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Newsletter N° 87 Febbraio 2015 - trifiro.it · IL LAVORO AL TEMPO DEL JOBS ACT DALLE ASSUNZIONI AI...

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N°87 Febbraio 2015 1 Newsletter N° 87 Febbraio 2015 Trifirò & Partners Avvocati Diritto del Lavoro Attualità 1 Le Nostre Sentenze 8 Cassazione 11 Diritto Civile, Commerciale, Assicurativo Attualità 12 Assicurazioni 13 Il Punto su 15 R. Stampa 17 Contatti 18 Il lavoro al tempo del JOBS ACT È giunto il momento di fare il punto sul Jobs Act. a) Il primo intervento è stato fatto con il decreto legge 20 marzo 2014 n. 34 (il cosiddetto decreto “Poletti”), convertito nella legge n. 78/2014, che ha innovato la flessibilità in entrata, già oggetto di riforma della legge Fornero, introducendo il contratto a termine “acausale”, fino a 36 mesi (oltre a dettare norme in tema di somministrazione e apprendistato). b) È poi seguita la legge delega 10 dicembre 2014, n. 183, con deleghe al Governo “in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro”. Entro sei mesi dall’entrata in vigore (16 dicembre 2014) il Governo deve emanare decreti legislativi attuativi. c) Prima di considerare tali decreti, seguendo un ordine cronologico, occorre ricordare la legge di stabilità 23 dicembre 2014, n. 190, entrata in vigore l’1 gennaio 2015. In tale legge, alcuni commi dell’unico articolo (dal comma 118 al 122), riallacciandosi alle previsioni contenute nella legge delega in tema di “convenienza” del contratto a tempo indeterminato (definito “forma comune di contratto di lavoro”), hanno previsto l’esonero dai contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro per le nuove assunzioni effettuate nel 2015 sino ad un massimale di 8.060,00 su base annua e nell’ambito della copertura finanziaria stabilita, per il 2015, in un miliardo di euro. d) E veniamo ai decreti attuativi. Proprio in questi giorni hanno compiuto l’iter i primi due decreti in tema di “tutele crescenti” per i nuovi assunti a tempo indeterminato e in tema di ammortizzatori sociali. I due decreti sono in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale ed entreranno in vigore, si dice, l’1 marzo. Nella seduta del 20 febbraio 2015 il Governo, inoltre, ha approvato due nuovi schemi di decreti legislativi: il primo concernente la revisione delle tipologie contrattuali e della disciplina delle mansioni ed il secondo relativo a norme sulla tutela della maternità.
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N°87 Febbraio 2015 !1

Newsletter N° 87 Febbraio 2015

Trifirò & Partners Avvocati

Diritto del Lavoro

Attualità 1

Le Nostre Sentenze 8

Cassazione 11

Diritto Civile, Commerciale, Assicurativo

Attualità 12

Assicurazioni 13

Il Punto su 15

R. Stampa 17

Contatti 18

Il lavoro al tempo del JOBS ACT È giunto il momento di fare il punto sul Jobs Act.

a) Il primo intervento è stato fatto con il decreto legge 20 marzo 2014 n. 34 (il cosiddetto decreto “Poletti”), convertito nella legge n. 78/2014, che ha innovato la flessibilità in entrata, già oggetto di riforma della legge Fornero, introducendo il contratto a termine “acausale”, fino a 36 mesi (oltre a dettare norme in tema di somministrazione e apprendistato).

b) È poi seguita la legge delega 10 dicembre 2014, n. 183, con deleghe al Governo “in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro”. Entro sei mesi dall’entrata in vigore (16 dicembre 2014) il Governo deve emanare decreti legislativi attuativi.

c) Prima di considerare tali decreti, seguendo un ordine cronologico, occorre ricordare la legge di stabilità 23 dicembre 2014, n. 190, entrata in vigore l’1 gennaio 2015. In tale legge, alcuni commi dell’unico articolo (dal comma 118 al 122), riallacciandosi alle previsioni contenute nella legge delega in tema di “convenienza” del contratto a tempo indeterminato (definito “forma comune di contratto di lavoro”), hanno previsto l’esonero dai contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro per le nuove assunzioni effettuate nel 2015 sino ad un massimale di € 8.060,00 su base annua e nell’ambito della copertura finanziaria stabilita, per il 2015, in un miliardo di euro.

d) E veniamo ai decreti attuativi.

Proprio in questi giorni hanno compiuto l’iter i primi due decreti in tema di “tutele crescenti” per i nuovi assunti a tempo indeterminato e in tema di ammortizzatori sociali. I due decreti sono in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale ed entreranno in vigore, si dice, l’1 marzo.

Nella seduta del 20 febbraio 2015 il Governo, inoltre, ha approvato due nuovi schemi di decreti legislativi: il primo concernente la revisione delle tipologie contrattuali e della disciplina delle mansioni ed il secondo relativo a norme sulla tutela della maternità.

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Newsletter T&P Le tipologie contrattuali considerate sono: il lavoro a tempo parziale, il lavoro intermittente, il contratto a tempo determinato (sempre “acausale” fino a 36 mesi), la somministrazione, l’apprendistato e la “riconduzione al lavoro subordinato”, dall’1 gennaio 2016, dei rapporti di collaborazione “che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.

Le altre forme di lavoro autonomo restano, invece, sempre praticabili. Lo schema del decreto prevede, altresì, che qualora i datori di lavoro procedano ad assumere a tempo indeterminato, dall’entrata in vigore del decreto e sino al 31 dicembre 2015, i soggetti già parte di contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, ovvero titolari di partita IVA, beneficeranno della “estinzione delle violazioni previste dalle disposizioni in materia di obblighi contributivi, assicurativi e fiscali connessi alla eventuale erronea qualificazione del rapporto di lavoro pregresso, salve le violazioni già accertate prima dell’assunzione”: una sorta di sanatoria su contratti a progetto e partite IVA dubbi. Il contratto a progetto, peraltro, va ad esaurimento, essendo state abolite le relative norme contenute nel decreto Biagi (che continueranno a rimanere in vigore solo per regolare i contratti in atto).

Di particolare rilievo è la modifica dell’art. 2103 cod. civ. con la previsione di poter adibire il dipendente a mansioni appartenenti ad un livello di inquadramento inferiore, in caso di modifica di assetti organizzativi aziendali “che incidono sulla posizione del lavoratore”.

Il mutamento non riguarda il livello di inquadramento e quello retributivo (salvi gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della prestazione) o meglio, la variazione può essere fatta solo con accordo sottoscritto in sede protetta.

“Il lavoro al tempo del Jobs Act” è il tema del convegno che il nostro Studio ha organizzato per il prossimo 13 marzo presso il Salone degli Affreschi dell’Umanitaria.

