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Date post: 16-Feb-2019
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NO vuol dire NO! La violenza sessuale all’interno della coppia
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NO

vuol dire

NO!

La violenza sessuale all’interno

della coppia

Vocabolario della lingua italiana

Treccani

violènza s. f. [dal lat. violentia, der. di violentus «violento»]. –

1. Con riferimento a persona, la caratteristica, il fatto di essere

violento, soprattutto come tendenza abituale a usare la forza

fisica in modo brutale o irrazionale, facendo anche ricorso a

mezzi di offesa, al fine di imporre la propria volontà e di

costringere alla sottomissione, coartando la volontà altrui sia di

azione sia di pensiero e di espressione, o anche soltanto come

modo incontrollato di sfogare i proprî moti istintivi e passionali

violènto (ant. o raro violènte) agg. [dal lat. violentus, affine a

vis «violenza» e a violare «violare»]

Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione

e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne

e la violenza domestica

(Istanbul, 11.V.2011)

• …Riconoscendo che la violenza contro le

donne è una manifestazione dei rapporti di

forza storicamente diseguali tra i sessi,

che hanno portato alla dominazione sulle

donne e alla discriminazione nei loro

confronti da parte degli uomini e impedito

la loro piena emancipazione….

• Quell’avverbio, storicamente, è stato utilizzato, non a

caso, nel testo della Convenzione, per sottolineare come

la violenza sulle donne, declinata nel tempo con

modalità e tipologie assai diverse, sembri appartenere,

alla storia stessa del genere umano.

• Quella sessuale all’interno della coppia, altrettanto

antica, pare oggi, almeno agli occhi del mondo

occidentale, ancora più intollerabile, proprio in

considerazione del contesto all’interno del quale si

consuma, a prima vista il più improbabile e il meno

adatto per il manifestarsi di comportamenti di

sopraffazione.

Nell’immaginario collettivo

queste immagini esprimono il

senso profondo dell’essere

coppia

…E anche queste…

…ma

anche

quest’altre

…queste…

NO!!!!!!!

…e neanche queste….

…non ci fanno ridere

per niente….

Paolo Apostolo, Lettera ai Corinzi,2.7

«Per il pericolo

dell’incontinenza ciascuno

abbia la propria moglie e

ogni donna il proprio marito.

Il marito compia il suo

dovere verso la moglie,

ugualmente la moglie verso

il marito. La moglie non è

arbitra del proprio corpo, ma

lo è il marito, allo stesso

modo anche il marito non è

arbitro del proprio corpo, ma

lo è la moglie».

Stefano Rodotà, Diritto e Amore, lectio magistralis,

Modena 14/09/2013

• In questo reciproco possesso

era fondata l’eguaglianza tra i

coniugi, che morale religiosa e

regola giuridica poi

tenacemente contrasteranno, in

un contesto fatto di diffidenze,

se non di ostilità, di limiti

imposti dal buon costume e

dall’ordine pubblico, con

barriere invalicabili per un diritto

riconducibile all’amore…

• …nell’esperienza storica il diritto si è fortemente

impadronito dell’amore. Con l’istituzione del

matrimonio l’amore è stato recintato in un

perimetro all’interno del quale è stata operata

una seconda riduzione di esso: il rapporto tra

coniugi è stato ricondotto a uno schema tipico

del rapporto patrimoniale in cui vige la logica del

cosiddetto “debito coniugale” di natura sia

economica che sessuale, che sancisce una

sorta di diritto di proprietà nei confronti

dell’altro…

• Il corpo «giuridificato» della donna,

avrebbe così trovato, nel diritto e nella

morale religiosa, un ulteriore strumento di

sottomissione alle logiche della potestas

maschile e il debitum coniugale preteso

dal marito, anche con la violenza, sarebbe

diventato dovere per eccellenza,

contrapposto ad un piacere/diritto

sconosciuto ed inaccessibile per le donne,

obbligo insieme giuridico e morale.

San Giovanni Crisostomo, dottore della Chiesa

(345-407)

• “La donna è male sopra ogni

male, serpe e veleno contro il

quale nessuna medicina va bene.

