scuno per lo Stato. Chi non lo fa non è semplicemente inno-cuo ma inutile. Che dire allora dei tanti oggi che non sanno cogliere il loro legame con lo Stato, che ignorano che la salute dello Stato dipende da tutti, che lo Stato non è un’entità astratta ma una rete di protezione di ciascuno, di salvaguardia del territorio, co-sì aggredito, cementificato per cui un disastro naturale come a fine ottobre 2011 in Liguria ha provocato morte e distru-zione inimmaginabili; di tutela della salute; di arricchimento culturale grazie all’impegno, al contributo di tutti? Infine dipende da tutti noi il rispetto per il nostro paese all’interno della comunità internazionale. Aggiungo un’ultima conside-razione a conferma della scarsa consapevolezza che lo Stato siamo noi e che tutti noi dovremmo contribuire alla sua salvezza, ricordando la piaga dell’evasione fiscale. Eppure è ben scritto nella nostra Co-stituzione: Art. 53

Tutti sono tenuti a concorrere

alle spese pubbliche in ragio-ne della loro capacità contri-butiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progres-sività.

Infine riprendo: “Qui ad Atene

noi facciamo così”. Conside-riamo l’uso del verbo fare alla prima persona plurale e la sottolineatura del luogo ben due volte qui, ad Atene per-ché possa il messaggio esse-re ben fissato nella mente. Sarebbe un grande cambia-mento se noi tutti, uomini, donne privati e pubblici citta-dini, potessimo affermare: “Qui, in Italia, noi ci impegnia-mo a fare così”.

di GIOVANNA CORCHIA

GRAMSCI PERICLE

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Numero set tantaset te - Maggio 2012 Pagina 13

LA VITA QUALE DIRITTO INVIOLABILE E INDISPONIBILE: MA È SEMPRE COSÌ?

La legislatura chiusa

con le dimissioni del go-

verno Berlusconi ha la-

sciato in eredità alla

successiva il disegno di

legge Calabrò sul testa-

mento biologico, estre-

mamente controverso. È

un ddl che ha diviso

l’opinione pubblica ita-

liana. Su questa materia

la Chiesa Valdese si è

espressa più volte in mo-

do inequivocabile. Nella

mia disamina espungo il

nostro punto di vista sul

concetto di vita e di per-

sona. "La presente leg-

ge […] riconosce e tute-

la la vita umana, quale

diritto inviolabile ed indi-

sponibile […]; riconosce

e garantisce la dignità di

ogni persona in via prio-

r i t a r i a r i s p e t t o

all’interesse della socie-

tà e alle applicazioni del-

la tecnologia e della

scienza […]": potremmo

partire proprio da qui,

dal primo articolo del

disegno di legge

(cosiddetto ddl

Calabrò) licenzia-

to al Senato nel

2009 e modificato

alla Camera nel

luglio di questo

anno, ora in atte-

sa di tornare in

Senato. Potrem-

mo partire da qui

perché il primo articolo

della legge sancisce i

principi che la fondano e

apparentemente non c’è

nulla di strano nelle pa-

role che ho riportato so-

pra.

La vita quale diritto invi-

olabile e indisponibile e

la garanzia della dignità:

asserzioni certamente

condivisibili, ma sono

sempre sottoscrivibili?

La vita è un diritto indi-

sponibile? Certamente lo

è! Non vi è costituzione,

convenzione o altro

scritto pubblico del do-

poguerra che non si basi

sul principio della invio-

labilità della vita umana

e sulla dignità della per-

sona. È altrettanto ovvio,

però, che ci si riferisce

alla vita e alla dignità

altrui, non certo alla no-

stra stessa persona, su

cui prevalgono gli altret-

tanto importanti principi

di rispetto della libertà e

delle scelte individuali.

Noi siamo quindi liberi di

disporre della nostra

vita e anche il caso più

estremo, quello del sui-

cidio, non è un reato

(qualora il tentativo non

riesca, come spesso

succede, non si incorre,

infatti, in alcuna sanzio-

ne). La nostra stessa

vita quindi non è inviola-

bile, e una legge, come il

ddl Calabrò, che intenda

porre delle regole alla

volontà della persona di

rifiutare dei trattamenti

sanitari qualora si tro-

vasse in stato di inco-

scienza, non può porre

altro preambolo se non

quello della libertà delle

scelte individuali, sanci-

to da diversi articoli del-

la nostra Costituzione.

