Date post: | 01-Apr-2016 |
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Un b i c ch ie re d i s angue . . .
Non è l a so l i ta gu ida
Vo lume v io la : ‘Ag l i a n i co ’
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Carpentieri Amelia Di Pascale Fabiana Mazziotti Giuliana Thomas Martina
P.O.R. CAMPANIA FSE 2007/2013 _ D.G.R. n. 1205 del 3/07/2009_ D.D. n.25 del 5/02/2012 _ Comune di Napoli _ Progetto "Una Rete per le Donne" CUP B69E10005680009 _ CIG 380033794B Asse II Occupabilità Obiettivo Specifico f Obiettivo Operativo f2 Corso di formazione “Addetto Agenzie turistiche”
Progetto grafico: Elena Carrucola
Redazione a cura di
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La presente non vuole essere la solita guida turistica per invogliare i turisti a recarsi a Napoli o in tutta la Campania, ma nasce dalla volontà di catturare l’attenzione del lettore attraverso veri e proprio percorsi emozionali che facciano quasi “sentire” al turista il sapore e il gusto di antiche tradi-zioni, di antiche culture e, perché no, di antiche superstizio-ni che rendono Napoli in particolare, ma la Campania tutta, terra fertile e rigogliosa.
Tale guida vuole suggerire emozioni più che nozioni vere e
proprie. Napoli non è solo una città con uno sconfinato patri-
monio culturale, non è solo ricca di tradizioni culinarie come
la pizza, la mozzarella o il pomodoro, ma in Napoli risiedono
antiche superstizioni e credenze, che ricoprono la città di un
alone di mistero a volte molto fitto, altre invece quasi im-
percettibile. Numerose opere o chiese a Napoli sono legate a
storie antiche di spettri o figure fantastiche che vivevano in
esse. Questo è solo una parte di quanto questa guida vuole
rappresentare. Rendere manifesto, cioè, un altro volto dei
mille e più diversi, che questa meravigliosa città possiede.
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L'Aglianico è un vitigno rosso coltivato prevalentemente in Basilicata, Campania, Puglia e Molise. Il vitigno è stato re-centemente introdotto in Australia, dato che si sviluppa in climi prevalentemente soleggiati. E’ molto antico, probabil-mente originario della Grecia e introdotto in Italia intorno al VII-VI secolo a.C. Una delle tante testimonianze della sua lunga storia è il ritrovamento dei resti di un torchio romano nella zona di Rionero in Vulture, provincia di Potenza. A lungo si è discusso dell’origine del suo nome: se alcuni, infatti, lo fanno risalire ad una storpiatura del termine Elle-nico, altri, invece, la fanno risalire ai termini “anicus” (dal latino) e “llano” (dallo spagnolo). Il termine “Ellenico” riferito all’Aglianico viene fu utilizzato, per la prima volta, nel 1592 dal filosofo napoletano Della Porta che, nel suo libro Villae, sosteneva che lo stesso Plinio, nel suo Historia Naturalis, avrebbe parlato dell’uva che nasce all’ombra del Vesuvio. Molti studiosi sostengono che all’epo-ca i romani non conoscevano il termine “ellenico” e che uti-lizzavano, al suo posto il termine “grecus”. In Italia il termine “ellenismo” appare per la prima volta nel 1640. Lo studioso Riccardo Valli sostiene che anche morfologica-mente questa derivazione etimologica non sarebbe possibile: come potremmo, infatti, spiegare la mutazione in “a” delle due “e” presenti nel termine ellenicus? Oltre all’ipotesi, sostenuta tra l’altro da Valli, di un’origine spagnola del termine, ve ne è un’altra che pure sembra esse-re probabile e che è sostenuta, invece, da Andrea Bacci: il termine deriverebbe da “Aglaos”(chiaro) e “Aglaia” (splendente).
L'utilizzo del vitigno è predominante nella zona del Monte
Vulture. L'Aglianico del Vulture, considerato uno dei migliori
vini rossi italiani, è per ora l'unico vino della provincia di
Potenza che ha ottenuto il marchio DOCG il 30 novembre del
2011 con il nuovo nome Aglianico del Vulture Superiore.
Un'altra zona di produzione dell'Aglianico è la provincia di
Benevento, in particolare alle pendici del monte Taburno,
dove abbiamo la DOCG: Aglianico del Taburno DOCG con la
produzioni di diversi vini: rosso, rosato, rosso riserva. Senza
dimenticare la provincia di Avellino (Vertecchia di Pietrade-
fusi) dove è il vitigno fondamentale per la produzione del
prestigioso Taurasi DOCG, importante rosso del Sud Italia.
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All’aglianico ricordiamo che fu anche dedicato un romanzo
"Storia controversa dell'inarrestabile fortuna del vino Aglianico
nel mondo", scritto da Gaetano Cappelli e pubblicato nel 2007.
Immaginiamo, ora, un bicchiere di vino rosso, posto al di sopra, di un tavolo ed un braccio che, in maniera del tutto casuale, lo urta riversandone il contenuto per terra. Il liquido potrà pren-dere un'unica direzione o dividersi in più direzioni, ramificando-si, via via, sempre di più. È così che si può visitare la città di Napoli: seguendo un unico percorso o provando ad aprire la mente e a lasciarsi guidare, non dalla strada, ma da quei legami che uniscono ora alcuni, ora altri monumenti della città. “T'accumpagn vic vic sul a te ca sì n'amic e te port pe' quartier addò o sole nun s' vere, ma s' ver tutt'o riest…” (cit.) La città di Napoli, che per secoli ha affascinato illustri perso-naggi provenienti da tutto il mondo, non può essere conosciuta perfettamente se non si “osa” entrare in quei vicoli, nascosti dalla luce del sole, che tanto hanno da raccontare ai visitatori. Con il seguente volume ci proponiamo di accompagnare il letto-re alla scoperta delle opere “Gotiche”, di quelle che giacciono Sottoterra e nel fondale marino, delle leggende di Magia Nera e di uno degli eventi più disastrosi avvennuti in città: la Peste Nera. Sirene, maghi, alchimisti e massoni, infatti, hanno abitato le vie della nostra città, arricchendole di storia, leggende ed opere d’arte che tramandano nuove forme di sapere e che, allo stesso tempo, lasciano quell’alone di mistero nella mente del turista: cosa rappresentano i segni del bugnato della Chiesa del Gesù Nuovo? E qual è il significato dell’incisione che si trova sulla presunta tomba di Vlad l’Impalatore? Il destino della città, è davvero legato ad un uovo magico? Napoli, però, che come già detto, aveva annoverato tra i suoi abitanti maghi e massoni, non poteva ,di certo, chiudere le porte a colui che, più di tutti, avrebbe potuto essere considera-to la personificazione della Magia Nera: Dracula.
Pare, infatti, che l’oscuro conte attratto, forse, da una sorta di
potere oscuro, avesse deciso di dormire il suo sonno eterno
all’interno di un piccolo chiostro nascosto nel cuore della città,
collocato cioè, lì dove “o sol nun s ver”.
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I tesori sommersi pag. 42
Il gotico pag. 10
La magia nera pag. 58
La peste pag. 82
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«Questa città è Napoli l'illustre, le cui vie percorsi più di un anno.
D'Italia gloria e ancora del mondo lustro, chè di quante città in sè racchiude
non v'è nessuna che così l'onori. Benigna nella pace e dura in guerra, madre di nobilitade e d'abbondanza,
dai campi elisi e dagli ameni colli.»
(Miguel de Cervantes Saavedra, Viaje del Parnaso, Cap. VIII)
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Il marmo, che appartiene alla tomba di
Ferrillo, il «genero» di Dracula, è denso
di riferimenti che non apparterrebbero
alle spoglie dell’uomo che dovrebbe
essere lì dentro. E qui la realtà diventa
romanzo, almeno finché la scienza non
dirà che è tutto vero. Infatti il conte si
chiamava Dracula Tepes e raffigurato
sul marmo c’è la rappresentazione di
un drago, Dracula appunto, e ci sono
due simboli di matrice egizia mai visti
su una tomba europea. Si tratta di due
sfingi contrapposte che rappresentano
il nome della città di Tebe che gli egi-
ziani chiamavano Tepes. In quei simboli
c’è ”scritto” Dracula Tepes, il nome
del conte. Questo è quanto hanno sco-
perto i ricercatori di Tallin.
Questa è soltanto una delle numerose
storie narrate a Napoli misteriose e
sensazionali che verranno descritte
all’interno della sezione “Il Gotico”.
Chiesa di Santa Maria la Nova La Nova, chiamata così per distinguerla
dalla chiesa che un tempo sorgeva dove
poi fu eretto Castelnuovo, venne fon-
data dai Frati Minori verso la fine del
1200, sul terreno donato loro da Carlo I
d’Angiò. Dopo il 1596 fu completamen-
te riedificata, in seguito ai danni cau-
sati dallo scoppio della polveriera di
Castel Sant’Elmo. Tra le bellezze arti-
stiche racchiuse nella chiesa, vi è lo
splendido soffitto in legno dorato, nel
quale sono incassate 46 tavole dipinte
fra il 1598 e il 1603 dai più importanti
artisti napoletani dell’epoca, fra cui
Francesco Curia, Girolamo Imparato,
Fabrizio Santafede e Belisario Corenzio,
oltre a Giovan Bernardo Azzolino, Luigi
Rodriguez e Cesare Smet.
Dell’antico complesso conventuale po-
trà essere visitato il refettorio e il chio-
stro di San Giacomo, con le sue volte
affrescate e i numerosi monumenti
funerari del cinquecento.
In essa sono presenti due chiostri: il
primo, grande, che è detto "di San
Francesco" per via gli affreschi dedicati
al Santo; di forma quadrata conta nove
arcate per lato sorrette da colonne
ioniche in marmo bianco che contrasta-
Il gotico
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no la pietra di piperno degli archi.
Le decorazioni, volute da padre Cle-
mente da Nola, furono realizzate se-
condo il gusto orientale dopo che que-
sti ritornò dalle missioni in Cina. Gli
affreschi del Santo furono realizzati
da Luigi Rodriguez seguendo i dettami
di padre Clemente; le pitture erano
accompagnate da terzine che descrive-
vano la vita di san Francesco, opera di
padre Dioniso di Capua. Lo stesso padre
Clemente fece sistemare alcune colon-
ne al centro del chiostro ridecorandole
con motivi orientaleggianti con lo sco-
po di sostenere un pergolato coltivato a
viti.
Verso la fine del Seicento avvennero
sostanziali cambiamenti stilistici in
seguito al degrado delle decorazioni.
Già padre Leonardo del Giudice
nel 1686 fece eliminare il pergolato
orientale perché non consono allo stile
di vita del monastero. Gli affreschi con
il tempo scolorirono fino a quando,
nel 1747, padre Bonaventura da Ducen-
ta decise di farli imbiancare coprendoli
sotto una decorazione in stucco in sti-
le rococò caratterizzata da medaglioni
ovali vuoti.
Il chiostro piccolo è di forma rettango-
lare e si pone in posizione centrale tra
la chiesa ed il chiostro grande.
Le colonne monolitiche che compongo-
no il chiostro, sono sormontate da capi-
telli di ordine ionico e sono collocate
su un basso muretto interrotto da quat-
tro passaggi con cancelli in ferro battu-
to. Gli archi a tutto sesto hanno il rag-
gio di cinque metri, mentre i portici
sono caratterizzati da volte a crocie-
ra affrescate da Simone Papa nel 1627,
il quale eseguì un ciclo dedicato a San
Giacomo della Marca caratterizzato da
iscrizioni illustrative.
Nel chiostro sono presenti, oltre al poz-
zo di marmo e agli affreschi, anche
alcune tombe di nobili spostate qui
durante la ricostruzione tardo-
rinascimentale, tra cui quella si botte-
ga dei Malvito, dedicata a Sante Vita-
liano e alla consorte Ippolita Impera-
to del 1497. Da allora il chiostro fu
detto di San Giacomo e venne ricono-
sciuto tra i più bei chiostri di Napoli.
Oggi lo stesso ospita il museo d'arte
religiosa contemporanea.
La sezione di tale volume si intitola IL
GOTICO, e a tal proposito conviene
fare un excursus letterario su tale ter-
mine, in quanto viene considerato uno
dei movimenti artistici più importanti
nella storia dell’arte.
Il gotico ha ufficialmente origine nell’I-
le-de-France nella prima metà del XII
secolo, esattamente nel 1144, anno in
cui fu completato il deambulatorio
della Basilica di Saint Denis, una delle
più importanti cattedrali di Francia.
Per più di duecento anni, fino alla sua
cosiddetta fase “internazionale”, lo
stile gotico si diffuse a macchia d’olio
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in tutta Europa e coinvolse, oltre ovvia-
mente all’architettura, anche tutti gli
altri settori dell’arte, dalla pittura alla
miniatura, dalla scultura all’oreficeria.
In senso lato, il gotico può essere consi-
derato, alla pari del Barocco, uno stile
“capriccioso”, in cui i virtuosismi tecni-
ci e l’abbondare delle decorazioni,
spesso preziose, sono le caratteristiche
dominanti. In architettura, ad esempio,
il “capriccio” è evidente nella tenden-
za generale degli architetti gotici ad
abolire le masse murarie a favore di
elementi portanti e allo stesso tempo
decorativi, come colonne, archi, fine-
stre, pilastri e rosoni, spesso arricchiti
da elementi plastici, come statue, gu-
glie e pinnacoli, che ornano ulterior-
mente i colossali edifici gotici. Proprio
la monumentalità delle costruzioni
gotiche, altra caratteristica fondamen-
tale di questo stile, dovuta appunto
all’abbondante uso di archi, pilastri e
colonne, che alleggeriscono la struttura
dell’edificio, ha inoltre portato molti
studiosi a sostenere che il gotico na-
scesse dal desiderio, mai spento,
dell’uomo di raggiungere Dio; desiderio
metaforicamente espresso attraverso le
alte e slanciate chiese gotiche, le cui
navate spesso si innalzano a decine di
metri dal suolo, soprattutto grazie
all’impiego smisurato di archi ogivali, o
a sesto acuto, già più volte utilizzati in
epoca romanica, la cui forma permet-
teva di guadagnare nuovi metri in al-
tezza.
In Italia, dove la tradizione romanica
era fortemente radicata, il gotico giun-
se relativamente tardi, sul finire del XII
secolo, ad opera soprattutto dei mona-
ci cistercensi che, in Francia, avevano
quasi subito “riadattato” lo stile secon-
do la propria regola, eliminando dalle
loro chiese ogni forma di eccesso. Que-
sta versione “sobria e moderata” di
gotico ben si adattava al clima artistico
italiano dove la tecnica dell’affresco,
ereditata dagli antichi romani, era ri-
masta la forma più diffusa di decora-
zione architettonica.
Particolarissimo è il caso di Napoli do-
ve, sotto il dominio francese degli An-
giò, il gotico si affermò in una versione
ancora più spettacolare. Dal 1266 gli
Angioini governavano sulla città e una
rete di scambi commerciali e culturali
legava la città alla Provenza, territorio
di origine della casata. Per più di un
secolo artisti e architetti francesi lavo-
rarono fianco a fianco con artisti e ar-
chitetti napoletani. Il risultato fu la
formazione di uno stile ibrido, a cavallo
tra quello francese e quello italiano,
tuttora visibile nei due più importanti
cantieri ecclesiastici angioini: la Basili-
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fatto anche la sede giuridica dei Frati
Minori Conventuali nell’omonimo quar-
tiere.
Si trova, all’apice della via dei pastori
sulla direttrice del complesso monasti-
co di San Gregorio Armeno, più o meno
collocata sul territorio dell’antica regio
Nilensis, al vertice di un triangolo per-
fetto creato in asse con la chiesa e
convento dei Predicatori a piazzetta
San Domenico e gli Agostiniani alla Zec-
ca sul Rettifilo.
Costruita sullo sterrato dell’area ar-
cheologica e l’antichissima bottega
dell’allume, i restauri, apportati
nell’ultimo ventennio del ’900, l’hanno
restituita spogliata degli stucchi ag-
giunti sulle architetture primitive dise-
gnate di purissimo stile gotico d’Oltral-
pe, scoprendo tra l’altro affreschi, i
quali, assieme a quelli dell’Incoronata
a via Medina, Donnaregina Vecchia a
Settembrini e la Cappella Palatina al
Maschio Angioino, offrono una veduta
d’insieme dell’arte pittorica del Tre-
cento italiano.
La chiesa quindi è un grandioso monu-
mento di Storia Patria installata nel
quartiere un poco aragonese ed un po-
co barocco di San Gaetano ai Tribunali.
ca di San Lorenzo Maggiore e il Com-
plesso monastico di Santa Chiara.
La basilica di San Lorenzo Maggiore
La Basilica di San Lorenzo Maggiore,
eretta a partire dal 1270 da Carlo I
d’Angiò, è una delle più antiche chiese
di Napoli. Sebbene la facciata sia stata
ricostruita in epoca barocca da Ferdi-
nando Sanfelice, la chiesa conserva al
suo interno gran parte della struttura
originale. L’edificio è caratterizzato da
un ampia navata centrale, separata
dalle più basse navate laterali da una
serie di archi ogivali poggiati su pilastri
a fascio. Grandi finestroni, anch’essi
ogivali, innalzano ulteriormente le mu-
ra circostanti, evidentemente progetta-
te dalle maestranze italiane. L’abside,
invece, considerato uno dei più rari
esempi “classici” di gotico francese,
appare completamente traforato da
archi e finestre a sesto acuto, secondo
la più radicale tradizione nordeuropea.
Appartenente all’ordine francescano,
questa chiesa è certamente tra le più
importanti di Napoli. Pare infatti che,
in San Lorenzo, Boccaccio incontrasse
per la prima volta la sua Fiammetta e
che, nell’annesso convento, Petrarca
dimorasse. Nella stessa basilica, inol-
tre, fu consacrato sacerdote San Ludo-
vico da Tolosa, il santo erede rinuncia-
tario del trono angioino.
La chiesa di San Lorenzo Maggiore,
massima espressione architettonica del
Centro Storico UNESCO di Napoli, è
stato l’edificio delle riunioni della ma-
gistratura cittadina partenopea, prima
che divenisse la più antica chiesa e di
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Anticipa e posticipa la via per la chiesa
della Misericordia ed il largo della chie-
sa dei Girolamini.
Qui si conservano le ceneri di Raimondo
Berengario, figlio di Re Carlo II, alias Lo
Zoppo, qui le ceneri di Ludovico, morto
nel 1310, figlio di Re Roberto il Saggio,
sepolto a Santa Chiara a Spaccanapoli;
in questa chiesa il sepolcro di Caterina
d’Austria morta nel 1323, Carlo di Du-
razzo del 1347, Maria figlia di Carlo III,
Roberto d’Artois con la moglie Giovan-
na duchessa di Durazzo.
Si Narra che qui Boccaccio incontrò la
sua Fiammetta, Teresa D’Aquino, figlia
del re Roberto D’Angiò, sua musa ispi-
ratrice, dopo averla vista nella chiesa
dopo la messa del Santo Sabato del
1334. Si ricorda inoltre, che Francesco
Petrarca dimorò nel convento per alcu-
ni giorni e la notte del 4 novembre del
1343, terrorizzato da un’eremita che
aveva predetto una spaventosa tempe-
sta, discese dalla sua cella per unire le
sue preghiere a quelle dei monaci.
La chiesa inoltre presenta una torre
campanaria, detta anche “Torre di
Masaniello” perché coinvolta nei moti
insurrezionali del 1647; le fonti narrano
che essa fu impiegata come un vero e
proprio fortino, nel quale furono nasco-
ste armi e cannoni.
Attualmente la chiesa è stretta dalla
morsa di abitazioni private che ne co-
prono l’intera visuale mortificando
l’originario slancio architettonico.
Senz’alcun dubbio, tutte le linee della
chiesa di san Lorenzo Maggiore erano di
stile archiacuto, come lo si osserva
dall’andamento del portale, unico ele-
mento superstite della chiesa trecente-
sca. Nonostante tutto, è sul suo portale
che è possibile leggere molta della sua
storia. Lo stemma di Bartolomeo de
Capua, protonotario del Regno, sta
sotto il lunettone soprastante la porta
centrale dove è ancora visibile sotto
poca forma l’affresco attribuito ad
Angelo Mozzillo, ritraente lineamenti
del Martirio di San Lorenzo, partono
della chiesa, che si presenta a navata
unica e che incrocia il transetto diviso
dall’abside dall’altare maggiore e dallo
spazio delle cappelle radiali. Ai lati del
transetto i varchi che conducono alla
Sala capitolare, la vecchia sacrestia, il
convento ed il chiostro francescano. Un
particolare effetto scenografico è dato
dall’abbondanza della luce solare cat-
turata dalle quattro lunghe finestre
bifore sfondate nelle pareti laterali
assieme ad altri nove finestroni sempre
bifori praticati nelle pareti dell’abside
della chiesa. Nel primo piliere dopo la
scomparsa cappella di Santa Maria di
Loreto, si trovava prima di andar per-
duto per sempre lo stupendo altare
della Santissima Concezione della Bea-
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ta Vergine costruita nel 1549 da Nardo
Antonio Della Porta poi inseguito eredi-
tata dai figli uno dei quali è Giambatti-
sta Della Porta. Della medesima cap-
pella e dell’altare oggi non resta che
una lapide.
In chiesa le cappelle esistenti, la prima
a destra è la Cappella San Giuseppe
intercomunicante con la seconda cap-
pella San Bonaventura; la terza è la
Cappella del Rosario, seguono la Cap-
pella San Rocco, la Cappella del Croci-
fisso e la Cappella della Santissima
Annunziata ed infine la Cappella di San
Ludovico d’Angiò.
Ritornando verso l’ingresso a sinistra
del transetto l’egregia cappella
Sant’Antonio da Padova, opera barocca
di Cosimo Fanzago; la prima a sinistra
in direzione dell’ingresso è la Cappella
di Vito Pisanelli, segue la Cappella San-
ta Lucia, la Cappella del Puderico, ed
infine oltre la porta piccola le cappelle
dei Tre Magi, della Circoncisione, del
Salvatore e dell’Angelo Custode.
Basilica di Santa Chiara « Munastero 'e Santa Chiara / tengo 'o
core scuro scuro... / Ma pecché, pec-
ché ogne sera, / penzo a Napule
comm'era, / penzo a Napule
comm'è... »
Questa canzone venne scritta in memo-
ria della semi-distruzione della basili-
ca, in seguito ai bombardamenti aerei
del 4 agosto 1943, data in cui il notevo-
le interno barocco andò distrutto, ecco
perché si può osservare un aspetto così
scarno ed essenziale. Ogni volta che la
si visita, si può cogliere quell’essenza
primigenia dell’antica cristianità, quasi
si entrasse in contatto direttamente
con Dio, un luogo dove ci si può rin-
chiudere in se stessi e nella preghiera,
grazie alla totale assenza dell’artificio.
Qualcuno la definisce spettrale, qual-
cun altro spoglia, ma in realtà la basili-
ca è l’essenza di quel culto silenzioso e
intimista che caratterizzava proprio gli
ordini religiosi di inizio novecento.
La basilica di Santa Chiara, con l'adia-
cente complesso monastico, entrambi
conosciuti anche come monastero di
Santa Chiara, è un edificio di culto di
Napoli.
Edificato tra il 1310 e il 1340 su un
complesso termale romano del I secolo
d.C., per volere di Roberto d'Angiò e
della regina Sancha d'Aragona, nei
pressi dell'allora cinta muraria occiden-
tale, oggi piazza del Gesù Nuovo, al
convento faceva parte anche il com-
plesso delle Clarisse, oggi luogo di cul-
to a sé. Può essere considerata come la
più grande basilica gotica della città.
Nella basilica di Santa Chiara, il 14
agosto 1571, vennero solennemente
consegnate a don Giovanni d'Austria, il
vessillo pontificio di Papa Pio V ed il
16
bastone del comando della coalizione
cristiana prima della partenza della
flotta della Lega Santa per la battaglia
di Lepanto contro i Turchi Ottomani.
Lepanto, una delle più grandi battaglie
navali della storia, fu un momento fon-
damentale per la salvezza della Cristia-
nità e del mondo occidentale.
Nel 1590 fu a lungo custode del regio
monastero di S.Chiara, Antonino da
Patti, autore di varie grazie e miracoli
sui malati,
Il quale diverrà Venerabile.
Tra il 1742 e il 1796 venne ampiamente
r i s t r u t t u r a t a i n f o r -
me barocche da Domenico Antonio Vac-
caro e Gaetano Buonocore.[Gli interni
furono abbelliti con opere diFrancesco
de Mura, Sebastiano Conca e Giuseppe
Bonito; mentre Ferdinando Fuga eseguì
il pavimento decorato.[
Durante la seconda guerra mondiale un
bombardamento degli Alleati del 4 ago-
sto 1943 provocò un incendio durato
quasi due giorni che distrusse l'interno
della chiesa quasi interamente, per-
dendo così tutti gli affreschi eseguiti
nel XVIII secolo.
Nell’ottobre 1944 Padre Gaudenzio
Dell'Aja fu nominato "rappresentante
dell'Ordine dei Frati Minori per i lavori
di ricostruzione della basilica", alla cui
ricostruzione partecipò in prima perso-
na. In seguito, i massicci e discussi la-
vori di ristrutturazione riportarono la
basilica all'aspetto originario trecente-
sco omettendo in questo modo il ripri-
stino delle aggiunte settecentesche. I
lavori terminarono definitivamente
nel 1953 e la chiesa fu riaperta al pub-
blico.
La basilica di Santa Chiara sorge sul
lato nord-orientale di piazza del Gesù
Nuovo, di fronte alla chiesa omonima,
ed ha il suo ingresso su via Benedetto
Croce. Questo è costituito da un grande
portale gotico del XIV secolo, con arco
ribassato e lunettapriva di decorazioni,
sormontata da un'unghia aggettante di
lastre di piperno. Il sagrato antistante
la chiesa è recintato da un alto muro.
La facciata presenta una struttura a
capanna ed è preceduta da un pronao a
tre arcate ogivali, di cui quella centra-
le inquadra il portale di marmi rossi e
gialli con lo stemma di Sancha. In alto,
al centro, si apre il rosone, il quale è
stato in gran parte reintegrato durante
la ricostruzione.
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Alla sinistra della chiesa, si eleva
la torre campanaria trecentesco, in
seguito restaurata in stile barocco. Il
campanile è a pianta quadrata e si arti-
cola su tre ordini separati da cornicioni
marmorei. Mentre l'ordine inferiore ha
un paramento in blocchi di pietra, i due
super io r i sono in mattonc in i
con lesene marmoree, tuscaniche in
quello inferiore e ioniche in quello su-
periore.
Tra il 1742 e il 1762 l'aspetto gotico fu
c e l a t o d a d e c o r a z i o -
ni barocche progettate da Domenico
Antonio Vaccaro, Gaetano Buonocore e
da Giovanni del Gaizo. La volta fu de-
c o r a t a d a s t u c c h i
e affreschi di Francesco De Mu-
ra, Giuseppe Bonito,Sebastiano Con-
ca e Paolo de Maio. Il bombardamen-
to alleato del 1943 distrusse il tetto e
la decorazione barocca, mentre le ope-
re scultoree furono totalmente o par-
zialmente danneggiate; quelle soprav-
vissute, dopo la ricostruzione, furono
spostate in un altro luogo, tranne il
pavimento disegnato da Ferdinando
Fuga.
L'interno risulta attualmente formato
da un'unica navata rettangolare, disa-
dorna e senza transetti, con dieci cap-
pelle per lato. Nella zona presbiteriale
sono posti sulla parete di fondo
il sepolcro di Roberto d'Angiò, opera
dei fiorentini Giovanni e Pacio Bertini.