Le donne servono soprattutto a

soddisfare la libidine degli

uomini…Dio assegnò a ciascun

sesso le sue funzioni, cosicchè la

parte più utile e necessaria

toccasse all’uomo, e la minore e

inferiore alla femmina; e quegli

divenisse degno d’onore per il

ruolo suo eminente, questa

invece per gli uffici suoi più vili

non pensasse ad alzare la cresta

contro il coniuge…”

Ivo di Chartres, canonista

(1040-1115) • “…Al marito spetta

domarla…come

l’anima doma il

corpo e l’uomo

doma l’animale.

Prima essa passa

sotto la tutela del

suo signore e

padrone meglio è”

GEORGE DUBY, Medioevo maschio, amore e

matrimonio, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 33.

• Alla contessa du Perche, che gli chiedeva dubbiosa quale fosse

l’ammontare del debitum, Adamo, abate di Perseigne, alla fine del XII

secolo, rispondeva:

• Ci sono nella persona umana l’anima e il corpo. Dio è padrone dell’una e

dell’altro. Ma, per la legge del matrimonio che egli stesso ha istituito

concede al marito […] il diritto che ha sul corpo della donna (il marito entra

così in possesso di questo corpo, ne diventa il gestore, autorizzato a

servirsene, a sfruttarlo, a farlo fruttificare) […] la contessa du Perche non

deve dimenticarlo: ella ha, in realtà due sposi che deve servire equamente:

l’uno è investito del diritto di usare del suo corpo, l’altro è padrone assoluto

della sua anima […] la violazione del diritto si verificherebbe se […]

incapace di vincere le sue ripugnanze, la sposa non assolvesse il suo

debito.

• George Duby, nel ricostruire le vicende dell’istituto

matrimoniale nel Medioevo, sottolinea come

• mai Adamo di Perseigne prende in considerazione la

possibilità che la donna abbia delle esigenze, che anche

lei – ed è tuttavia ciò che dice il diritto canonico – sia in

possesso del corpo del marito, in diritto di reclamare ciò

che le è dovuto, tacendo, da uomo di chiesa, sulla

reciprocità della relazione.

S. Alfonso M. De’ Liguori, dottore della

Chiesa, sec. XVII.

«Per quelli che sono i

peccati commessi nel

matrimonio chiedete

solo alle mogli se

hanno osservato il loro

dovere coniugale, per

il resto, restate in

silenzio»

Giovanni Finazzi, Il confessore diretto secondo la

dottrina dei Santi… (1847)

• Si domandi alle mogli se han provocati i mariti a

bestemmiare, e se han renduto il debito

coniugale; per lo più si dimandi ciò alle mogli,

perché molte si dannano per questo capo, e son

cagione che si dannano anche i mariti, i quali

vedendosi negato il debito, fanno mille

scelleraggini

Il primo codice civile italiano si mostrava

assai ossequioso verso il Code

Napoléon, che nella nostra Penisola

aveva trovato buona accoglienza ed era

stato “metabolizzato” dai giuristi

attraverso la mediazione delle

codificazioni preunitarie.

Il codice Pisanelli del 1865, tuttavia,

sembrava radicalizzare certi orientamenti

espressi dal suo più celebre archetipo.

A questo proposito Stefano Rodotà ha osservato

che il modello codicistico napoleonico,

che si diffonderà oltre i confini francesi, troverà

accoglienza nella legislazione italiana, “con una

minuzia di prescrizioni che allargherà ancora di più

il fossato tra amore e diritto”.

Obbedienza e subordinazione, logica autoritaria e

patrimonialistica, senza spazio per gli affetti

sarebbero state caratteristiche salienti delle nuove

regole in ambito matrimoniale e familiare.

• Si ricordi che il primo codice civile italiano tendeva ad

accentuare la posizione preminente dell’uomo all’interno

della famiglia, individuandolo esplicitamente come

“capo” della medesima. Peraltro, si ripercorreva la scelta

del legislatore d’oltralpe introducendo nell’ordinamento

italiano l’autorizzazione maritale. L’art. 134 disponeva,

infatti: «La moglie non può donare, alienare beni

immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o

riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, né transigere o

stare in giudizio relativamente a tali atti, senza

l’autorizzazione del marito. Il marito può con atto

pubblico dare alla moglie l’autorizzazione in genere per

tutti o per alcuni dei detti atti, salvo a lui il diritto di

rivocarla».