Tutti questi temi del Jobs Act saranno approfonditi.

Stefano Beretta

Comitato di Redazione: Francesco Autelitano, Stefano Beretta, Antonio Cazzella, Teresa Cofano, Luca D’Arco, Diego Meucci, Jacopo Moretti, Damiana Lesce, Luca Peron, Claudio Ponari, Vittorio Provera, Tommaso Targa, Marina Tona, Stefano Trifirò e Giovanna Vaglio Bianco

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Convegno T&P: Jobs Act Il Lavoro al tempo del JOBS ACT 13 MARZO 2015, ore 9 - 13 SOCIETÀ UMANITARIA, Salone degli Affreschi, Milano, Via San Barnaba 48PROGRAMMAIscrizioni fino ad esaurimento posti disponibili: [email protected]

IL LAVORO AL TEMPO DEL

JOBS ACTDALLE ASSUNZIONI AI

LICENZIAMENTI

Introduzione Salvatore Trifirò

Presentazione dei temi del convegno e moderatore: Stefano Beretta

La legge di stabilità 2015: le agevolazioni per le nuove assunzioni a tempo

indeterminatoVittorio Provera

Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti.

Confronto tra Riforma Fornero e Jobs Act Giorgio Molteni

Nuova normativa in materia di ammortizzatori sociali

Giacinto Favalli

I due nuovi schemi attuativi su: a) tipologie contrattuali e disciplina delle

mansioni; b) tutele di maternità e paternità

Anna Maria Corna

Al termine del convegno è previsto un rinfresco nel Chiostro dei Pesci

TRIFIRÒ & PARTNERS AVVOCATIIl Lavoro al tempo del JOBS ACT13 MARZO 2015, ore 9 - 13 SOCIETÀ UMANITARIASALONE DEGLI AFFRESCHIMilano, Via San Barnaba 48

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Il contratto a tutele crescenti A cura di Tommaso Targa 1) Cos’è il contratto a tutele crescenti?

Il contratto a tutele crescenti non è una nuova tipologia contrattuale “speciale” che si aggiunge ad altre già presenti. E non è nemmeno una forma facoltativa di rapporto di lavoro. Esso diventerà, invece, la normale modalità di assunzione a tempo indeterminato per tutti i lavoratori, ad eccezione dei dirigenti, assunti dopo l’entrata in vigore del decreto 20 febbraio 2015. La riforma vale anche per i rapporti di lavoro a termine, trasformati a tempo indeterminato dopo l’entrata in vigore del decreto (in questo senso, l’art. 1, comma 2, del decreto ha recepito il suggerimento espresso dal Senato nel proprio parere consultivo, approvato il 13 febbraio 2015). Il decreto sul contratto a tutele crescenti contiene, quindi, la nuova disciplina delle tutele in caso di licenziamento, la quale andrà gradualmente a sostituire quella oggi prevista dall’art. 18 St. Lav., come modificato da ultimo dalla legge Fornero (l. 92/2012). La “vecchia” disciplina dei licenziamenti - risultante dalla sommatoria della riforma Fornero e delle norme previgenti ad essa - resterà in vigore e continuerà ad essere applicata ai dirigenti e ai dipendenti assunti prima dell’entrata in vigore del decreto.

2) In quali casi sarà ancora possibile la reintegrazione?

Nel nuovo regime, la reintegrazione potrà essere disposta nei casi di: a) licenziamento discriminatorio o nullo perché sorretto da un motivo illecito, anche se diverso da quello formalmente addotto; b) licenziamento intimato in forma orale; c) licenziamento intimato per ragioni disciplinari, laddove sia dimostrata la materiale insussistenza del fatto addebitato; d) laddove il datore di lavoro abbia licenziato il dipendente sulla base di una ritenuta inidoneità fisica o psichica sopravvenuta e, in corso di causa, sia dimostrata l’insussistenza di tale motivo. In base all’art. 18 St. Lav. (come modificato dalla legge Fornero) la reintegrazione può essere disposta, oltre che nei casi di cui sopra, anche nel caso di licenziamento intimato per ragioni oggettive (cosiddetti motivi economici), in ipotesi di manifesta insussistenza del motivo addotto. Con il jobs act, in qualsiasi ipotesi di licenziamento per motivi oggettivi di cui sia accertata l’illegittimità, e quindi anche nei casi di macroscopica insussistenza del motivo addotto, al lavoratore spetta unicamente un indennizzo economico, a meno che il lavoratore non dimostri che il reale motivo del licenziamento è illecito o discriminatorio.

3) Cosa comporta la reintegrazione?

Sia la legge Fornero che il decreto sulle tutele crescenti prevedono due tipologie di reintegrazione, una più “strong” e l’altra più “soft” sotto il profilo dei criteri di quantificazione del risarcimento del danno, a seconda della tipologia del vizio del licenziamento. ✦“Strong”. Nel caso di licenziamento nullo (motivo illecito) o intimato in forma orale, la reintegrazione

comporta il diritto del lavoratore al ripristino del rapporto di lavoro e al pagamento integrale di tutte le retribuzioni perdute nel periodo di estromissione, con versamento dei relativi contributi previdenziali e assistenziali, detratto quanto eventualmente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative (cosiddetto aliunde perceptum).

✦“Soft”. Nei casi c) e d) (insussistenza materiale dell’addebito e insussistenza della ritenuta inidoneità sopravvenuta), il lavoratore ha diritto al ripristino del rapporto, ma il risarcimento del danno è inferiore. I contributi previdenziali e assistenziali devono essere versati dal datore di lavoro per tutto il periodo di estromissione dal servizio, ma senza applicazione delle sanzioni relative al tardivo versamento.

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L’indennità risarcitoria, invece, non può in ogni caso superare le 12 mensilità, e deve essere detratto sia l’aliunde perceptum che l’aliunde percipiendum, ossia quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro. In entrambi i casi, il lavoratore può optare, in alternativa alla reintegrazione, per il pagamento di un indennizzo pari a 15 mensilità, non assoggettate a contribuzione, che si aggiunge all’indennizzo “strong” o “soft”, dovuto a seconda dei casi. Tale opzione può essere esercitata entro 30 giorni dalla comunicazione di deposito della sentenza, o dall’invito a riprendere servizio, formulato dal datore di lavoro, se anteriore a tale comunicazione. Nel momento stesso in cui l’opzione viene esercitata, il rapporto di lavoro cessa.

4) Quali tutele spettano al lavoratore, quando è esclusa la reintegrazione?