Ai lati del sepolcro del re ci sono quelli
di Maria di Durazzo e del primogeni-
to Carlo, Duca di Calabria ,databili
1311-1341 con il primo attribuito ad
ignoto maestro durazzesco, mentre il
secondo a Tino di Camaino. Sulla pare-
te sinistra del presbiterio invece vi è
il Sepolcro di Maria di Valois, databile
1331 ed anch'esso del Camaino. Di
fronte ai monumenti funebri invece vi
è il trecentesco altare maggiore di
autore ignoto, con un crocifisso ligneo
del XIV secolo, di ignoto autore proba-
bilmente senese. A destra del presbite-
rio vi è l 'accesso alla baroc-
ca sagrestia con affreschi e arredi mo-
biliari risalenti al 1692; in una sala
adiacente si può ammirare un panno
ricamato del XVII secolo. Altri due am-
bienti di passaggio, il primo decorato
da maioliche del XVIII secolo e il secon-
do con affreschi di un pittore fiammin-
go del XVI secolo, si passa di fronte ad
18
una scalinata chiusa al pubblico che
sale al convento e quindi, per un porta-
le gotico, si accede al "Coro delle mo-
nache".
Sulla controfacciata si trova al lato
sinistro il Sepolcro di Agnese e Clemen-
za di Durazzo, opera di Antonio Baboc-
cio da Piperno, sulla destra invece resti
di un affresco vicino a Giotto.
Nelle venti cappelle ci sono principal-
mente sepolcri monumentali realizzati
tra il XIV e il XVII secolo, appartenenti
ai personaggi di nobili famiglie napole-
tane.
Chiesa San Giovanni a Carbonara La chiesa di San Giovanni a Carbonara è
senza ombra di dubbio uno degli esem-
pli più chiari e ben riusciti dell’archi-
tettura gotica del centro storico di Na-
poli.
E' ubicata in Via Carbonara, in zona
extra-moenia, vicino all'antica muraglia
aragonese, sul lato orientale dela città
che conserva gli elementi più preziosi
che si custodiscano in città.
Via Carbonara non è solo una strada
ricca per lo più di palazzi ottocente-
schi, innalzati durante i nuovi piani di
Carlo di Borbone, ma è anche un'area
di grande attrazione turistica, forse
fuori dai classici itinerari, ma che per
l'importanza, la bellezza e il prestigio
merita ampiamente una visita.
Il complesso di apre con un imponente
doppia scalinata in Piperno disegnata
dall'architetto Ferdinando Sanfelice nel
1707
famoso architetto che proprio in questi
anni darà i migliori frutti a Napoli. Ol-
trepassato il cancello, si accede alla
Barocca
Chiesa di Santa Sofia (il nome prende
dal tracciato del Decumanus Superior -
Via Santa Sofia).
Sulla sinistra si accede nella chiesa di
San Giovanni a Carbonara. Iniziata nel
1343, completata nel 1400 per volere
del Re Ladislao, famiglia Angioina, am-
pliata e rimaneggiata successivamente
nel XVIII secolo.
La facciata è dominata da un portale
gotico, la cui lunetta è stata affrescata
da un pittore lombardo.
Navata rettangolare con aggiunte di
varie cappelle, mostra ancora l'ossatura
gotica, particolarmente nel Presbiterio.
Oltre ai dipinti, di grande importanza è
il monumento funebre al Re Ladislao
elevato dalla sorella Giovanna II che gli
successe al trono è alto 18 metri, pre-
senta cuspidi e archi trilobi gotici. Al-
tro elemento prestigioso è la Cappella
Caracciolo del Sole con meravigliose
decorazioni, imponente la cupola e uno
straordinario pavimento a mattonelle
maiolicate di stile toscano.
San Giovanni a Carbonara è un gioiello
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da tutelare, conservare e promuovere.
L'interno è a croce latina con un'uni-
ca navata rettangolare, il soffitto
a capriate e l'abside coperta a crociera
con cappelle aggiunte in tempi poste-
riori. L'altare maggiore con balaustra
(1746) presenta una pavimentazione a
marmi policromi ed è posto tra due
finestroni a linea tipicamente gotica.
Il complesso presenta sculture e pitture
di gusto prevalentemente gotico e rina-
scimentale. Nella zona absidale domina
il monumento funebre a re Ladi-
slao mentre per la sacrestia furono
composte nel 1546 sedici tavole
del Vasari con la collaborazione
di Cristoforo Gherardi oggi al museo di
Capodimonte; del pittore aretino è
rimasta nella chiesa, accanto al monu-
mento a re Ladislao, una Crocefissione.
Sull'altare maggiore vi è invece la sta-
tua della Madonna delle Grazie di Mi-
chelangelo Naccherino (1578) e dello
stesso autore sono altri monumenti
funebri ed una Madonna col Bambino.
Di Bartolomé Ordoñez è infine l'Altare
dell'Epifania del 1517 circa.
Napoli tra superstizione e leggende
Fino adora come un filo d’Arianna si è
cercato di creare connessioni tempora-
li ed emozionali tra Napoli, città non
solo dai mille volti, mille stili artistici
ma anche città misteriosa e affascinan-
te. La città partenopea è ricca di su-
perstizioni che la rendono per certi
aspetti spaventosa. Antiche storie di
chiese sconsacrate, spettri che si agi-
rano nei palazzi vecchi e abbandonati,
presenze quali “o munaciello”, popola-
no i vicoli della città, vengono bisbi-
gliate e sussurrate tra gli abitanti e
tramandate di padre in figlio. Scrittori,
poeti, cantautori, di qualsiasi città o
nazionalità di appartenenza hanno
contribuito ad arricchire questo aspet-
to del capoluogo partenopeo. Di segui-
to solo alcune delle numerose leggende
che contribuiscono a rendere Napoli
una delle più belle e affascinanti capi-
tali europee.
Le chiese sconsacrate
A Napoli sono presenti tantissime chie-
se sconsacrate, molte delle quali pur-
troppo ancora chiuse al pubblico, ma
in procinto di essere di nuovo riaperte,
per essere rivisitate dai turisti o riuti-
lizzate come punti di informazione o di
ritrovo, utili nel sociale.
Le chiese di una città sono la testimo-
nianza del suo glorioso passato, ma
soprattutto possono costituire un po-
tente mezzo di sviluppo perché in gra-
do di attirare, come ai tempi eroici del
Grand Tour, un esercito di forestieri.
Si tratta di edifici più o meno noti co-
me Sant’Agostino alla Zecca o Santa
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Maria delle Grazie a Caponapoli, come
la Sapienza o Santa Maria del Popolo
agli Incurabili, ma anche tante altre,
come Sant’Aspreno ai Crociferi, l’Im-
macolata a Pizzofalcone, San Giuseppe
a Pontecorvo, la Scorziata, la Disciplina
della Croce, i Santi Severino e Sossio, i
Santi Cosma e Damiano ai Banchi Nuo-
vi, Santa Maria Vertecoeli.
Su queste chiese aleggiano leggende e
miti, con vergini e draghi che bisogna
rammentare assieme a cenni su quando
e da chi furono edificate.
San Giovanni Maggiore, che nel I secolo
fungeva da tempio pagano, Fatto erige-
re dall’imperatore Adriano in onore di
Antino. Nel IV secolo poi l’imperatore
Costantino trasformò il tempio in chie-
sa che volle dedicare a San Giovanni
Battista per essere poi arricchita da
quadri e suppellettili.
La chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli
sorge su una piccola altura dove vi era
un boschetto utilizzato spesso per le
sfide a duello e dove molti pensavano
che vi fosse la tomba della sirena Par-
tenope, fondatrice della città e cono-
sciuta dal popolino come “’a capa ‘a
Napule”.
Un’altra leggenda ci parla di un’edicola
votiva pendente da un albero, davanti
alla quale una donna sterile venne ad
impetrare la grazia di un figlio, che
dopo poco nacque e venne battezzato
col nome di Agnello, in vernacolo Aniel-
lo, il quale da grande ascese alla gloria
degli altari.
La chiesa dei Santi Cosma e Damiano
ai Banchi Nuovi, entrambi medici, ven-
ne per esempio edificata nel 1616
dall’associazione dei barbieri e la cosa
non deve destare meraviglia, perché a
quell’epoca e per lungo tempo questi
artigiani svolgevano anche attività sani-
tarie.
Trecento vergini di nome Immacolata
frequentavano nel ‘500 una chiesetta
denominata del Rosario, sulla collinetta
di Pizzofalcone, frequentata dai soldati
spagnoli lì acquartierati. Nel 1850 il re
Ferdinando II la fece completamente
riedificare ed in ricordo dell’antica
frequentazione le impose il nome di
Immacolata a Pizzofalcone.
Orefici e gioiellieri, quasi tutti genove-
si, fondarono nel 1857 in via Medina
una chiesa, San Giorgio dei Genovesi.
Oltre a questi artigiani molto ricchi vi
era una vasta colonia di liguri, abilissi-
21
mi nell’attività di ristoratori. Infatti ai
napoletani piaceva molto la carne alla
genovese. Cuochi e camerieri si recava-
no a pregare nella cappella dell’infer-
meria di Santa Maria la Nova prima
dell’edificazione della loro chiesa, la
quale divenne famosa perché sull’alta-
re maggiore troneggiava un dipinto
raffigurante San Giorgio mentre trafig-
ge un drago.
In via Medina si trova anche la celebre
chiesa della Pietà dei Turchini, fondata
nel 1592, a cui era annesso un orfano-
trofio i cui componenti erano avviati
allo studio della musica indossando un
abito talare di colore turchino. Tra gli
allievi vi fu il grande Alessandro Scar-
latti e nella chiesa fu dato l’ultimo
saluto ad Aurelio Fierro.
IL Complesso degli Incurabili
Il complesso degli Incurabili è un sito
monumentale di Napoli ubicato
nel centro storico, non lontano dal de-
cumano superiore (ora via dell'Antica-
glia).
Dal 2010 una parte del complesso, in-
clusa la storica farmacia e la chiesa di
Santa Maria del Popolo, fa parte del
"museo delle arti sanitarie di Napoli". Il
complesso, di epoca rinascimentale,
comprendeva originariamente:
la chiesa di Santa Maria del Popolo
la chiesa di Santa Maria Succurre Mise-
ris dei Bianchi
lo storico ospedale di Santa Maria del
Popolo degli Incurabili.
Col tempo ingloberà anche la chiesa di
Santa Maria delle Grazie Maggiore a
Caponapoli e l'omonimo chiostro,
il complesso di Santa Maria della Con-
solazione, la chiesa di Santa Maria di
Gerusalemme e il chiostro delle Tren-
tatré.
Santa Maria del Popolo
La chiesa di Santa Maria del Popolo è
caratterizzata da un interno ad aula
unica con cappelle, decorato con stuc-
chibarocchi; gli altari delle cappelle
sono in marmo bianco, mentre quello
maggiore, opera di Dionisio Lazzari, è
in marmo commesso. Accanto all'altare
magg iore è posto un sepol -
cro r inasc imenta le real izzato
da Giovanni da Nola.
Gli affreschi della chiesa furono portati
a termine tra il XVI ed il XVIII secolo; le
principali opere pittoriche sono
di Giuliano Bugiardini, Marco Cardi-
sco, Francesco De Mura, Marco Pi-
no, Giovanni Battista Rossi e Carlo Sel-
litto. Nella Cappella Montalto è posta
un'opera di Girolamo D'Auria.
Nella sagrestia ci sono dei notevoli
pezzi di arredo risalenti al 1603 e la
volta fu affrescata ancora dal medesi-
mo Giovanni Battista Rossi.
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Santa Maria dei Bianchi
La chiesa di Santa Maria dei Bianchi (o
congrega dei Bianchi della Giustizia) è
l'altro edificio sacro inglobato nel com-
plesso degli Incurabili. Il nome della
confraternita e quindi della chiesa fa
riferimento al colore dell'abito dei reli-
giosi ed al loro specifico ufficio, ovvero
l'assistenza ai condannati a morte.
La chiesa, insieme alla congregazione,
venne fondata nel 1473 da san Giacomo
della Marca e nel 1519, grazie all'ap-
poggio di papa Paolo IV, venne ingradi-
ta e restaurata. Nel XVI secolo la con-
gregazione, trasferitasi nella Santa
Casa degli Incurabili, divenne nota
nel Regno e fuori grazie alla sua attivi-
tà. Nel 1583 il re Filippo II ne ordinò lo
scioglimento poiché essa generava so-
spetti nelle autorità spagnole a causa
della segretezza nella quale si svolgeva
la sua opera. Nel 1673 vennero esegui-
te nella chiesa modifiche e restau-
ri barocchi su progetto di Dionisio Laz-
zari.
L'ingresso alla chiesa si trova su una
scala in piperno devastata; l'ingresso è
costituito da un portale anch'esso in
piperno. L'elemento architettonico di
spicco è la settecentesca scala a tena-
glia che dal cortile degli Incurabili sale
all'ingresso secondario della chiesa, e
che oggi versa in stato di degrado.
Nell'interno una effimera decorazione
barocca composta da affreschi sulla
volta; nelle fasce laterali vi so-
no efebi che hanno funzione
di telamoni, ai quali si alternano con-
chiglie con figure allegoriche. Sull'alta-
re è posta una statua del -
la Vergine diGiovanni da Nola, mentre
la volta fu affrescata da Giovan Batti-
sta Beinaschi. Nella sagrestia si trovano
a f f r e s c h i d i P ao l o De Ma t -
teis raffiguranti membri eminenti della
confraternita.
Chiesa della Monaca di Legno e la
chiesa della Riforma
La chiesa della Monaca di Legno e la
chiesa della Riforma, sono due piccole
strutture storico-religiose inglobate nel
complesso degli Incurabili che facevano
dapprima parte di due monasteri distin-
ti.
La prima prende la propria denomina-
zione dal cognome di una delle prime
suore che qui dimorarono; ma la leg-
genda vuole che una suora, tentando di
uscire dal monastero, restasse ferma
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come una statua di legno. Col decennio
francese, la chiesa fu abbandonata, per
poi essere concessa alla Confraternita
della Visitazione di Maria, che vi collo-
cò un quadro ovale della Vergine
(opera di Paolo De Matteis). Nel 1867, i
frati si trasferirono nel monastero di
Donnaregina, portando con sé l'opera
d'arte. La cappella fu quindi ceduta ad
un'altra congrega.
L'altra chiesina, è chiamata della Rifor-
ma perché la fondatrice del complesso,
Maria Longo, qui raccoglieva le donne
di mondo, dette anche della Buona
Morte, per "riformarne" la vita e con-
durle sulla retta strada. Nel decennio
francese, queste furono trasferite nel-
la chiesa delle Trentatré e la cappella
fu concessa alla Congrega di Santa Ma-
ria Regina Paradisi, poi a quella dei
Cucchi. I due monasteri, espulse le
suore, nel 1813 passarono a far parte
dell'ospedale.
Chiesa di San Giuseppe delle Scalze a
Pontecorvo
L ' e d i f i c i o f u c o s t r u i t o
nel 1619 occupando l'area di palazzo
Spinelli a Pontecorvo ed ebbe un im-
portante rifacimento tra il 1643 e
il 1660 ad opera di Cosimo Fanzago.
Ulteriori decorazioni furono apposte
nel 1709, su progetto di Giovanni Batti-
sta Manni, con l'esito di un generale
danneggiamento della facciata e
dell'interno originari, ridecorata negli
interni intorno al 1903 per il crollo
della volta a causa dell'incuria.
La chiesa appartenne prima alle mona-
che Teresiane e successivamente vi
ebbero i loro offici i padri barnabiti.
Il terremoto del 1980 fece crollare il
tetto a capriate trascinando con sé il
controsoffitto affrescato, i cui fram-
menti residui si persero col passare del
tempo a causa dell'assenza di una co-
pertura che impedisse l'entrata di piog-
gia e il deterioramento dell'interno.
Negli anni novanta fu costruito l'attua-
le tetto a capriate in legno. Tuttavia la
chiesa fu depredata di molti arredi
sacri e decorazioni, come marmi e
balaustre. L'ipogeo è stato profanato.
Attualmente la chiesa mostra i danni
causati dalle intemperie e necessita di
una ristrutturazione complessiva, in
particolare della facciata. Tuttavia la
stabilità dell'edificio permette ad alcu-
ne associazioni di tenere aperta la
chiesa (e sfruttare gli ambienti del
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complesso per attività ludiche e ricrea-
tive.
Sant’Aniello a Caponapoli
Il toponimo della zona è dovuto alla
chiesa di Sant’Agnello Maggiore nota
appunto come Sant’Aniello a Capona-
poli, era la parte più alta della
“Neapolis” sorta nel V secolo a.c.
quando gli antichi coloni si spostarono
nell’attuale zona dopo che fu abbando-
nata Palepolis, l’antica Partenope,
ubicata tra il Monte Echia e Pizzofalco-
ne, da loro fondata nel VII secolo a.c.
non più sicura dagli attacchi dei predo-
ni che venivano dal mare. Prima di
parlare dei rinvenimenti archeologici
passiamo a narrare la storia della chie-
sa e del luogo: lo descrive così il Cano-
nico Carlo Celano “vedesi una bellissi-
ma piazza detta S. Aniello che serve da
delizia in estate per i Napoletani poi-
ché oltre delle aure fresche che in essa
si godono, le nostre amene colline for-
mano alla vista un teatro molto diletto-
so, e la sera in questo luogo si vedono
adunanze di uomini eruditi e lettera-
ti” ,infatti l’aria di questa collina era
ritenuta la più salubre di Napoli, e die-
de luogo al detto: “Coppole pè cappiel-
le, e case ‘a sant’Aniello“, ossia con-
tentarsi di vivere modestamente, ma
respirare l’aria di Sant’Aniello.
Sant’Agnello, o Sant’Aniello, era un
vescovo di Napoli del VI secolo ed ave-
va salvato più di una volta la città dalle
invasioni barbariche. Proclamato santo,
divenne il settimo patrono della città,
molto venerato dai napoletani, e nel
1628 fu assurto a protettore del Regno
di Napoli. Si narra che i suoi genitori
venissero in questo luogo a pregar la
Vergine Maria affinché concedesse loro
la grazia di avere un erede che poi fu
Sant'Agnello e per grazia ricevuta fece-
ro costruire la chiesa di Santa Maria
Intercede a Caponapoli – ora non più
esistente - dove furono raccolti i resti
mortali dello stesso Santo.
Le prime notizie certe della chiesa di
Sant’Agnello Maggiore e del convento
risalgono al 1058. Nel 1517 essa inglobò
anche quel che restava della chiesa
dove era sepolto il Santo. La sua deca-
denza iniziò nel 1914 quando venne
spostata la sede della parrocchia e le
sue opere d’arte trasferite presso la
chiesa di Santa Maria di Costantinopoli,
ma il suo attuale stato di abbandono e
di devastazione è conseguenza dell’in-
discriminato e gratuito bombardamento
alleato del 1943 che polverizzò tutta la
zona antica della città, priva di obietti-
vi militari, e poi dai consueti furti van-
dalici e da un interminabile cantiere di
scavi archeologici iniziati nel 1962 e
terminati solo pochi anni fa. Oggi vi
rimane (ma fino a quando?) solo il gran-
de altare opera di Girolamo Santacro-
ce, capolavoro del rinascimento napo-
letano del 1524, straziato e sfregiato
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dai furti.
La zona è ricca di reperti archeologici
ai quali solo oggi è stata ridata valenza
culturale; era la collina su cui sorgeva
“l’Acropoli” a nord ovest della Neapo-
lis, con destinazione religiosa che si
riempì di templi in marmo, tanto da
meritare l’appellativo di “Regio Mar-
morata” che le rimase fino al Medioevo
quando ancora erano visibili i resti di
alcuni templi: quello del Dio Sole, di
Demetra, di Apollo e di Diana, que-
st’ultimo, identificato con l’attuale
chiesa di Santa Maria della Pietrasanta.
Qui si svolgevano i fondamentali riti
religiosi, si veneravano le divinità della
città, si svolgevano i sacrifici e le pro-
cessioni che si inerpicavano sulla via
“Sacra” probabilmente corrispondente
all’attuale via del Sole, oggi delimitata
dalla caserma dei Vigili del Fuoco e
dalla sede del vecchio Policlinico.
Sant’Aspreno ai crociferi
La chiesa di Sant'Aspreno ai Crociferi è
uno storico luogo di culto di Napoli; si
erge nell'omonima piazzetta nel cosid-
detto Borgo dei Vergini. La struttura
religiosa fu costruita nel 1633 e, dan-
neggiata dalle lave, venne ricostruita
nel 1760 grazie a Luca Vecchione. Per
la nuova ricostruzione furono presenta-
te varie proposte architettoniche, la
più famosa delle quali fu certamente
quella di voler realizzare un tempio a
pianta stellare, secondo il progetto di
Ferdinando Sanfelice. Tuttavia, alla
fine della disputa, l'edificio venne
eretto con pianta a croce latina, con
cappelle laterali e navata unica; ele-
mento architettonico di spicco è sicu-
ramente l'impostazione centrale della
possente cupola. La facciata è prece-
duta da una bella scalinata, creata in
pietra lavica; questa venne costruita
affinché la chiesa venisse rialzata ri-
spetto alla quota stradale, visto che il
tempio era stato più volte invaso da
torrenti di varia natura. La facciata
vera e propria propone due ordini arti-
colati da lesene composite (decorate
completamente in stucco) e raccordati
da volute. L'ingresso secondario è ca-
ratterizzato dal portale riccamente
decorato, testimone di una indubbia
influenza del rococò. Il tempio conser-
va un interno prettamente barocco,
26
molto bello e finemente decorato, di
particolare pregio è la bella cupola
caratterizzata da una geometrizzazione
degli ornamenti; attualmente la chiesa
è chiusa e versa in stato di abbandono.
Le sue scalinate spesso sono rifugio di
mendicanti. Questo piccolo borgo è di
fatto l’epicentro storico della leggen-
daria sepoltura negli ipogei greci di
questo comparto del primo vescovo di
Napoli, Sant’Aspreno, ed i padri Croci-
feri, proprietari dell’immobile, furono i
medesimi fondatori della chiesa delle
Crocelle al Chiatamone.
Esso rappresenta il primo varco su via
Foria, aperto come libero accesso a via
dei Vergini e via dei Miracoli, che con-
duce all’omonimo comparto alle sue
spalle, ed un’ assegnazione di caratteri
polifunzionali lo distinguono nettamen-
te dai comparti afferenti via Mario Pa-
gano, strada aperta nell’Ottocento a
sostegno della piazza dei commestibili
dei Vergini e delle chiese di Santa Ma-
ria della Misericordia e Santa Maria
Succurre Miseris.
Il toponimo Crociferi sembra non giusti-
ficarsi affatto, per la presenza sul po-
sto della chiesa delle Crocelle, che,
stante alle vedute della città di Napoli,
prima del Lafrery del 1566 che lo pre-
senta priva dell’immobile, e poi della
veduta di Alessandro Baratta del 1629
che invece lo edita con una fila di case
che marcano il fronte della strada e
subito dietro orti e giardini, ma ancora
senza chiesa, è verosimile credere gli
sia stato dato il nome di Crociferi solo
al sopraggiungere degli stessi padri
Ministri degli Infermi nel 1633.
Il borgo è praticamente piccolissimo,
con appena una micro rete di vicoletti
che ne segnano i confini al di qua e al
di là degli accessi speculari al quartiere
della Stella e lo stringono fino all’ordi-
ne di piazzetta dei Crociferi, sulla qua-
le, affaccia la chiesa dei Crociferi, fac-
ciata a doppio ordine, incassata nella
quinta scenica ed arretrata rispetto ai
corpi di fabbrica prospicienti l’omoni-
ma stradina. Significativo resta, alla
fine, la storia di questo piccolo borgo a
partire dalla storia stessa della chiesa
attorno alla quale sembra tutto ruota-
re.
Si evince dai testi, infatti, che al di-
scendere delle lave d’acqua piovana, la
chiesa a mano a mano venne quasi del
tutto sepolta, segno, evidentemente,
che l’attuale facciata in sostanza
dev’esser stata rialzata di quota rispet-
to alle sue fondamenta.
La chiesa fu dunque ricostruita, nel
1760, a spese del matematico Antonio
Monforte, forse probabilmente solo
allora, dovette esser stata consacrata a
Sant’Aspreno, ”primo christiano e pri-
mo vescovo della città di Napoli”.
Esiste un progetto autografato Ferdi-
27
nando Sanfelice che prevedeva la rico-
struzione dell’immobile sacro a pianta
stellare, che, per motivi economici non
fu mai realizzato. L’incarico di rico-
struire la chiesa fu affidato all’archi-
tetto Luca Vecchione con la direzione
dei lavori al fratello Bartolomeo . In un
rilievo quindi del Settecento, la chiesa
di Sant’Aspreno appare a croce latina,
una sola navata, con transetto, quattro
cappelle per lato ed una cupola molto
alta, unico elemento architettonico
emergente della fabbrica stretta tra i
palazzi di seconda fondazione
Chiesa dei Santi Cosma e Damiano ai
Banchi Nuovi
La chiesa dei Santi Cosma e Damia-
no ai Banchi Nuovi è una chiesa monu-
mentale di Napoli ubicata il largo Ban-
chi Nuovi . La chiesa sorge nel punto
dove prima esisteva la loggia dei Banchi
Nuovi. L'edificio venne fondato
nel 1616 e ampliato nel corso
del secolo; alle strutture venne fatto
un restauro diretto dall'ingegnere Luigi
Giura che la ampliò ulteriormente.
La facciata utilizza l'impianto del pree-
stistente edificio: si notano infatti
gli archi a tutto sesto della loggia cin-
quecentesca. Nei tompagni laterali si
aprono due botteghe, mentre nel cen-
trale si apre il portale secentesco inpi-
perno sormontato da un finestrone po-
lilobato in stucco del Settecento; lo
schema della facciata è scandito dalla
presenza quattro lesene rialzate da un
basamento.
Nell'interno c'è l'altare settecentesco
su l qua le è posta una te la
del Donzelli e una della scuola di Luca
Giordano.
Le credenze popolari e leggende
La leggenda di Donnalbina, Donna Romi
ta, Donna Regina, corre ancora per
la lurida via di Mezzocannone, per le
primitive rampe del Salvatore, per
q u e l -
la pacifica parte di Napoli vecchia che
c o s t e g -
gia la Sapienza. Corre la leggenda per
quelle vie, cade nel rigagnolo,
s i r i a l z a , s i e l e v a s i n o
a l c i e l o , d i s c e n d e ,
si attarda nelle umide ed oscure navat
e d e l l e c h i e s e , m o r m o -
ra nei tristi giardini dei conventi,
si disperde, si ritrova, si rinnovella – ed
è sempre giovane, sempre fresca.
E r a n o l e
tre figlie del barone Toraldo, nobile de
l s e d i l e d i N i l o .
La madre, Donna Gaetana Scauro,
d i n o b i l i s s i m o p a r e n t a -
do, era morta molto giovane:
il barone si crucciava che il
suo nome dovesse estinguersi con es-
s o : p u re , n o n r i p r e s e m o -
28
glie. Ottenne come special favore dal r
e R o b e r t o d ' A n g i ò c h e l a
sua figliuola maggiore, Donna Regina,
pot e s se , una vo l t a convo l a -
t a a n o z z e , c o n s e r v a r e i l
suo nome di famiglia e trasmetterlo ai
s u o i f i g l i u o l i . E
nel 1320 si morì, racconsolato nella
f e -
de del Cristo Signore. Donna Regina ave
v a a l l o -
ra diciannove anni, Donnalbina diciasse
tte, Donna Romita quindici.
La maggiore, aveva nell’anima una
g r a n d e a u s t e r i t à ,
un sentimento assoluto del dovere,
un'alta idea del suo compito,
una venerazione cieca del nome, del-
l e t r a d i z i o n i , d e i d i r i t t i ,
d e i p r i v i l e g i . E r a l e i
il capo della famiglia, l'erede.
Donnalbina, la seconda sorella, veni-
va chiamata cosi dalla bianchezza ecce
zionale del volto ed era una fanciulla
a m a b i l e , m e n t r e D o n -
na Romita era una singolare giovinetta,
mezzo bambina e di animo irrequieto.
Nel palazzo in cui vivevano le tre sorel-
le tutto regnava tranquillo fino a quan-
do il re di Napoli D’Angiò non scrisse
una lettera alla sua priimogenea, per
comunicarle che le aveva trovato come
sposo, il cavaliere della corte napoleta-
na Filippo Capece.