Questa questione non è

importante solo come

norma di diritto, ma mi

coinvolge anche come

cristiana, protestante,

valdese. Viene infatti

spesso riportato come

"verità" cristiana il dirit-

to alla vita dal

momento del

c o n c e p i m e n t o

fino alla fine co-

me declinazione

di una "legge na-

turale" così co-

me lo riporta la

chiesa cattolica,

d i m e n t i c a n d o

che il mondo cri-

stiano comprende anche

le molte realtà prote-

stanti, alcune delle quali,

fra cui quella valdese e

metodista, significativa-

mente presenti in Italia.

La chiesa valdese si è

più volte espressa pro-

prio sul concetto di vita

e di persona. Come cre-

denti riteniamo che la

vita non possa definirsi

esclusivamente con un

significato biologico. Noi

non siamo un agglome-

rato di organi le cui fun-

zioni vitali vanno soste-

nute con ogni mezzo. Al

contrario, noi siamo per-

sone, dotate di capacità

relazionali con Dio e con

gli uomini e le donne che

ci circondano, siamo

persone con una biogra-

fia che si esprime nei

nostri pensieri e nelle

nostre azioni. La vita è

certamente un dono pre-

zioso di Dio, ma proprio

per questo non bisogna

ridurre il suo significato

profondo alla sua funzio-

nalità biologica. La com-

piutezza della vita per i

cristiani, infatti non è su

questa terra: Gesù ha

vinto la morte come pri-

mizia di tutte le genti, ma

nuovi cieli e nuova terra

è stata promessa a tutti

coloro che sono giustifi-

cati dalla loro fede. Non

la scienza quindi, ma la

nostra fede ci salverà

“perché Dio ha tanto a-

mato il mondo che ha

dato il suo unigenito Fi-

glio affinché chiunque

crede il lui non perisca,

ma abbia vita eterna”.

Considerare vita un cor-

po inerme attaccato ai

tubi è un atto di presun-

tuosa onnipotenza. Il

progresso della medici-

na in sé è certamente da

guardare con favore.

Non dimentichiamo che

Gesù guariva i malati!

Ma le cure mediche sono

un mezzo e non un fine,

le utilizziamo per curare

e quando possibile, gua-

rire dalle malattie, per

lenire le soffe-

renze e rendere

accettabile la

vita anche quan-

do questa ci ri-

serva dei mo-

menti difficili. La

sofferenza, il

patimento e il

dolore non por-

tano la salvezza, questo

sia chiaro. Sopportare

sofferenze atroci non ci

rende migliori di fronte a

Dio: la grazia non si con-

quista mediante un per-

corso di travaglio fisico,

ma ci è fornita gratuita-

mente mediante la fede.

Anche su questo punto,

in Italia, vediamo un'in-

fluenza culturale che

deriva dalla teologia cat-

tolica, per cui la soppor-

tazione del dolore fisico

ci eleverebbe agli occhi

del Signore: basti guar-

dare la scarsa diffusione

delle cure palliative.

Quindi ben venga la me-

dicina, le cure, le tera-

pie, ma solo come mezzo

per rendere la nostra

vita dignitosa dall’inizio

alla fine: ed è proprio qui

che si mettono a fuoco i

confini della libertà indi-

viduale. Il futuro del Re-

gno di Dio ci impegna a

seguire i suoi insegna-

menti durante la nostra

vita terrena e questo av-

viene nella piena libertà

e responsabilità

dei singoli. Agi-

re con libertà di

coscienza nell’

ambito della

responsabilità:

questa è la ba-

se dell’etica

p r o t e s t a n t e ,

che non signifi-

ca che ognuno fa ciò che

vuole, ma che ognuno di

noi risponde davanti a

Dio delle proprie deci-

sioni. Ne consegue che

la libertà del cristiano si

esprime anche nel deci-

dere di rifiutare anticipa-

tamente un trattamento

sanitario che per noi è

sovra-proporzionato,

per accettare la parte

della vita che si chiama

morte.