Si parla di “tutele crescenti” perché, al di fuori delle ipotesi per cui è prevista la reintegrazione, in tutti gli altri casi di illegittimità del licenziamento al lavoratore spetta unicamente un’indennità non assoggettata a contribuzione, che si aggiunge all’indennità sostitutiva del preavviso, allorché esso non sia stato prestato in servizio. Tale indennità aumenta con l’anzianità aziendale: 2 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità. Una novità del nuovo regime è data dal fatto che si tiene conto proporzionalmente anche della frazione di anno e di mese di anzianità (mezzo anno di anzianità vale 1 mensilità; le frazioni di mese uguali o superiori a 15 giorni si considerano come un mese intero). Pertanto, la quantificazione dell’indennizzo non è più rimessa a una valutazione discrezionale del giudice, bensì è basata su criteri esclusivamente oggettivi. La vecchia disciplina (sia la legge Fornero che la l. 604/1966) individua, invece, una “forbice” nell’ambito della quale il giudice può individuare la sanzione ritenuta più congrua. L’indennizzo spetta, quindi, sia in favore del lavoratore licenziato per ragioni oggettive, di cui sia dimostrata l’insussistenza, o anche la violazione del cosiddetto obbligo di repechage; sia in ipotesi di licenziamento per ragioni disciplinari che il giudice ritenga sproporzionato al fatto contestato, e anche laddove il C.C.N.L. di categoria prevederebbe, invece, per quel fatto, una sanzione conservativa, quale la multa o la sospensione disciplinare. Quest’ultima ipotesi costituisce una differenza rispetto al previgente regime di tutele. In base all’art. 18 St. Lav. post Legge Fornero (che resta in vigore per le “vecchie” assunzioni), quando il C.C.N.L. di categoria prevede che, per un certo fatto, debba essere irrogata una sanzione conservativa (ammonizione, multa, sospensione), se per quel fatto è stato, invece, intimato il licenziamento il lavoratore ha diritto ad essere reintegrato in servizio con pagamento delle retribuzioni arretrate, fino ad un massimo di 12 (reintegrazione “soft”). Quando il vizio da cui è affetto il licenziamento è unicamente formale, l’indennità è dimezzata: 1 mensilità per ogni anno di anzianità, con un minimo di 2 e un massimo di 12. Questo vale sia per i licenziamenti per ragioni oggettive (ad es. nel caso di difetto di motivazione), sia nel caso di licenziamento disciplinare (violazione dell’obbligo di affissione del codice disciplinare, violazione del procedimento disciplinare, omessa/generica contestazione degli addebiti e/o della recidiva, mancato rispetto dei termini a difesa).

5) Questa disciplina vale anche per i licenziamenti collettivi?

La reintegrazione spetta solo nel caso di licenziamento intimato in forma orale. In tutti gli altri casi di illegittimità del licenziamento (sia vizi formali che sostanziali), il lavoratore ha diritto alla stessa tutela

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economica prevista per il caso di licenziamento individuale illegittimo: 2 mensilità per ogni anno di anzianità, minimo 4 e massimo 24 mensilità. Da notare che, in tale ambito, i vizi della procedura sono considerati al pari di quelli sostanziali (violazione dei criteri di scelta), mentre invece, nei licenziamenti individuali, i vizi di forma sono considerati meno gravi e l’indennità è dimezzata. Il “vecchio” regime, disciplinato dalla legge Fornero (che ha modificato, sul punto, la l. 223/1991), prevede: reintegrazione “strong” per l’ipotesi di licenziamento intimato in forma orale; reintegrazione “soft” nel caso di violazione dei criteri di scelta; indennizzo tra 12 e 24 mensilità, in caso di violazioni procedurali.

6) Quali norme disciplinano l’impugnazione del licenziamento, nel contratto a tutele crescenti?

La legge Fornero prevede un particolare procedimento, suddiviso in una fase sommaria e una fase di opposizione, per accelerare le cause di impugnazione del licenziamento. Questo rito speciale, per l’appunto definito “rito Fornero”, continuerà ad essere utilizzabile solo in caso di impugnazione dei licenziamenti assoggettati al vecchio regime. Per i licenziamenti intimati nell’ambito di un contratto a tutele crescenti, il decreto attuativo ha escluso la possibilità di utilizzare tale rito speciale, per cui il procedimento di impugnazione del licenziamento tornerà ad essere il normale rito del lavoro disciplinato dagli artt. 409 e ss. cod. proc. civ. Il decreto contiene anche una norma a scopo deflattivo, che si applica a qualsiasi ipotesi di licenziamento. Entro il termine di impugnazione del licenziamento (60 giorni da quando è stato intimato), il datore di lavoro può offrire al lavoratore, per dirimere la potenziale controversia, un importo che, se accettato, non è tassato in alcun modo e non è soggetto a contribuzione. L’importo che beneficia della detassazione è pari ad una mensilità della retribuzione globale di fatto per ogni anno di anzianità e, comunque, non inferiore a 2 mensilità e non superiore a 18. Da notare che il Jobs Act ha escluso, per le nuove assunzioni, l’applicazione dell’art. 7 della l. 604/1966, come modificato dalla riforma Fornero. Di conseguenza, per i licenziamenti economici intimati in regime di “tutele crescenti” il datore di lavoro non dovrà attivare il tentativo preventivo di conciliazione innanzi alla Direzione Provinciale del Lavoro.

7) È ancora previsto un differente regime di tutela per le aziende di piccole dimensioni?

Il decreto sulle tutele crescenti ha previsto queste disposizioni per le aziende prive dei requisiti dimensionali di applicazione dell’art. 18 St. Lav.: a) la reintegrazione è prevista solo per il caso di licenziamento sorretto da motivo illecito/discriminatorio o intimato in forma orale; b) non è, invece, mai possibile la reintegrazione nel caso di licenziamento disciplinare, nemmeno ove sia dimostrata la materiale insussistenza dell’addebito; c) al di fuori dei casi di reintegrazione, in ipotesi di illegittimità del licenziamento, al lavoratore spetta un indennizzo economico dimezzato rispetto a quello previsto per le aziende più grandi (ciò vale per i vizi sia formali che sostanziali). Per evitare che il passaggio dal vecchio al nuovo sistema di tutele possa disincentivare la aziende più piccole ad effettuare nuove assunzioni, il decreto prevede che, quando un’azienda con meno di 15 dipendenti supera tale soglia, effettuando nuove assunzioni dopo l’entrata in vigore della riforma, il nuovo regime delle “tutele crescenti” si applica a tutti i dipendenti, anche quelli assunti prima di tale data.