Un giorno mentre Donna Regina leggeva
il libro delle sue preghiere le si avvici-
nò sua sorella Donn’Albina , rivelandole
le sue enormi preoccupazioni verso la
loro sorella minore, perché sembrava
soffrire di pene d’amore. L’uomo in
questione era proprio Don Filippo. In
realtà non solo Donn’Albina ma anche
la stessa Donna Romita erano profonda-
mente innamorate di Don Filippo Cape-
ce, e così da quel momento Donna Re-
gina cominciò a passare le sue giornate
a pregare la Madonna Bruna
(raffigurata nella chiesa di Santa Maria
del Carmine) affinché potesse dimenti-
care il suo amore. Le tre sorelle si per-
sero di vista perché tutt’e tre innamo-
rate contemporaneamente dello stesso
uomo, fin quando non si ritrovarono nel
periodo della Santa Pasqua, dove le
sorelle minori implorarono il perdono di
Donna Regina e ritenendo fosse indi-
spensabile intraprendere la vita mona-
cale. Donna Regina rispose che non
dovevano sacrificarsi perché lei aveva
scoperto che in realtà Don Filippo non
l’amava e così sarebbe stata lei quella
a prendere i voti e rinchiudersi in un
convento che lei stessa aveva fondato.
Così prese uno scettro d’ebano borchia-
to d’oro, lo spezzo in due parti, e rivol-
gendosi all’ultimo ritratto del Barone
Toralto disse che la sua casa era morta.
Per omaggiare questa storia d’amore
29
cosi triste a Napoli ci sono tre luoghi
con i nomi delle tre sorelle, Via Don-
nalbina in prossimità di piazza Matteot-
ti, via Donnaromita e Largo Donnaregi-
na adiacenti al duomo.
Maria D’Avalos
Nel maggio 1586 Napoli era governata
dagli spagnoli, quando nella chiesa di
San Domenico Maggiore, fu celebrato il
matrimonio tra Carlo Gesualdo, princi-
pe di Venosa e sua cugina Maria D’Ava-
los D’Aragona. Era allora abitudine
delle famiglie nobili, sposarsi tra con-
sanguinei per non disperdere il patri-
monio. Naturalmente date le premesse
non fu di certo un matrimonio d’amore,
visto che l’unico motivo era quello di
procreare un erede che succedesse ed
ereditasse il titolo e le ricchezze. Don-
na Maria era già convolata a nozze ben
due volte, rimasta vedova con due figli,
era certamente una donna fertile. L’e-
rede si chiamò Emanuele, e nel giro di
un paio di anni il principe Carlo potè
ritornare alla sua antica passione, vale
a dire la musica. Principe Carlo produ-
ceva dei bellissimi madrugali, ma pur-
troppo nella vita coniugale era un uo-
mo rozzo, avvezzo a manifestare in
maniera ossessiva il suo amore per Ma-
ria. Quest’ultima fu presto delusa dalla
sua vita matrimoniale, accettò il cor-
teggiamento di Fabrizio Carafa, duca
D’Andria e Conte di Ruvo. Questa rela-
zione durò all’incirca due anni prima
che il principe Carlo se ne accorgesse,
o quanto meno cominciasse ad averne
il sospetto. I due amanti furono scoper-
ti dallo zio del principe Carlo che a sua
volta aveva tentato di sedurre Maria
ma non ci era riuscito, così decise di
vendicarsi. Don Carlo tese loro una
trappola, fece finta di partire, e in
realtà mandò da loro dei sicari, mentre
lui aspettava nella stanza accanto.
Uccisi con diverse pugnalate i loro cor-
pi furono esposti nudi in pubblico, e
tutti accorsero il giorno dopo per assi-
stere allo scempio. Ancora oggi sembra
ancora di sentire in alcune mattinate
tranquille e silenziose l’urlo di Maria
prima di essere uccisa brutalmente,
nella piazza di san Domenico Maggiore,
tra l’obelisco e il celebre Palazzo di
Sangro dei Principi di Sansevero. Nel
1889 crollo l’ala del palazzo dove fu
commesso l’omicidio e si narra che
solo così lo spirito di Maria riuscì a tro-
vare un po’ di pace. Ma nelle notti di
luna piena pare sia possibile scorgere
ancora oggi una figura evanescente di
donna, che con vesti succinte si aggire-
rebbe dolente alla ricerca del suo eter-
no amante Fabrizio. Anche il celeberri-
mo poeta Torquato Tasso gli ha dedica-
to dei versi molto affascinanti :
30
<Piangete o grazie, e voi Amori, feri
trofei di morte, e fere spoglie di bella
coppia cui n’vidia e toglie, e negre
pompe e tenebrosi orrori… la bella e
irrequieta Maria >.
Donn’Anna Carafa
Il Palazzo Donn’Anna fu edificato nel
cinquecento è un grosso edificio che si
erge nel mare di Posillipo. Uno dei pri-
mi proprietari fu Dragonetto Bonifacio,
poi diventò di proprietà dei Ravaschieri
e dopo il 1571 fu acquistato da Luigi
Carafa di Stigliano. Uno dei discendenti
dei Carafa, Antonio, sposò Elena Aldo-
brandini, nipote di Clemente VIII, ed
ebbe tre figli: Onofrio, Giuseppe ed
Anna. Purtroppo la giovane Anna non
ebbe una vita facile perché in giovane
età perse in pochissimo tempo il padre
e i due fratelli, e visse con la madre e i
nonni. Quando nel 1636 sposò il vicerè
spagnolo Filippo Ramiro Guzman, Duca
di Medina, Donn’Anna ereditò il palaz-
zo. Una famosissima scrittrice italiana,
Matilde Serao scrisse nelle sue Leggen-
de Napoletane, riferendosi al palazzo:
< sotto le sue volte s’ode solo il fragor
del mare...le sue finestre alte, larghe,
senza vetri, rassomigliano ad occhi
senz’anima>.
Tanti anni fa dalle finestre del palazzo
splendevano vivide luci, numerose bar-
che erano ormeggiate li attorno e la
nobiltà spagnola e partenopea accorre-
va numerosa alle splendide feste
dell’altera Donna Anna Carafa. Anna
era una donna bellissima e raffinata,
contesa da nobili e personaggi illustri,
ma la sua inesauribile brama di potere
aveva contribuito a crearle diverse
ostilità Quella sera, alla festa ci sareb-
be stata una rappresentazione teatrale,
una commedia e una danza moresca e
gli attori come da moda francese in
voga in quegli anni sarebbero stati
membri della stessa nobiltà. Tra gli
attori c’era anche donna Mercede de
las Torrres, nipote spagnola di Anna, ed
era una ragazza molto bella e affasci-
nante, e doveva interpretare il ruolo di
una schiava innamorata del suo padro-
ne, che muore per salvare la vita al
suo amato. La ragazza recitò con gran-
de trasporto accanto al suo compagno
di scena Gaetano di Casapesenna che
interpretava a sua volta la parte del
31
cavaliere. Infatti nella scena finale
dove lei avrebbe dovuto separarsi dal
suo innamorato lo baciò con così tanto
trasporto che applaudi commossa tutta
la platea, tutti tranne Anna, che fu
improvvisamente mossa da gelosia in
quanto Gaetano di Casapesenna era
stato il suo amante. Nei giorni successi-
vi alla festa le due donne si ingiuriaro-
no profondamente fino a quanto la
ragazza scomparve improvvisamente e
tutti pensarono che fosse stata mossa
da un sentimento religioso e si fosse
chiusa in convento. Il giovane Gaetano,
innamorato di lei, la cercò ovunque, in
Spagna, Francia e Ungheria fin quando
non morì in battaglia prematuramente.
Il 7 maggio 1644 Guzman fu nominato
vicerè a Castiglia e Anna invece si ritirò
a Portici dove morì il 24 ottobre 1645
in totale solitudine.
La leggenda vuole che nel palazzo di
Posillipo appaia di tanto in tanto lo
spettro di donn’Anna. Altri invece ri-
tengono che le oscure presenze siano
ad ascriversi alle anime in pena di Gae-
tano di Casapesenna e Mercede de Las
Torres, altri ancora ritengono invece
che nella struttura appaia il fantasma
della regina Giovanna I D’Angiò. Nelle
credenze popolari la regina Giovanna
d'Angiò avrebbe incontrato qui i suoi
giovani amanti, scelti fra prestanti
pescatori e con i quali trascorreva ap-
passionate notti di amore, per poi am-
mazzarli all'alba facendoli precipitare
dal palazzo; la leggenda vuole che le
anime di questi sventurati giovanotti
tuttora si aggirino nei sotterranei
dell'antica dimora, affacciandosi al
mare ed emettendo lamenti. Altri inve-
ce raccontano che la regina facesse
uscire il suo amante con una barca a
remi dall'entrata che dà sul mare,
quella che oggi è possibile vedere dalla
spiaggia, tuttora usata dagli inquilini
per accedere alle imbarcazioni. Co-
munque sia il palazzo ancora oggi, an-
che dopo le ristrutturazioni, presenta
ancora un alone di fascino e mistero.
Chiesa di Sant'Arcangelo a Baiano
La chiesa ha origini molto antiche;
infatti, sembra sia stata fondata insie-
me al monastero attiguo verso la fine
del VI secolo da una comunità di basi-
liani, passando poi alle monache bene-
dettine. Nel XIII secolo venne rifatta su
commissione del re Carlo I d'Angiò,
c o s t i t u e n d o l a p r i m a o p e -
32
ra angioina della città. Il re si prodigò
anche di donare alle monache del con-
vento, le reliquie di San Giovanni Batti-
sta.
Secondo la tradizione, nel monastero si
ritirò Maria d'Angiò figlia di Roberto
d'Angiò e Fiammetta di Boccaccio. La
chiesa venne rimaneggiata anche
nel XVII secolo con la costruzione della
piazzetta antistante.
Il monastero annesso alla chiesa ebbe
vita breve, poiché fu soppresso
nel 1577 a causa delle gravi accuse di
condotta immorale e delittuosa mosse
alle monache come ricorda an-
che Benedetto Croce: « Di orrenda me-
moria, ma per diversa ragione, non
perché infestato di spiriti ma perché
bruttato da fatti di libidine e di sangue
e di sacrilegio, era il vicolo di Sant'Ar-
cangelo di Baiano, dove si vedeva anco-
ra la chiesa superstite dell'antico mo-
nastero di monache benedettine, aboli-
to nel 1577. »
Il filosofo racconta anche di un giovane
pittore che, per volontà del principe
di Fondi, dipinse un quadro raffigurante
i vari scempi che accadevano nel mona-
stero. L'artista, a tal riguardo asserì:
« Anch'io, che qualcosa avevo letto di
quegli orrori nelle Leggende napoleta-
ne del Dalbono e altrove, provavo l'im-
pressione di calcare un suolo maledet-
to, quando la prima volta percorsi quel
vecchio vicolo ed entrai nell'ammoder-
nata chiesa. »
Anche Stendhal ne parlerà in un suo
famoso libro, intitolato: Cronaca del
Convento di Sant'Arcangelo a Baiano.
Lo scrittore francese, partendo proprio
dalle vicende di questo monastero, né
approfitterà per spiegare le numerose
vicende storiche patite dalla città e di
come queste, abbiano "schiacciato",
sotto un clericalismo intransigente e
"miope", una parte dei suoi abitanti.
Secondo la tradizione, tra le mura mas-
sicce di quella costruzione venne edu-
cata e si ritirò a viverci Maria d'An-
giò, figlia di Roberto d'Angiò; vi sog-
giornò inoltre anche la Fiammet-
ta amata da Giovanni Boccaccio ed il
convento fu anche citato nel Filocolo –
etimologicamente Fatica d'amore – uno
dei lavori della giovinezza del poeta e
scrittore nato a Certaldo, pri-
mo romanzo avventuroso della lettera-
tura italiana, scritto in prosa ed
in volgare (mentre i romanzi delle ori-
gini erano costituiti da poemi scritti in
versi) durante il suo soggiorno
a Napoli, nel 1336.
Il monastero annesso alla chiesa ebbe
però vita breve. Nella seconda metà
del Cinquecento – era l’anno 1577 –
notizie sulla corruzione in esso dilagan-
te cominciarono rapidamente a diffon-
dersi fino ad arrivare a tal punto da
33
provocare una reazione delle autorità
ecclesiastiche che portò alla chiusura:
causa scatenante dello scandalo era la
vita non certo “religiosa” delle giovani
monacate.
Era regola imperante nelle le famiglie
aristocratiche che tutte le figlie nate
successivamente alla primogenita do-
vessero ritirarsi giovanissime in conven-
to. La loro provenienza nobiliare non
era un ostacolo, anzi era addirittura
una condizione necessaria ed indispen-
sabile per entrare a far parte di un
convento di alto lignaggio. L’obbligo
imposto alle fanciulle di rinunciare ad
avere legami con il mondo, ad aspirare
di costruirsi una famiglia, a poter di-
sporre della propria sessualità, accop-
piato alla incontenibile voglia di liberti-
naggio dei giovani maschi in genere,
meglio ancora se dabbene e se proiet-
tati fuori dalle loro mura domestiche,
venne a formare una miscela esplosiva
di immense proporzioni.
Le cronache di quegli anni del mona-
stero di San’Arcangelo a Baiano tra
sedute esoteriche e messe nere più o
meno vere o presunte si ridussero
quindi a continui incontri sfocianti in
orge erotiche che le novizie napoleta-
ne, pare tutte belle e nobilissime, era-
no costrette ad avere nelle loro celle,
trasformate in confortevoli alloggi pri-
vati, con irresistibili nobiluomini più o
meno coetanei. L’assurdo della vicen-
da è che il cattivo esempio per tutto
ciò sarebbe stato dato dal comporta-
mento pubblico di un personaggio, lo
stesso che probabilmente fu costretto
ad ordinare la chiusura del convento,
cioè il viceré don Pedro da Toledo. Con
lo sgombero del monastero e la chiusu-
ra della chiesa non tardarono a farsi
vive le voci di apparizioni notturne
dietro le finestre schiuse della facciata
del palazzo, quindi mostranti l’ondeg-
giare di ombre inquiete vaganti nella
luce surreale degli interni ed al fruscìo
lento di affannosi lamenti.
Quella vicenda non poteva non richia-
mare l’attenzione delle penne di scrit-
tori e storici.
Vicoli di partenope
Figure sospese tra il mito e la storia: il
munaciello, la bella ’mbriana, i miti di
Virgilio. Fatti di Napoli, misteri tradot-
ti in realtà, episodi reali, talvolta im-
brattati di sangue e poi trasfigurati in
leggende ancora vive tra i vicoli della
bella Partenope. La città e il fascino
dell’occulto, una miscela unica dal
sapore antico, la cui origine si perde
nella notte dei secoli. Quali e quanti
storie hanno animato, nel corso dei
secoli, le notti dei Napoletani? Quali
e quanti racconti sono stati tramanda-
ti di padre in figlio fino a giungere ai
34
giorni nostri, praticamente intatti? Le
storie sono tantissime, amori finiti in
tragedia, storie senza un lieto fine o
passioni sconvolgenti che poi hanno
condotto gli amanti alla rovina, tutto
ciò è presente a Napoli e in ogni vicolo
di queste antiche stradine, così ricche
di storia, così misteriose.
Non è una storia di fantasmi, ma non
per questo merita di rimanere nascosta
la leggenda legata all’arco di Sant’Eli-
gio, uno dei luoghi simbolo della città
di Masaniello. Anche in questo caso si
tratta di un racconto che ha cominciato
a prendere piede nel corso del Seicen-
to, anche se i fatti narrati sembrano
portarci alla prima metà del Cinque-
cento. Tutto è legato alle due teste
scolpite nella cornice che si trova alla
base dell’arco, proprio sotto lo storico
orologio. Le teste, secondo la tradizio-
ne popolare, sarebbero quella di una
giovane fanciulla di nome Irene Malarbi
e quella del potente duca, Antonello
Caracciolo. Si narra che l’uomo, privo
di scrupoli, innamoratosi della giovane
vergine e vista l’impossibilità di poterla
fare propria, fece condannare senza
alcuna colpa il padre di lei, chiedendo
in cambio della sua liberazione le gra-
zie della fanciulla. A quanto pare Ca-
racciolo riuscì nel suo intento, ma la
famiglia della bella Irene non rimase
con le mani in mano e si rivolse
a Isabella d’Aragona, figlia del sovra-
no Ferdinando II, pur di ottenere giusti-
zia. La richiesta diede i suoi frutti.
Impietosita, la principessa condannò
infatti, Caracciolo alla pena di morte
per decapitazione, ma prima lo costrin-
se a sposare la giovane per poter ripa-
rare al torto subìto.
Il parco vergiliano
Il Vergiliano nel 1930 ha ricevuto la
"nomina" di Parco ed accoglie tra il
verde le tombe del poeta Giacomo Leo-
pardi e del poeta Publio Virgilio Maro-
ne. Poeta e mago, secondo le leggen-
de.
Una di queste innumerevoli dicerie
vede il poeta dell'Eneide, circa 40 anni
prima della nascita di Cristo, evocare
dal nulla un gruppo di demoni infuocati
affinché potessero scavargli una grotta
lunga un chilometro ai piedi di una
collina. Un'apertura come se fosse un
acquedotto che avrebbe rifornito le
città e i paesi circostanti.
35
Il lavoro si sarebbe completato in una
sola notte, se non fosse passato di lì un
cittadino che, gridando impaurito verso
i lampi di luce e il frastuono del lavo-
rìo, mise in fuga gli spiriti infernali che
si volatilizzarono nel nulla. Questi la-
sciarono il lavoro quasi ultimato, poi-
ché soltanto per altri 100 metri il tun-
nel sarebbe stato costruito.
E' così che nacque la Cripta Neapolita-
na, sita tra la tomba commemorativa di
Leopardi e il colombario che conteneva
(ma ora non più) le ossa di Virgilio.
Arrivati al Parco ciò che risalta subito
all'occhio è il particolare sentiero che
porta sino al colombario. Ai lati, sul
verde, sono poste delle indicazioni
scritte riguardo gli organismi vegetali
(alberi, piante, fiori) che si incontrano
lungo il tragitto, i quali hanno a che
fare con le opere del poeta (come, un
esempio tra tutti, l'alloro).
Sulla prima rampa in una nicchia è po-
sto il busto di Virgilio; alla seconda si
raggiunge la tomba di Leopardi che
costeggia la Cripta Neapolitana. Al cen-
tro delle due c'è una rampa di scale
che porta al corridoio che rappresenta
un acquedotto romano (dal quale è
possibile carpire alcuni dettagli dell'a-
pertura della Cripta altrimenti non
raggiungibili dalla vista). La rampa di
scale poi continua sin a raggiungere un
passaggio per il colombario in cui è
riposto un braciere e una corona d'allo-
ro, simboli commemorativi per il poe-
ta/divinatore.
L'entrata della Cripta Neapolitana è ad
oggi sbarrata da una cancellata che,
confrontando foto antiche e quelle
moderne, è stata resa sempre più alta
per non permettere l'ingresso ad alcu-
no.
E' perennemente chiusa al pubblico per
lavori in corso che non vengono com-
pletati.
Il motivo per cui non è permesso entra-
re, è la paura dei lavoratori che scap-
pano via terrorizzati in seguito all'a-
scolto di rumori e visioni mai sentiti e
viste prima.
I più superstiziosi parlano di alcuni
demoni che sono rimasti nascosti tra le
mura interne dopo che Virgilio li richia-
mò dagli inferi; c'è chi afferma di aver
sentito i suoni dei baccanali che si ce-
lebravano all'interno della grotta.
In entrambi i casi, per scongiurare il
riavvicinarsi delle credenze pagane e
delle paure per il maligno (e probabil-
mente anche per superstizione pura!),
furono installati al di fuori della Cripta
degli affreschi: una Madonna con Bam-
bino in braccio è visibile anche dal
basso, sul muro sinistro - inserita nel
1353 da Don Pedro di Toledo durante i
suoi riassestamenti territoriali per
scongiurare anche i riti orgiastici in
n o m e d i P r i a p o ; u n s a n t o
36
(probabilmente San Luca, come ci fu
indicato da un'esperta guida) è posto
sulla parete destra, visibile però attra-
versando il cunicolo più piccolo dell'ac-
quedotto romano, che corre parallelo
alla Cripta vera e propria.
Il Parco Vergiliano (che ricordiamo non
è il Parco Virgiliano su a Posillipo) è
una delle tante gemme della città, che
splende ancor di più per la presenza
della Cripta Neapolitana.
Ciò che più affascina però è il lato
oscuro, la leggenda della divinazione di
Virgilio.
La Chiesa della Madonna a Piedigrotta
Al numero 27 di Piazza Piedigrotta,
durante il cammino verso il Parco Ver-
giliano, sorge la Chiesa di Santa Maria a
Piedigrotta.
Nella seconda metà del 1300 l'architet-
to Albino ordinò la costruzione di que-
sto edificio sacro. In realtà una piccola
cappella fu costruita già dai pescatori
che dal borgo di Santa Lucia si trasferi-
rono nel borgo di Piedigrotta.
Nella cappella, semplicemente vuota,
scarna ed essenziale, fu eretta soltanto
una statua di legno, per pregare la Ma-
donna, la quale, vuole la leggenda,
fece visita in quel luogo alcuni secoli
dopo la nascita di Cristo. Improvvisa-
mente la Madonna apparve.
Si narra che precisamente il giorno 8
settembre, la Vergine apparve a tre
persone: una monaca, un eremita e un
monaco benedettino.
Da al lora, la umile cappella
"artigianale" che poi divenne chiesa a
tutti gli effetti dal 1307 (anno ufficiale
di inizio dei lavori) mantiene il nome
della Madonna di Piedigrotta, per bene-
dire tutti coloro che attraversano la
grotta per giungere ai Campi Flegrei o
tornare indietro.
Negli anni in cui prendeva piede il culto
cristiano della Madonna dell'Idria (così
veniva chiamata, come quella tipica-
mente siciliana), il culto pagano della
Crypta Neapolitana teneva testa ai
numerosi tentativi di cristianizziazione
di Don Pedro di Toledo.
E’ da notare che la Madonna di Piedi-
grotta è la stessa raffigurata nell'affre-
sco appena fuori l'ingresso chiuso della
Crypta Neapolitana, per allontanare i
37
rimanenti demoni che scavarono la
grotta per Virgilio, per distruggere ogni
tipo di superstizione, per rendere cri-
stiano un luogo pagano dove Priapo
veniva festeggiato con riti orgiastici.
Inoltre sulla facciata principale esterna
verso la piazza, in alto, vi sono delle
scritte in latino e una di queste frasi
dice: "Indulgentia Plenaria Quotidiana
Perpetua Pro Vivis Et Defunctis".
La chiesa di Santa Maria di Piedigrotta,
dedicata alla Natività di Maria, fu eret-
ta a partire dal 1352 e terminata
nel 1353, sul sito di una precedente
chiesa dedicata all'Annunciazio-
ne alla Vergine Maria costruita nel V
secolo, dove già si venerava un'immagi-
ne lignea della Vergine. Nei pressi sor-
geva anche la piccola ed ugualmente
antica cappella di Santa Maria dell'Itria,
nome derivante per deformazione da
"Odigitria", che è il nome di un partico-
lare culto ed aspetto mariano di origi-
ne bizant ina r iconosc ibi le da
una iconografia specifica, cioè col bam-
bino in braccio nell'atto di benedire, e
diffuso in tutto il sud dell'Italia, Questa
cappella fu costruita su un preceden-
te sacello del dio Priapo citato nel Sa-
tyricon di Petronio. Riti orgiastici eroti-
ci settembrini che si svolgevano antica-
mente, con danze e canti osceni intor-
no al simulacro del dio, anticiparono la
successiva festa di Piedigrotta. D'altra
parte ritrovamenti archeologici testi-
moniano con assoluta evidenza come
nell'area dell'attuale chiesa già si prati-
casse il culto di Mitria.
Nel 1453 il re Alfonso d'Aragona conces-
se la chiesa ai canonici lateranensi, per
essere poi restaurata nel 1520,
nel 1820 e nel 1853. In origine l'ingres-
so principale della chiesa era presso
l'altare maggiore, ma nel 1506 fu spo-
stata sulla facciata rivolta verso la
città.
Nel 1571 don Giovanni d'Austria, co-
mandante della flotta della Lega San-
ta, si recò in agosto a pregare la Ma-
donna di Piedigrotta prima del-
la battaglia di Lepanto e vi ritornò in
ottobre in ringraziamento, dopo avere
sconfitto la flotta dell'impero ottoma-
no. L'interno della chiesa fu rimaneg-
giato tra il 1809 ed il 1824 e
nel 1912 la chiesa fu eretta a parroc-
chia dal cardinale Prisco.
Chiesa di Santa Maria Maggiore alla
Pietrasanta
La chiesa di Santa Maria Maggiore alla
P i e t r a s a n t a è
una chiesa basilicale del centro stori-
co di Napoli; è tra le più interessanti
dal punto di vista storico ed artistico e
fu la prima chiesa della città ad essere
dedicata alla Vergine. Sorge dinnanzi
38
alla cappella dei Pontano e alla chiesa
dell'Arciconfraternita del Cappuccio
alla Pietrasanta.
L 'ed if ic io sorse ne l V I seco-
lo come basilica paleocristiana su una
struttura di epoca romana; la chiesa
attuale fu eretta tra 1653 e il 1678 su
progetto di Cosimo Fanzago che la rie-
dificò in chiave barocca. Notevole è
la facciata che è rimasta incompiuta al
secondo ordine, mentre il portale, rea-
lizzato da Pietro Sanbarberio, risale
al 1675.
Ulteriori restauri furono compiuti tra
il XVIII ed il XIX secolo; inoltre,
nel 1803 il complesso conventuale ven-
ne adibito a caserma dei pompieri. I
bombardamenti della seconda guerra
mondiale colpirono gravemente la
struttura religiosa ed il restauro fu por-
tato a termine nel 1976.
Venne chiamata "della Pietrasanta"
perché all'interno veniva custodita una
pietra che, quando la si baciava procu-
rava l'indulgenza. La tradizione vuole
che vi sia stato sepolto papa Evaristo.
Sorse, come molti edifici ecclesiastici,
per contrastare i vecchi riti romani
pagani: in quella zona era radicato
fortemente il culto per la dea Diana e
riservato alle sole donne (perché a que-
ste prometteva parti non dolorosi).
Gli uomini ne furono sempre più infa-
stiditi, tant'è che tali donne venivano
appellate col sostantivo di ianare, dia-
nare o sacerdotesse di Diana, in modo
dispregiativo. Furono infine bollate di
stregoneria, capaci di invocare il demo-
nio.
Forse qui nasce la leggenda del diavolo
travestito da enorme maiale che, tutte
le notti, si aggirava minaccioso per la
piazza e le strade limitrofe per spaven-
tare col suo diabolico grugnito i passan-
ti.
La leggenda fu efficace per poter per-
mettere al vescovo Pomponio, nel 533,
la costruzione della versione più antica
della Chiesa di Santa Maria Maggiore:
durante il sonno la Vergine si presentò
al vescovo e gli ordinò di costruire que-
sta basilica paleocristiana sul tempio
della dea Diana. Solo in questo modo
avrebbe sconfitto il porco.
Così fu, e ogni anno per molti secoli il
vescovo sgozzava affacciato alla fine-
stra della basilica un'enorme scrofa.
Suino che doveva essergli offerto dai
fedeli. La pratica è stata poi abbando-
nata perché ritenuta indecorosa.
Riguardo l'edificio, è stato numerose
volte restaurato: nella seconda metà
del 1600 fu ricostruita per mano dell'ar-
chitetto Cosimo Fanzano che le diede
uno sfarzo del tutto barocco e il porta-
le fu opera di Pietro Sanbarberio nel
1675.
39
Il pavimento fu ricostruito da Giuseppe
Massa nel 1764 e furono collocate sta-
tue dello scultore e pittore Matteo Bot-
tiglieri.
Per esigenze di spazio fu usata come
caserma dei pompieri all'inizio del
1800.