Non ho voluto qui parla-

re di morte “naturale”,

perché è certamente un

terreno scivoloso quello

della definizione di ciò

che di artificiale è pre-

sente nella vita umana. Il

progresso della medici-

na permette oggi spesso

di intervenire nel pro-

cesso del morire con

successo. Altre volte

invece, come nella nota

vicenda di Eluana, la so-

spensione non fa che

prolungare la funzionali-

tà degli organi: sta a noi

decidere quali sono i

confini della nostra di-

gnità del vive-

re, decidere

quale vita meri-

ti di essere vis-

suta. Nessuno

può intervenire

in nostra vece

se non desi-

gnato da noi

stessi.

Mi si permetta qui un

importante inciso: quello

che noi crediamo come

cristiani deve rimanere

nell’ambito delle nostre

azioni libere e individua-

li, non deve assoluta-

mente essere imposto

per legge! Per questo

noi ci impegniamo così

profondamente per la

difesa della laicità delle

istituzioni: sulle questio-

ni etiche che prevedono

scelte differenti per le

singole persone la liber-

tà di coscienza del legi-

slatore non deve diven-

tare imposizione di co-

scienza sui cittadini. Sul-

le questioni bioetiche noi

protestanti siamo spes-

so su posizioni distanti

dai cattolici, ma le une e

le altre non possono ri-

entrare in articoli di de-

creti legge.

Nel concludere vorrei

rimarcare che la medi-

calizzazione della morte

ha portato, dalla secon-

da metà del '900, ad al-

lontanare la morte dalla

nostra vita, con la con-

seguenza, da un lato di

fare respirare un’aria di

“immortalità”, come se

la scienza ci potesse sal-

vare sempre, e dall’altro

a non sapere più affron-

tare questo evento come

parte della vita. Fino ai

primi decenni del XX se-

colo, la peggior disgra-

zia che potesse accade-

re era di morire improv-

visamente, senza esser-

si potuti acco-

miatare dai

propri cari,

senza aver si-

stemato i pro-

pri interessi e

senza essersi

preparati al

trapasso; ora

invece, è comu-

ne sentire il desiderio di

una morte rapida e im-

provvisa. Utilizzare la

scienza e la medicina

come mezzo, significa

anche riappropriarsi del-

la vita, di tutta la vita,

dall’inizio alla fine.

*Biologa presso

l’Istituto Scientifico San Raffaele di Milano.

Membro della Commissione

bioetica

di MONICA FABBRI*

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Pagina 14 Numer o settan taset te - Maggi o 2012

“Gandhi e la tessitura, come

simbolo del nazionalismo in-diano e dello sviluppo dei vil-laggi”: a questi temi erano dedicati gli eventi - una mo-stra documentaria dal titolo “Gandhi e i Tessitori della Pa-ce”, un convegno e un seminario - che si sono svolti dall’8 all’11 maggio all’ Università di Pavia. La mani-festazione è stata organizzata dall’Università in collabora-zione con l’Accademia Galli e con la Fondazione Ratti di Como e ha proposto anche un omaggio al professor Giorgio Borsa, morto nel 2002 all’età di novant’anni e che è stato direttore del Centro Studi per i popoli extra-europei “Cesare Bonacossa”, facente capo al Dipartimento di Scienze politi-che e sociali dell’ Ateneo pavese. Poco prima della sua scomparsa, Borsa, che dal 1977 per trent’anni aveva insegnato Storia politica e di-plomatica all’Università di Pavia, aveva pubblicato il decimo volume di Asia Major, la pubblicazione del centro studi Cesare Bonacossa ,intitolato “Trasformazioni poli-tico-istituzionali dell'Asia nell' era di Bush”. La modernizza-zione dell’Asia Orientale sotto l’influenza dell’Occidente era la sua specializzazione, e di questo tipo di studi era stato in Italia l’iniziatore: nel 2000 ne aveva pubblicato un pon-

deroso consuntivo, in inglese, sulla rivista “Il Politico”, organo della facoltà di Scien-ze politiche di Pavia.