✦VIDEO: Jobs Act in progress – Contratto a tutele crescenti e licenziamenti Intervista a Tommaso Targa

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Contratti di solidarietà e mobilità volontaria A cura di Marina Olgiati Tra i molti provvedimenti che hanno contrassegnato gli ultimi mesi dello scorso anno è passato quasi inosservato il D.M. n. 85145 del 10 ottobre 2014, che ha modificato l’art. 7 del D.M. n. 46448 del 10 luglio 2009, in tema di semplificazioni per le modalità di accesso al trattamento di integrazione salariale in favore di lavoratori dipendenti da aziende in cui siano stati sottoscritti contratti di solidarietà difensivi. Si tratta di un provvedimento che potrà avere un impatto positivo nella soluzione delle situazioni di crisi aziendali, anche alla luce dei chiarimenti contenuti nella circolare del Ministero del Lavoro n. 32 del 19 dicembre 2014.

L’art. 7 menzionato, prima della recente modifica, stabiliva che, qualora il ricorso al contratto di solidarietà si ponesse come strumento alternativo alla procedura per la dichiarazione di mobilità di cui all’art. 4, L. n. 223/1991, il limite massimo di fruizione del trattamento straordinario di integrazione salariale previsto dall’art. 1, comma 9, della stessa legge (36 mesi di integrazione salariale, a qualunque titolo, nel quinquennio, per ciascuna unità produttiva) poteva essere superato. Quindi, da un lato, si consentiva un utilizzo temporalmente allargato del contratto di solidarietà, ma dall’altro si teneva fermo il principio che la finalità dovesse essere quella di evitare un licenziamento collettivo; di conseguenza, si riteneva che non fosse ammissibile il ricorso alla mobilità in costanza di contratti di solidarietà. Nello spirito di tale disposizione, gli accordi sindacali, nei quali si pattuisca la riduzione dell’orario di lavoro al fine di salvaguardare l’occupazione, normalmente prevedono il divieto per il datore di lavoro di attuare licenziamenti; nel caso di violazione dell’obbligo, i licenziamenti divengono annullabili e il sindacato, quale controparte contrattuale, potrebbe proporre un’azione per condotta antisindacale.

Il D.M. n. 85145/2014 ha previsto che il ricorso al contratto di solidarietà in deroga al limite temporale sopra menzionato valga anche per il caso in cui i lavoratori non si oppongano alla collocazione in mobilità. La nuova disposizione stabilisce, dunque, che è possibile la coesistenza di contratti di solidarietà e di procedure di mobilità su base volontaria nella stessa unità produttiva, consentendo così alle imprese, che abbiano già in corso una riduzione dell’orario di lavoro, di gestire in modo non traumatico gli esuberi di personale. All’evidenza, la norma recepisce un dato di fatto, ovvero la circostanza che, nel contesto economico attuale, il licenziamento collettivo diviene uno strumento di utilità per gli stessi lavoratori, che, una volta posti in mobilità, possono reperire più facilmente una nuova occupazione con assunzioni agevolate o possono essere accompagnati alla pensione con soluzioni di incentivo all’esodo.

La circolare ministeriale n. 32/2014 ha dato della novella un’interpretazione che pare vada nel senso di estendere, in via generale, a tutte le aziende in solidarietà – e non solo a quelle che abbiano già fruito, nelle singole unità produttive, di 36 mesi di integrazione salariale nel quinquennio – la possibilità di ricorrere alla procedura di mobilità, purché si tratti di procedura non oppositiva. Infatti, il Ministero, considerando che la finalità dello strumento di integrazione salariale è principalmente quella di evitare in tutto o in parte i licenziamenti collettivi, afferma che possono essere attivate procedure di gestione degli esuberi secondo il criterio della volontarietà in corso di contratto di solidarietà, anche al di fuori dei casi disciplinati dal citato art. 7. In definitiva, attualmente, si può dire che, per tutte le aziende rientranti nell’ambito della CIGS, indipendentemente dal fatto che abbiano o meno superato il limite dei 36 mesi di integrazione salariale, il contratto di solidarietà per salvaguardare i livelli occupazionali è, in principalità, uno strumento alternativo al licenziamento collettivo, a meno che quest’ultimo non costituisca una modalità di gestione non traumatica degli esuberi, rispondendo, in tal caso, anche ad un interesse del lavoratore.

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LA SENTENZA DEL MESE IL FISCO RILIQUIDA UNA MAGGIORE IMPOSTA SULL’INCENTIVO ALL’ESODO: IL DATORE DI LAVORO NON PAGA (Tribunale di Monza, 23 dicembre 2014) Le somme erogate dal datore di lavoro al dipendente, in occasione della cessazione del rapporto, a titolo di incentivo all’esodo, sono tassate con la stessa aliquota del TFR, trattandosi di emolumenti soggetti allo stesso regime fiscale; l’eventuale imposta aggiuntiva, rideterminata dall’Agenzia delle Entrate applicando l’aliquota media calcolata sui redditi complessivi dichiarati nel quinquennio antecedente dal lavoratore, è ad esclusivo carico di quest’ultimo. Così ha deciso il Tribunale di Monza, all’esito di un giudizio nel quale il ricorrente aveva convenuto l’azienda ex datrice di lavoro, pretendendo di essere rimborsato della maggiore imposta riliquidata dall’Agenzia delle Entrate sull’incentivo all’esodo all’epoca percepito. Secondo il ricorrente, l’ulteriore imposta era di esclusiva spettanza della datrice di lavoro, considerato che l’accordo risolutivo/transattivo - sottoscritto in sede sindacale - prevedeva la corresponsione di una “somma netta”; tutte le imposte dovute su tale importo dovevano, pertanto, essere sostenute dall’azienda. Su detta somma netta la datrice, all’atto dell’accordo, aveva versato la ritenuta d’acconto, calcolandola con l’aliquota applicabile al trattamento di fine rapporto, ovvero “con l'aliquota determinata con riferimento all'anno in cui è maturato il diritto alla percezione”, secondo quanto stabilito dall’art. 19, co. 1 del TUIR. Tale aliquota si applica anche alle somme percepite una tantum in dipendenza della cessazione del rapporto di lavoro (art. 19, co. 2 del TUIR) e, quindi, all’incentivo all’esodo, che, come il TFR, rientra tra i redditi soggetti a tassazione separata (art. 17, co. 1, lettera a) del TUIR). Il Tribunale ha respinto il ricorso e, in accoglimento della tesi sostenuta dall’azienda, ha affermato che, ai sensi dell’art. 19, co. 1 e 2 del TUIR, la datrice di lavoro, relativamente all’incentivo all’esodo erogato al dipendente, non poteva far altro che versare al fisco le imposte dovute sulla base dell’aliquota applicabile al TFR vigente all’epoca. L’azienda non poteva, invece, calcolare la tassazione sui redditi dichiarati dal lavoratore nel quinquennio precedente, neppure conoscibili. La sentenza è condivisibile, se si consideri altresì che il datore di lavoro, in base all’art. 23, D.P.R. n. 600/1973, è tenuto a versare, quale sostituto di imposta, solo una ritenuta di acconto e non è, invece, obbligato ad operare le ritenute a titolo definitivo; pertanto, con il versamento della ritenuta non si estingue l’obbligo fiscale del lavoratore-sostituito e questi rimane il soggetto passivo dell’eventuale maggiore imposta che venga determinata dall’Agenzia delle Entrate. Da rilevare che dalla riliquidazione potrebbero scaturire conguagli non solo a debito, ma anche a credito; per entrambi il lavoratore sarà unico responsabile/beneficiario nei confronti dell’erario. Causa seguita da Marina Olgiati e Francesco Torniamenti