Nel 1976 furono ultimati i restauri ne-
cessari per rimetterla in sesto dopo i
bombardamenti nel secondo conflitto
mondiale.
Nonostante tutto ciò, non è mai stata
ritrovata la favolosa Pietra Santa (da
qui il nome alternativo della piazza e
della chiesa): una roccia capace di dare
l'indulgenza completa a chi la bacia.
La leggenda del sogno del vescovo
Pomponio si estende appunto alla Pie-
tra che la Vergine indicò ricoperta da
un leggero fazzoletto, proprio al di
sotto del tempio di Diana. Non era im-
portante trovarla, ma almeno costruirci
su la chiesa.
I resti del tempio di Diana, comunque,
sono ancora visibili dentro, fuori e nel-
la cripta della chiesa, come ad esempio
i frammenti di un antico mosaico roma-
no.
Il campanile della Pietrasanta: il più
antico campanile d'Italia. Costruito in
laterizio, classico esempio di architet-
tura romana, databile tra il X e l'XI
secolo. I resti in opus reticulatum alla
base sono una riprova dell'esistenza
dell'antico tempio della dea Diana che
fu eretta proprio in quella piazza.
E le effigi di marmo a forma di grugno
di maiale che si possono tutt'ora trova-
re nelle parti pù alte ricordano la leg-
genda del vescovo Pomponio.
Negli ultimi anni lavori di restauro han-
no rinvenuto, nella parte inferiore del
campanile, la tavola del gioco romano
"ludus latrunculorum", il gioco dei sol-
dati, un antenato del gioco della dama
o dell'Otello, e il feretro funebre del
naturalista Stefano delle Chiaie che,
divenuto direttore del Museo di Anato-
mia Umana di Napoli per venti anni
prima della sua morte, fu sepolto in
quel luogo nel 1860.
I segnali della leggenda della Pietra
Santa sono troppi e troppo insistenti.
Non è da escludere che prima o poi
verrà ritrovata in un anfratto dell'infi-
nita cripta che si estende al di sotto
della piazza.
Intanto, i grugniti del maiale in alcune
notti dell'anno possono essere udite
distintamente.
Una leggenda locale non accreditata
del tutto è quella di Sant'Evaristo, il
quinto papa della chiesa cattolica dalla
sua fondazione, che è stato sepolto
sotto la piazza.
Si dice che ogni 27 ottobre, il giorno
della sua commemorazione, la piazza
40
emani una forte sensazione di benesse-
re dalle sue fondamenta.
Conclusione
Questa sezione intitolata “Il Gotico”
voleva semplicemente palesare ancora
una volta che il capoluogo partenopeo
è un luogo meraviglioso dove poter
trascorrere un intero fine settimana o
periodi di lunga durata perché i luoghi
da visitare non mancano. Chiese, catte-
drali, piazze, strade, vicoli o parchi,
tutto è intriso di cultura e tradizioni
che investono la città di un’aura leg-
gendaria e meravigliosa. Non solo, si è
tentato di dimostrare che anche par-
tendo da un tema generale come il vino
aglianico, si riesce a creare una sorta
di percorso immaginario che parte dal-
lo stesso vino, per arrivare alle leggen-
de di Dracula, il signore della notte, al
“gotico” inteso sia come stile artistico
che nell’accezione di “noir”, vale a
dire il ricorso al misterioso. Napoli è
una città dalle mille angolazioni e pro-
spettive proprio perché lo stesso popo-
lo partenopeo ne rispecchia molteplici.
Negli ultimi anni si è cercato di dare di
Napoli un’immagine stereotipata, con
accezioni negative, il napoletano a
volte è stato dipinto come rissoso, vio-
lento, incolto, rozzo o incivile. Anche
questa è un’angolazione da cui guarda-
re la città o chi ci abita, ma non è solo
questa. Napoli vive nei cuori della per-
sone che hanno avuto il piacere di visi-
tarla o nell’immaginario di chi invece
spera di poterla visitare un giorno.
Questa città non è solo la terra che ha
dato i natali a personaggi famosi e illu-
stri che l’hanno resa celebre in tutto il
mondo come Totò, Troisi, De Filippo,
ma è la stessa che fa invidia a molte
altre semplicemente perché non ci si
sente in grado di reggerne il confronto.
Parlarono di Napoli numerosi scrittori
celebri, perché è vero quanto si dice e
cioè che non può dire di aver viaggiato
se Napoli non è stata visitata. Difatti
Stendhal poco prima di partire disse:
<Parto, non dimenticherò ne la via di
Toledo ne tutti gli altri quartieri di
Napoli, ai miei occhi e senza nessun
paragone, la città più bella dell’univer-
so>.
41
42
Un piccolo percorso che porta i viaggia-
tori a scoprire le origini di Neapolis, dai
resti delle antiche mura greche invase
dalla modernità fino al sottosuolo di
Napoli, dai preziosi ritrovamenti degli
scavi della metropolitana fino ai tesori
nascosti sotto gli edifici napoletani.
Il sottosuolo di Napoli offre numerosi
tesori che sono stati custoditi per mil-
lenni dal successivo depositarsi di ma-
teriale di risulta derivante dalla costru-
zione della città. Venuti poi alla luce a
seguito di quattro eventi particolari: il
risanamento dopo il colera, le ricostru-
zioni dopo i bombardamenti, il terre-
moto del 1980 ed infine i lavori per la
realizzazione della metropolitana.
Alla fine del nostro piccolo percorso dei
tesori del centro di Neapolis non pos-
siamo non parlare di un altro importan-
te tesoro archeologico: il parco som-
merso di Baia.
Le origini di Parthenope e Neapolis
Il primo nucleo della città di Napoli,
che si chiamò Parthenope dal nome
della sirena che vi era venerata, sorse
nell’area del promontorio di Pizzofalco-
ne e sull’isolotto di Megaride, lì dov’è
oggi il Castel dell’Ovo, a quel tempo
collegato alla terraferma. Secondo
Strabone (63a. C.-20 d. C. ca.) e Stefa-
no di Bisanzio (VI sec. d. C.) Partheno-
pe fu fondata dai Rodii, popolo prove-
niente dalla Grecia, probabilmente
prima dell’VIII secolo a. C. Più verosi-
milmente, invece, qualche decennio
prima della metà del VII secolo a. C.,
proprio in questa stessa zona era stato
realizzato un epineion, e cioè uno scalo
marittimo fortificato voluto dai Cumani
in una posizione particolarmente stra-
tegica, a guardia dell’accesso meridio-
nale del golfo che in quel periodo pren-
deva da loro il nome, mentre l’accesso
settentrionale era controllato dalle
colonie di Pithecusa (Ischia) e di Capo
Miseno. Considerando che la navigazio-
ne avveniva principalmente sotto co-
sta, presidi di tal genere consentivano
un controllo efficace dei traffici marit-
timi ed in particolare, nel caso di Par-
thenope, delle rotte tirreniche verso gli
empori minerari del Lazio e della To-
scana, offrendo un porto sicuro e bene
attrezzato anche per le navi che invece
dovevano prendere il mare aperto in
direzione della Sardegna, delle Baleari
e dell’Iberia. La collocazione di Parthe-
nope nella zona sopraindicata, in pas-
sato piuttosto discussa, è stata definiti-
I tesori sommersi
43
vamente confermata solo nel 1949 gra-
zie alla fortuita scoperta, in via
G.Nicotera, di una necropoli suburbana
composta di tombe “a cassa ditufo”
che avevano conservato corredi funera-
ri, in larga parte di tipo greco e greco-
coloniale, affini a quelli di Cuma, costi-
tuiti principalmente da unguentari di
Corinto e da brocche di Cuma, databili
appunto tra il 650 a. C. ed il 550 a. C.,
ed anche dal rinvenimento di analoghi
frammenti di ceramica nella zona di via
Chiatamone, ove erano stati certamen-
te portati dalle acque defluenti dall’al-
tura di Pizzofalcone. Parthenope co-
nobbe però certamente una fase di
declino tra la prima metà del secolo VI
ed i primi decenni del V secolo, ma non
è ben chiaro se in realtà sia stata ab-
bandonata dai fondatori Cumani, la cui
egemonia nel golfo era ormai in crisi,
oppure sia stata distrutta dagli Etruschi
che erano i loro principali antagonisti.
Secondo l’opinione generalmente se-
guita fino a pochi anni orsono, comun-
que, dopo la grave sconfitta navale
subita proprio dagli Etruschi nel 474 a.
C. per opera dei Cumani e dei Pithecu-
sani-Siracusani, i primi ed i loro alleati
poterono riprendere il controllo delle
zone perdute in precedenza, compresa
ovviamente Parthenope. Lavecchia
rocca posta a strapiombo sul mare era
però evidentemente in sufficiente ad
accogliere oltre che gli antichi fondato-
ri anche i Pithecusani-Siracusani, e per
tali motivi fu necessario fondare un più
ampio insediamento urbano che prese
appunto il nome di Neapolis ovvero
“città nuova”, per distinguerla dalla
Palaepolis, la “cittàvecchia” e cioè
Parthenope. Quest’opinione si fondava
in particolare, sull’elemento offerto
dalla datazione dei frammenti di vasi di
ceramica attica rinvenuti durante gli
scavi del 1914-1916 nella necropoli di
Castel Capuano, dalla quale poteva
ritenersi che la realizzazione della nuo-
va città fosse avvenuta intorno al 470
a. C.. Più recentemente invece, a se-
guito dell’individuazione in vico So-
prammuro a Forcella di un tratto di
fortificazione risalente al periodo tra la
fine del VI e gli inizi del V secolo a. C.
e del ritrovamento di vari frammenti
ceramici di età precedente il V secolo
nelle zone di S. Aniello a Caponapoli,
S.Domenico maggiore e S. Marcellino,
può ritenersi che Neapolis sia stata
fondata piuttosto intorno alla seconda
metà del VI secolo a. C.
La tradizione sulla sirena Partenope
Le Sirene, nella versione di Omero (Od.
XII,45;159;167), erano solo due, situate
su un prato fiorito ed anonime, prive di
un genealogia.
Nella tradizione successiva- che appare
nei tratti definitivi nel poeta greco di
44
età ellenistica Licofrone (717 ss; 732
ss.- le Sirene, figlie di Acheloo e di una
Musa, coi nomi di Parthenope, Leukosia
e Ligeia, divengono tre, sono situate
sulle tre isolette Seirenoussai (ovvero
Li Galli), presso il promontorio sorrenti-
no (Strabone V,4,8) , e si suicidano
gettandosi nel mare subito dopo il pas-
saggio di Odisseo, che aveva senza dan-
no ascoltato il loro canto.
Tutte e tre sono eponime dei luoghi in
cui sono sepolte : Parthenope nell’a-
rea portuale di Neapolis ,Leukosia su
un’isola a sud di Poseidonia (l’attuale
Licosa), Ligeia su un’isola presso Teri-
na.
Cinta muraria e urbanistica
La zona prescelta aveva un’area di cir-
ca 80 ettari, pari a quattro volte quella
di Parthenope dalla quale il nuovo inse-
diamento distava solo 1,5 km circa, e
consisteva in un ampio pianoro in gran
parte costituito da un banco di tufo
giallo misto ad altri materiali pirocla-
stici, articolato in basse terrazze digra-
danti dolcemente verso il mare dove,
dopo un salto di circa 15 metri, era
posta la spiaggia. Il pianoro era in par-
ticolare munito di valide difese naturali
essendo chiuso a nord dalle tre colline
di Capodimonte-Sanità, dell’Arenella e
del Vomero e dal vallone di Foria, a sud
dal litorale marino, mentre ad est e ad
ovest si trovavano due opposte vie na-
turali di deflusso delle acque pluviali
denominate anche lavinarii, costituite
dal vallone di via S. Giovanni a Carbo-
nara e dalla valle di piazza Dante-
calata Trinità Maggiore. Questa parti-
colare conformazione fu attentamente
sfruttata per la realizzazione di una
prima cinta muraria del tipo a doppia
cortina collegata da briglie trasversali e
r a f f o rz ate da un te r r ap ieno
(emplekton) realizzato con scaglie di
tufo e terra. Le mura erano lievemente
a scarpa con torri a base quadrata, e
ne esistono ancora oggi resti in via Fo-
ria sotto lo strapiombo degli Incurabili,
in via Costantinopoli, nell’area orienta-
le di via Mezzocannone, al corso Um-
berto I, in piazza Calenda ed in via
Duomo. Il tracciato murario era in linea
di massima il seguente: da via Foria,
lungo via Costantinopoli, piazza San
Domenico Maggiore, poi su entrambi i
versanti di via Mezzocannone, quindi
attraverso le rampe di S.Marcellino fino
all’Archivio di Stato, per poi ridiscen-
dere fino a piazza Nicola Amore, da
dove le mura costeggiavano il lato set-
45
tentrionale del corso Umberto, e da via
Pietro Colletta risalivano verso Forcella
e C a s t e l C a p u a -
no, ricongiungendosi infine in via Fo-
ria. La prima fase della costruzione
della cinta muraria risale all’inizio del
V secolo, nuovi interventi comunque si
ebbero in concomitanza della guerra
sannitica nel corso del IV secolo a. C.,
ed ancora nel secolo III a. C..
La città murata era percorsa da tre
strade più ampie, denominate in gre-
co plateiai e non decumani, corrispon-
denti la prima, alle attuali vie SS. Apo-
stoli, Anticaglia, Pisanelli e Sapienza,
la seconda a via Tribunali, e la terza
alle vie Vicaria e S. Biagio dei Librai,
che correvano tutte in direzione est-
ovest, ed in circa venti strade minori,
in greco stenopòi e non cardines,,
orientate invece in direzione nord-sud.
(Com’è noto decumanus e cardo desi-
gnano gli assi della divisione agraria, la
centuratio del mondo romano, e non
hanno niente a che vedere con le stra-
de urbane, specialmente di una città
greca come Neapolis) Gli isolati
(insulae) determinati dall’incrocio delle
strade minori con i principali assi viari,
avevano in particolare dimensioni di-
metri 187 circa per 37 circa. Possiamo
ubicare una serie di porte in corrispon-
denza con gli assi stradali citati; all’e-
stemità est della platea di San Biagio vi
era Porta Nolana o Furcellansis (unica
porta di cui abbiamo dei resti) a ovet
invece era ubicata una porta nell’area
di piazza S. Domenico; la era una por-
ta ubicata sotto platea dei Tribunali ad
est terminava con porta Capuana( da
ubicare nei pressi del castello), e a
ovest sotto la chiesa di S. Pietro a Ma-
jella; la platea dell’Anticaglia termina-
va a est con una porta presso la chiesa
di Santa Sofia ma non aveva sbocchi sul
lato occidentale. La tradizione conosce
anche una Porta San Gennaro (allo
sbocco di via Duomo) ed una Porta
Ventosa che viene solitamente ubicata
sul lato sud di via Mezzocannone.
Mentre i vici erano larghi 3 metri le
platee erano larghe circa 6 metri. La
larghezza di 6-7 metri risulta corri-
spondere a quella della carreggiata,
ma la platea era fornita anche da mar-
ciapiede, largo 3,5metri. Se si ipotizza
una situazione su entrambi i lati della
strada possiamo dire che la platea era
larga 14 metri.
Tale impianto “a fasce” (per strigas) è
analogo a quello adottato nelle colonie
greche di Selinunte, Imera, Locri e
Poseidonia e sarebbe dunque più anti-
co della pianta stabilita da Ippodamo
di Mileto, architetto ricordato anche
da Aristotele, per la città di Thurii nel
444a.C.. Secondo un’altra tesi invece,
il reticolo urbanistico di Napoli greca
deriverebbe proprio dal modello ippo-
dameo, che sarebbe stato adottato,
46
infatti, a Napoli solo intorno al 430 a.
C., a seguito dell’arrivo in città degli
Ateniesi fondatori di Thurii.
Quasi sempre in rapporto agli accessi
sono collocate le torri che potevano
essere sia a pianta quadrata che a pian-
ta circolare.
Poi vi erano due strade principali una
chiamata via per colles e l’altra via per
cryptam.
Dalla porta situata nei pressi di San
Pietro a Majella la strada per i colli
montava per Salita Tarsia, il Vomero e
poi scendeva per Fuorigrotta per rag-
giungere via Terracina dove era un vi-
cus(villaggio) cui apparteneva l’edificio
termale riportato alla luce; qui incon-
trava la via per crypta e proseguiva
fino al territorio di Pozzuoli, attraverso
il valico tra la Solfatara ed il monte
Olibano.
La via per cryptam usciva dalla porta in
piazza San Domenico, percorreva la
Riviera di Chiaia a Mergellina entrava
nella crypta e, a via Terracina, incon-
trava l’altra che scendeva dai colli.
I
tesori del centro di Neapolis
Nel centro di Neapolis, a cavallo della
platea mediana coincidente con l’at-
tuale via Tribunali, e precisamente tra
via Anticaglia, via San Biagio dei Librai,
via Fico al Purgatorio, via Purgatorio ad
Arco e vico Giganti, in periodo greco,
era posta l’agorà, che costituiva invece
la piazza dove si riuniva l’assemblea
popolare e si svolgeva la vita politica e
amministrativa. Qui si trovava anche il
tempio dei Dioscuri, al cui posto è oggi
la chiesa di S. Paolo Maggiore.
In periodo romano l’agorà della città
greca fu trasformata in un forum du-
plex e cioè un foro doppio, perché a
sud della piazza già destinata alle riu-
nioni dell’assemblea cittadina, fu rea-
l i z z a t o i l m e r c a t o
o forum rerum venalium , al cui centro
era posto il macellum , un edificio adi-
bito alla vendita di commestibili, pro-
prio nell’area oggi occupata dal con-
vento di S. Lorenzo Maggiore. L’antico
tempio dei Dioscuri fu allora riedificato
in dimensioni imponenti, fino a rag-
giungere la notevole altezza di 27 me-
tri dal livello stradale, mentre alle sue
spalle furono costruiti o, secondo alcu-
ni, ristrutturati, l’Odeion , teatro co-
47
perto destinato agli spettacoli musicali,
i cui resti non sono stati ancora esatta-
mente individuati, ed il Teatro scoper-
to capace di accogliere fino a circa
diecimila spettatori, e le cui attuali
strutture risalgono a dopo il 62 d. C.
I Teatri
Nella topografia di Neapolis i Teatri
occupavano la parte settentrionale
dell’area pubblica della città cioè nel
Foro, a nord del Tempio dei Dioscuri
ora sormontata dalla Chiesa di San Pao-
lo Maggiore, nei moderni isolati com-
presi tra via dell’Anticaglia, Vico Pur-
gatorio ad arco e Vico Giganti. L’attua-
le via San Paolo separa l’Odeion dal
Teatro scoperto. Nella parte meridio-
nale invece si trovava il Macellum i cui
resti si trovano al di sotto dell’attuale
Chiesa di San Lorenzo Maggiore.
Non restano tracce evidenti delle im-
portanti costruzioni, se non nella forma
curvilinea degli attuali edifici. Per
quanto concerne il Teatro scoperto,
lungo via Anticaglia sono visibili due
arcate che documentano interventi di
rinforzo della facciata. Successive co-
struzioni incorporarono il Teatro sco-
perto così che i due archi sembrano
sostenere soltanto i muri esterni dei
palazzi.
C’è una tradizione letteraria sull’esi-
stenza del Teatro di Neapolis la quale
dice che sicuramente la città doveva
avere un Teatro già durante il regno di
Augusto, perché nel 2 d.c. quest’ulti-
mo decide di far celebrare dei giochi a
Napoli (Napoli era considerata la città
della cultura nel mondo romano) che
erano l’imitazione delle olimpiadi gre-
che. Le olimpiadi prevedevano manife-
stazioni ginniche che si tenevano nella
parte bassa della città dove c’era il
Gymnasio, manifestazioni musicali
nell’Odeion ed infine rappresentazioni
drammatiche (commedie e tragedie)
nel Teatro scoperto. Quindi certamen-
te nel 2 d.c. Napoli doveva avere il suo
Teatro. Sappiamo anche che sia l’im-
peratore Claudio e poi successivamen-
te Nerone si sono recati a Napoli per
rappresentare delle loro opere. Di con-
seguenza almeno dall’epoca Neroniana
vi è conferma che Napoli avesse un
teatro.
Il teatro che si osserva attualmente
48
non appartiene né al periodo di Augu-
sto né a quello di Nerone. È un monu-
mento costruito alla fine del I sec. d.c.
durante o dopo il regno di Domiziano,
periodo in cui diversi edifici furono
ricostruiti a seguito del terremoto che
aveva devastato la Campania come
conseguenza dell’eruzione del Vesuvio
(79 d.c.). Si ipotizza che sia stato rico-
struito ex novo dalle fondamenta in
quel periodo, quindi sicuramente non è
quello frequentato né da Claudio né da
Nerone. È vero si che Nerone si è reca-
to a Napoli per recitare in un teatro ma
di certo non si tratta del Teatro roma-
no in quanto sicuramente è stato co-
struito dopo.
I lavori di restauro per questo monu-
mento non sono ancora ultimati a causa
dei mancati fondi economici. L’obietti-
vo, oltre a riportare alla luce il Teatro,
è stato anche capire quando il monu-
mento fu realizzato. Attraverso questi
studi si è giunti ad una conferma cioè
che il Teatro è stato realizzato alla fine
del I sec. d.c. restando in uso fino alla
fine del IV sec. d.c. Venne abbandona-
to intorno al V sec. d.c. iniziando così a
riempirsi con scavi di risulta e con tutti
i rifiuti di questo quartiere. Era divenu-
to una vera e propria discarica perché
si trattava di uno spazio enorme che
non apparteneva più a nessuno. Questi
rifiuti sono stati la sua fortuna poiché
hanno nascosto una parte della cavea.
Nella struttura di un teatro viene defi-
nita cavea l'insieme delle gradinate di
un anfiteatro o di un teatro classico,
dove prendevano posto gli spettatori
per assistere alle rappresentazioni, ai
giochi, o ad altri intrattenimenti. Divisa
per ceto sociale, era distinta in ”ima”,
”media” e ”summa cavea”, in cui pren-
devano posto rispettivamente i ceti
dei rango senatorio (in prima fila) e
di rango equestre, le categorie inter-
medie, e la plebe. La zona indicata fino
ad ora è l’ima cavea. Nella media ca-
vea invece venne realizzato un orto.
Sono state infatti ritrovate delle buche
che venivano utilizzate per inserire le
piante.
La parte superiore invece, che corri-
sponde alla summa cavea, è andata
49
progressivamente distruggendosi a cau-
sa delle intemperie e soprattutto per la
costruzione delle nuove abitazioni.
Le case che si vedono osservando la
figura sono tutte disposte in curva in
quanto anticamente sono state costrui-
te seguendo il perimetro del monumen-
to. Questa disposizione permetteva
ancora una visione del Teatro.
Successivamente vennero addossati alla
facciata esterna del Teatro degli edifici
che ne impedirono la visibilità.
Solo nel 1500, l’apertura di Vico Cin-
quesanti ha spaccato tutte le abitazio-
ni all’interno delle quali sono state
rinvenute tracce delle gradinate e dei
muri romani.
Gli ambienti interni
Gli spettatori che entravano nel Teatro
avevano tre strade per poter raggiunge-
re i posti da occupare. Se erano parti-
colarmente importanti e dovevano an-
dare ai posti più bassi quindi nell’ima
cavea non facevano scale ma attraver-
savano gli ambienti aperti. Se dovevano
andare nella parte alta cioè nella sum-
ma cavea, quella dedicata al popolo,
dovevano prendere delle scale quindi
dal corridoio esterno con una prima
rampa di scale arrivavano sul ballatoio,
poi attraverso questo passaggio trova-
vano nell’ambiente accanto una secon-
da rampa di scale che li portava in
un’altra zona più in alto. Gli spettatori
che invece dovevano andare nella me-
dia cavea percorrevano un’unica rampa
che li portava direttamente nella zona
a loro destinata.
Nei sottoscala il pubblico non aveva
accesso infatti la pavimentazione è più
rozza (coccio pesto), probabilmente
questa zona veniva usata anche come
bagno per il pubblico.
All’epoca avevano già capito che l’on-
da sismica veniva trasmessa diagonal-
mente, quindi il teatro fu organizzato
secondo la tecnica dell’opus mixtum,
dove il reticolatum serviva a disperde-
re l’onda e il latericium a bloccarla.
I vomitoria erano degli ambienti di
passaggio che venivano utilizzati per
dirigersi diversamente nella cavea.
Attraverso il vomitorium dall’ambula-
cro esterno a quello interno indicato
nell’immagine si arriva nell’anello in-
terno in cui si aprivano una serie di
ambienti: alcuni erano ambienti di
passaggio che facevano arrivare i visi-
50
tatori direttamente nella cavea altri
erano ambienti chiusi che venivano
utilizzati per custodire tutto quello che
serviva durante le rappresentazioni
(maschere, costumi, scenografie) quin-
di non erano destinati al pubblico.
Il pavimento degli ambienti di passag-
gio era molto più consistente ma anche
più pregiato, era sempre cocciopesto
ma oltre alla terracotta conteneva an-
che pezzetti di marmo bianco e pezzet-
ti di marmo colorato in tessere più
grandi.
Quest’ultime non sono disposte a caso
ma seguono un percorso preciso, per
cui negli ambienti rettilinei sono visibili
tre file parallele di tessere più grandi,
nell’ambulacro la disposizione è diversa
mentre nel punto di incontro tra il vo-
mitorium e l’ambulacro la quantità
delle tessere colorate è maggiore.
Su alcune pareti dell’ambulacro si pos-
sono osservare delle decorazioni molto
semplici, bianche nella parte alta e con
delle fasce rosse e verdi nella parte
bassa, il cui intonaco si è preservato
grazie alla presenza dei rifiuti, mentre
per la parte superiore delle pareti non
abbiamo decorazioni perché andate
perdute.
L’unica zona della cavea che si può
osservare, nonostante sia circondata da
palazzi è la media cavea nella quale è
ancora presenta l’arco di tufo che dava
accesso al giardino pensile del palazzo.
Di fronte alle gradinate che si vedono
in figura c’era il palcoscenico purtrop-
po non più visibile, ora è possibile os-
servare solo il muro posteriore alla
scena che affaccia nel chiostro del
complesso dei Padri Teatini.
Tutte le case che circondano i resti del
Teatro sono rimaste al loro posto poi-
ché non era giusto chiedere ad un in-
terno quartiere di andarsene e anche
perché gli archeologi erano certi del
fatto che nei palazzi non ci fossero
resti tali da giustificare un esproprio.
Oltretutto questa bella convivenza tra
passato e presente è stata accettata di
buon grado dai residenti.
Un’altra parte interna del teatro può
essere osservata attraverso il percorso
di Napoli Sotterranea visitabile tramite
una botola in un basso di vico Cin-
quesanti che conduce al lato est del
teatro: il proprietario del terraneo ave-
va ricavato l'accesso agli ambienti sot-
terranei che aveva adoperato come
cantina tramite una botola che era
situata sotto il letto. Aveva inoltre
escogitato un meccanismo che permet-
51
teva la scomparsa del letto, che scorre-
va lungo dei binari, in una nicchia del
muro. La scoperta di frammenti murari
in opus latericium portò successiva-
mente all'esproprio del basso e alla
nuova destinazione d'uso.
Macellum
Questo monumentale complesso si
estende all'angolo fra via Tribunali e
via San Gregorio Armeno e rappresenta
un notevole esempio di stratificazione
edilizia, avvenuta nel corso dei secoli.
A causa della conformazione non pia-
neggiante del territorio, in epoca greca
in quest'area fu creato un terrazzamen-
to, sostenuto da un muro di conteni-
mento lungo tre lati (quello meridiona-
le è a doppia cortina per contenere la
spinta del terreno): lo spazio interno fu
poi colmato artificialmente, in modo
da avere a disposizione un pianoro.
Nessuna certezza sulla funzione dell'a-
rea, da alcuni identificata con l'agorà.
Con l'arrivo dei Romani, l'area ricadde a
ridosso del Foro e su di essa sorse il
Macellum, il mercato della città, con
botteghe estese su due livelli e con
l'Erario.