La mostra “Gandhi e i tessito-

ri della Pace” si è svolta pres-so l’aula Disegno dell’ Università di Pavia e ha intro-dotto la filosofia morale di Gandhi spiegando l’atten-zione che il Mahatma ha sem-pre dedicato alla filatura e alla tessitura a mano del cotone khadi trasformandolo in un simbolo del nazionalismo in-diano e dello sviluppo dei vil-laggi indiani. La mostra era divisa in due sezioni; la prima ha carattere storico e si è concentrata sulla figura di Gandhi proponendo una serie di fotografie d’epoca, mentre la seconda ha guardato alla odierna produzione di khadi con l’esposizione di manufatti di alcune cooperative nella speranza di stabilire un con-tatto diretto fra gli artigiani se-lezionati e gli imprenditori ita-liani del settore.

La prima parte della mostra

ha ripercorso la vita e l’azione del Mahatma sottolineando il significato simbolico, che Gandhi attribuiva al vestiario: si spiega la decisione di adot-tare il dhoti, l’abbigliamento dei più poveri, che gli permise di creare una cultura patriotti-ca dai forti contenuti morali, comprensibili sia per l’élite borghese sia per le masse

analfabetizzate. Si racconta, i-noltre, come attraverso l’en-fasi sul filatoio e sulla filatura a mano Gandhi espresse una più ampia con-cezione politica, che comprende-va nella lotta per l’indipendenza anche il rifiuto del materialismo occidentale e la critica degli ec-cessi della mo-dernità. Questo rientrava in una visione ideale di Gandhi, che mi-ra all’impegno quotidiano e di-sinteressato vol-to al benessere degli altri sottoli-neando l’aspetto morale della po-

litica. Predicata

all’inizio del Nove-cento, la filosofia gandhiana è certa-mente molto attuale. Ancora oggi la filatura e la tessitura a mano di khadi e di malkha (versione moderna e semi-meccanizzata del tessuto na-zionale) esprimono gli ideali gandhiani puntando a rendere partecipi allo sviluppo econo-mico anche i più poveri. In particolare nel procedimento del malkha l’intera catena di produzione del tessuto di cotone si basa sul villaggio, sperimentando la possibilità per i coltivatori di cotone grez-zo e per i tessitori di benefi-ciare gli uni degli altri. Attra-verso questo processo khadi e malkha si vuole anche inter-venire nel tessuto sociale mi-gliorando le infrastrutture lo-cali, ad esempio favorendo la costruzione di scuole primarie e secondarie e di strutture sanitarie, per distribuire in maniera più equa le risorse fra zone rurali e zone urbane. Il rigore e la dignità della po-vertà predicati da Gandhi, che ancora ispirano quanti pratica-no la tessitura e la filatura a mano del khadi, non escludo-no l’eleganza. La produzione contemporanea, prevalente-mente bianca, è variegata e raffinata. I tessuti, che usano numerosi motivi (anche con righe o quadretti), hanno spessori diversi e in alcuni casi si presentano come veli rarefatti, testimoniano la crea-

tività dell’alto artigianato tessile indiano. Nonostante ciò, nell’India odierna, lanciata in una crescita accelerata, che pure ha migliorato le con-dizioni di vita di un’ampia percentuale della popolazio-ne, i filatori e i tessitori vivono in condizioni di estrema pre-carietà, dovuta a varie logiche di carattere economico. Arti-giani, che creano tessuti di squisita fattura, sono spesso costretti a cercare altro lavoro, necessario per la loro soprav-vivenza. Secondo le statisti-che nell’ Andhra Pradesh, regione famosa per la città di Hyderabad, centro della Infor-mation Terchnology, l’88% delle famiglie legate al settore dell’alto artigianato tessile vive al di sotto della linea di povertà e con forti indebita-menti. Una maggiore visibilità di questo artigianato in Italia, dove il settore della moda è vitale, può migliorare enorme-mente le condizioni di vita di

filatori e tessitori, se si crea un link fra l’alto artigianato khadi e l’ imprendi-toria italiana del settore.