Newsletter T&P LE NOSTRE SENTENZE

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N°87 Febbraio 2015 � 9

ALTRE SENTENZE

PRETESE MANSIONI SUPERIORI: DEVE ESSERE ACCERTATA LA PREVALENZA SOTTO IL PROFILO QUANTITATIVO E QUALITATIVO (Tribunale di Roma, 14 ottobre 2014)

Una recente sentenza del Tribunale di Roma, Sezione Lavoro (n. 9172 del 2014), si è pronunciata in ordine alla domanda di un lavoratore volta ad ottenere la declaratoria del preteso diritto ad essere inquadrato nella qualifica corrispondente alla categoria di quadro, con condanna al pagamento delle relative differenze retributive, nonché al risarcimento del danno conseguente a pretese vessazioni e violazione dell’art. 2103 c.c con progressiva sottrazione delle mansioni di quadro fino ad una sostanziale inattività imposta dall’azienda; il tutto, secondo la prospettazione avversaria, avrebbe integrato dequalificazione e mobbing. La Società datrice di lavoro, da noi patrocinata, si era costituita in giudizio contestando la fondatezza delle doglianze avversarie, anche in relazione alla mancata tempestiva deduzione di idonee allegazioni e prove in merito alle diverse rivendicazioni del dipendente. Il Giudice, esaminato il ricorso e le difese della resistente, ha posto in decisione la causa, dopo che il tentativo di conciliazione aveva avuto esito negativo. Il Tribunale, nella motivazione della sentenza, ha, tra l’altro, compiutamente evidenziato che, in caso di mansioni promiscue, deve essere verificata la sussistenza di una prevalenza “qualitativa e quantitativa” delle mansioni superiori rivendicate, rispetto a quelle proprie del livello d’inquadramento. In particolare, l’indagine del merito non può limitarsi a considerare le mansioni di maggior rilevanza qualitativa, ma si deve anche accertare se queste prevalgano sulle altre sotto il profilo quantitativo, atteso che la mansione primaria è quella svolta con maggiore frequenza e ripetitività, così da rappresentare un dato ricorrente e normale nelle diverse mansioni espletate dal dipendente (salva l’ipotesi di una diversa previsione della contrattazione collettiva). Inoltre, l’assegnazione deve essere “piena” (nel senso che la stessa deve aver determinato l’assunzione della responsabilità e l’esercizio dell’autonomia e dell’iniziativa proprie della corrispondente qualifica rivendicata, coerentemente con le mansioni contrattualmente previste nelle declaratorie dei singoli inquadramenti, cui vanno raffrontate poi le mansioni svolte in concreto dal ricorrente). Nel caso di specie, è stato ritenuto che il lavoratore non avesse chiarito in cosa sarebbe consistita la dedotta autonomia o responsabilità decisionale, essendosi limitato ad allegare le attività svolte da un certo periodo in poi, senza precisare i profili caratterizzanti delle mansioni della pretesa qualifica di quadro, impedendo così al giudice il necessario raffronto tra detti profili e quelli propri delle mansioni asseritamente svolte; inoltre, è stato rilevato che il dipendente aveva comunque omesso di provare le proprie (generiche) affermazioni ed anche il carattere quantitativamente prevalente delle presunte mansioni superiori svolte. Il Tribunale, alla luce di quanto sopra, ha, dunque, ritenuto che le mansioni svolte fossero compatibili con l’inquadramento assegnato al lavoratore. In proposito, sono stati anche richiamati i consolidati principi in materia della giurisprudenza di legittimità secondo i quali – contrariamente alle argomentazioni proposte dal lavoratore - il trattamento più favorevole che si deduce spettare al collega di lavoro che ha ottenuto la stessa qualifica di lavoro non fonda, di per sé solo, il diritto ad un pari trattamento. Accertata, dunque, l’infondatezza della domanda relativa al preteso diritto al superiore inquadramento, è stata anche esclusa la rivendicazione inerente un risarcimento di asseriti danni patrimoniali e non patrimoniali.

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In merito, il dipendente aveva sostenuto che le (inesistenti) mansioni “superiori” ad un certo punto gli sarebbero state sottratte con relativo pregiudizio; in proposito - nella sentenza in esame - si è respinta la doglianza, sia per la carenza del presupposto di cui sopra (qualifica di quadro), sia sulla base del noto principio secondo il quale un danno alla professionalità può essere riconosciuto solo in presenza di idonee allegazioni, del tutto carenti nel caso in esame. Causa seguita da Vittorio Provera e Marta Filadoro

NON COSTITUISCE MOBBING UN MUTAMENTO DI MANSIONI DISPOSTO PER COMPROVATE ESIGENZE ORGANIZZATIVE (Tribunale di Pescara, 9 dicembre 2014)

Il mobbing integra una fattispecie complessa a formazione progressiva, nella quale confluiscono una pluralità di atti giuridici e comportamenti materiali, anche apparentemente leciti ed irreprensibili, collegati tra loro sotto il profilo psicologico, ed intenzionalmente preordinati ad arrecare pregiudizio alla professionalità, alla personalità morale ed alla dignità del lavoratore. Ai fini della configurazione della fattispecie in questione, è imprescindibile la concorrenza di una molteplicità di elementi: la frequenza e la durata delle condotte; il carattere discriminatorio e vessatorio delle stesse; la finalizzazione di esse alla denigrazione, alla emarginazione o alla estromissione del lavoratore dal contesto aziendale. In mancanza di prova della ricorrenza di tali presupposti, eventuali condotte del datore di lavoro potrebbero essere perseguite singolarmente, solo ove ne fosse provata l’illegittimità. Nel caso di specie, la sentenza ha escluso la sussistenza del mobbing lamentato dal lavoratore in relazione ad una pretesa dequalificazione. Infatti, il giorno successivo a quello in cui l’azienda ha comunicato al lavoratore il mutamento di mansioni, quest’ultimo è caduto in pretesa malattia. Essa non può, quindi, per definizione, essere stata causata dal provvedimento aziendale che, di fatto, non ha mai trovato attuazione. Tanto più che l’azienda ha dimostrato la ragionevolezza della decisione di mutare le mansioni del lavoratore, motivata da comprovate esigenze tecnico organizzative e non certo dalla volontà di discriminare il medesimo. Causa seguita da Tommaso Targa