Nel corso del V secolo d.C., una colata
di fango dovuta ad un'alluvione ricoprì
la zona, colmando l'intera strada ed il
livello inferiore del macellum. Lo spes-
sore della colata fangosa portò alla
radicale decisione di colmare l'area
fino al livello stradale.
Tra il 537 ed il 557, Giovanni II, vesco-
vo di Napoli, fece costruire una Basili-
ca paleocristiana le cui fondazioni,
oltre a sfruttare le sostrutture del de-
cadente macellum, furono in parte
allocate nel fango.
Al IX-X secolo risale la fondazione del
Seggio. Nel 1234 l'area fu ceduta ai
Francescani che, a partire dal 1284,
iniziarono la costruzione della Basilica
gotica con annesso convento, il che
comportò l'abbattimento delle struttu-
re romane superstiti, della Basilica
paleocristiana e del Seggio. Le struttu-
re sottostanti ancora utilizzabili venne-
ro cosi usate nel corso dei secoli come
sversatoio di materiale edilizio, nonché
come fosse comuni.
I primi sporadici ritrovamenti si ebbero
nel 1929, durante lavori di restauro.
Altri materiali vennero alla luce duran-
te scavi tra il 1945 ed il 1950. Nel
1954, durante lavori di sistemazione
del pavimento della chiesa, venne rile-
vato quasi completamente il perimetro
della basilica paleocristiana, mentre
scavi nel transetto portarono alla luce
52
notevoli resti. I lavori di scavo riprese-
ro nel 1972 portando alla luce i resti
attualmente visibili. Negli ultimi anni si
lavora solo per interventi di restauro o
di consolidamento: essendo, infatti, gli
scavi in galleria, il rischio maggiore è
quello di trovarsi di fronte a crolli o a
caduta di materiale.
Si accede agli scavi dai chiostro sette-
centesco della chiesa, dove è possibile
vedere parte del Macellum, ossia il
mercato della città romana. L'intero
edificio è largo 36 metri e si sviluppa a
forma di rettangolo sul terrazzamento
sopra citato In epoca romana, poste-
riormente al terremoto del 62 d.C.,
tutta l'area fu sistemata nell'attuale
configurazione. Il Macellum, all'interno
del terrazzamento, si presenta con un
edificio circolare centrale (tholos) e
file di botteghe (tabernae) sui lati est,
sud, ovest, mentre il lato nord costitui-
va l'ingresso monumentale sulla platea
mediana (l'attuale via Tribunali), all'al-
tezza del Foro.
Da una scala si scende al livello inferio-
re che corrisponde allo stenopos vico
Giganti, che accoglie una serie di am-
bienti in doppia fila. Numerose sono le
trasformazioni d’uso leggibili all’inter-
no di questi ambienti: in alcuni ad
esempio vi sono delle vasche per l’alle-
stimento di fulloniche( tintorie), o un
piccolo forno in un altro ambiente.
Lungo l’estremità settentrionale dello
stenopos si estendono forse ambienti
destinati all’Erario della città, dove
erano conservate le finanze cittadine
provenienti dalle tasse; l’identificazio-
ne si deve alla presenza di una spessa
inferriata alla finestra e alla robustezza
dei battenti della porta.
Al termine della strada, si incontra
invece uno dei quattro lati di un cripto-
portico, costituito da ambienti interco-
municanti, con volta a botte e lucerna-
ri per l'ingresso dell'aria e della luce
solare.
Le terme
Un altro tesoro sommerso del centro
storico è il complesso termale di Santa
Chiara.
La terma romana è composta da vari
ambienti. La zona per i bagni di acqua
fredda Frigidarium, tiepida Tiepida-
rium, calda Calidarium, sauna Laconi-
53
cum.
Ognuno di questi ambienti aveva una
propria planimetria: laconicum forma
circolare, frigidarium rettangolare, il
calidarium aveva generalmente pianta
rettangolare terminava con un abside.
Le terme erano considerate come luo-
ghi di ritrovo in quanto utilizzate dalla
maggior parte dei romani come bagni
pubblici dove erano soliti lavarsi poiché
non lo facevano nelle proprie abitazio-
ni.
In tutte le strutture termali c’era la
zona detta Prefurnium, dove c’era un
grande forno che generava calore e che
attraverso condutture, dette intercape-
dini, veniva disperso nelle parerti e
sotto i pavimenti. Sia sotto le piscine
che sotto il laconicum il pavimento era
sorretto da colonnine di mattoncini
disposte in un modo regolare proprio
per facilitare il passaggio del calore.
Queste colonnine dette sospensure
identificano una particolare tecnica di
costruzione romana, laddove vengono
rinvenute si parla chiaramente di strut-
tura termale e romana.
Vi erano anche la Natatio, piscina uti-
lizzata solo per nuotare, e lo spoglia-
toio Apodyterium.
Il complesso termale di Santa Chiara,
compreso all'interno del trecentesco
convento, è sito in un'area che ricadeva
al di fuori della cinta muraria greca, ad
ovest della porta urbica. La scoperta
dell'edificio termale e l'analisi di vecchi
e nuovi rinvenimenti archeologici, han-
no chiarito come il luogo, già dal I se-
colo d.C., sia divenuto, per esserlo
almeno fino al IV, un quartiere residen-
ziale con edifici a carattere pubblico.
Inglobato nella cinta muraria a seguito
dell'ampliamento del 440 d.C., il com-
plesso termale di Santa Chiara conser-
vò la sua funzione sino all'età tardoan-
tica, quando se ne affrontò una consi-
stente ristrutturazione. L'area com-
prende una serie di ambienti termali e
rappresenta tuttora il più completo
esempio di therma documentato per
Neapolis. L'impianto, che si estende
per una superficie di oltre 900 mq ed è
ascrivibile alla fine del I sec. d.C. L'im-
pianto è costituito da un ambiente
coperto ospitante una piscina
(natatio), dinanzi alla quale è un'area
destinata forse a palestra. Segue l'im-
pianto termale vero e proprio che si
sviluppa su due livelli (quello inferiore
non è visibile) e nel quale si distinguo-
no: un ambiente absidato con rivesti-
mento marmoreo, forse la vasca di un
tepidarium; un ampio ambiente in la-
terizio con quattro absidi angolari e
pavimento mosaicato, forse un laconi-
cum; una grande cisterna a tre navate.
54
Domus romana sotto l’Archivio storico
del Banco di Napoli
Nei cantinati del Palazzo Ricca, attual-
mente sede dell'Archivio Storico del
Banco di Napoli, sono stati rinvenuti
resti di un monumentale complesso di
età tardo repubblicana (II sec. a. C.)
con decorazioni parietali del IV stile e
quasi sicuramente connesso al comples-
so rinvenuto e distrutto dai lavori del
Risanamento. Di particolare evidenza
sono le strutture di età Flavia in opera
laterizia (arcate e sostruzioni di am-
bienti) con notevole ricorso a pareti in
opera reticolata e da un imponente
ambulacro, in laterizio, disposto orto-
gonalmente al decumano maggiore (via
dei Tribunali). Il rinvenimento di un
ipocausto non può che confermare la
pertinenza ad un impianto termale.
Immediatamente dopo il maestoso por-
tale dell'edificio, antica sede del Monte
e Banco dei Poveri (1617), sulla sinistra
di un ampio cortile, si apre sulla sini-
stra un corridoio che immette nell'area
archeologica rinvenuta negli anni '70 a
seguito di lavori di consolidamento del
palazzo. Sulla sinistra del corridoio si
accede ad un vasto ambiente che pre-
senta sul lato di fondo due poderose
arcate in laterizio che immettono in un
altro ambiente, tompagnato in epoca
successiva, forse interpretabile come
criptoportico.
Proseguendo lungo il corridoio si acce-
de da un ampio salone ad un altro am-
biente a forma rettangolare diviso in
due da un muro di epoca successiva.
Sul lato sinistro si evidenzia un pavi-
mento a mosaico, realizzato a tessere
bianche e nere, poste in modo da for-
mare una raffigurazione a motivi geo-
metrici, racchiusa da una doppia fascia
a tessere bianche. Alla parete di fondo,
presumibilmente in opera laterizia, si
appoggia una struttura muraria in ope-
ra vittata, che si sovrappone in parte al
pavimento a mosaico, segno che si trat-
ta di un intervento di epoca successiva.
Entrambe le strutture sono rivestite da
una decorazione pittorica con zoccolo a
motivi vegetali, su fondo rosso, inqua-
drabili nel IV stile. L’ambiente era
chiuso da una struttura in opera retico-
lata, individuata in un altro ambiente
dell’edificio.
Dall’ampio salone si accede ad un altro
settore, parallelo al corridoio di acces-
so, costituito da una serie di ambienti
in opera laterizia o laterizia con spec-
chiature in opera reticolata e copertura
55
con volta a botte. L’identificazione
funzionale di questi ambienti, prospi-
cienti ai primi visitati, è incerta.
Necropoli
Altri tesori importanti per la nostra
città sono le necropoli.
Le necropoli urbane sono state scoper-
te nelle aree immediatamente adiacen-
ti alla cinta muraria, dove sono stati
individuati diversi nuclei per lo più
ubicati in corrispondenza delle porte e
delle strade.
Almeno quattro sono i principali nuclei
di necropoli. Il primo, dove sono stati
rinvenuti i corredi più importanti di
Neapolis, è quello situato nell’area di
Castel Capuano; il secondo si estende
da via Settembrini a via Foria fino alle
alture dei Cristallini e dei Vergini, e a
valle della Sanità; il terzo gruppo occu-
pa la zona di via Santa Teresa degli
Scalzi; il quarto è situato tra il Pallo-
netto Santa Chiara e Santa Maria la
Nova.
Un ruolo rilevante lo assumono le tom-
be ipogee di via Cristallini in quanto
sono veri e propri monumenti scavati
nel banco tufaceo della collina. E’ co-
stituito da quattro ipogei adiacenti,
ciascuno caratterizzato da un vestibolo
e una camera sepolcrale a pianta ret-
tangolare disposti su due livelli; il ve-
stibolo presenta su tre lati banchine
per le offerte funebri e al centro una
scala che conduce alla camera funebre
sottoposta. In quest’ultima sono collo-
cati lungo le pareti sarcofagi ugual-
mente cavati nel tufo, imitano i letti
funebri. Sono riccamente decorati,
infatti in un ipogeo è presente una
enorme testa di Medusa inscritta in un
tondo decorato da foglie e serpenti.
Ritrovamenti grazie ai lavori per la
realizzazione della metropolitana
Durante gli scavi della metropolitana di
Napoli sono stati rinvenuti numerosi
56
reperti archeologici attribuibili a diver-
se epoche della città partenopea. Col-
locabili nell'epoca preistorica, greca,
romana, bizantina, medievale e arago-
nese, i reperti sono esposti all'interno
della Stazione Neapolis, un piccolo
ambiente museale facente parte del
complesso del museo archeologico na-
zionale di Napoli.
La maggior parte dei reperti sono stati
portati alla luce negli scavi delle sta-
zioni di Municipio e Duomo.
Municipio
« Lo scavo della metropolitana è stata
un'occasione unica. Il nucleo greco-
romano è rimasto più o meno delle
stesse dimensioni per molti secoli, in
età angioina, aragonese e vicereale,
come un gioco di scatole cinesi. »
(Daniela Giampaola, l'archeologa italia-
na che dirige lo scavo di piazza Munici-
pio)
Gli scavi della stazione di Municipio si
sono rivelati molto fruttuosi infatti
sono stati rinvenuti più di tremila re-
perti.
Grazie a questi scavi è stato possibile
ubicare il porto di Neapolis in quanto
per anni vi erano diverse ipotesi.
Secondo il Capasso vi erano due porti
grande e uno piccolo. Il primo, Portus
Vulpulum, era ubicato nell’area occu-
pata oggi da Castel Nuovo, piazza Muni-
cipio e Via Medina; il secondo, Portus
de Arcina, era situato tra via Porto e
Maio di Porto.
Mario Napoli sosteneva invece che l’a-
rea portuale si trovava nella vasta ae-
rea occupata da Palazzo Reale, dal
Teatro San Carlo, dal Castello Angioino
e da piazza Municipio sino all’alteza di
via Medina.
Ma grazie agli scavi si è arrivati alla
conclusione che il porto era situato tra
piazza Municipio e piazza Bovio.
Questi scavi hanno riportato alla luce
tre navi chiamate A,B,C. Le prime era-
no navi commerciali marittime, la ter-
za era utilizzata per servitù portuale
per il carico e lo scarico delle merci o
per attività di pesca.
Napoli A e Napoli C sono state trovate
in posizione perpendicolare tra loro,
probabilmente affondate e poi insab-
biate. Napoli B affonda forse per una
mareggiata.
Oltre alle navi sono stati portati alla
luce suole in cuoio di calzari romani,
monete, sigillate corinzie con decora-
57
zioni di scene bacchiche, balsamari,
una notevole quantità di ceramica ben
conservata (ovvero anfore, pentole di
terracotta, coppe di produzione africa-
na che si erano frantumate cadendo
nell'acqua), bottiglie di vetro tappate
chiuse con tappi di sughero.
Duomo
Durante gli scavi della stazione di Duo-
mo, sita a piazza Nicola Amore, sono
emersi numerosi reperti archeologici
che, per numero, sono secondi solo a
quelli ritrovati nei cantieri della poco
distante stazione di Municipio. Però, in
precedenza grazie ai lavori del Risana-
mento si è potuto identificare l’area di
piazza Nicola Amore, come aerea dei
giochi.
Dell'antico gymnasium sono testimo-
nianza una statua di Nike acefala,
un'erma di Eracle e numerose iscrizioni
relative ai Sebastà, tutti provenienti
dalla zona compresa fra Sant'Agostino
alla Zecca, corso Umberto e Sant'Agata
degli Orefici. Recente è infine il rinve-
nimento in piazza Nicola Amore dei
resti di un tempio prostilo su podio,
identificato con il tempio annesso
al gymnasium, di età giulio - claudia,
circondato da un portico le cui pareti
erano rivestite di lastre iscritte, ritro-
vate ribaltate, con le dediche dei vin-
citori nei diversi tipi di gare ginniche,
equestri e musicali dei Giochi Isolimpi-
ci. Le lastre portano portano impressi,
in greco, i nomi dei vincitori delle Iso-
limpiadi, divise per categorie (uomini,
donne, fanciulle, ragazzi) e discipline
(pancrazio, lotta, pugilato, corsa arma-
ta).
58
Un mago a Napoli
Quando si parla di magia nera nella
città di Napoli, non si può non pensare
immediatamente a Virgilio.
Il poeta, difatti, fu apprezzato non solo
per le sue doti letterarie quanto, e
soprattutto, per aver liberato la città
da varie iettature, così come racconta-
no le leggende popolari.
A lui, i napoletani dedicarono l’omoni-
mo parco di Piedigrotta: il Vergiliano,
spesso erroneamente confuso con il
Virgiliano che si trova, invece, a Posilli-
po.
Dalla visita di questo parco inizia il
nostro Itinerario.
Percorrendo la lunga scalinata che,
anticamente, collegava la città di Na-
poli alla zona dei campi Flegrei, i napo-
letani potevano ritrovarsi dinanzi al
colombario, antico monumento funebre
romano chiamato così per le numerose
nicchie scavate al suo interno e leggere
la seguente incisione: “Mantua me ge-
nuit, Calabri rapuere, tenet nunc Par-
thenope;cecini pascua, rura, duces
” (Mantova mi generò, la Calabria mi
rapì, mi tiene ora Napoli; cantai i pa-
scoli, le campagne, gli eroi). È nel Ver-
giliano, infatti, che è custodita la tom-
ba del poeta.
Il Mausoleo di Virgilio, decorato con
affreschi medievali, non è l’unico mo-
numento funebre presente nel parco.
Poco distante, difatti, precisamente
subito dopo l’ingresso del parco, un
altro poeta dorme il suo sonno eterno:
si tratta di Leopardi, la cui tomba fu
trasferita qui nel 1934, anno in cui fu-
rono ultimati i lavori all’interno del
parco.
Proseguendo più avanti, potremo nota-
re, sulla destra, la Cripta Neapolita-
na , un’antica galleria, ora chiusa per
restauri, che collegava Mergellina con
Fuorigrotta.
Alcuni raccontano che sarebbe stato lo
stesso Virgilio a creare la galleria in
una sola notte, ricorrendo alle sue doti
magiche.
La magia nera
Parco Vergiliano
59
In realtà essa fu realizzata da Lucio
Cocceio Aucto per volontà di Marco
Vipsanio Agrippa. Secondo i racconti,
Cocceio, usufruendo del lavoro di cento
uomini, avrebbe terminato l’opera in
quindici giorni. Mentre le altre gallerie
flegree persero, in seguito alla guerra
tolemaica, la loro importanza strategi-
ca, la Crypta Neapolitana continuò ad
essere utilizzata come infrastruttura
civile. Seneca, però, la descrive come
un luogo angusto, buio ed opprimente
e, proprio per questo motivo, nel corso
dei secoli si cerco di ampliarla e miglio-
rarla per porre fine a tali problemati-
che.
Nel 1455 il re alfonso V d’Aragona rese
meno ripido il pendio d’accesso da Mar-
gellina. Nel 1548 don Pedro di Toledo
la fece ampliare e pavimentare e, suc-
cessivamente, furono effettuati vari
restauri volti al rafforzamento della
galleria.
La galleria, tenendo in considerazione
le conoscenze tecniche dell’epoca, può
essere considerata un capolavoro
dell’ingegneria. La crypta, inoltre, ave-
va una forte valenza simbolica, essa
era, difatti, considerata il simbolo
materno e uterino, del passaggio tra la
morte e la vita, tra la luce e il buio.
Nei suoi scritti, Petronio racconta che,
nel I secolo, la cripta era stata consa-
crata a Priapo, il dio della fertilità. In
onore del dio furono organizzate ceri-
monie misteriche e riti orgiastici. In
epoca magno-greca nella grotta furono
celebrate feste in onore di Afrodite,
dea dell’amore, durante le quali le
fanciulle vergini e le spose infeconde
praticavano pratiche propiziatorie.
Se la testimonianza di Petronio non ha
altri riscontri, durante i lavori eseguiti
sotto la dominazione spagnola fu ritro-
vato un bassorilievo rappresentante
Mitra Tauroctono tra il sole e la luna,
datato intorno al III-IV secolo, che oggi-
giorno è conservato presso il Museo
Archeologico Nazionale di Napoli. La
galleria era, inoltre, orientata in modo
tale che, in occasione degli equinozi, il
sole fosse perfettamente allineato tra i
due ingressi all'alba e al tramonto, in
modo tale che, in quei momenti, la
galleria che solitamente era immersa
nell’oscurità, potesse risplendere, da
ogni parte, di luce.
Il tunnel acquisì un carattere ambiva-
lente: da un lato si riteneva che un
grande maleficio si sarebbe abbattuto
su coloro che avessero provato ad at-
traversarlo, da soli, di notte; dall’altro
uscirne indenni ma, soprattutto, uscir-
ne, era considerato un presagio fausto.
I riti legati al culto di Mitra furono, nel
corso dei secoli, sostituiti con quelli del
Cristianesimo. Petrarca, nei suoi scrit-
ti, parla del culto della Madonna Odi-
gitria in una cappella ricostruita sui Iscrizione tomba di Virgilio
60
resti del sacello di Priapo. Tale cap-
pella divenne un luogo di culto per i
cristiani, fino a quando non fu costruita
la chiesa di Santa Maria di Piedigrotta
proprio dinanzi all’ingresso della Cryp-
ta.
Boccaccio, in una lettera del 1339,
parla di una “donna di pederocto “
riferendosi, probabilmente, risale al
simbolismo del piede, legato al parto e
al passaggio morte-vita. Secondo le
credenze popolari, esisteva un talisma-
no, chiamato lo scarpunciello da Ma-
donna” che aveva un potere propiziato-
rio per le partorienti che, come avveni-
va in passato per la crypta, dovevano
recarsi nella Chiesa della Madonna di
Piedigrotta.
Il Castel Dell’Ovo
Virgilio era, dunque, un mago
o ,comunque, così lo consideravano i
napoletani.
La testimonianza più famosa di questi
suoi poteri sarebbe, secondo le leggen-
de, il Castel dell’Ovo. Il nome di questo
castello, costruito sull’antica Megaride,
racchiuderebbe in sé il destino dell’in-
tera città. Si racconta, infatti, che Vir-
gilio abbia nascosto, in una delle nic-
chie presenti nelle fondamenta del
castello, un uovo. Alla rottura di que-
st’ultimo, l’interacittà sarebbe crolla-
ta.
I napoletani credettero così tanto a
questa leggenda che, nel XIV secolo, in
seguito al crollo di alcune parti dell’ar-
co principale del castello, la regina
Giovanna I, per evitare che in città si
diffondesse la paura tra il popolo, fu
costretta a recarsi in città per rassicu-
rare tutti: lei stessa aveva personal-
mente provveduto a sostituire l’uovo,
che i poteri dell’uovo erano stati rista-
biliti e che i sudditi non avevano più
nulla da temere.
In realtà, secondo alcuni studiosi meno
inclini a credere a simili “storielle”, il
nome del castello sarebbe legato
all’”uovo filosofico”, termine esoterico
che si riferisce all’athanor ovvero al
Tomba di Leopardi
Santa Maria di Piedigrotta
61
forno di metallo o vetro all’interno del
quale gli elementi primari, quali zolfo e
mercurio, si trasmutavano lentamente
nell’oro alchemico. A napoli, durante il
periodo medievale sorge un’importante
scuola ermetica dedita allo studio
dell’alchimia.
Secondo alcuni scritti antichi , oltre
che un grande poeta, Virgilio sarebbe
stato un alchimista e uno sperimenta-
tore dell’uovo filosofico.
Per operare nella massima segretezza,
Virgilio si sarebbe recato, insieme con i
suoi seguaci, in uno degli antri segreti
dell’isoletta di Megaride attirando l’at-
tenzione di qualche curioso che avreb-
be raccontato in giro di quel uovo mi-
sterioso di cui, in realtà, aveva frain-
teso il vero significato.
Prima, però, di soffermarci sul Castello
è opportuno fare qualche passo indie-
tro nel tempo e tornare alle origini di
quell’isoletta che, quasi come una ma-
dre, aveva accolto il corpo inerte della
sventurata sirena Partenope…
Nel I secolo a.C. Lucio Licinio Lucullo
realizzò, sull'isola, una splendida villa
dotata di una grande biblioteca, di
allevamenti di murene e di alberi di
pesco importati dalla Persia, che per
l'epoca erano una novità assieme ai
ciliegi che il generale aveva fatto arri-
vare da Cerasunto. La memoria di que-
sta proprietà perdurò nel nome di Ca-
strum Lucullanum che il sito mantenne
fino all'età tardoromana.
Intorno alla metà del V secolo la villa
fu fortificata per volontà di Valentinia-
no III. Nel 476 re Odoacre rinchiuse,
nel castello, l’ultimo imperatore d’Oc-
cidente: Romolo Augusto. Alla morte di
quest’ultimo, sull’isola giunsero i mo-
naci basiliani che, approfittando
dell’immensa biblioteca luculliana,
crearono un importante scriptorum.
Nel 1140, dopo aver conquistato Napo-
li, Ruggiero il Normanno si trasferì in
città dando inizio ad una fortificazione
del sito. Testimonianza più evidente di
questa fortificazione è la Torre Nor-
Castel dell’Ovo.
Resti Villa Luculliana
62
mandia. Con Federico II, nel 1222, il
castello fu ulteriormente fortificato
divenendo sede del tesoro reale. Con
Federico II furono erette la Torre di
Colleville, la Torre Maestra e la Torre
di Mezzo. Il castello divenne reggia e
prigione di stato.
Con l’avvento di Carlo I d’Angiò la cor-
te fu spostata al Maschio Angioino, ma
il Castel dell’Ovo mantenne la sua fun-
zione di prigione di stato. Qui, infatti,
fu rinchiuso Corradino di Svevia prima
di essere decapitato nella piazza del
Mercato.
Dopo il terremoto del 1370 che causò il
crollo di una parte dell’arco principale,
la regina Giovanna I fece rinforzare le
murature e restaurò anche le antiche
costruzioni normanne. Dopo avere
abitato il castello come sovrana, la
regina venne qui imprigionata dall’infe-
dele nipote Carlo di Durazzo, prima di
essere mandata in esilio a Muro Luca-
no.
Alfonso V d'Aragona apportò al castello
ulteriori ristrutturazioni: egli arricchì
il palazzo reale, ripristinò il molo, po-
tenziò le strutture difensive. Alfonso lo
preferì al Maschio Angioino, trasferen-
dovi la sua corte e passando qui la
maggior parte del suo tempo. Dopo
aver previsto di essere vicino alla mor-
te, il sovrano chiese di essere tempora-
neamente seppellito nel castello prima
di essere trasferito, in maniera definiti-
va, nel suolo natio.
Nel 1503 l’assedio alla città di Napoli,
realizzato da Ferdinando il Cattolico, si
concluse con la distruzione delle due
torri e la conquista dell’intero Regno di
Napoli in favore della Spagna. Le mura
del castello, che assunse la forma
odierna, furono inspessite, furono mi-
gliorati gli armamenti e le strutture
difensive furono orientate verso terra.
Durante il vicereame spagnolo e, suc-
cessivamente, con i Borbone, il castello
fu fortificato e furono aggiunti due
ponti levatoi. La struttura perse il ruolo
di residenza reale e dal XVIII secolo
divenne un avamposto militare. Da qui,
gli spagnoli bombardarono la città du-
rante i moti di Masaniello. Il Castello
mantenne, però, la funzione di prigio-
ne. In esso, infatti, furono rinchiusi
Tommaso Campanella, prima di essere
condannato a morte, e, in seguito, al-
cuni giacobini, carbonari e liberali co-
me, ad esempio, Carlo Poerio, luigi
Settembrini e Francesco de Sanctis.
Durante il periodo del cosiddetto
"Risanamento", che cambiò il volto di
Napoli dopo l'Unità d'Italia, un progetto
Interno Castel dell’Ovo
63
elaborato dall'Associazione degli scien-
ziati letterati e artisti nel 1871 preve-
deva l'abbattimento del castello per far
posto ad un nuovo rione. Tuttavia, ,
fortunatamente per la storia e la cultu-
ra della città, quel progetto non fu
attuato e l'edificio rimase in possesso
del demanio.
Nelle grandi sale presenti al suo interno
si svolgono, durante tutto l’anno, mo-
stre, convegni e manifestazioni. Alla
sua base sorge il porticciolo turistico
del "Borgo Marinari", animato da risto-
ranti e bar, sede storica di alcuni tra i
più prestigiosi circoli nautici napoleta-
ni.
Percorso il breve pontile che congiunge
il castello e Via Caracciolo, vi sentire-
te quasi catapultati in un’altra dimen-
sione, in un’epoca che va dal vicerea-
me spagnolo fino a giungere all’età dei
Borbone. Camminando per il castello
potrete osservare la Torre Maestra, le
celle dei monaci, la Torre Normandia.
Sarà il punto più alto del castello, pe-
rò, a mostrarvi lo spettacolo più gran-
de: da un lato il mare e tutto ciò che
potete toccare solo attraverso l’imma-
ginazione, dall’altro la concretezza di
secoli di storia, di cultura che quasi
sembrano proporsi come biglietto da
visita a coloro che giungono dal mare e
che si trovano dinanzi ad una città che
di storia ne ha da raccontare…
Il Diavolo di Mergellina
Nella prima metà del Cinquecento, una
bella donna napoletana, il cui nome
era Vittoria, si innamorò del vescovo di
Ariano, Diomede Carafa. La fanciulla,
che in passato aveva deciso di farsi
suora, abbandonò il noviziato e incari-
cò una fattucchiera di creare una fat-
tura d’amore per fare in modo che il
vescovo si innamorasse di lei.