La mostra “Gandhi e i

Tessitori della Pace” è stata accompagnata da alcuni e-venti collaterali. L’8 maggio, presso l’Aula Scarpa dell’ Università, si è tenuto il seminario “Gandhi and Khadi: Nationalism and Develo-pment”: alcuni aspetti del di-scorso gandhiano sul nazio-nalismo e lo sviluppo vengono discussi da personalità acca-demiche indiane e inglesi. Dopo il seminario, sempre in Aula Scarpa, si è svolta la ta-vola rotonda “India vs Italy: Styles and Contamination”, che ha esplorato nuove forme di dialogo fra artigianato india-no e italiano privilegiando un discorso ad ampio spettro e sottolineando le influenze re-ciproche. Ciò significa innan-zitutto coinvolgere nel dibattito quanti già operano nel settore in India e in Italia, ma anche avvicinare in Italia quanti trag-gono ispirazione da aspetti diversi del discorso gandhiano elaborandolo in maniera crea-tività senza ancora operare in India. Ha introdotto la tavola rotonda Mukulika Banerjee che, oltre a insegnare antro-pologia alla London School of Economics, è autrice di un interessante volume su sari e sporadicamente appare come attrice in film bengalesi

d’autore. Sempre l’8 maggio

il Direttore del Centro Studi Popoli Extra-europei “Cesare Bonacossa” di Pavia e Preside della Facoltà di Scienze Politiche Silvio Beret-ta ha inaugurato la mostra “Gandhi e i Tessitori della pa-ce - Un omaggio a Giorgio Borsa” insieme all’Ambascia-tore dell’India Deba-brata Saha e a Mushirul Hashan, Direttore Generale degli Ar-chivi dell’India. La mostra “Gandhi e i Tessitori della Pa-ce” è stata curata da Uzra Bilgrami (Malkha Marketing Trust, Hyderabad), Simonetta Casci (Università di Pavia(, Purnima Rai (Delhi Crafts Council, New Delhi) e Rossa-na Vittani (IED Milano). Nel Comitato scientifico sedevano Raunak Ahmad (Indira Gan-dhi National Open University-New Delhi), Sailaja Gullapalli (Gandhi Smriti and Darshan Samiti New Delhi), Laura Maino (Università di Pavia( e Stefania Vilardo (U-niversità

di Pavia).

L’allestimento della

mostra è stato curato dall’architetto Fran-cesco Ardizzone, dell’Università di Pa-via. Le fotografie so-no state concesse dal National Gandhi Museum and Library di New Delhi; da Gandhi Smriti and Darshan Samiti di New Delhi e dal Ne-hru Memorial and

Museum Library sempre della capitale indiana. Sponsor del-la mostra sono stati il Centro Studi “Cesare Bonacossa”, il Collegio Del Maino, il Conso-lato Generale dell’India a Mi-lano, il Master in Cooperation and Development (IUSS e Università di Pavia, il Lions Club International distretto 108 IB 3.

Il 9 maggio in Aula Foscolo si

è tenuto il convegno “ Cittadi-nanza umanitaria … Premere per il dialogo”. Sono interve-nuti il Rettore dell’Università di Pavia Angiolino Stella, il Go-vernatore distrettuale del Lions Club Adriana Cortinovis e il Past direttore internazio-nale Giovanni Rigone. Il con-vegno è stato aperto da Gian-ni Vaggi, direttore del Master Università-IUSS in Coopera-zione allo sviluppo. Si sono quindi svolte le relazioni di Stefano Zamagni, docente dell’Università di Bologna, sul tema “La giustizia benevolen-te e il neocontrattualismo”, e di Salvatore Veca, vicediretto-re dell’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia, sul tema “Un’idea di giustizia sen-za frontiere”. Nelle conclusioni Gianni Vaggi ha tratteggiato in particolare la figura di Amar-tya Sen, l’indiano Premio No-bel dell’Economia, autore tra l’altro del libro “L’idea di giusti-zia”.