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OSSERVATORIO SULLA CASSAZIONE A cura di Stefano Beretta e Antonio CazzellaLICENZIAMENTO DISCIPLINARE: FATTISPECIE VARIE Con sentenza n. 814 del 20 gennaio 2015 la Corte di Cassazione si è nuovamente pronunciata in merito alla legittimità del licenziamento per giusta causa nel caso di furto di beni di modico valore; nel caso esaminato, è stato ritenuto sproporzionato il licenziamento del dipendente di un supermercato che aveva sottratto alcune confezioni di vino in scatola per consumarle sul luogo di lavoro. La Corte di Cassazione ha rilevato che il lavoratore era afflitto da seri problemi familiari, aveva sottratto i prodotti più scadenti e non aveva mai ricevuto altre sanzioni disciplinari nel corso del rapporto di lavoro. Con sentenza n. 1024 del 21 gennaio 2015 la Corte di Cassazione ha ritenuto che, laddove il contratto collettivo preveda il licenziamento disciplinare in caso di condanna penale, è legittima la risoluzione del rapporto nel caso di sentenza di patteggiamento, in quanto, nel “comune sentire”, la sentenza di patteggiamento può essere assimilata alla sentenza di condanna, in quanto con il patteggiamento l’imputato non nega la sua responsabilità ed esonera l’accusa dalla relativa prova, fermo restando che, peraltro, nell’ambito del giudizio civile il lavoratore potrebbe comunque far valere elementi probatori che possano contrastare la rilevanza indiziaria della sentenza di patteggiamento. Con sentenza n. 1603 del 28 gennaio 2015 la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento del dipendente assente alla visita medica di controllo dell’Inps, in una giornata in cui, peraltro, egli aveva effettuato un trasloco; nel caso di specie, infatti, è stato accertato che il comportamento del lavoratore si inseriva in una serie, ritualmente contestata, di altre sei condotte sanzionate disciplinarmente nel biennio, di cui una analoga a quella in esame ed altre tre inerenti la negligente gestione dei certificati medici, il che dimostrava la pervicacia del lavoratore nell’ignorare i suoi doveri e, segnatamente, quelli inerenti il modo di comportarsi durante la malattia. LICENZIAMENTO PER RAGIONI ORGANIZZATIVE, DEMANSIONAMENTO E MOBBING Con sentenza n. 1262 del 23 gennaio 2015 la Corte di Cassazione ha ritenuto che è illegittimo il licenziamento per ragioni organizzative di un lavoratore che era stato assegnato ad un ufficio marketing di nuova creazione, chiuso a distanza di due mesi; è sindacabile, infatti, la decisione del giudice di merito anche nel giudizio di legittimità laddove non sia stata verificata la sussistenza di un’artificiosa manovra organizzativa per collocare il dipendente in una posizione lavorativa destinata fin dall’origine ad essere eliminata. Nel caso di specie, la Corte ha confermato il demansionamento del lavoratore, al quale non era stata neppure allacciata la connessione internet per la ricerca di clienti, attività che rientrava nelle mansioni; è stato invece escluso, in base ad un consolidato orientamento, che il demansionamento possa, di per sé, configurare il mobbing. Con sentenza n. 3121 del 17 febbraio 2015 la Corte di Cassazione ha ritenuto ingiustificato il licenziamento di un dirigente, che era stato estromesso a seguito di un’asserita riorganizzazione aziendale; nel caso di specie, è stato accertato che non si era verificato alcun “restyling” e, quindi, si trattava di un mero espediente per liberarsi di un manager sgradito. La Corte ha affermato il principio secondo cui è possibile risolvere il rapporto di lavoro anche quando la crisi non è tale da impedire la prosecuzione del rapporto di lavoro, ma il principio di libertà economica sancito dall’art. 41 Cost. deve essere comunque coordinato con la sussistenza di obiettive ed effettive esigenze organizzative. RIPRESE FILMATE: UTILIZZABILITÀ AI FINI DEL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE Con sentenza n. 3122 del 17 febbraio 2015 la Corte di Cassazione ha ritenuto utilizzabili le riprese filmate per dimostrare il comportamento illecito del lavoratore e procedere al suo licenziamento. Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha affermato che non sussiste una violazione della privacy del lavoratore (art. 114 del Codice della Privacy) nel caso in cui le riprese vengano effettuate da un soggetto terzo (nel caso di specie, la Guardia di Finanza) al fine di tutelare i beni aziendali e non per controllare l’esatto adempimento della prestazione lavorativa (art. 4 Stat. Lav.); per tale ragione, è stata confermata la legittimità del licenziamento di due dipendenti, sorpresi a rubare il carburante dell’azienda.

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Civile, Commerciale, Assicurativo