Improvvisamente il vescovo iniziò a
sentirsi attratto da quella fanciulla
tanto che la sua immagine iniziò a per-
seguitarlo. Resosi conto di essere vitti-
ma di un maleficio, il vescovo inizio a
documentarsi per trovare una soluzio-
ne al maleficio. L’unico modo per riu-
scire a scacciare la fattura, secondo i
testi da lui letti, era quello di far rea-
lizzare da un artista un dipinto raffigu-
Interno Castel dell’Ovo Pontile che congiunge il Castel dell’Ovo e via Caracciolo
64
rante S. Michele e un drago
(rappresentazione del diavolo) avente
il volto di Vittorio: egli progettò, in
poche parole, una sorta di contro fattu-
ra. L’opera, inoltre, doveva essere pro-
tetta in un posto sacro ed essere rico-
perta di acqua santa e balsamo. Il di-
pinto si trova ora nella Chiesa di S,
Maria del Parto a Mergellina.
La leggenda, narrata tra l’altro da Be-
nedetto Croce, si diffuse presto tra il
popolo napoletano tanto che fu creato
il detto “si bella e ‘nfama comm’ ‘o
riàvule ‘e Margellina”
La Chiesa di Santa Maria del Parto
Nel 1497 Federico I salì al treno del
Regno di Napoli e concesse a Jacopo
Sannazaro un terreno nella zona di Mer-
gellina appartenuto, in passato, ai mo-
naci benedettini . Alla villa preesisten-
te, Sannazaro fece aggiungere una tor-
re e due chiese sovrapposte i cui lavori
inizarono nel 1504, anno del definitivo
trasferimento a Napoli del poeta.
La Chiesa sottostante, interamente
scavata nel tufo, fu terminata nel 1525
e fu dedica a Santa Maria del Parto.
Essa divenne luogo di pellegrinaggio di
tutte le donne incinta o di coloro che
volevano avere figli. Dopo la morte del
poeta la chiesa cadde in uno stato di
abbandono, mentre quella superiore
rimase inconclusa non solo a causa
dell’epidemia di pesta dell’epoca ma
anche e, soprattutto, per l’instabilità
politica dell’epoca.
Prima della sua morte Sannazaro donò
il suo possedimento ai frati dei Servi di
Maria facendosi promettere che al suo
interno avrebbero fatto costruire il suo
monumento funebre.
Quando. Nel decennio francese, Napo-
leone Bonaparte fece sospendere gli
ordini sacerdotali la chiese e le sue
proprietà passarono nelle mani dei pri-
vati che ne modificarono la facciata
per allargare lo spazio necessario per le
abitazioni. Nel 1971 la Chiesa tornò
nelle mani dei Servi di Maria.
La facciata della chiesa ha forma ret-
tangolare ed è tinteggiata in rosso.
Essa è divisa in due parti: quella infe-
riore è caratterizzata da un arco, nel
quale è iscritto un arco più piccolo che
dà l'accesso al vestibolo; accanto ad
esso altri due archi più piccoli sono
utilizzati come ingressi secondari e
sono sormontati da due epigrafi, una a
S. Michele e il Drago– Santa Maria del Parto
Esterno Chiesa di S. Maria del Parto
65
destra, l'altra a sinistra, che narrano
alcuni degli eventi riguardanti la storia
della chiesa.
Al di sopra delle due epigrafi sono af-
frescate le figure di Federico d’Aragona
e Jacopo Sannazaro, entrambe forte-
mente danneggiate. A concludere que-
sta parte della facciata, vi sono una
botola che è utilizzata come fonte di
luce e due stemmi gentilizi.
La parte superiore della facciata, inve-
ce, è caratterizzata da tre balconi,
tutti terminanti con stucchi riproducen-
ti un timpano, e nella parte centrale,
sormontato da una croce in ferro, si
trova un rosone. La facciata non è
quella originale progettata da Sannaza-
ro, ma fu modificata durante il decen-
nio francese .
« La nobile e decorosa facciata con
porta rettangolare, coronata da tra
statue marmoree, come ben rammen-
tano i vecchi abitatori di quella contra-
da, fu deformata miseramente da un
lungo braccio di casa privata, edificato
sopra di quella e sopra l'area dell'inter-
no vestibolo. »
(Antonio Mancini)
Superato l'arco di ingresso si accede al
vestibolo: ai lati del portale ligneo,
che funge da vera entrata alla chiesa,
sono visibili resti di affreschi, mentre
nel lato destro, in una sorta di piccola
cappella, è custodito un presepe con
statue lignee, realizzato nel XVI secolo
da Giovanni da Nola e precedentemen-
te custodito nella chiesa inferiore. La
chiesa ha un’unica navata. La volta
della chiesa non ha decorazioni mentre
il pavimento fu rifatto nel XX secolo
con piastrelle bianche e nere mentre,
in una delle cappelle laterali, rimango-
no tracce della pavimentazione di
maioliche.
Lungo tutto la navata vi sono decora-
zioni di stucco bianco e dorato che
riproducono non solo elementi natura-
li, ma anche putti che recano, oltre
alle allegorie della Fortezza, Carità,
Fede e Speranza, anche i simboli della
passione di Gesù.
Su ogni lato della navata vi sono, inol-
tre, tre cappelle recanti dipinti e deco-
razioni di vari artisti.
Nel XVIII secolo fu aggiunto l’altare
maggiore nelle vicinanze dell’arco
trionfale realizzato, quest’ultimo, da
Pietro Nicolini e su cui, tra l’altro, è
posata la statua della Madonna col
Bambino, in legno policromo, realizza-
ta da Francesco Saverio Citarelli nel
1865. Subito dopo troviamo un altro
arco sotto le cui curve sono poste le
tele di Giovanni Battista Lama. L’absi-
de, la cui forma è rettangolare, ospita
la tomba di Sannazaro. Il monumento
funebre fu realizzato da Giovanni An-
gelo Montorsoli . Interno– Santa Maria del Parto
66
L’oscuro principe di San Severo
Tra i principali personaggi che figurano
nella scuola degli alchimisti napoletani,
spicca il nome di Raimondo di Sangro
Principe di San Severo . Tra i massimi
scienziati napoletani e accanito studio-
so di tutti i fenomeni riguardanti la
natura, il principe divenne famoso per
le sue numerose scoperte: dalla tipo-
grafia simultanea a più colori alla pro-
prietà dei metalli, dalla decifrazione
del linguaggio esoterico degli Indios
fino alla realizzazione di “intrugli” in
grado di indurire i materiali. Tali sco-
perte restano, però, avvolte nel più
totale mistero: considerando le cono-
scenze dell’epoca, com’è possibile che
il Principe sia arrivato a tali risultati?
Grande anatomista, il di Sangro lasciò
tutti stupefatti ed increduli attraverso
la sua perfetta ricostruzione delle reti
venose del corpo umano, grazie all’aiu-
to del suo allievo salerno.
Figlio di Antonio di Sangro, Raimondo
poteva vantare una discendenza Borgo-
gnona dallo stesso Carlo Magno. Lo
stemma della casate dei di Sangro,
difatti, è quella della dinastia borgo-
gnona che fondeva al suo interno la
stirpe carolingia, longobarda e norman-
na.
Raimondo, per la sua versatilità e intel-
ligenza fu annoverato tra i più insigni
studiosi del XVIII secolo.
Uomo animato da una grande voglia di
rinnovamento ideologico, aderì alla
massoneria un’associazione, questa,
che inizialmente non trovò alcun tipo
di opposizione nella città di Napoli.
Successivamente Benedetto XIV fece
intervenire il re Carlo per reprimerla e,
nel 1751, il clero ebbe reazioni violente
contro la massoneria e contro tutti
quelli che ne facevano parte. Lo stesso
Principe fu costretto, almeno apparen-
temente, ad allontanarsene. Solo appa-
rentemente perché quando, nello stes-
so anno, vi fu una forte battuta d’arre-
sto per l’associazione, il di Sangro deci-
se di affidare alla cappella di famiglia,
che stava restaurando, il compito di
trasmettere ai posteri il suo pensiero
Tomba di Sannazaro—Chiesa S. Maria del Porto
Stemma casata di Sangro
67
ideologico.
Nel suo laboratorio sotterraneo iniziò
un’attività topografica, supportato
dall’ausilio di macchine costosissime,
con i quali, si dice, abbia stampato
anche alcune opere scientifiche e testi
massoni ritrovati nella sua immensa
libreria. Questa notizia si diffuse ben
presto in città tanto che il Principe,
per evitare problemi, decise di regalare
la stamperia a re Carlo di Borbone
Nonostante le sue invenzioni, o comun-
que parte di esse, siano andate perdu-
te, è possibile averne testimonianza
grazie alle lettere, poi ritrovate, che
egli si scambiò con i suoi amici.
Tra le sue prime invenzioni realizzato
con l’aiuto di poche corde, facile da
smontare e realizzabile in uno spazio
non vastissimo. Il palcoscenico fu rea-
lizzato per festeggiare la nascita del
figlio di Carlo VI d’Austria e, grazie ad
esso, riuscì ad ottenere l’ammirazione
dei più grandi scienziati dell’epoca.
Da questo momento in poi realizzerà
numerose e geniali invenzioni: dal mar-
chingegno che poteva sparare sia a
polvere che a salve alla macchina capa-
ce di far giungere l'acqua a notevole
altezza senza l'aiuto di animali; da una
lega metallica ultra leggera e, con es-
sa, un cannone con una gittata superio-
re a quelli del suo tempo ad un panno
impermeabile, resistente alla pioggia
più forte; dal congegno che utilizzò,
poi, per costeggiare il golfo senza l’aiu-
to dei remi ad una lampada esterna;
dalla scoperta di come realizzare pie-
tre preziose utilizzando pietre grezze
fino alla realizzazione di due macchine
anatomiche di cui, però, parleremo più
avanti.
La Cappella di San Severo
Quando si parla del Principe di san
Severo non si può non far riferimento
alla Pietà dei Sangro di San Severo, una
cappella fortemente voluta dal Princi-
pe per onorarne i personaggi sepolti e
dare un maggior lustro alla sua casata:
ecco, dunque, che egli farà mettere in
mostra il valore e la nobiltà di spada
degli uomini, e la virtù e la nobiltà
d’animo delle donne.
Animato da una forte ideologia masso-
nica, il Principe progettò opere che
racchiudessero quella simbologia e la
trasmettessero ai posteri. Le rappre-
sentazioni presenti nella cappella cor-
rispondono ad un preciso codice allego-
rico: dopo aver scelto la vitù più ade-
guata a rappresentare un determinato
membro della sua famiglia, egli aggiun-
ge nuove simbologie per dare un signi-
ficato ancor più profondo all’opera.
Per la realizzazione di tale opera, oltre
ai napoletani Sanmartino, Celebrano,
Persico, Russo e Amalfi, furono chia-
mati in città anche Queirolo e Corradi-
ni. A loro il principe consegnò anche i
marmi da utilizzare e colori alchemici.
Dopo l’ultimazione della cappella Rai-
mondo lasciò scritto, nel suo testamen-
to, che le opere in essa contenuta non
dovevano essere né spostate dal l’ubi-
cazione originale né, tantomeno, modi-
ficati.
La Cappella di San Severo
Quando si parla del Principe di san
Severo non si può non far riferimento
alla Pietà dei Sangro di San Severo, una
68
cappella fortemente voluta dal Principe
per onorarne i personaggi sepolti e
dare un maggior lustro alla sua casata:
ecco, dunque, che egli farà mettere in
mostra il valore e la nobiltà di spada
degli uomini, e la virtù e la nobiltà
d’animo delle donne.
Animato da una forte ideologia masso-
nica, il Principe progettò opere che
racchiudessero quella simbologia e la
trasmettessero ai posteri. Le rappre-
sentazioni presenti nella cappella corri-
spondono ad un preciso codice allegori-
co: dopo aver scelto la vitù più adegua-
ta a rappresentare un determinato
membro della sua famiglia, egli aggiun-
ge nuove simbologie per dare un signi-
ficato ancor più profondo all’opera.
Per la realizzazione di tale opera, oltre
ai napoletani Sanmartino, Celebrano,
Persico, Russo e Amalfi, furono chiama-
ti in città anche Queirolo e Corradini. A
loro il principe consegnò anche i marmi
da utilizzare e colori alchemici. Dopo
l’ultimazione della cappella Raimondo
lasciò scritto, nel suo testamento, che
le opere in essa contenuta non doveva-
no essere né spostate dal l’ubicazione
originale né, tantomeno, modificati.
Le sculture che decorano l’intera strut-
tura sono espressione di una simbologia
massonica-templare che ha un impatto
visivo così forte che persino coloro che
non sono esperti di iconografia o sim-
bologia, riescono a percepire che quel-
le sculture vogliano “dire” molto di più
di quello che potrebbe sembrare.
Ma andiamo per gradi…
La vegetazione marmorea, scolpita in
tutta la cappella, rappresenta rami e
arbusti di quercia. Il ramo rappresenta
la forza e la sapienza, due virtù fonda-
mentali per la massoneria. Gli arbusti,
invece, rappresentano, sempre in ma-
niera simbolica, la conoscenza del bene
e del male.
Soffermiamoci, a questo punto, sulla
statua della Pudicizia: è quasi impossi-
bile non rimanere stupiti dinanzi ad
una rappresentazione così sensuale e
femminile di tale virtù. Il velo che la
ricopre, anch’esso frequente nelle rap-
presentazioni della cappella, rappre-
senta la Sapienza che deve essere sve-
lata.
La lapide spezzata, segno evidente
della morte prematura della madre
Cecilia Gaetani, si riferisce al tema
dell’antica sapienza velata e intangibi-
le per coloro che non sono “iniziati” ai
suoi misteri. Ai piedi della statua, inol-
tre, vi è un vaso bruciaprofumi che
allude alle fumigazioni con le quali i
massoni erano soliti sacralizzare le loro
cerimonie.
La piramide, presente sullo sfondo del-
la "Liberalità", della "Soavità del giogo
coniugale", della "Sincerità" e della
"Educazione", simboleggia la chiara ed Pietà dei Sangro di San Severo
69
alta gloria dei principi che hanno fab-
briche sontuose per mostrare la loro
gloria.
L’ Aquika, rappresentata nella statua
della Liberalità, è il simbolo della vit-
toria, mentre la colomba, rappresen-
tata nella “Sincerità” e nella “soavità
del giogo coniugale”, rappresenta la
pace e rafforza il concetto di unione
coniugale.
Che voi siate degli esperti d’arte o
meno, non potrete non rimanere im-
pressionati dinanzi al Cristo Velato,
nell’ammirare una scultura che, a ve-
derla, sembra così reale , da suscitare
una forte commozione in colui che la
osserva.
Tale scultura, attualmente ubicata al
centro della struttura era originaria-
mente pensata per essere collocata
nella cripta ovale che si trova al di sot-
to della cappella.
Il Cristo velato, per secoli, ha impe-
gnato numerosi studiosi: com’ è possi-
bile che il velo di marmo possa rende-
re visibile anche i lineamenti del viso
di Gesù e i particolari del resto del suo
corpo? Secondo alcuni fu lo stesso Rai-
mondo a realizzare il velo del corpo di
Gesù ma, a questo punto le ipotesi più
accreditate sarebbero due: da una
parte, Raimondo avrebbe usato una
sostanza in grado di indurire, come il
marmo, un tessuto lasciandone anche
i drappi; dall’altra è possibile che Rai-
mondo avesse creato uno strato così
sottile di marmo da averlo reso traspa-
rente. Fu compito di Sammartino, il
realizzatore del corpo di Gesù, quello
di rendere i due blocchi di marmo un
pezzo unitario.
Il tema del Cristo risorto rimanderebbe
al viaggio compiuto dall’iniziato che,
dopo essere morto simbolicamente,
risorge a nuova vita. Il tema della Mor-
te è riproposto ben due volte all’inter-
no della cappella: la ritroviamo, infat-
ti, sia nel Cristo Velato che nella Depo-
sizione.
Numerosi sono, anche, i simboli nel
La Pudicizia– Cappella di San Severo Il Cristo velato– cappella di San Severo
70
Disinganno. La statua, che rappresente-
rebbe il padre di Raimondo, mostra un
uomo, circondato da una fune piena di
nodi che lo avvolgono senza, però, toc-
carlo. Il tema della statua è quello del-
la rottura con i legami mondani fino ad
arrivare alla redenzione. A quest’ulti-
ma l’uomo giungerà non attraverso la
fede ma grazie all’intelletto che, illu-
minando la mente, la libera dalle pas-
sioni umane.
Scolpito su tutto il pavimento della
cappella, vi era un labirinto di cui pur-
troppo, ora, restano solo poche tracce.
Il significato del labirinto è duplice: da
una parte potrebbe rappresentare la
volontà, del Principe, di esplorare e
conoscere anche le parti più oscure
della natura, conoscerla, in sostanza,
come nessuno aveva mai fatto prima di
lui; dall’altra potrebbe rappresentare
l’idea che per giungere alla verità è
necessaria l’intelligenza, così come la
luce è fondamentale per non perdersi
nel labirinto dell’universo.
La vera entrata della cappella era quel-
la laterale , l’entrata era dunque al
Nord come prevedevano le antiche Log-
ge massoniche; mentre la porta attual-
mente utilizzata come ingresso era
murata. Ciò non era un caso, ma faceva
parte di quel labirinto iniziatico che
l’adepto doveva affrontare per uscire,
davvero, dalla vita profana.
Nella zona dove sorge tale cappella, un
tempo vi era ubicato il tempio che gli
alessandrini d’Egitto dedicarono alla
dea Iside e dove essi veneravano la
statua, velata, della dea.
La cappella del Principe era segreta-
mente unita al suo palazzo da un pas-
saggio segreto, oggi andato completa-
mente distrutto. Proprio all’intorno del
palazzo egli realizzò la sua officina
dove sperimentò l’impermeabilizzazio-
ne dei tessuti e progettò il famoso Lu-
me della Fama che avrebbe dovuto
risplendere, ai piedi del Cristo, velato
senza mai spegnersi.
Collocate originariamente nel Palazzo
della Fenice del di Sngro e spostate,
solo successivamente alla sua morte,
nel sotterraneo della cappella, vi sono
le due “Macchine Anatomiche”: (una
maschile e una femminile) che rappre-
Il Disinganno– Cappella di San Severo
Ingresso Cappella di San Severo
71
sentano in maniera, quasi perfetta e
dettagliata, l’intero sistema circolato-
rio del corpo umano. Le Macchine era-
no, in verità, tre,. Purtroppo, però,
l’ultima, che rappresentava un feto, fu
rubata intorno al XX secolo e di essa
non si è mai più saputo nulla.
Anche intorno a quest’opera, che da
sempre suscita sbigottimento e ammi-
razione in coloro che la osservano, sono
circolate numerose leggende. Secondo
alcuni, infatti, il Principe , aiutato dal
suo allievo Salerno, avrebbe realizzato
tali macchine facendo degli esperi-
menti su due dei suoi servi, iniettando
nelle loro vene una sostanza, da lui
inventata, che avrebbe salvato il cir-
cuito sanguigno.
Tale “leggenda” viene ritrovata anche
negli scritti di Benedetto Croce che,
nei suoi “Scritti di storia letteraria e
politica, così scrive:
« [...] fece uccidere due suoi servi, un
uomo e una donna, e imbalsamarne
stranamente i corpi in modo che mo-
strassero nel loro interno tutti i visceri,
le arterie e le vene. »
Le due Macchine furono realizzate, non
solo per creare stupore ma anche ,e
soprattutto, come materiale didattico
per coloro che volevano acquisire una
conoscenza maggiore dell’apparato
circolatorio umano.
Quando il Vaticano costrinse il Principe
ad abiurare e a fare i nomi di altri Ini-
ziati come lui, i suoi parenti distrusse-
ro gran parte delle sue creazioni e sco-
perte, per evitare che i massoni, rite-
nutisi traditi dal loro fratello, potesse-
ro vendicarsi. Tutto ciò che potesse
collegare il Principe al mondo oscuro
fu prontamente fatto sparire da coloro
che avevano ocn lui legami di parente-
la.
Tra queste invenzioni non possiamo
non citare l’orologio, dotato di un
particolare carillon a campane ,che
rappresentava una sorta di faro, utile
ad indicare il sito iniziatico dei nuovi
adepti . Tale meccanismo, nascosto in
un tempietto ad otto colonne ( il nu-
mero 8 rappresenta un simbolo onni-
presente nella rappresentazione mas-
sonica), permetteva di eseguire qual-
siasi motivo percuotendo dei tasti ro-
tondi che corrispondevano ai vari suoni
delle campane.
Il Segreto del bugnato del Gesù Nuovo
Camminando per la famosissima Piazza
del Gesù, collocata a poca distanza
dalla cappella di Sansevero, si erge la
maestosa Chiesa del Gesù Nuovo.
La struttura, inizialmente concepita
come palazzo, fu progettata da Novello
da San Lucano, per volontà di Roberto
Sanseverino, e ultimato nel 1470. Ai
tempi di Ferrnte Sanseverino e di sua Macchina Anatomica– Cappella di
72
moglie Isabella, il palazzo divenne fa-
mosso per lo sfarzo e la bellezza delle
sue decorazioni, per gli affreschi e per
lo splendido giardino. Divenne inoltre
un punto di riferimento per la cultura
napoletana non solo rinascimentale ma
anche barocca. NEL 1536, dopo aver
conquistato Tunisi, Carlo V giunse a
Napoli e fu ospitato in questo palazzo
da Ferrante in persona che, per l’occa-
sione, organizzò una festa che rimase
celebre nelle cronache del tempo.
Nel 1547, durante il viceregno di don
Pedro di Toledo, gli spagnoli cercarono
di introddurre in città l’Inquisizione. I
napoletani, sostenuti da Ferrante, si
opposero a quest’imposizione riuscendo
ad evitarla. Le conseguenze, però, per
Ferrante furono gravose: egli fu co-
stretto ad andare in esilio. E a rinuncia-
re a tutti i suoi beni che, per volontà di
Filippo II, furono messi in vendita. Nel
1548 il palazzo acquistato dai gesuiti.
Costoro affidarono i lavori di manuten-
zione a due dei loro confratelli: Giu-
seppe Valeriano e Pietro Provedi. Essi,
della costruzione originale, risparmia-
rono solo il bugnato esterno ed il porta-
le marmoreo. La Chiesa fu consacrata
nel 1601.
Tra il 1629 e il 1634, sotto la direzione
di Agatio, fu eretta la cupola il cui af-
fresco, rappresentante il Paradiso, fu
realizzato da Giovanni Lanfranco. La
Chiesa fu sottoposta , in seguito ad un
incendio verificatosi nel 1639, ad alcuni
restauri al termine dei quali fu incari-
cato Aniello Falcone di eseguire la de-
corazione della volta della grande sa-
crestia. Nel 1688, in seguito al terre-
moto, la cupola crollò.
Tra 1693 e 1695, ad opera di Arcangelo
Guglielmelli, fu ricostruita la cupola e
il portale marmoreo fu arricchito con
nuove decorazioni (due colonne, due
angeli e lo stemma dei gesuiti “IHS”).
Su progetto di Ferdinando Fuga, la
Chiesa fu rinforzata con sottopilastri ed
archi e a Paolo de Matteis fu affidato il
compito di realizzare un nuovo affresco
per la cupola.
Nel 1767 i gesuiti furono banditi dal
regno di napoli e la Chiesa passò nelle
mani dei francescani che, a causa di
alcuni crolli, lasciarono la struttura.
Nel 1774, infatti, parte della cupola
Chiesa del Gesù Nuovo Interno della Chiesa del Gesù Nuovo
73
crollò e si decise di abbatterla total-
mente per evitare nuovi ed improvvisi
crolli. La Chiesa rimarrà chiusa per
circa trentanni.
Nel 1786 l’ingegnere Ignaziodi Nardo
sostituì la cupola originaria con una
falsa a calotta schiacciata, mentre la
copertura della Chiesa venne provvista
con un tetto a capriate.
Il Segreto del bugnato del Gesù Nuovo
Camminando per la famosissima Piazza
del Gesù, collocata a poca distanza
dalla cappella di Sansevero, si erge la
maestosa Chiesa del Gesù Nuovo.
La struttura, inizialmente concepita
come palazzo, fu progettata da Novello
da San Lucano, per volontà di Roberto
Sanseverino, e ultimato nel 1470. Ai
tempi di Ferrnte Sanseverino e di sua
moglie Isabella, il palazzo divenne fa-
mosso per lo sfarzo e la bellezza delle
sue decorazioni, per gli affreschi e per
lo splendido giardino. Divenne inoltre
un punto di riferimento per la cultura
napoletana non solo rinascimentale ma
anche barocca. NEL 1536, dopo aver
conquistato Tunisi, Carlo V giunse a
Napoli e fu ospitato in questo palazzo
da Ferrante in persona che, per l’occa-
sione, organizzò una festa che rimase
celebre nelle cronache del tempo.
Nel 1547, durante il viceregno di don
Pedro di Toledo, gli spagnoli cercarono
di introddurre in città l’Inquisizione. I
napoletani, sostenuti da Ferrante, si
opposero a quest’imposizione riuscendo
ad evitarla. Le conseguenze, però, per
Ferrante furono gravose: egli fu co-
stretto ad andare in esilio. E a rinuncia-
re a tutti i suoi beni che, per volontà di
Filippo II, furono messi in vendita. Nel
1548 il palazzo acquistato dai gesuiti.
Costoro affidarono i lavori di manuten-
zione a due dei loro confratelli: Giu-
seppe Valeriano e Pietro Provedi. Essi,
della costruzione originale, risparmia-
rono solo il bugnato esterno ed il por-
tale marmoreo. La Chiesa fu consacra-
ta nel 1601.
Tra il 1629 e il 1634, sotto la direzione
di Agatio, fu eretta la cupola il cui
affresco, rappresentante il Paradiso, fu
realizzato da Giovanni Lanfranco. La
Chiesa fu sottoposta , in seguito ad un
incendio verificatosi nel 1639, ad alcu-
ni restauri al termine dei quali fu inca-
ricato Aniello Falcone di eseguire la
decorazione della volta della grande
sacrestia. Nel 1688, in seguito al terre-
moto, la cupola crollò.
Tra 1693 e 1695, ad opera di Arcange-
lo Guglielmelli, fu ricostruita la cupola
e il portale marmoreo fu arricchito con
nuove decorazioni (due colonne, due
angeli e lo stemma dei gesuiti “IHS”).
Su progetto di Ferdinando Fuga, la
Chiesa fu rinforzata con sottopilastri
ed archi e a Paolo de Matteis fu affida-
to il compito di realizzare un nuovo
affresco per la cupola.
Nel 1767 i gesuiti furono banditi dal
regno di napoli e la Chiesa passò nelle
mani dei francescani che, a causa di
alcuni crolli, lasciarono la struttura.
Nel 1774, infatti, parte della cupola
crollò e si decise di abbatterla total-
mente per evitare nuovi ed improvvisi
crolli. La Chiesa rimarrà chiusa per
circa trentanni.
Nel 1786 l’ingegnere Ignaziodi Nardo
74
sostituì la cupola originaria con una
falsa a calotta schiacciata, mentre la
copertura della Chiesa venne provvista
con un tetto a capriate.
Nel 1821, rientrati i Borboni a Napoli, i
gesuiti tornarono in possesso della
Chiesa da cui verranno, però, nuova-
mente abbandonati nel 1860.
L'8 dicembre del 1857, l'altare maggio-
re ideato dal gesuita Giuseppe Grossi,
fu ultimato e la chiesa fu dedicata
all'Immacolata Concezione. Nel 1900
l'ordine dei Gesuiti poté rientrare defi-
nitivamente. La Chiesa subì numerosi
danni durante gli attacchi aerei della
seconda guerra mondiale. Durante uno
dei bombardamenti una bomba cadde
sul soffitto della Chiesa rimanendo,
però, inesplosa: la bomba è ancora oggi
esposta all’interno della Chiesa.
L’interno barocco, con pianta a croce
greca, è caretterizzato da una ricca
decorazione marmorea realizzata da
Fanzago nel 1630. Le decorazioni delle
controfacciate della navata centrale e
di quelle laterali, furono realizzata da
Francesco Solimena e dalla sua scuola.
Le volte a botte, invece, furono dipinte
da Belisario Corenzio e da Paolo De
Matteis.