MANIFESTAZIONE ORGANIZZATA DALL’UNIVERSITÀ IN OMAGGIO A GIORGIO BORSA

di SIMONETTA CASCI

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Numer o settan taset te - Maggi o 2012 Pagina 15

Parafrasando Dumas,

grazie alla “vecchia”

amica Wanda Grillo

(dopo Rabat ora Diret-

trice dell’Istituto Italia-

no di Cultura in Libano)

e all’attuale Ambascia-

tore d’Italia Giuseppe

Morabito, nuovo amico

della nostra Fondazio-

ne, siamo tornati nella

città un tempo perla del

Mediterraneo, ora qua-

si irriconoscibile per la

selva di grattacieli che

hanno sostituito gli an-

tichi caratteristici palaz-

zi. Malata di cemento,

quasi senza ormai giar-

dini, circondata da ver-

di colline ahimè urba-

nizzate come la nostra

Liguria.

Ospiti dell’amico Ge-

orge Asseyli e del suo

Museo della seta, anti-

co palazzo in pietra a

Bsous, abbiamo allesti-

to in due grandi sale

dell’antica manifattura

serica due collezioni

delle sete di Sartirana.

Quella di frammenti del

XVII e XVIII secolo

conservati e montati su

pannello ad Anversa da

Jacqueline Dumortier

De Bolle (in origine pa-

ramenti ecclesiali e tes-

suti liturgici) per rac-

contare una storia della

seta italiana di un glo-

rioso passato. Accanto

quella invece recente

dei setifici che hanno

offerto preziosi ed ine-

guagliabili materiali ai

nostri sarti più famosi a

partire dagli anni ‘50

del Novecento.

Invito accettato con

piacere particolare per-

ché abbiamo potuto

festeggiare a Beirut il

12° compleanno della

nostra collezione di mo-

da, nata proprio a Bei-

rut, con un allestimento

improvvisato per una

mostra richiesta

dall’allora Ambasciatore

d’Italia Giuseppe Cassi-

ni. La nostra Fondazio-

ne nel 2000 non aveva

ancora un settore dedi-

cato alla moda, ma alla

precisa richiesta

dell’amico Ambasciato-

re non si poteva oppor-

re un imbarazzato rifiu-

to. Che fare allora? Pre-

sto detto.

Dieci Armani e altret-

tanti Ferré dal guarda-

roba di mia moglie, die-

ci Versace dagli armadi

dell’amica neurologa

Mariella, compagna di

studi medici, il Valenti-

no da sposa di Antonel-

la Griziotti; ad essi ag-

giungemmo altri abiti

storici di mia madre e

di mia suocera (ancora

Valentino, Balestra, Ro-

berta di Camerino e

Ken Scott).

Così la collezione im-

provvisata partì per

Beirut, dove il nostro

“pronto da indossare”

ebbe un tale successo

che ci fece nascere il

sospetto di “aver scala-

to il Cervino” per co-

struire le altre collezio-

ni, mentre con più faci-

lità avremmo potuto

allestire una colorata,

affascinante ed apprez-

zata storia della moda

italiana. Decidemmo di

affrontare la scommes-

sa con l’aiuto di Teddy

Cappello, moglie

dell’Ambasciatore

d’Italia in Slovenia, do-

ve a Lubiana fummo

chiamati nel 2001 a

una seconda prova. La

sfida era trovare abiti

di alta moda, storici

quindi e di grande im-

patto scenografico, a-

datti alle sale del Ca-

stello di Tivoli.

Teddy Cappello fu la

nostra madrina perché

ci introdusse non solo

nelle case di sue ami-

che, nobildonne roma-

ne (ricordo un pellegri-

naggio fra palazzi stori-

ci e magnifiche ville

sull’Appia antica), ma

anche negli archivi sto-

rici di Roberto Capucci,

delle sorelle Fontana, di

Irene Galitzine e di

Gattinoni. Alla fine di

una settimana di que-

stue riuscii a caricare

sulla mia capiente Re-

nault Espace una ses-

santina di capolavori di

stoffa che fecero gran-

de la mostra a Lubiana

e che in buona parte

rimasero in prestito a

costituire lo zoccolo du-

ro della nuova collezio-

ne. Dopo Roma fu la

volta di Firenze, poiché

ci mancavano Gherardi-

ni, Gucci e Pucci, poi

finalmente Milano.