Pubblicato in G.U. il Regolamento per gli Organismi di composizione della crisi da sovraindebitamento A cura di Francesco Autelitano È stato pubblicato sulla G.U. del 27 gennaio 2015 il d.m. 24 settembre 2014 n. 202. Si tratta di un intervento normativo essenziale al fine di dare compiuta attuazione all’introduzione della procedura di sovraindebitamento - che risale esattamente a tre anni fa (l. 27 gennaio 2012 n. 3) - ossia ad uno strumento finalizzato a risolvere, su basi negoziali, le situazioni di insolvenza di tutti quei soggetti che non possono accedere alle procedure previste dalla legge fallimentare. Possono, dunque, accedervi non solo i consumatori in difficoltà, ma anche le imprese commerciali di minori dimensioni (e perciò non fallibili), ovvero altri soggetti, anche con potenzialmente rilevanti esposizioni debitorie, quali le imprese agricole, le start up, i lavoratori autonomi, gli Enti no profit. La ristrutturazione dei debiti, mediante il sovraindebitamento, è possibile attraverso varie forme tecniche mediante stralci, dilazioni di pagamento, garanzie, cessioni di credito ed altre misure, con la tutela del ceto creditorio garantita dall’omologazione del Tribunale Fallimentare. Sino ad oggi, tuttavia, mancava il vero motore della procedura, che, in base alla stessa legge n. 3/2012, è costituito dall’Organismo di composizione della crisi, da istituirsi nell’ambito di Enti pubblici. Quest’ultimo trova ora la propria regolamentazione nel d.m. 24 settembre 2014 n. 202. Il predetto Organismo ha la funzione di assistere il debitore, sia nell’elaborazione del piano di ristrutturazione, sia nella formulazione della proposta ai creditori, nonché di verificare la veridicità dei dati ed attestare la fattibilità del piano, e, ancora, svolge una serie di attività direttamente ausiliarie rispetto alle funzioni svolte dal Giudice. Il Regolamento prevede, accanto agli Organismi che possono essere costituiti nell’ambito di taluni Enti (Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Istituzioni Universitarie pubbliche), altri che vengono iscritti di diritto, tra cui quelli costituiti presso gli Ordini degli avvocati. In concreto, le prestazioni necessarie per lo svolgimento della procedura sono svolte da professionisti inseriti in elenchi interni a ciascun Organismo, che il Regolamento denomina “gestori della crisi”. I medesimi devono essere titolari di idonea qualificazione professionale (secondo quanto precisato nel d.m.) e devono svolgere personalmente la prestazione, in condizione di indipendenza. Il Regolamento disciplina altresì i compensi ed i rimborsi spese dovuti dal debitore all’Organismo, i quali, in difetto di accordo, sono determinati sulla base dei valori dell’attivo e del passivo oggetto della procedura, parametrati in relazione alle tariffe previste per il curatore fallimentare. Con il descritto provvedimento è ora possibile intervenire con adeguati strumenti in un’importante area non coperta dalle procedure concorsuali classiche, nella quale vi è ugualmente la necessità di affrontare il problema del debito con idonee soluzioni giuridiche, nell’interesse di tutte le parti coinvolte, debitori, creditori e terzi.

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Newsletter T&P Assicurazioni

A cura di Bonaventura Minutolo e Teresa Cofano

SOLIDARIETÀ PASSIVA

Nell'ipotesi di adempimento parziale dell'obbligazione da parte di uno dei coobbligati solidali, con relativa quietanza rilasciata dai creditori senza alcuna riserva di questi di agire verso lo stesso debitore per il residuo, è integrata la fattispecie di presunzione di rinuncia alla solidarietà disciplinata dall'art. 1311, n. 1 cod. civ., e conseguente conservazione dell'azione in solido verso gli altri obbligati solidali ai sensi del primo comma dello stesso articolo, non assumendo rilievo la riserva di agire verso gli altri obbligati ai sensi dell'art. 1301 cod. civ., che regola la diversa fattispecie di remissione del debito a favore di uno dei debitori solidali. (Cassazione, n. 1453, 27 gennaio 2015)

RISCATTO DI POLIZZA

VITA E FALLIMENTO

Nel caso in cui l’assicuratrice abbia versato al fallito, dopo la dichiarazione di fallimento, gli importi dovuti a titolo di riscatto in relazione al contratto di assicurazione sulla vita stipulato dal fallito in bonis, il pagamento così effettuato rientra nella sanzione di inefficacia di cui all’art. 44, 2° comma, L.F.. (Cassazione, n. 2256, 6 febbraio 2015)

RESPONSABILITÀ CIVILE

OBBLIGATORIA –

PAGAMENTO

SUCCESSIVO AL

QUINDICESIMO GIORNO

In tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli, l’accettazione del pagamento tardivo del premio di assicurazione da parte dell’assicuratore non costituisce rinuncia, da parte dell’assicuratore medesimo, alla sospensione della garanzia assicurativa, ma impedisce unicamente la risoluzione del contratto. (Cassazione, n. 23149, 31 ottobre 2014)

TRA LE NOSTRE

SENTENZE

Tizio e Sempronio convenivano in giudizio la Compagnia Alfa al fine di essere risarciti dei danni subiti a seguito del fatto illecito commesso da un subagente. Quest’ultimo avrebbe proposto loro la sottoscrizione di alcune polizze che, a suo dire, avrebbero garantito rendimenti superiori a quelli dei normali canali bancari. Allettati da tale offerta, gli attori avrebbero sottoscritto alcune polizze per un ammontare di centinaia di migliaia di Euro. Sennonché, dopo circa due anni, richiesta al subagente la restituzione del capitale relativo ad una delle polizze stipulate, avrebbero ricevuto risposte evasive. Contattato il servizio clienti della Compagnia e, in seguito, l’agente, gli attori venivano a scoprire che, delle varie polizze, soltanto una risultava essere stata effettivamente stipulata. Peraltro, il subagente confessava il fatto, sottoscrivendo di suo pugno una dichiarazione di responsabilità.

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Al termine dell’istruttoria, il Tribunale ha respinto le domande nei confronti della Compagnia, osservando che il subagente si era mosso al di fuori di alcun incarico affidatogli dalla stessa, e al di fuori della sfera di controllo e di vigilanza della stessa, sicchè mancava il presupposto per poter invocare, nei confronti della Compagnia, la responsabilità ex art. 2049 c.c.. (Tribunale di Ascoli Piceno, sentenza del 6 febbraio 2015 – causa seguita da Bonaventura Minutolo e Teresa Cofano)

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IL PUNTO SU A cura di Vittorio Provera

ILLECITO D’AUTORE TRAMITE INTERNET, A QUALE GIUDICE RIVOLGERSI

Nel contesto generale della società contemporanea e della sua tumultuosa evoluzione, la disciplina del diritto d’autore ha risentito fortemente delle innovazioni intervenute in campo tecnologico. Protagonisti primi ne sono stati, com’è noto, Internet e le reti telematiche. La divulgazione tramite Rete, è innegabile, aumenta la visibilità e facilita la commerciabilità di opere dell’ingegno condivise tra gli utenti. Tuttavia, la struttura stessa della Rete, la sua estensione globale e la sua immaterialità – caratteristica, quest’ultima, che mette in crisi le tradizionali regole giuridiche fondate sui concetti di tempo e spazio del mondo reale -, rendono più difficoltosa la rintracciabilità di eventuali violazioni del diritto d’autore, che possono intervenire anche in uno Stato diverso da quello in cui l’opera è stata creata, nonché l’identificazione dei responsabili. La Corte di Giustizia europea, chiamata di recente a pronunciarsi in merito ad un illecito transnazionale consistente nella violazione di diritti d’autore e dei diritti connessi al diritto d’autore, mediante la messa in rete su un determinato sito Internet di fotografie senza il consenso del loro autore, ha stabilito i criteri di giurisdizione per proporre un’azione risarcitoria in circostanze che non consentano di collocare territorialmente la concretizzazione del danno (Causa Hejduk, C-441/13), ovviando alle criticità sopra evidenziate.