La cupola, ricostruita da Ignazio Nardo,
fu rinforzata con una struttura in calce-
struzzo armato ed è caratterizzata da
una calotta sferica scandita da fine-
strellle lunettate.
Il transetto presenta ,sul lato sinistro,
opere pittoriche di Jusepe de Ribera
(Gloria di sant'Ignazio e Papa Paolo III
approva la regola di sant'Ignazio, poste
in alto al centro ed a destra, entrambe
del 1643-44), sculture di Cosimo Fanza-
go (che eseguì le statue del David e
Geremia laterali all'altare, 1643-1654),
cicli di affreschi di Paolo De Matteis e
Belisario Corenzio. Sul lato destro inve-
ce vi sono tele di Luca Giordano (San
Francesco Saverio trova il Crocifisso in
mare, Il Santo caricato dalle croci ed Il
Santo che battezza gli indiani, tutte del
1690-92, poste rispettivamente in alto
a sinistra, al centro ed a destra della
cappella), un dipinto di Fabrizio Santa-
fede sulla parete di destra, ed ancora
cicli di affreschi del Corenzio e del De
Matteis, mentre del Fanzago sono le
due sculture ai lati dell'altare raffigu-
ranti Sant'Ambrogio e Sant'Agostino,
entrambe databili 1621. Sul lato destro
del transetto, inoltre, vi è una porta
d'accesso alle antiche stanze private di
Giuseppe Moscati, con esposti tra l'al-
tro anche alcuni manoscritti del santo, Interno Chiesa del Gesù Nuovo
75
sue fotografie storiche ed alcuni rosari.
Nella navata destra si aprono tre cap-
pelle ed una cappella più grande che
corrisponde alla parte terminale del
transetto: la prima cappella presenta ,
al suo interno, decorazioni marmoree
di Costantino Marasi e Vitale Finelli e
dipinti di Giovanni Bernardino Azzolino;
la seconda è dedicata a San Giuseppe
Moscati e conserva un dipinto all'altare
di Massimo Stanzione; il Cappellone di
San Francesco Saverio è ornato da di-
pinti di Luca Giordano, la decorazione
marmorea è di Giuliano Finelli, Donato
Vannelli e Antonio Solaro mentre le
sculture sono di Michelangelo Naccheri-
no e Cosimo Fanzago; la cappella a
destra del presbiterio è arricchita con
decorazioni di Angelo Mozzillo e Seba-
stiano Conca, mentre i marmi furono
disegnati nel XVIII secolo da Giuseppe
Astarita; l’ultima cappella, che funge
da abside destro, presenta ornamenti
di Belisario Corenzio e marmi di Co-
stantino Marasi.
Nella navata sinistra, con stesso sche-
ma di quella destra, si aprono le cap-
pelle: la prima presenta una decorazio-
ne del Marasi, una tela dell'Azzolino e
affreschi di Corenzio; la seconda è im-
preziosita con decorazioni di Corenzio
e di Girolamo Imparato ed inoltre con
statue di Michelangelo Naccherino,
Pietro Bernini e Girolamo D'Auria; il
Cappellone di Sant'Ignazio fu decorato
da Cosimo Fanzago, Costantino Marasi e
Andrea Lazzaro, mentre le statue furo-
no eseguite dal Fanzago e le tele sono
dello Spagnoletto e di Paolo De Mat-
teis; la cappella di sinistra del presbi-
terio ha decorazioni di Giovanni Batti-
sta Beinaschi e Francesco Mollica; la
cappella che funge da abside sinistro
presenta marmi disegnati da Giuseppe
Bastelli, Domenico di Nardo, Donato
Gallone e affreschi di Francesco Soli-
mena.
L'organo a canne della chiesa è stato
costruito da Gustavo Zanin nel 1989
riutilizzando la cassa barocca e parte
del materiale fonico del precedente
strumento secentesco, che era stato
realizzato, invece, da Pompeo de
Franco.
Il portale marmoreo , pur avendo subi-
to delle modifiche per volontà dei ge-
suiti, è originario del Palazzo di Sanse-
verino e risale al XIV secolo. Essi ag-
giunsero, lateralmente, due colonne
prolungando la cornice ed il frontone
fu spezzato per inserirvi uno scudo
ovale che ricorda la generosità della
principessa di Bisignano, Isabella Fel-
tria della Rovere. Alla sommità latera-
Organo a canne—Gesù Nuovo
76
le furono apposti gli stemmi dei Sanse-
verino e dei della Rovere e sull'archi-
trave un altro fregio con cinque testine
che sorreggono dei festoni di frutta.
La facciata della Chiesa del Gesù Nuo-
vo è caratterizzata da particolari bu-
gne, una sorta di piccole piramidi ag-
gettanti verso l'esterno, tipèiche del
Rinascimento veneto e pittosto insolite
nel Meridione. Guardando attentamen-
te il bugnato della Chiesa è impossibile
non notare dei segni, quasi un alfabe-
to, che si ripetono in maniera ordinata
quasi a scandire un ritmo. Per tanto
tempo gli studiosi si sono interrogati su
quelle incisioni, realizzate dai taglia-
pietra napoletani che avevano inciso la
dura pietra di piperno, chiedendosi
quale fosse il messaggio in esse nasco-
sto.
Nel Rinascimento esistevano a Napoli
alcuni maestri della pietra che si cre-
deva fossero in grado di caricarla di
energia positiva per tenere lontane le
energie negative. Gli strani segni incisi
che si riconoscono sulla facciata ai lati
delle bugne "a punta di diaman-
te" (disposti in modo che sembrasse si
ripetessero secondo un ritmo particola-
re che lasciasse intuire una “chiave” di
lettura occulta) hanno dato luogo ad
una curiosa leggenda.
La leggenda vuole che Roberto sanseve-
rino avesse voluto che ,a partecipare
alla realizzazione dell’opera , ci fosse-
ro i maestri pipernieri che avevano
anche conoscenza di segreti esoterici
capaci di caricare la pietra di energia
positiva. Tali segreti, gelosamente e
attentamente custoditi, venivano tra-
mandati da maestro ad adepti solo in
seguito ad un giuramento: nessuno di
loro avrebbe dovuto svelare quelle co-
noscenze.
I segni misteriosi graffiti sulle piramidi
della facciata, secondo la leggenda,
avevano a che fare con queste arti ma-
giche o conoscenze alchemiche. Essi
dovevano convogliare tutte le forze
positive e benevole dall'esterno verso
l'interno del palazzo. Per imperizia o
malizia dei costruttori, queste pietre
segnate non furono piazzate corretta-
mente, per cui l'effetto fu esattamente
opposto: tutto il magnetismo positivo
veniva convogliato dall'interno verso
l'esterno dell'edificio, attirando così
ogni genere di sciagure sul luogo.
Questa sarebbe la ragione per cui nel
corso dei secoli tante sventure si sono
abbattute su quell'area: dalle confische
dei beni ai Sanseverino, alla distruzione
del palazzo, dall'incendio della chiesa,
ai ripetuti crolli della cupola, alle varie
Bugnato facciata del Gesù Nuovo
77
cacciate dei Gesuiti, e così via.
Nel 2010 però, lo storico dell'arte Vin-
cenzo De Pasquale e i musicologi un-
gheresi Csar Dors e Lòrànt Réz hanno
identificato nelle lettere aramaiche
incise sulle bugne, note di uno spartito
costituito dalla facciata della chiesa,
da leggersi da destra verso sinistra e
dal basso verso l'alto. Si tratta di un
concerto per strumenti a plettro della
durata di quasi tre quarti d'ora, cui gli
studiosi che l'hanno decifrato hanno
dato il titolo di Enigma.
Questa interpretazione è stata messa in
discussione dallo studioso di ermetismo
e simbologia esoterica Stanislao Sco-
gnamiglio, che ha sostenuto che i segni
sulle bugne non siano caratteri dell'al-
fabeto aramaico, ma che invece possa-
no essere sovrapponibili ai simboli ope-
rativi dei laboratori alchemici in uso
fino al Settecento.
Che si tratti di uno spartito musicale o
di un messaggio in codice da trasmette-
re solo a coloro che avessero “occhi per
vedere ed orecchie per sentire” non è
dato sapere; il bugnato del Gesù Nuovo
resta, ancora oggi, avvolto dal mistero.
Un vampiro a spasso per Napoli: Dracu-
la
Napoli terra che ,un tempo, era stata
abitata da maghi, alchimisti e massoni
non poteva lasciarsi scappare la possi-
bilità di ospitare la creatura più oscura
conosciuta nell’immaginario mondiale:
Dracula. Se Virgilio e Raimondo di San-
gro si erano lasciati sedurre dalla magia
nera e ne avevano conosciuto i meandri
più oscuri, ecco che in città giunge
colui che con l’oscurità aveva stretto
un patto: Vlad Tepes .
Vlad nacque in Transilvania nel 1431.
Divenne famoso con il nomignolo di
“L’Impalatore” per la sua abitudine di
impalare i corpi dei suoi nemici. Il suo
patronimico rumeno “Draculea” e il
suo essere un sanguinario e crudele
combattente, ispirarono Bram Stoker
nella realizzazione del famoso romanzo
Dracula.
Impalare i suoi nemici, i traditori o
semplicemente coloro che si mostrava-
no poco inclini a rispettarlo era diven-
tato il suo passatempo preferito tanto
che egli, invento un modo diverso di
impalare le persone a seconda del
misfatto compiuto: a seconda della
colpa, insomma, aumentava la durata
dell’agonia del malcapitato.
La crudeltà dell’Impalatore divenne
famosa in tutta Europa tanto che, si
dice, dopo la sua morte molti avrebbe-
ro pregato in nome suo per
“mantenerlo buono” altri, invece, rac-
contano che ,dopo la sua morte, i ne-
mici gli tagliarono la testa temendo
che potesse tornare in vita.
In realtà il corpo di Dracula non è mai
stato ritrovato.
Negli ultimi tempi , secondo le ricer-
che condotte da alcuni studiosi, è
trapelata la notizia secondo la quale il
corpo del conte potrebbe trovarsi in
una nicchia di Santa Maria la Nova, a
Napoli. Ma perché il sanguinario conte
decise di venire a Napoli? Dopo essere
stato portato a Costantinopoli, secondo
questi studiosi, Vlad fu riscattato da
sua figlia che , avendo sposato un ita-
78
liano, pensò di trovare rifugio per il
padre proprio a Napoli.
Santa Maria la Nova
Nel 1279 Carlo I d’ Angiò concesse ai
francescani , come risarcimento della
struttura che gli era stata confiscata
per la realizzazione del Maschio Angioi-
no, di poter costruire una nuova strut-
tura nella zona in cui sorgeva un vec-
chio torrione difensivo, risalente all’al-
to medioevo. La Chiesa fu chiamata,
Santa Maria la Nova.
Giovanni Pisano progetto la chiesa dan-
dole forme gotiche e dotandola di tre
navate. I terremoti del 1456,1538 e
1569 danneggiarono fortemente la co-
struzione e l’esplosione della polverie-
ra del Castel Sant’Elmo provocò nume-
rosi danni alle decorazioni in legno
dell’edificio.
Tra il 1596 e il 1599, sotto la direzione
di Giovanni Cola, furono realizzati i
restauri. Se consideriamo il breve tem-
po impiegato per il rifacimento della
struttura, possiamo ipotizzare che i
setti murari della chiesa precedente,
siano stati inglobati nei nuovi lavori. Di
sicuro, della vecchia struttura, furono
riutilizzati tufo, piperni e tegole.
Nel 1603 fu realizzato il soffitto ligneo,
nel 1606 fu innalzata la facciata, nel
1620 fu costruito il coro e nel 1663
Cosimo Fanzago lavorò al rinnovo, in
stile barocco, del transetto e del pre-
sbiterio, realizzando il maestoso altare
maggiore.
Tra 1858 e 1859 Federico Travaglini
dovette restaurare le decorazioni in
piperno che, a causa della scarsa ma-
nutenzione, avevano subito un veloce
degrado. Inizialmente Travaglini pensò
di riportare alla luce le antiche decora-
zioni rinascimentali ma, la mancanza di
fondi, lo fece desistere da tale decisio-
ne e lo spinse a rafforzare la decorazio-
ne barocca arricchendola con motivi
nuovi. Egli, inoltre, rafforzò il soffitto a
cassettoni e realizzò gli altari laterali
addossati ai pilastri delle navate.
La facciata della chiesa è composta da
Presunta Tomba di Dracula– santa Santa Maria la Nova
79
un doppio registro con quattro pilastri
corinzi e compositi e si raccorda sul
prospetto della cappella di S.Giacomo
della Marca , al centro vi è un portale
in marmo e granito con l’edicola raffi-
gurante la Vergine. A sinistra, nell’an-
golo, vi è una piccola cappella con cu-
pola che era appartenuta ai Fasano .La
scala d’accesso, costituita da una dop-
pia rampa, è stata realizzata con pi-
perno e marmo.
Ciò che colpisce di più, entrando in
chiesa, è il cassettonato, realizzato tra
1598 e il 1603, dove sono collocate tele
realizzate dai principali pittori manieri-
sti attivi a Napoli come, ad esempio,
Francesco Curia, Girolamo Imparato-
Giovanni Bernardino Azzolino, Belisario
Corenzio, Luigi Rodriguez, Cesare Smet
e Tommaso Maurizio. I restauri effet-
tuati nel Novecento spostarono i dipinti
in cassettoni diversi da quelli in cui,
originariamente, erano stati disposti.
L'altare maggiore fu realizzato, se-
guendo il progetto di Cosimo Fanza-
go,nella metà del XVII secolo. Esso
occupa tutta la larghezza del presbite-
rio .
All’interno delle cappelle presenti nel-
la chiesa vi sono dipinti e decorazioni
di numerosissimi artisti attivi a Napoli.
Il chiostro maggiore è caratterizzato da
una pianta quadrata con nove arcate
per lato epresenta resti di antiche de-
corazioni.
Il chiostro più piccolo, invece, risale al
XVI secolo ed ha forma rettangolare. Il
perimetro del chiostro è percorso quasi
interamente da un muretto su cui pog-
giano le colonne ioniche che sorreggo-
no l’ambulacro. Nei quattro punti in
cui il muretto si interrompe, vi sono
delle cancellate realizzate in ferro
battuto.
Sulla volta dell’ambulacro vi sono,
inoltre, affreschi del pittore Simone
Papa che raccontano la vita si San Gia-
como la Marca.
All’interno del chiostro vi sono conser-
vati alcuni monumenti funebri tra i
Interno Santa Maria la Nova Interno Santa Maria la Nova
80
quali, come detto precedentemente, si
nasconderebbe anche quella del conte
Dracula.
81
82
La peste del 1656 a Napoli e i suoi luo-
ghi.
La promiscuità, il sovraffollamento, il
mancato rispetto delle più elementari
regole dell’igiene sono state nei secoli
le cause primarie del diffondersi nella
città di Napoli di disastrose epidemie,
che talune volte hanno falciato quote
cospicue della popolazione.
Tra queste il colera sembra essere di-
venuto quasi endemico; esplode sem-
pre d’estate tra luglio ed agosto, quan-
do le temperature raggiungono i loro
picchi annuali e colpisce per primi gli
abitanti dei bassi, dove le precarie
condizioni di vita favoriscono la diffu-
sione del contagio.
Lungo i secoli bui del Medioevo le epi-
demie si susseguivano e si sovrappone-
vano procurando migliaia di decessi:
difterite, tifo, malaria, vaiolo, epatite
e salmonellosi hanno imperversato a
lungo in città ed in provincia.
Tra le epidemie più disastrose bisogna
ricordare quella di peste del 1191, du-
rante l’assedio di Enrico lo Svevo con
migliaia di morti, anche se la vera pe-
ste fu quella del 1656, che dimezzò la
popolazione, spazzando via un’intera
generazione di pittori, mentre i pochi
superstiti ne hanno immortalato scene
indimenticabili, come Micco Spadaro,
che ci ha fornito un’immagine grandio-
sa dell’odierna piazza Dante con una
marea di moribondi, mentre squadre di
monatti compivano il loro triste ufficio
o Carlo Coppola che inquadra gli avve-
nimenti della grande piazza del Merca-
to e Luca Giordano il quale ci mostra
San Gennaro nel pieno della sua attivi-
tà di protettore della città e nel basso
della composizione ci restituisce il par-
ticolare straziante di un bambinello
abbandonato al suo destino dalla madre
morta, che cerca disperatamente nutri-
mento nelle mammelle di una puerpera
da poco spirata. E concludiamo con
Mattia Preti che ebbe l’incarico di ese-
guire sulle porte della città dei gigan-
La peste
83
teschi ex voto di ringraziamento per la
cessazione del morbo.
Anche il Settecento fu triste sotto il
profilo delle epidemie e nell’Ottocen-
to, dopo l’Unità d’Italia, in poco più di
venti anni Napoli venne colpita ben
cinque volte dal colera, pagando nel
1865 un tributo di oltre 6000 vittime
alla furia del morbo ed ancora di più
l’anno successivo, fino a quando, dopo
l’ulteriore disastrosa epidemia del
1884, si raccolse l’urlo disperato della
Serao:”Bisogna sventrare Napoli” e si
diede mano alla colossale opera del
Risanamento, ridisegnando interi quar-
tieri.
Del persistere delle epidemie molti
abitanti davano la colpa ai nuovi ammi-
nistratori al punto che in alcuni ospe-
dali circolava il demenziale ritornello:
“Si vulite ca cacammo tuosto, Datece
‘o Rre Nuosto”.
Il colera ha infuriato incontrastato per
decenni, complice il degrado in cui
versava gran parte della città antica,
servita da un acquedotto, che chiamare
vergognoso significava fargli un compli-
mento, perché in molti punti era inqui-
nato dai liquami fognari. Anzi in quasi
tutti i bassi si utilizzava per bere e per
cucinare l’acqua di un pozzo, che
“fraternizzava” con gli escrementi che
scolavano verso la cloaca da un orribile
buco, il quale fungeva in ogni abitazio-
ne da cesso, permettendo il passaggio
verso il basso e l’esterno di feci ed
urine e verso l’alto e l’interno di topi e
zoccole, da cui la necessaria presenza
in ogni basso di una colonia di gatti,
che cercava disperatamente di opporsi
al proliferare dei ratti.
Il periodico presentarsi delle epidemie
di colera provocava numerosi decessi,
per cui fu necessario realizzare nel
1836 un cimitero dedicato unicamente
ai trapassati per via del morbo. Anzi ad
essere più precisi ne vennero creati
due, perché al primo accedevano pre-
valentemente gli appartenenti alle
famiglie illustri della città, mentre al
secondo, un sepolcreto costruito nel
1837 vicino al cimitero delle 366 fosse,
il popolino, che altrimenti sarebbe fini-
to nelle fosse comuni dell’attiguo cimi-
tero realizzato dal Fuga per trovare
un’eterna dimora ai senza dimora ospi-
tati nell’Albergo dei poveri.
E qui si apre un’altra dolorosa ferita
nella conservazione della memoria del-
la città, perché il cimitero, per quanto
conservi le spoglie del gotha dell’ari-
stocrazia napoletana, a partire dai Ca-
racciolo e dai Carafa ed un profluvio di
epigrafi che ci raccontano, con accenti
84
commossi, storie di amore e di soffe-
renza, versa in uno stato di abbandono
deplorevole, con i monumenti funebri
avvolti da un’inestricabile boscaglia
che umilia questa prodigiosa Spoon
River partenopea.
Le colpe di queste infinite epidemie,
che fanno somigliare Napoli ad una
città del terzo mondo, vanno equamen-
te divise tra amministratori ed ammini-
strati, presenti e passati. Nei secoli
nessuno è riuscito a regolare la crescita
tumultuosa della città, cercando di
limitare la sproporzione tra numero
degli abitanti e superficie a disposizio-
ne, per cui una quota significativa della
popolazione è costretta a sopravvivere
in condizioni precarie.
Nella mastodontica opera di ristruttu-
razione del Risanamento vennero ab-
battute 17000 abitazioni e scomparvero
sotto i colpi di piccone anche 64 chie-
se, 144 strade e 56 fondachi. Prese
forma il Rettifilo lungo quasi due chilo-
metri, che tagliò letteralmente in due
il ventre di Napoli, ma non si costruiro-
no come promesso case economiche,
per cui la popolazione più povera fu
costretta a ritornare nei bassi con l’u-
nica differenza che dove abitavano in
sei o otto, dovettero arrangiarsi in die-
ci o dodici.
Piazza Dante
Piazza Dante è una delle più importanti
piazze di Napoli ed è situata nel centro
storico cittadino.
Costituisce l'inizio di via Toledo e, tra-
mite l'accesso a Port'Alba sul lato nord
della piazza, la stessa confluisce lungo
il Decumano maggiore.
In origine era detta Largo del Mercatel-
lo, poiché vi si teneva, fin dal 1588,
uno dei due mercati della città, diffe-
renziandosi con il diminutivo mercatel-
lo da quello più grande ed antico di
piazza del Mercato.
Fino alla metà dell'Ottocento sorgevano
a nord l'edificio delle fosse del grano e
a sud le cisterne dell'olio, per secoli i
principali magazzini di derrate della
città; inoltre vi gravitano uffici, ospe-
dali, istituzioni culturali e rinomatissi-
mi bar.
Ulteriore importanza fu l'apertura
"ufficiale" di port'Alba nel 1625, ufficia-
le perché la popolazione aveva creato
nella muraglia un pertuso abusivo per
facilitare le comunicazioni con i borghi,
in modo particolare con quello dell'Av-
vocata che si stava rapidamente in-
grandendo.
La piazza assunse l'attuale struttura
nella seconda metà del Settecento, con
l'intervento dell'architetto Luigi Vanvi-
telli; il "Foro Carolino" commissionato-
gli doveva costituire un monumento
celebrativo del sovrano Carlo III di Bor-
bone. I lavori durarono dal 1757 al
1765, e il risultato fu un grande emici-
clo, tangente le mura aragonesi, che
visto orizzontalmente inglobava Port'Al-
ba a ovest, e affiancò la chiesa di San
Michele ad est.
L'edificio, con le due caratteristiche ali
ricurve, vede in alto la presenza di
ventisei statue rappresentanti le virtù
di Carlo (tre sono di Giuseppe Sanmar-
tino, le altre di scultori carraresi), e al
centro una nicchia che avrebbe dovuto
85
ospitare una statua equestre del sovra-
no (che non fu mai realizzata), oltre a
un torrino d'orologio, di epoca successi-
va.
Dal 1843 la nicchia centrale costituisce
l'ingresso al convitto dei gesuiti, dive-
nuto nel 1861 Convitto nazionale Vitto-
rio Emanuele II, ospitato nei locali
dell'antico convento di San Sebastiano
e di cui sono ancora visibili i due chio-
stri (la cupola della chiesa è crollata
nel maggio 1941); il più piccolo e anti-
co è rara testimonianza della Napoli tra
età romanica e gotica, il maggiore con-
serva la strutture cinquecentesche.
Al centro della piazza si erge una gran-
de statua di Dante Alighieri, opera de-
gli scultori Tito Angelini e Tommaso
Solari junior, inaugurata il 13 luglio
1871 (data dalla quale la piazza è inti-
tolata al sommo poeta) e collocata su
un basamento disegnato dall'ingegner
Gherardo Rega. Oggi ai suoi lati, più
defilate, ci sono le vetrate delle uscite
della linea 1 della metropolitana. La
piazza è stata ridisegnata e riarredata
proprio in occasione dei lavori per la
metropolitana, conclusi nel 2002. L'in-
tero emiciclo è divenuto così area pe-
donale.
Ancora, presso la piazza sono presenti
quattro monumentali chiese: in senso
antiorario da nord quella dell'Immaco-
lata degli Operatori Sanitari, di Santa
Maria di Caravaggio, di San Domenico
Soriano e di San Michele a Port'Alba.
Sul lato opposto all'emiciclo sono situa-
ti oltre alle chiese di Santa Maria di
Caravaggio e San Domenico Soriano
anche i rispettivi ex-conventi: il primo
divenne sede dell'istituto per ipoveden-
ti fondato da Domenico Martuscelli
(ricordato con un suo busto scolpito nel
1922 da Luigi De Luca e collocato nei
giardinetti della piazza) per poi diven-
tare sede della Seconda Municipalità di
Napoli. Il secondo convento è oggi sede
degli uffici anagrafici del Comune.
Tra i due ingressi è situato il palazzo
Ruffo di Bagnara con annessa cappella
privata mentre sul lato sinistro di
Port'Alba il palazzo Rinuccini. Poco
distante dalla piazza al numero civico
7 di vico Luperano, la villa Conigliera,
quest'ultima fatta edificare durante
l'epoca aragonese.
Dopo i lavori di realizzazione della
Stazione Dante della Linea 1, l'emiciclo
della piazza è stato totalmente pedo-
nalizzato. Nel settembre 2011, la piaz-
za è stata completamente inibita al
traffico privato per scoraggiare l'uso
86
dell'automobile in città, divenendo una
corsia preferenziale ad uso esclusivo
dei mezzi pubblici. Successivamente,
dall'estate del 2013, la chiusura al traf-
fico è stata ridotta dalle 9 alle 18 di
tutti i giorni, trasformandosi così in
ZTL.
Basilica di San Gennaro fuori le mura
La Basilica di San Gennaro Fuori le Mu-
ra si trova in Vico San Gennaro dei Po-
veri.
La basilica di San Gennaro Fuori le Mu-
ra deve il suo nome al luogo di costru-
zione, scelto al di fuori delle mura del-
la città per tenerla lontana dal mondo
pagano. La sua edificazione risale al V
secolo, nella zona delle Catacombe di
San Gennaro, probabilmente come ri-
sultato dell'unione di due preesistenti
siti cimiteriali di epoche diverse: uno
del II secolo in cui era conservato il
corpo di Sant'Agrippino, primo patrono
di Napoli, e un altro del IV secolo che
ospitò le spoglie di San Gennaro fino
alla loro prima traslazione nel IX seco-
lo.
L'edificio rappresenta un'altra buona
testimonianza di architettura paleocri-
stiana, anche se ha subito alcune modi-
fiche nei secoli successivi alla sua edifi-
cazione, soprattutto tra il IX e il XV
secolo; inoltre, nel XVII secolo fu re-
staurata e modificata secondo il gusto
barocco, diventando prima un ospedale
per gli appestati e, poi, un ospizio per i
poveri. Nel 1892 la volta fu sostituita
con un soffitto a capriate, mentre in un
restauro di inizio Novecento si tentò di
recuperare la struttura originaria elimi-
nando alcune modifiche fatte in prece-
denza.
Il risultato è un ibrido tra molti stili;
per esempio, l'interno, con una struttu-
ra a 3 navate, richiama quello tardo
gotico e presenta un'abside semicirco-
lare paleocristiana, sorretta da due
colonne corinzie.
Le opere d'arte che erano contenute
nella basilica, sono state traslate nel
Museo Civico di Castel Nuovo per motivi
87
di sicurezza.
Chiesa di Sant'Agnello Maggiore
La chiesa di Sant'Agnello Maggiore,
detta anche Sant'Aniello a Caponapo-
li o Santa Maria Intercede, è una delle
più antiche chiese monumentali
di Napoli; si trova nel centro storico
della città.
Sant'Agnello, oggi, è compatrono della
città di Napoli; secondo la tradizione è
sepolto proprio in questa chiesa, seb-
bene altre fonti sostengono che sia
stato sepolto nella cattedrale di Lucca.
La storia di questo tempio è stretta-
mente legata a quella
di sant'Agnello che fuvescovo di Napoli
nel VI secolo. Il santo fu un accanito
difensore della città contro l'assedio
dei Longobardi. Secondo un'antica tra-
dizione, i genitori del santo avrebbero
già eretto in quel luogo una chiesetta;
questa, fu dedicata a santa Maria Inter-
cede e venne costruita come voto di
ringraziamento allaVergine per aver
concesso loro la grazia della nascita di
un erede. L'edificio sorse sul luogo di
un'antica acropoli, dove sono stati sco-
perti resti risalenti al IV secolo.