Tali circostanze non dovevano passare inosservate

ad uno sparuto gruppo di donne sensibili al tema

della necessità di un profondo rinnovamento che,

tenendo anche conto del supporto che le donne

italiane avevano fornito alla causa della costruzione

dello Stato unitario, riconoscesse loro un diverso e

più adeguato ruolo all’interno della società .

Ben avventuroso fu l’istante in cui voi effettuaste il

nobile progetto di pubblicare un Giornale che avesse

per iscopo di propugnare e tutelare i diritti della

donna, molto più che il nuovo codice civile del Regno

d’Italia lascia tuttavia molto a desiderare perché la

donna giunga al posto assegnatole dal progresso

sociale.

Così scriveva nel 1866, a nome della Società

Patriottica femminile di Milano, Angelina Foldi a

Giovanna Bertola Garcea, direttrice del foglio

parmense La voce delle donne, evidenziando il

disappunto per le novità che la codificazione unitaria

aveva introdotto, sostanziatesi in una vera e propria

reformatio in pejus, almeno per le donne di quei

territori che, avendo a lungo fatto parte

dell’ordinamento austriaco, come il Lombardo-

Veneto.

Contro quelle regole evidentemente

discriminatorie si levava la voce di Anna Maria

Mozzoni , instancabile attivista nella battaglia

per il riconoscimento del suffragio femminile,

che, provocatoriamente scriveva

Come ognun vede, la donna in qualunque

regime matrimoniale, è schiava o minore. Per

avere un diritto materno, ella non dovrebbe

essere madre che di prole illegittima, e per

avere reale possesso di se stessa e delle cose

sue, mai non dovrebbe piegare il collo al giogo

del matrimonio .

Le dure invettive della Mozzoni non

risparmiavano neanche il codice penale

Zanardelli, promulgato nel 1889,

Che punisce l’adulterio e la relazione

adulterina della moglie e invece colpisce con

sanzione il marito soltanto in caso di

concubinato,

considerando attenuanti i delitti di omicidio e di

lesioni personali se commessi dal coniuge

Sibilla Aleramo, Una donna, 1906 • Così la mia persona piegava al volere del

marito […] chiudevo gli occhi, m’impedivo

di pensare e restavo come in letargo […]

penso che m’amasse un po’ come cosa

sua, una proprietà […] Rivedo me stessa

gettata a terra, allontanata col piede come

un oggetto immondo, e risento un flutto di

parole infami, liquido e bollente come il

piombo […] Ed ho il confuso senso della

disperata ira che mi assalse quando,

dopo una notte inenarrabile in cui il mio

viso ricevette a volta a volta sputi e baci,

e il mio corpo divenne null’altro che un

povero involucro inanimato, mi sentii

proporre una simulazione di suicidio.

• F. Loffredo, Politica della famiglia, 1938

• La donna fascista, “sposa e madre esemplare” deve

ritornare “sotto la sudditanza assoluta dell’uomo: padre

e marito; sudditanza e quindi inferiorità: spirituale,

culturale ed economica”

N.Tranfaglia, La stampa del regime 1932-1943. Le veline del Minculpop

per orientare l’informazione, Bompiani, Milano 2005, p. 168.

• “Si proiettava sulla lavoratrice, sull’emancipata, sulla cosiddetta

“donna crisi”, l’ansia della denatalità che aveva ben altre radici,

soprattutto la crisi economica che spingeva le donne a controllare

con ogni mezzo le nascite e quindi a non aderire alla campagna

demografica lanciata dal regime. Si susseguivano le inutili «veline»

da parte del Minculpop, come questa del 29.7.1932:

• […] E’ stato fatto un richiamo a un giornale di Roma per un disegno

rappresentante una donna eccessivamente magra. Data la

suggestione che tali disegni esercitano sulle donne non magre e la

ripercussione che i dimagramenti forzati hanno nella prolificità e

quindi nella efficienza demografica, è bene che tali disegni non

compaiano più”.