Se Armani non ci offrì

mai un contributo, ge-

nerosissimi invece furo-

no Santo Versace e

Raffaella Curiel, che ci

aprirono volentieri le

ante dei loro archivi

storici. Egualmente Rita

Airaghi per Ferré. Ap-

prodammo quindi al

mercato del vintage, a

Belgioioso ma non solo,

per arricchire in modo

progressivo e continuo i

nostri armadi di nomi

preziosi quali Veneziani

e Schubert, Pirovano,

Biki, Mila Schon e Mo-

schino. La cosa inco-

minciava a farsi seria e

da allora è stato tutto

un red carpet con pre-

sentazioni, mostre e

sfilate in forse ormai 20

Paesi. Allestimenti in

luoghi pazzeschi per

bellezza e prestigio.

Palazzi Reali come a

Bucarest e Tirana, ex

conventi come a Zaga-

bria, Musei di arte con-

temporanea come a

Riyadh, Tunisi e Lima,

come anche in palazzi

storici o moderni sedi

dei nostri Istituti di Cul-

tura. Ricordi straordi-

nari soprattutto delle

sfilate organizzate sia

con modelle professio-

niste che con le allieve

dei corsi di lingua degli

Istituti IIC. Ragazze e

ragazzi da quando la

collezione cercò di do-

cumentare anche la

moda maschile, pre-

sentata per la prima

volta allo stadio del

CSKA di Sofia, dove

anche molti atleti si

prestarono come mo-

delli per una notte.

Non abbiamo però

mai disdegnato i templi

dello shopping del lus-

so, come in Kuwait, a

Istanbul e recentemen-

te al Central di Ban-

gkok (nuovo proprieta-

rio di Rinascente), o

teatri come a Salonicco

ed Ankara. Ricordi rin-

verditi dalla magica at-

mosfera dello splendido

complesso di George

Asseyli, dove le nostre

sete, tra terrazze, per-

golati e profumi di gel-

somino, saranno ospiti

sino a novembre. Pre-

parandosi a una nuova

tappa, non lontana, in-

vernale, alla Royal Gal-

lery di Amman. Ci sarà

la Sua Maestà la regina

Rania? Dovremo cerca-

re di necessità, in suo

onore, qualche Armani

da sera. A meno di

chiederlo… a Lei!

Il ritorno a Beirut è

stato anche occasione

per nuovi progetti. In

novembre esporremo a

Villa Audi, tra tesori di

mosaici di epoca roma-

na, alcuni set dei nostri

argenti più belli. Il ser-

vizio da tavola di Olga

Finzi per lo Scia di Per-

sia Reza Palhavi, servizi

da tè e da caffè, una

collezione di brocche, di

vasi e candelieri, firma-

ti dai grandi autori del

nostro design.

Nella nuova galleria di

Simone Kosremelli, di-

segnata con il suo rigo-

re di architetto famoso

e appena inaugurata

con la sua prima colle-

zione di gioielli, po-

tremmo invece propor-

re i monili d’argento

degli architetti per San

Lorenzo, di Alba Lisca,

Paola Crema e con

quelli di Bice D’Errico,

che anni or sono tenne

un frequentato semina-

rio alla Fondazione Ha-

riri di Saida.

Dovremo aspettare il

2014 per un ritorno al

Museo Soursok con la

nostra collezione di

grafica, mentre già in

questo prossimo giugno

Mario Maioli sarà prota-

gonista al Palazzo Une-

sco di una mostra con

le immagini del suo la-

voro per il Gruppo Fiat

Auto.

Il felice incontro con

Mimo Seman, in Libano

portabandiera del de-

sign dell’arredo italiano,

ha innescato un altro

progetto per tempi fu-

turi, quello di portare a

Beirut la nostra colle-

zione dressing home di

mobili e complementi di

arredo, magari nelle

sale di Alba, a Beirut

quello che a Milano è la

Triennale. Proficuo vi-

aggio, quindi, per riac-

cendere fuochi sopiti e

riannodare preziose

collaborazioni.