Morto il santo alla fine del secolo, la
chiesa cambiò il nome in "Santa Maria
dei Sette Cieli". Nel IX secolo, il vesco-
vo Attanasio di Napoli vi fece erigere
un nuovo edificio religioso dedicandolo
all'abate e fece trasportare le sue reli-
quie nella chiesa. Nel corso
del Medioevo, il culto divenne sempre
più importante e dalla fine del XIII se-
colofu governata da un rettorato che
durò fino al 1517, anno in cui si unì
ai canonici regolari della Congregazio-
ne del Santissimo Salvatore lateranen-
se.
Dal secondo decennio del XVI secolo, la
chiesa fu completamente rifatta ed
ampliata ad opera dell'arcivesco-
vo Giovanni Maria Poderico. Il transet-
to, che anticamente era la chiesa di
Santa Maria Intercede, fu ampliato
prima dei lavori d'inizio del nuovo cor-
po di fabbrica; i lavori iniziarono
nel 1517 e terminarono nel XVIII seco-
lo, in questo lasso di tempo furono
commissionate opere di grande valore
come l'altare maggiore di Girolamo
Santacroce (Nola, 1502 – Napoli, 1537).
Negli interventi tardo-settecenteschi
eseguiti dall'architetto Giovanni Batti-
sta Pandullo, l'altare fu portato più
avanti rispetto all'originaria posizione e
le spoglie del santo furono traslate
nella cappella a lui dedicata. Altri in-
terventi sono di Vincenzo Martino, che
rifece il pavimento in terracotta e il
cassettonato; coeva a quiesti interven-
ti è una cisterna ritrovato insieme agli
scavi archeologici.
Il 7 agosto 1809 fu soppresso l'ordine
monastico e il 12 gennaio 1813 i locali
del monastero furono venduti dal Mini-
88
stero delle Finanze ad un certo Cosimo
d'Orazio; nel 1856 il Ministero dell'In-
terno ne curava la manutenzione. Dopo
i restauri eseguiti nel XIX secolo,
nel 1903, si ipotizzò la demolizione
della chiesa che però non fu mai attua-
ta. Nel 1913, la parrocchia fu trasferita
nella chiesa di Santa Maria di Costanti-
nopoli per le precarie condizioni stati-
che dell'edificio. Nel 1944 la chiesa fu
danneggiata dai bombardamenti e
nel 1962 fu restaurata con il ripristino
della copertura e con la scoperta di
resti dell'acropoli. Nel 1980 fu danneg-
giata dal sisma e nuovamente restaura-
ta. Nel corso degli anni la chiesa ha
subito atti vandalici come furti delle
opere d'arte e marmi.
Nel 2011, dopo un lungo lavoro di re-
stauro, la chiesa è stata riaperta.
Piazza del Mercato e Piazza del Carmi-
ne
Piazza del Mercato (già Foro Magno,
detta comunemente piazza Mercato) è
una delle piazze storiche di Napoli,
situata nel quartiere Pendino, a pochi
passi dal quartiere Mercato.
Confina con piazza del Carmine e con
l'attigua basilica del Carmine Maggiore.
Oggi è una delle maggiori piazze della
città, ma in origine non era altro che
uno spiazzo irregolare esterno al peri-
metro urbano, chiamato Campo del
moricino (o muricino) "perché
«attaccato» a mura divisorie della cinta
muraria cittadina".
Gli Angioini ne fecero un grande centro
commerciale cittadino: infatti
nel 1270 sotto Carlo I d'Angiò la sede
mercatale della città fu spostata dalla
piazza di San Lorenzo (cioè piazza San
Gaetano, che lo ospitava sin dall'età
greco-romana) in una zona extra-
moenia, appunto il campo del morici-
no, che d'ora in poi sarà detto mercato
di Sant'Eligio e principalmente foro
magno, snodo fondamentale dei traffici
provenienti dalle più importanti basi
commerciali italiane ed europee e vo-
lano dello sviluppo urbanistico della
fascia costiera.
Ivi si svolgevano le esecuzioni capitali,
a partire dal-
la decapitazione di Corradino di Svevia,
il 29 ottobre 1268, fino a quelle
dei giacobini dopo la soppressione del-
la Repubblica Napoletana del 1799.
La piazza, poi, è particolarmente cele-
bre per essere stata il luogo dove ebbe
inizio la rivoluzione di Masaniello, il
quale nacque e visse in una casa alle
spalle della piazza, dove oggi, in sua
memoria, è murata, dal 1997, un'epi-
grafe che recita le seguenti parole:
“In questo luogo era la casa dove nac-
que
il XXIX giugno MDCXX
89
Tommaso Aniello D'Amalfi
e dove dimorava quando fu capitano
generale
del popolo napoletano”
Nel 1781 le numerose botteghe in legno
che costellavano la piazza presero fuo-
co dopo uno spettacolo pirotecnico. Su
volontà di re Ferdinando IV di Borbo-
ne si procedette alla realizzazione di
un'esedra che lambisse il perimetro
della piazza e che desse alle attività
commerciali una degna sistemazione. Il
progetto fu guidato dall'architet-
to Francesco Sicuro, il quale realizzò
anche la chiesa di Santa Croce e Purga-
torio unendo in un solo edificio le pree-
sistenti chiese di Santa Croce e Purga-
torio distrutte dall'incendio e inoltre
tre fontane che avrebbero decorato la
piazza.
I bombardamenti alleati durante la
seconda guerra mondiale danneggiaro-
no gravemente la zona portuale e in
particolare la piazza e i suoi stretti
dintorni. Nel 1958 a sud della piazza fu
realizzato il cosiddetto palazzo Ottieri
(il più simbolico degli edifici che il co-
struttore edile Mario Ottieri realizzò
negli anni della speculazione edili-
zia laurina per tutta la città) che si
sostituì agli antichi edifici e al corri-
spondente reticolato viario. L'enorme
palazzo si presentò subito come una
barriera visiva che la separava dalla
vicina piazza del Carmine.
La piazza è ornata da due settecente-
sche fontane-obelischi (sul lato est e
sul lato ovest), ed è inoltre abbellita
dalla presenza al centro dell'esedra
settecentesca dellachiesa di Santa Cro-
ce e Purgatorio al Mercato. Le fontane
e la chiesa, nonché l'esedra che con-
torna la piazza sono di Francesco Sicu-
ro. Sono visibili dalla piazza la Chiesa
di Sant'Eligio Maggiore e la Basilica
santuario di Santa Maria del Carmine
Maggiore.
In piazza vi erano altre tre fontane.
Una era la fontana dei Delfini, dalla
quale si crede
che Masaniello arringasse la folla. Il
monumento fu acquistato nel 1812 dal
comune di Cerreto Sannita nella cui
piazza principale è oggi ospitato.
La seconda fontana fu eretta
nel 1653 sotto il viceregno del conte
di Ognatte, Iñigo Vélez de Guevara.
Progettata da Cosimo Fanzago, era
detta fontana maggiore ed era colloca-
90
ta sul lato destro della piazza. Fu re-
staurata da Francesco Sicuro nel1788.
Oggi non è più esistente.
La terza fontana è la fontana dei Leoni,
la terza fontana che Sicuro realizzò
nella piazza. Dagli anni trenta del XX
secolo è visibile nei giardini del Molosi-
glio.
Cimitero delle fontanelle
Il cimitero delle Fontanel-
le (in napoletano 'O campusanto d' 'e
Funtanelle) è un antico cimitero della
città di Napoli, situato in via Fontanel-
le.
Chiamato in questo modo per la pre-
senza in tempi remoti di fonti d'acqua,
il cimitero accoglie 40.000 resti di per-
sone, vittime della grande peste del
1656 e del colera del 1836.
Il cimitero è molto noto anche perché
vi si svolgeva un particolare rito, detto
delle "anime pezzentelle", che preve-
deva l'adozione e la sistemazione di un
cranio (detta «capuzzella»), al quale
corrispondeva un'anima abbandonata
(«pezzentella» quindi) in cambio di
protezione.
L'antico ossario si sviluppa per circa
3.000 m2, mentre le dimensioni della
cavità sono stimate attorno ai 30.000
m3.
Si trova all'estremità occidentale del
vallone naturale della Sanità, uno dei
rioni di Napoli più ricchi di storia e tra-
dizioni, appena fuori dalla città greco –
romana, nella zona scelta per la necro-
poli pagana e più tardi per i cimiteri
cristiani. Il sito conserva da almeno
quattro secoli i resti di chi non poteva
permettersi una degna sepoltura e,
soprattutto, delle vittime delle grandi
epidemie che hanno più volte colpito la
città.
In quest'area, situata tra il vallone dei
Girolamini a monte e quello dei Vergini
a valle, erano dislocate numerose cave
ditufo, utilizzate fino al 1600 per repe-
rire il materiale, il tufo, appunto, per
costruire la città.
Lo spazio delle cave di tufo fu usato a
partire dal 1656, anno della peste, che
provocò almeno trecentomila morti,
fino all'epidemia di colera del 1836.
A tali resti si aggiunsero nel tempo
anche le ossa provenienti dalle cosid-
dette "terresante" (le sepolture ipogee
delle chiese che furono bonificate dopo
l'arrivo dei francesi di Gioacchino Mu-
rat) e da altri scavi.
Il canonico ed etnologo Andrea de Jo-
rio, nel 1851 direttore del ritiro di San
Raffaelea Materdei, racconta che verso
la fine del Settecento tutti quelli che
avevano i mezzi lasciavano disposizioni
per farsi seppellire nelle chiese. Qui
però spesso non vi era più spazio suffi-
ciente; accadeva, allora, che i becchi-
91
ni, dopo aver finto di aderire alle ri-
chieste e aver effettuato la sepoltura,
a notte fonda, posto il morto in un sac-
co, se lo caricassero su una spalla e
andassero a riporlo in una delle tante
cave di tufo.
Tuttavia, in seguito alla improvvisa
inondazione di una di queste gallerie, i
resti vennero trascinati all'aperto por-
tando le ossa per le strade. Allora le
ossa furono ricomposte nelle grotte,
furono costruiti un muro ed un altare
ed il luogo restò destinato ad ossario
della città.
Secondo una credenza popolare uno
studioso avrebbe contato, alla fine
dell'Ottocento, circa otto milioni di
ossa di cadaveri rigorosamente anoni-
mi. Oggi si possono contare 40.000 re-
sti, ma si dice che sotto l'attuale piano
di calpestio vi siano compresse ossa per
almeno quattro metri di profondità,
ordinatamente disposte, all'epoca, da
becchini specializzati.
Nel marzo 1872 il cimitero fu aperto al
pubblico e affidato dal Comune al ca-
nonico Gaetano Barbati, ritenuto erro-
neamente parroco di Materdei, il qua-
le, con l'aiuto del Cardinale Sisto Riario
Sforza, eseguì una sistemazione dei
resti secondo la tipologia delle ossa
(crani, tibie, femori) e organizzò a mo'
di chiesa provvisoria la prima cava, in
attesa che fosse costruito un tempio
stabile.
Negli anni sessanta, gli anni del Conci-
lio Vaticano II, il parroco della chiesa
delle Fontanelle Don Vincenzo Scanca-
marra preoccupato per
il feticismo insito nel culto delle "anime
pezzentelle" chiese consiglio all'arcive-
scovo di Napoli, il cardinaleCorrado
Ursi, sul problema. Il 29 luglio 1969 un
decreto del Tribunale ecclesiastico per
la causa dei santi proibì il culto indivi-
duale delle capuzzelle, oggetto di una
fede pagana, consentendo che fosse
celebrata una messa al mese per le
anime del purgatorio e che fosse ese-
guita una processione al suo interno
ogni 2 novembre, giorno della comme-
morazione dei defunti. Non fu la deci-
sione delle istituzioni religiose, ma il
progressivo oblio devozionale a far
scivolare il cimitero nel dimenticatoio.
Per anni in stato di abbandono, fu mes-
so in sicurezza e riordinato nel marzo
del 2002, ma mai riaperto al pubblico
se non per pochi giorni l'anno, specie in
occasione del Maggio dei Monumen-
ti napoletano.
Il 23 maggio 2010 una pacifica occupa-
zione degli abitanti del rione ha con-
vinto l'Amministrazione Comunale a
riaprirlo. Da quel giorno il cimitero è
realmente di nuovo accessibile.
Il cimitero è scavato nella roccia tufa-
cea gialla della collina di Materdei. È
formato da tre grandi gallerie a sezio-
ne trapezoidale, in direzione N-S, con
un'altezza variabile tra i 10 e i 15 m e
lunghe un centinaio di metri collegate
da corridoi laterali. Queste gallerie,
per la loro maestosa grandezza, sono
chiamate navate come quelle di una
basilica. Ogni navata ha ai propri lati
delle corsie dove sono ammucchiati
teschi, tibie e femori e ha un proprio
nome: la navata sinistra è detta navata
dei preti perché in essa sono depositati
92
i resti provenienti dalle terresante di
chiese e congreghe; la navata centrale
è detta navata degli appestati perché
accoglie le ossa di quanti perirono a
causa delle terribili epidemie che colpi-
rono la città (la peste su tutte, in spe-
cial modo quella del 1656); infine la
navata destra è detta navata dei pez-
zentielli perché in essa furono poste le
misere ossa della gente povera.
L'ingresso principale è attraverso una
cavità sulla destra della piccola chiesa
di Maria Santissima del Carmi-
ne, costruita sullo scorcio del XIX seco-
lo a ridosso delle cave di tufo. Già alla
fine del Settecento si registrò una pri-
ma sommaria sistemazione dei resti e si
assistette al concretizzarsi di numerose
stuoie e sudari di ossa.
I resti anonimi si moltiplicarono col
passare degli anni ed è qui che conflui-
rono, oltre alle ossa trasferite dal-
le terresante, anche i corpi dei morti
nelle epidemie. Alla fine dell'Ottocento
alcuni devoti, guidati da padre Gaetano
Barbati, disposero in ordinate cataste
le migliaia di ossa umane ritrovate nel
cimitero.
Da allora è sorta una spontanea e signi-
ficativa devozione popolare per questi
defunti, nei quali i fedeli identificano
le anime purganti bisognose di cura ed
attenzione. Alcuni teschi furono quindi
"adottati" da devoti che li allocarono in
apposite teche di legno, identificandoli
anche con un nome e con una storia,
che affermavano essere svelati loro in
sogno. Per lunghi anni, il cimitero è
stato teatro di questa religiosità popo-
lare fatta di riti e pratiche del tutto
particolari.
Si vuole che qui riposino anche i resti
del poeta Giacomo Leopardi, morto
durante il colera del 1836. In realtà il
poeta fu inumato prima nella cripta,
poi nell'atrio della chiesa di San Vita-
le fino a quando nel 1939 fu spostato
al Parco Vergilianoanche se sui resti di
Leopardi esiste tuttora un caso.
In esso furono collocate le ossa ritrova-
te nel corso della sistemazione di via
Toledo degli anni 1852-1853, risalenti
alla peste del 1656. Ed ancora,
nel 1934, vi furono collocate le ossa
ritrovate ai piedi del Maschio Angioi-
no durante i lavori di sistemazione
di via Acton e quelle provenienti dalla
cripta della chiesa di San Giuseppe
Maggiore demolita nello stesso anno,
come ricordano due lapidi ben visibili
nella prima ala destra del cimitero.
Alla fine dell'Ottocento, dinanzi all'in-
gresso principale della cava, viene
eretta lachiesa di Maria Santissima del
Carmine. Il tempio sostituisce la cap-
pella ricavata all'interno della cava,
regolarmente utilizzata per le celebra-
zioni liturgiche fino aglianni ottan-
ta (anche se alcune celebrazioni sono
state svolte recentemente).
La chiesa interna è accessibile dalla
prima ala a sinistra ed è longitudinal-
mente appartenente in toto alla navata
sinistra. Alla destra dell'ingresso, in una
specie di atrio dominato dall'abside
della nuova chiesa, è collocata la ripro-
duzione della grotta di Lourdes, dove si
trovano la statua dell'Immacolata e
di Bernadette.
All'interno, a sinistra si trovano due
93
bare con gli unici scheletri ben visibili
dentro il cimitero, entrambi vestiti.
Sono le spoglie di una coppia di nobi-
li: Filippo Carafa conte di Cerreto, dei
duchi di Maddaloni, morto ad ottanta-
quattro anni nel 1793 e sua moglie,
donna Margherita, morta a cinquanta-
quattro anni. Quest'ultima, il cui cranio
si è preservato mummificato, presenta
la bocca aperta e da qui proviene la
diceria che sarebbe morta soffocata da
uno gnocco.
A destra vi è la cappella con la statua
di Cristo deposto che ricalca molto
sommariamente il Cristo vela-
to di Giuseppe Sanmartino. Sulla sini-
stra dell'altare maggiore, su cui cam-
peggia il Crocifisso sagomato, è presen-
te un alto finestrone e un presepe si-
stemato nella prima metà del Novecen-
to, con Maria e Giuseppe a grandezza
naturale. Sotto il finestrone, infine, ci
sono le prime due bare che raccolgono
i resti di ossa (forse di bambini).
La navata dei preti.
Proseguendo nella prima navata subito
a sinistra è stata realizzata la cappella
che ricorda il canonico Gaetano Barba-
ti il quale organizzò le prime squadre
di fedeli per la sistemazione dei resti e
fece inoltre scrivere la lapide sulla
facciata della chiesa, come monito di
pietà cristiana per i posteri.
Ai piedi della statua di Gaetano Barba-
ti vi è una bara in cui sono deposti i
resti di due scheletri posti l'uno accan-
to all'altro e la credenza popolare li
identifica come i due sposi.
Proseguendo, in una cavità sempre a
sinistra, illuminata da un impossibile
raggio di luce, si innalza l'inquietante
figura del Monacone: l'impressionante
statua di San Vincenzo Ferrer col tipico
abito domenicano bianco-nero e deca-
pitata, sulla quale una mano ignota ha
posto un teschio in luogo della te-
sta che fu rimosso dopo i lavori di risi-
stemazione del cimitero.
Nel fondo si trova l'antro forse più no-
to, definito il Tribunale per la presenza
di tre croci con una base di teschi. Qui,
secondo quanto si racconta da almeno
un secolo, si riunivano i vertici della
camorra antica per i famosi giuramenti
di sangue e gli altri riti di affiliazione
e, anche, per emettere le condanne a
morte.
94
La corsia alla destra del tribunale ospi-
ta il teschio più famoso, ovvero quello
del Capitano. Sulla sua figura aleggiano
varie leggende e ad essa è legata anche
quella dei suddetti sposi, situati nella
bara sotto la statua del canonico Bar-
bati.
Non lontano vi è il Calvario, chiamato
così perché il Golgota - il monte dove
spirò Gesù - in aramaico significa te-
schio. Attualmente la sistemazione non
è più quella originaria per via di un'al-
luvione, che determinò la copertura di
fango di quasi tutti i teschi.
La navata degli appestati.
Continuando nella navata centrale,
quella degli appestati, ogni lato è occu-
pato da cataste di teschi che, in base
all'ennesima leggenda, sarebbero stati
ordinati secondo la condizione sociale
dei defunti. Sulla sinistra, nel mezzo
d'un ambiente di grande impatto visivo
ed emozionale, quello che si potrebbe
definire l'ossoteca, una grande cappella
piena di tibie e femori, al cui centro si
erge un Cristo risorto.
Dopo il Calvario sulla sinistra si possono
osservare i teschi adottati e custoditi in
teche di marmo apprestate da chi po-
teva permetterselo, con su scritto: Per
Grazia ricevuta, nome, cognome e l'an-
no di adozione del devoto; chi invece
non aveva possibilità custodiva il te-
schio adottato in una scatola. Poteva
andar bene anche una scatola di biscot-
ti.
Nell'ultimo antro ci sono gli scolatoi,
dove i morti venivano appoggiati per
far colare i liquidi. Sulle pareti sono
ancora ben visibili le grappiate utilizza-
te dai cavamonti per scendere nella
cavità e poter estrarre e lavorare il
tufo.
La leggenda del Capitano.
La prima versione ci racconta che una
giovane promessa sposa era molto de-
vota al teschio del capitano, e che si
recava spesso a pregarlo e a chiedergli
grazie. Una volta il fidanzato di lei,
scettico e forse un po' geloso delle at-
tenzioni che la sua futura moglie dedi-
cava a quel teschio, volle accompa-
gnarla e portandosi dietro un bastone
di bambù, lo usò per conficcarlo
nell'occhio del teschio (da qui l'aition
dell'orbita nera), mentre, deridendolo,
lo invitava a partecipare al loro prossi-
mo matrimonio.
Il giorno delle nozze apparve tra gli
ospiti un uomo vestito da carabiniere.
95
Incuriosito da tale presenza, lo sposo
chiese chi fosse e questi gli rispose che
proprio lui lo aveva invitato, accecan-
dogli un occhio; detto ciò si spogliò
mostrandosi per quel che era, uno
scheletro. I due sposi e altri invitati
morirono sul colpo.
L'altra versione raccolta da Roberto De
Simone, mette in scena una leggenda
nera popolare: un giovane camorrista,
donnaiolo e spergiuro, aveva osato pro-
fanare il cimitero delle Fontanelle, ivi
facendo l'amore con una ragazza. A un
tratto sentì la voce del capitano che lo
rimproverava ed egli, ridendosene,
rispose di non aver paura di un morto.
Alle nuove imprecazioni del capitano, il
temerario giovane lo aveva sfidato a
presentarsi di persona, giurando ironi-
camente di aspettarlo il giorno del suo
matrimonio (e intanto giurando in cuor
suo di non sposarsi mai). Però il giova-
ne, dimentico del giuramento, dopo
qualche tempo si sposò. Al banchetto
di nozze si presentò tra gli invitati un
personaggio vestito di nero che nessuno
conosceva e che spiccava per la sua
figura severa e taciturna.
Alla fine del pranzo, invitato a dichia-
rare la sua identità, rispose di avere un
dono per gli sposi, ma di volerlo mo-
strare solo a loro. Gli sposi lo ricevette-
ro nella camera attigua, ma quando il
giovane riconobbe il capitano fu solo
questione di un attimo. Il capitano tese
loro le mani e dal suo contatto infuoca-
to gli sposi caddero morti all'istante.
Donna Concetta: 'a capa che suda
Un'altra capuzzella "di spicco" nel cimi-
tero delle Fontanelle è quella di donna
Concetta, più nota come 'a capa che
suda.
La particolarità di tale teschio, posto
all'interno di una teca, è la sua lucida-
tura: mentre gli altri crani sono rico-
perti di polvere, quest'ultimo è infatti
sempre ben lucidato, forse perché rac-
coglie meglio l'umidità del luogo sot-
terraneo che è stata sempre interpre-
tata come sudore: "Se domandate ai
devoti vi diranno che quell'umidità è
sudore delle anime del Purgatorio".
Gli umori che si depositano su questi
resti sono ritenuti dai fedeli acqua
purificatrice, emanazione dell'aldilà in
quanto rappresentazione delle fatiche
e delle sofferenze cui sono sottoposte
le anime.
Secondo la tradizione, anche donna
Concetta si presta a esaudire delle
grazie; per verificare se ciò avverrà,
basta toccarla e verificare se la propria
mano si bagna.
Il culto delle anime pezzentelle
Le ossa anonime, accatastate nelle
caverne lontano dal suolo consacrato,
sono diventate per la gente della città
le anime abbandonate, cosiddet-
te anime pezzentelle, un ponte tra
l'aldilà e la terra, un mezzo di comuni-
cazione tra i mondi dei morti e i mondi
dei vivi. Queste sono un segno di spe-
ranza nella possibilità di un aiuto reci-
proco tra poveri che scavalca la soglia
della morte: poveri sono infatti i mor-
ti, per il semplice fatto di essere morti
e dimenticati, e poveri i vivi che vanno
a chieder loro soccorso e fortuna.
96
Al teschio, spesso, era associato un
nome, una storia, un ruolo. Ancora
negli anni settanta c'era l'abitudine di
sostare di notte ai cancelli del cimitero
per aspettare le ombre mandate dal
teschio di don Francesco, un cabalista
spagnolo, a rivelare i numeri da giocare
al lotto.
Spesso il napoletano, più che altro don-
ne, si recava sul posto, adottava un
teschio particolare che l'anima le aveva
indicato nel sogno. Da questo punto in
poi il cranio diventava parte della fami-
glia del devoto.
Al camposanto delle Fontanelle, il com-
portamento rituale si esprimeva in un
preciso cerimoniale: il cranio veniva
pulito e lucidato, e poggiato su dei
fazzoletti ricamati lo si adornava con
lumini e dei fiori. Il fazzoletto era il
primo passo nell'adozione di una parti-
colare anima da parte di un devoto e
rappresentava il principio affinché la
collettività adottasse il teschio. Al faz-
zoletto si aggiungeva il rosario, messo
al collo del teschio per formare un cer-
chio; in seguito il fazzoletto veniva
sostituito da un cuscino, spesso ornato
di ricami e merletti. A ciò seguiva l'ap-
parizione in sogno dell'anima prescelta,
la quale richiedeva preghiere e suffra-
gi.
I fedeli sceglievano chi pregare e a chi
offrire i lumini nelle loro visite costanti
e regolari. Solo allora il morto appariva
in sogno e si faceva riconoscere.
In sogno comunque la richiesta delle
anime è sempre la stessa: tutte hanno
bisogno di refrisco, cioè di refrigerio: la
frase ricorrente nelle preghiere rivolte
alle anime purganti era infatti la se-
guente: «A refrische 'e ll'anime d'o pria-
torio».
Si pregava l'anima per alleviare le sue
sofferenze in purgatorio, creando un
vero e proprio rapporto di reciprocità,
in cambio di una grazia o dei numeri da
giocare al lotto. Se le grazie venivano
concesse, il teschio veniva onorato con
un tipo di sepoltura più degno: una
scatola, una cassetta, una specie di
tabernacolo, secondo le possibilità
dell'adottante. Ma se il sabato i numeri
non uscivano o se le richieste non era-
no esaudite, il teschio veniva abbando-
nato a se stesso e sostituito con un
altro: la scelta possibile era vasta. Se il
teschio era particolarmente generoso si
ricorreva addirittura a metterlo in sicu-
rezza, chiudendo la cassetta con un
lucchetto.
I teschi, inoltre, non venivano mai rico-
perti con delle lapidi, perché fossero
liberi di comparire in sogno, di notte.
Secondo la tradizione popolare infatti
l'anima del Purgatorio rivelava in sogno
la sua identità e la sua vita. Il devoto
ritornava allora sul luogo di culto, rac-
contava il sogno, e se l'anima del te-
schio era particolarmente benevola, si
concedeva a tutti di pregare lo stesso
teschio determinando così una sorta di
santificazione popolare.
Utili erano tutti i tipi di segni che pote-
vano venire alle anime. Un primissimo
segno era il sudore, cioè la condensa
da umidità. Se ciò si verificava era se-
gno di grazia ricevuta. Se il teschio non
sudava, questo veniva interpretato
come una sofferenza dell'anima abban-
97
donata e cattivo presagio. In questo
caso si chiedeva soccorso a Gesù e,
soprattutto, alla Madonna. Ancora oggi
un teschio particolarissimo riguardo a
questo fenomeno è quello di donna
Concetta, insolitamente e costante-
mente lucido.
L'unico mezzo di comunicazione tra i
vivi e i morti era il sogno: dai sogni
spesso nascono così varie personifica-
zioni delle anime pezzentelle, ed ecco
moltiplicarsi le diverse figure di giovi-
nette morte subito prima del matrimo-
nio, di uomini morti in guerra o comun-
que in circostanze drammatiche e sin-
golari.
Il culto fu particolarmente vivo negli
anni del secondo conflitto mondiale e
del primo dopoguerra: la guerra aveva
diviso famiglie, allontanato parenti,
provocato morti, disgrazie, distruzioni,
miseria. Non potendo aspettarsi aiuto
dai vivi, il popolo lo chiedeva ai morti,
e l'evocazione delle anime purganti
diventa insieme la concreta rappresen-
tazione della memoria e la speranza di
sottrarsi miracolosamente all'infelicità
e alla miseria.
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