• Il fascismo invita gli uomini

italiani a difendere le loro

donne dall”uomo nero”, dal

pericolo che viene da

fuori….ma chi le difenderà

dalle pratiche coercitive, dallo

ius corrigendi, dalla

sopraffazione fisica,

economica, psicologica

esercitate dai mariti nei loro

confronti?

Ulteriori problematiche emergevano, tuttavia, nel

confronto fra il dettato della carta costituzionale del

1948 e il codice del 1942, in particolare, proprio con

riferimento all’istituto familiare, laddove il principio della

«uguaglianza morale e giuridica dei coniugi», sancito

dai costituenti, risultava essere «di segno opposto

rispetto a quello dei codici» e, segnatamente, di quello

civile nel quale si evidenziavano «due diversi

orientamenti: da un lato si mira[va] ad aggiornare le

regole che l’Ottocento aveva consacrato; dall’altro a

mantenere saldi i poteri in mano del marito-padre» .

Ed infatti, ponendosi in continuità rispetto alla

tradizione ottocentesca, quel testo normativo ripete

all’art. 144: «Il marito è il capo della famiglia; la moglie

segue la condizione civile di lui. Ne assume il cognome

ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede

opportuno di fissare la sua residenza».

p. 315.

• L’evidente discrasia fra codice e costituzione, in realtà,

risultava minimizzata dai limiti che lo stesso art. 29 della

carta costituzionale prevede al secondo comma: «Il

matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e

giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a

garanzia dell’unità familiare».

• In tal modo il principio autoritario e gerarchico che

informava le norme sulla famiglia operando, al pari di

quelle sull’onore del codice penale, un’evidente disparità

fra uomini e donne, potevano convivere con la

costituzione democratica e garantista e con il principio

generale dell’uguaglianza dei cittadini e dei coniugi

all’interno del matrimonio, posti appunto i limiti che la

stessa costituzione prevedeva «a garanzia dell’unità»

dell’istituto familiare.

• Va sottolineato che, anche su impulso di

decisivi rilievi critici mossi da una parte

della dottrina», la Corte di Cassazione,

con sentenza del 22 febbraio 1956 aveva

decisamente cambiato rotta, «pur con

taluni tentennamenti protrattasi almeno

fino alla riforma del diritto di famiglia del

1975», negando che si potesse

configurare, in capo al marito lo ius

corrigendi sulla moglie.

Ius corrigendi

• Questa formula designa il diritto all’uso di mezzi di

correzione o disciplina riconosciuto a coloro che

esercitano essendone titolari un diritto di supremazia su

altre persone.

• Tale diritto, come si evince dal dettato dell’art. 571 c.p. è

noto alla nostra legislazione.

• La citata norma, infatti, incriminando l’abuso dei mezzi di

correzione, implicitamente ammette che l’uso degli stessi

debba ritenersi legittimo.

P. Camassa, Addio autorità maritale! (1958)

• La gerarchia è in sé nel matrimonio civile e in quello cristiano. Non

perché la moglie sia succube (chi obbedisce per amore non è

succube, è parte di un ingranaggio sociale) ma perché la famiglia …

ha bisogno di un capo, sia pure primus inter pares. Una sgridata alla

mogliettina giovane che ama troppe passeggiate mattutine per

l’inutile aperitivo delle 10, il rimprovero per una madre troppo debole

con i figli discoli o per …il conto della sarta eccessivo…sono diritti

minimi per un marito e per una famiglia che voglia chiamarsi tale

…Come si sgretolerebbero migliaia di famiglie per un marito debole

e per una moglie che si facesse forte di norme femministe! Accade

già tanto spesso! «io sono indipendente! Lavoro come te e faccio i

miei comodi! Con questa frase…è l’inizio della fine. Ma dove

vogliamo arrivare? …L’uomo è il capo, la guida prediletta e naturale

per legge divina e fisiologica!

• Tale situazione doveva permanere

inalterata fino a metà degli anni

Settanta, quando il mutato clima

politico e sociale imponeva al

legislatore italiano una riformulazione

di quelle norme, punto di arrivo di un

lungo e complesso dibattito

parlamentare e dell’esplodere di una

nuova coscienza civile e sociale.