FONDAZIONE SARTIRANA

ARTE

di GIORGIO FORNI

Page 16: nel buio dell’oggi - socrate.apnetwork.itsocrate.apnetwork.it/blog/wp-content/uploads/2012/05/socrate77.pdfcon tutti i suoi epicicli. ³ È vero, Socrate, anche lasciando in pace

Pagina 1 6 Numer o settan taset te - Maggi o 2012

1928-2012

FRANCESCO GUCCINI

DIARIO DELLE COSE

PERDUTE

MONDADORI

C’era una volta …

già, cosa c’era una volta? Con un poco

di nostalgia, ma soprattutto con la po-

esia e l’ironia della sua prosa, France-

sco Guccini, cantautore, poeta, scritto-

re, posa il suo sguardo sornione su

oggetti, situazioni, emozioni di un pas-

sato che è di ciascuno di noi, ma che

rischia di andare perduto, sepolto nella

soffitta del tempo insieme al telefono

di bachelite e alla pompetta del Flit.

Una volta, c’era la banana: non il frut-

to amato dai bambini, bensì

l’acconciatura arrotolata che proprio i

bimbi subivano e detestavano ma che

veniva considerata imprescindibile dai

loro genitori. I quali, per bere un buon

espresso, dovevano entrare in un bar

e chiedere un “caffè caffè”, altrimenti

si sarebbero trovati a sorbire un caffè

d’orzo. Un viaggio nella vita di ieri che

si legge come un romanzo: per scopri-

re che l’archeologia “vicina” di noi

stessi ci commuove, ci diverte, parla di

come siamo diventati.

ALESSANDRO BARICCO

TRE VOLTE ALL’ALBA

FELTRINELLI

Nell’ultimo romanzo che ha scritto, Mr

Gwyn, si accenna a un certo punto a

un piccolo libro scritto da un angloin-

diano, Akash Narayan, e intitolato Tre

volte all’alba. Si tratta naturalmente di

un libro immaginario, ma nelle imma-

ginarie vicende là raccontate esso ri-

veste un ruolo tutt’altro che seconda-

rio. Il fatto è che mentre Baricco scri-

veva quelle pagine gli è venuta voglia

di scrivere anche quel piccolo libro, un

po’ per dare un lieve e lontano sequel

a Mr Gwyn e un po’

per il piacere puro di

inseguire una certa

idea che aveva in

testa. Così, racconta

Baricco, “finito Gwyn,

mi sono messo a scrivere Tre volte

all’alba, cosa che ho fatto con grande

diletto”. “Venga, le ho detto. Perché?

Guardi fuori, è già l’alba. E allora? E’

ora che lei torni a casa a dormire. Co-

sa c’entra che ora è? Sono mica una

bambina. Non è questione di ore, è

una questione di luce. Che cavolo di-

ce? È la luce giusta per tornare a casa,

è fatta apposta per quello. La luce?

Non c’è luce migliore per sentirsi puliti.

Andiamo”.

MASSIMO GRAMELLINI

FAI BEI SOGNI

LONGANESI

È la storia di un segreto celato in una

busta per quarant’anni. La storia di un

bambino, e poi di un adulto, che impa-

rerà ad affrontare il dolore più grande,

la perdita della mamma, e il mostro

più insidioso: il timore di vivere. Fai

bei sogni è dedicato a quelli che nella

vita hanno perso qualcosa. Un amore,

un lavoro, un tesoro. E rifiutandosi di

accettare la realtà, finiscono per smar-

rire sé stessi. Come il protagonista di

questo romanzo. Uno che cammina

sulle punte dei piedi e a testa bassa

perché il cielo lo spaventa, e anche la

terra. Fai bei sogni è soprattutto un

libro sulla verità e sulla paura di cono-

scerla. Immergendosi nella sofferenza

e superandola, ci ricorda come sia

sempre possibile buttarsi alle spalle la

sfiducia per andare al di là dei nostri

limiti. Massimo Gramellini ha raccolto

gli slanci e le ferite di una vita priva

del suo appiglio più solido. Una lotta

incessante contro la solitudine.

della Chiesa Valdese


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