Oggetto della controversia nazionale era il ricorso presentato da una fotografa professionista austriaca, che aveva autorizzato una società tedesca a presentare e utilizzare alcune sue riproduzioni nel corso di un convegno. Nonostante tale autorizzazione fosse limitata all’evento, la società tedesca aveva poi diffuso le immagini anche sul proprio sito internet, consentendo agli utenti di scaricarle pur in assenza del consenso della fotografa a riguardo e senza fornire indicazioni relative ai diritti d’autore. Di qui l’azione della professionista, volta a ottenere il risarcimento dei danni patiti in seguito alla lesione dei diritti patrimoniali d’autore dovuta all’illegittima diffusione delle proprie fotografie via web. La fotografa agiva innanzi alla giustizia austriaca in virtù della precedente giurisprudenza della Corte di Giustizia, in base alla quale il foro in materia di illecito previsto dal Regolamento (CE) n. 44/2001 (articolo 5, punto 3) consente al soggetto leso di chiedere il risarcimento integrale dei danni patiti dinanzi ai giudici del suo domicilio (eDate Advertising e altri, C509/09 e C161/10). Nel costituirsi, la società convenuta aveva sollevato un’eccezione di incompetenza nei confronti del tribunale austriaco. A opinione della società citata in causa, infatti, essa aveva sede a Düsseldorf e la sua pagina web aveva utilizzato un dominio di primo livello nazionale «.de», ragion per cui il suo sito internet non era destinato all’Austria. Da ciò doveva conseguire che, a suo avviso, la mera facoltà di consultare il sito a partire da tale Stato non avrebbe consentito di attribuire ai giudici austriaci la competenza su eventuali domande di danno, competenza da riservarsi, invece, ai giudici tedeschi.

Rilevate le difficoltà d’individuazione del luogo di verificazione del danno in un caso di divulgazione on-line di fotografie – diffusione che difficilmente può considerarsi concretizzata in uno o più luoghi collocabili territorialmente (ragion per cui il danno si «smaterializza», ossia diventa diffuso e, pertanto, si

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delocalizza» ), prima di accertare l’entità del risarcimento il giudice austriaco rinviava la causa alla Corte europea, chiedendo chiarimenti circa l’operatività del foro in materia di illeciti (articolo 5, punto 3 del regolamento CE n. 44/2001), in caso di violazioni diffuse dei diritti connessi al diritto d’autore perpetrate tramite web. Detta disposizione, che stabilisce competenze speciali in materia di illecito aggiuntive rispetto alla regola generale dell’attribuzione della giurisdizione al giudice del domicilio del convenuto (articolo 2 del medesimo regolamento), individua la competenza del giudice sia del luogo in cui il danno si è concretizzato, sia del luogo del fatto generatore di tale danno. Spetta così al danneggiato scegliere di quale titolo di giurisdizione avvalersi (Coty Germany, C-360/12).

In una situazione quale quella portata all’attenzione dei giudici europei, l’evento causale deve essere individuato nell’“avviamento del processo tecnico finalizzato alla visualizzazione delle fotografie sul sito internet”. Il fatto generatore della lesione dei diritti d’autore risiede, dunque, nel comportamento del proprietario del sito e deve, pertanto, essere localizzato presso la sede della società in cui sono state prese le decisioni in merito alla divulgazione in rete. Siccome, nel caso di specie, tale luogo doveva essere collocato fuori dall’Austria (sede tedesca della società convenuta), il criterio del fatto generatore non permette di stabilire la competenza del giudice austriaco. Tuttavia, la Corte, in coerenza con taluni principi già affermati in materia di danno, ha osservato che il pregiudizio può concretizzarsi anche in uno Stato membro diverso da quello in cui la società convenuta ha preso la decisione di mettere in rete le fotografie, a condizione che il diritto del quale si lamenta la violazione sia protetto in tale Stato. E così è avvenuto nel caso in esame. La fotografa, infatti, rivendicava la lesione del diritto in Austria, ove il diritto d’autore è protetto. Poco importa – prosegue la Corte – che il sito sul quale sono state pubblicate le fotografie abbia un dominio nazionale di primo livello tedesco. L’articolo 5, punto 3 citato, infatti, non richiede che il sito sia “diretto verso” lo Stato membro del giudice adito. Ciò che conta, invece, è l’accessibilità, nel predetto Paese, delle opere tutelate. Di conseguenza, considerato che, nel caso di specie, il sito controverso era accessibile in Austria e che l’ordinamento austriaco tutela il diritto d’autore, la fotografa ben poteva agire dinnanzi al Tribunale di quel Paese, in base al criterio del luogo del danno. Si è però precisato che - poiché la tutela dei diritti qui in esame accordata dallo Stato membro vale soltanto per il territorio del medesimo - detto Organo giudicante è competente a conoscere del solo danno cagionato nel territorio di tale Stato.

Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, diviene più agevole per il titolare dei diritti d’autore e dei diritti connessi ottenere dal Giudice del proprio Paese (in cui è riconosciuta una tutela dei medesimi) il risarcimento dei pregiudizi determinati da terzi che hanno operato attraverso reti telematiche da un diverso Stato membro - nel caso oggetto di riflessione, attraverso l’abusiva messa in rete di fotografie su un sito internet accessibile nel territorio del tribunale investito dalla causa - limitatamente ai danni subiti all'interno del predetto territorio (nella fattispecie l’Austria).

Qualora la diffusione del pregiudizio non sia limitata al territorio del tribunale investito della causa, resta salva la facoltà del soggetto che si ritiene leso di esperire un’azione di risarcimento per la totalità dei danni subiti di fronte al giudice dello Stato membro del luogo in cui vi è la sede/stabilimento del responsabile che ha assunto le determinazioni in merito alla illecita divulgazione delle opere in rete.

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Rassegna Stampa

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 24/02/2015 Il contratto a tutele crescentidi Tommaso Targa

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 20/02/2015 Contratti di solidarietà e mobilità volontariadi Marina Olgiati

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 20/02/2015 Pretese mansioni superiori: deve essere accertata la prevalenza sotto il profilo quantitativo e qualitativodi Vittorio Provera e Marta Filadoro

JOB24 - Il Sole 24 Ore: 18/02/2015 VIDEO: Jobs Act in progress – Contratto a tutele crescenti e licenziamentiIntervista a Tommaso Targa

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 13/02/2015 Non è nullo il licenziamento deliberato dal CdA in scadenza di mandatodi Tommaso Targa e Beatrice Ghiani

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 02/02/2015 Il Regolamento per gli Organismi di composizione della crisi da sovraindebitamento in Gazzettadi Francesco Autelitano

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 29/01/2015 Il Fisco riliquida una maggiore imposta sull’incentivo all’esodo: il datore di lavoro non pagadi Marina Olgiati e Francesco Torniamenti

Gennaio 2015 Highlights T&P 2014

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