• «Soprattutto nei primi anni dopo

l’entrata in vigore della costituzione più

che il principio hanno operato i limiti; la

norma del codice che attribuiva al

marito il potere all’interno della

famiglia è rimasta vigente e non è

stata poi cancellata da una sentenza

della Corte costituzionale, ma in

occasione della riforma del diritto di

famiglia»

• Venivano così ridisegnate le coordinate del diritto di famiglia

secondo logiche che, partendo dal dettato dell’art. 29 della

costituzione, per la prima volta, nella storia del diritto italiano,

guardavano all’istituto familiare come comunione di affetti

sottolineandone l’elemento personale a svantaggio di quello

patrimoniale. Un cambiamento che si percepisce anche nel lessico

utilizzato.

• La riforma del diritto di famiglia del 1975 parla, infatti, di

collaborazione, di decisioni condivise, di scelte maturate in comune,

proponendo, attraverso l’uso di un linguaggio “rivoluzionario”

l’immagine di una famiglia che si muove, per la prima volta, in senso

“orizzontale”, nella quale rileva la dignità della persona e la delicata

sfera dei sentimenti.

• Stefano Rodotà ha sottolineato che la riforma del diritto

di famiglia

• sostituisce il modello gerarchico con quello paritario,

fondato sugli affetti, e riconosce i diritti dei figli nati fuori

del matrimonio. Al posto della norma costrittiva troviamo

la volontà delle persone, libere di costruire la loro vita e

l’insieme delle relazioni, non più chiuse nel perimetro

obbligato del matrimonio. Scompaiono l’impropria

identificazione tra peccato e reato e il peso di una

morale di cui il diritto si faceva custode, in una visione

pubblicistica che vincolava le persone non alla

realizzazione dei sentimenti, ma alla stabilità sociale e

alla continuazione della specie.

In un contesto nel quale, per la prima volta, si

parlava di sentimenti e di rapporti paritari,

comportamenti violenti e sopraffattori

cominciavano ad essere percepiti sempre più

come inconcepibili e la circostanza che, fino a

quel momento, il giudice penale avesse ritenuto

che il reato di violenza carnale tra coniugi

potesse configurarsi solo se il marito avesse

agito “con violenza e contro natura” nei confronti

della moglie appariva intollerabile.

Non doveva trascorrere molto tempo dalla

promulgazione della legge n. 151/1975 che,

dunque, un altro duro colpo veniva ad infrangere

assetti ed equilibri giuridici e sociali tradizionali.

Il 16 febbraio 1976, la sezione penale della

Corte di Cassazione pronunciava una sentenza

che si può definire di portata storica, il cui

dispositivo recitava:

“Il consenso che i coniugi si scambiano con l’atto di

matrimonio non si deve intendere come quella

prestazione che unilateralmente, brutalmente ed

impietosamente si possa imporre all’altro senza il suo

piacimento, ma quella in cui si rifletta una comunione

esistenziale fondata sull’accordo dei sentimenti e

volontà e perciò di comune intendimento….Il coniuge

non si priva incondizionatamente nei confronti

dell’altro coniuge del potere di disporre del proprio

corpo, né perde la naturale libertà di negare la

prestazione sessuali”. (Cassazione Penale 16

febbraio 1976, RP, 1977, 281)

si è chiarito che

• “Il concetto di violenza sessuale, nella

oggettività della tutela apprestata dalla

previsione normativa, ha una sua

sostanziale ed immodificabile unitarietà

che non consente di distinguere tra

violenza sessuale consumata tra estranei

e violenza sessuale consumata all’interno

di un rapporto coniugale …”

ed ancora che •

• “…in tema di violenza sessuale, l’esistenza di un rapporto di

coniugio accompagnato da effettiva convivenza non esclude, di per

sé la configurabilità del reato, dovendo ritenersi, alla luce di quanto

stabilito all’art. 143 cod. civ. in materia di diritti e doveri dei coniugi,

che non sussista un diritto assoluto del coniuge al compimento di

atti sessuali come mero sfogo dell’istinto sessuale anche contro la

volontà dell’altro coniuge, tanto più in un contesto di sopraffazioni,

infedeltà, violenze, ponendosi queste in contrapposizione rispetto ai

sentimenti di rispetto, affiatamento e vicendevole aiuto e solidarietà

fra le cui espressioni deve ricomprendersi anche il rapporto

sessuale () Cass. Pen., III sez., 26 marzo 2004, n. 14789. In quella

circostanza la suprema corte ha ribadito che «la qualità di coniuge è

del tutto sterile ai fini dell’apprezzamento della condotta vietata. Non

esiste una quantità di violenza sessuale tollerabile fra coniugi e non

pure fra estranei”.

se alla donna non vada attribuita una parte

non lieve del male sociale. Come può un

uomo che abbia avuto una buona madre

divenir crudele verso i deboli, sleale verso

una donna a cui dà il suo amore, tiranno

verso i suoi figli […] e come può diventare

una donna, se i parenti la danno ignara,

debole, incompleta, a un uomo che non la

riceve come sua eguale, ne usa come d’un

oggetto di proprietà, le dà dei figli coi quali

l’abbandona sola, mentr’egli compie i suoi

doveri sociali, affinché continui a baloccarsi

come nell’infanzia

Carlo Cassola, L’antagonista (1976)

• “La mia [moglie] vorrebbe che la lasciassi in pace.

Quando siamo al dunque mi dice di sbrigarmi”

• -Le mogli non provano piacere.

• -Non lo devono provare –intervenne un giovanotto[…]

• -Che differenza credete che ci sia fra una donna onesta

e una del villino rosa?

Vitaliano Brancati, Il bell’Antonio (1949) • “Il rumore di quello scandalo fu avvertito da

tutta Catania come un boato dell’Etna.

Antonio Magnano…, il bellissimo

giovane,Antonio, sì, proprio lui … ebbene

Antonio con la moglie…niente!

• “E in questi tre anni che le ha fatto il

marito”?

• “Le ha cacciato le mosche”.

• “Possibile, possibile”?

• “E’ così”!

• “Ma come, il figlio di Alfio non ha denti per il

pane fresco”?

• “Non ne ha”.

• “Ma che dite? Ma che cosa m’incucchiati”?

• “Privo della vista degli occhi, è così! La

prima notte si coricarono e…e…niente!”

• “Ma come fu”?

• “Come fu?...fu! Nun c’era iu, cumpari!”

• “Ma allura, catinazzu”?

• “Catinazzu fermu, cumpari!”

• “Per tre anni sempre catenaccio?”

• “Sempre catenaccio!”

• “Ogni notte catenaccio?”

• “Ogni notte catenaccio!”

• “Diciticcillu o’ Padreternu, ca è iddu

ch’’e fa, ‘sti cosi!”

• “Ma io capirei una volta, due volte, tre

volte…voglio essere largo: cinque

volte! Chi di noi non ha fatto

catenaccio?”

• “Vi devo dire la verità, compare: io non

l’ho fatto mai!”

• “Mai?”

• “Mai!”

• “Il Signore mi deve far morire prima di mandarmi una disgrazia

simile! E che ne ha uno della vita, se gli levano anche quello?

Davvero che mi butterei nella cisternna!”

• “E chi ci campa a fari!”

• “Megghiu mortu”

• “Megghiu mortu milli voti!”

• “Che diciti, milli voti? Megghiu mortu centu miliuni di voti”.

• “E io mi dovrei vedere ridotto in quello stato? Ma meglio cento metri

sottoterra, come dite voi, meglio in fondo al mare in bocca ai

pesci!...Vi dico di più: meglio, condannato all’ergastolo, piedi e mani

incatenati come a Cristo, ma perdio col mio onore d’uomo, degno di

commiserazione magari per essermi bagnato le mani nel sangue del

prossimo, ma non oggetto di risatine e toccatine di gomito quando

passo per la strada, perché se qualcuno s’azzarda di ridere o di

sporgere il gomito verso il suo compagno, io gli posso sempre

gridare: Che cosa ridi, faccia di minchia? Mandami tua sorella,

piuttosto o tua moglie che allora ridiamo per davvero!

• E chi può darvi torto?...Padre, Figlio e Spirito santo! E iu m’havissi a

sumpurtari ‘dda cosa disutili appinnuta davanti? Ma quant’è veru Diu

c’’a ma scippu e a’ ‘ettu ‘ cani! L’ha detto anche Nostro Signore

d’altronde: Se uno dei tuoi membri pecca, strappalo e gettalo via!


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