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Non è la solita guida

Date post: 01-Apr-2016
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Volume viola
52
Un bicchiere di sangue... Non è la solita guida Volume viola: ‘Aglianico’ 2 Carpentieri Amelia Di Pascale Fabiana Mazziotti Giuliana Thomas Martina P.O.R. CAMPANIA FSE 2007/2013 _ D.G.R. n. 1205 del 3/07/2009_ D.D. n.25 del 5/02/2012 _ Comune di Napoli _ Progetto "Una Rete per le Donne" CUP B69E10005680009 _ CIG 380033794B Asse II Occupabilità Obiettivo Specifico f Obiettivo Operativo f2 Corso di formazione “Addetto Agenzie turistiche” Progetto grafico: Elena Carrucola Redazione a cura di
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Page 1: Non è la solita guida

Un b i c ch ie re d i s angue . . .

Non è l a so l i ta gu ida

Vo lume v io la : ‘Ag l i a n i co ’

2

Carpentieri Amelia Di Pascale Fabiana Mazziotti Giuliana Thomas Martina

P.O.R. CAMPANIA FSE 2007/2013 _ D.G.R. n. 1205 del 3/07/2009_ D.D. n.25 del 5/02/2012 _ Comune di Napoli _ Progetto "Una Rete per le Donne" CUP B69E10005680009 _ CIG 380033794B Asse II Occupabilità Obiettivo Specifico f Obiettivo Operativo f2 Corso di formazione “Addetto Agenzie turistiche”

Progetto grafico: Elena Carrucola

Redazione a cura di

Page 2: Non è la solita guida

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La presente non vuole essere la solita guida turistica per invogliare i turisti a recarsi a Napoli o in tutta la Campania, ma nasce dalla volontà di catturare l’attenzione del lettore attraverso veri e proprio percorsi emozionali che facciano quasi “sentire” al turista il sapore e il gusto di antiche tradi-zioni, di antiche culture e, perché no, di antiche superstizio-ni che rendono Napoli in particolare, ma la Campania tutta, terra fertile e rigogliosa.

Tale guida vuole suggerire emozioni più che nozioni vere e

proprie. Napoli non è solo una città con uno sconfinato patri-

monio culturale, non è solo ricca di tradizioni culinarie come

la pizza, la mozzarella o il pomodoro, ma in Napoli risiedono

antiche superstizioni e credenze, che ricoprono la città di un

alone di mistero a volte molto fitto, altre invece quasi im-

percettibile. Numerose opere o chiese a Napoli sono legate a

storie antiche di spettri o figure fantastiche che vivevano in

esse. Questo è solo una parte di quanto questa guida vuole

rappresentare. Rendere manifesto, cioè, un altro volto dei

mille e più diversi, che questa meravigliosa città possiede.

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Page 3: Non è la solita guida

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L'Aglianico è un vitigno rosso coltivato prevalentemente in Basilicata, Campania, Puglia e Molise. Il vitigno è stato re-centemente introdotto in Australia, dato che si sviluppa in climi prevalentemente soleggiati. E’ molto antico, probabil-mente originario della Grecia e introdotto in Italia intorno al VII-VI secolo a.C. Una delle tante testimonianze della sua lunga storia è il ritrovamento dei resti di un torchio romano nella zona di Rionero in Vulture, provincia di Potenza. A lungo si è discusso dell’origine del suo nome: se alcuni, infatti, lo fanno risalire ad una storpiatura del termine Elle-nico, altri, invece, la fanno risalire ai termini “anicus” (dal latino) e “llano” (dallo spagnolo). Il termine “Ellenico” riferito all’Aglianico viene fu utilizzato, per la prima volta, nel 1592 dal filosofo napoletano Della Porta che, nel suo libro Villae, sosteneva che lo stesso Plinio, nel suo Historia Naturalis, avrebbe parlato dell’uva che nasce all’ombra del Vesuvio. Molti studiosi sostengono che all’epo-ca i romani non conoscevano il termine “ellenico” e che uti-lizzavano, al suo posto il termine “grecus”. In Italia il termine “ellenismo” appare per la prima volta nel 1640. Lo studioso Riccardo Valli sostiene che anche morfologica-mente questa derivazione etimologica non sarebbe possibile: come potremmo, infatti, spiegare la mutazione in “a” delle due “e” presenti nel termine ellenicus? Oltre all’ipotesi, sostenuta tra l’altro da Valli, di un’origine spagnola del termine, ve ne è un’altra che pure sembra esse-re probabile e che è sostenuta, invece, da Andrea Bacci: il termine deriverebbe da “Aglaos”(chiaro) e “Aglaia” (splendente).

L'utilizzo del vitigno è predominante nella zona del Monte

Vulture. L'Aglianico del Vulture, considerato uno dei migliori

vini rossi italiani, è per ora l'unico vino della provincia di

Potenza che ha ottenuto il marchio DOCG il 30 novembre del

2011 con il nuovo nome Aglianico del Vulture Superiore.

Un'altra zona di produzione dell'Aglianico è la provincia di

Benevento, in particolare alle pendici del monte Taburno,

dove abbiamo la DOCG: Aglianico del Taburno DOCG con la

produzioni di diversi vini: rosso, rosato, rosso riserva. Senza

dimenticare la provincia di Avellino (Vertecchia di Pietrade-

fusi) dove è il vitigno fondamentale per la produzione del

prestigioso Taurasi DOCG, importante rosso del Sud Italia.

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All’aglianico ricordiamo che fu anche dedicato un romanzo

"Storia controversa dell'inarrestabile fortuna del vino Aglianico

nel mondo", scritto da Gaetano Cappelli e pubblicato nel 2007.

Immaginiamo, ora, un bicchiere di vino rosso, posto al di sopra, di un tavolo ed un braccio che, in maniera del tutto casuale, lo urta riversandone il contenuto per terra. Il liquido potrà pren-dere un'unica direzione o dividersi in più direzioni, ramificando-si, via via, sempre di più. È così che si può visitare la città di Napoli: seguendo un unico percorso o provando ad aprire la mente e a lasciarsi guidare, non dalla strada, ma da quei legami che uniscono ora alcuni, ora altri monumenti della città. “T'accumpagn vic vic sul a te ca sì n'amic e te port pe' quartier addò o sole nun s' vere, ma s' ver tutt'o riest…” (cit.) La città di Napoli, che per secoli ha affascinato illustri perso-naggi provenienti da tutto il mondo, non può essere conosciuta perfettamente se non si “osa” entrare in quei vicoli, nascosti dalla luce del sole, che tanto hanno da raccontare ai visitatori. Con il seguente volume ci proponiamo di accompagnare il letto-re alla scoperta delle opere “Gotiche”, di quelle che giacciono Sottoterra e nel fondale marino, delle leggende di Magia Nera e di uno degli eventi più disastrosi avvennuti in città: la Peste Nera. Sirene, maghi, alchimisti e massoni, infatti, hanno abitato le vie della nostra città, arricchendole di storia, leggende ed opere d’arte che tramandano nuove forme di sapere e che, allo stesso tempo, lasciano quell’alone di mistero nella mente del turista: cosa rappresentano i segni del bugnato della Chiesa del Gesù Nuovo? E qual è il significato dell’incisione che si trova sulla presunta tomba di Vlad l’Impalatore? Il destino della città, è davvero legato ad un uovo magico? Napoli, però, che come già detto, aveva annoverato tra i suoi abitanti maghi e massoni, non poteva ,di certo, chiudere le porte a colui che, più di tutti, avrebbe potuto essere considera-to la personificazione della Magia Nera: Dracula.

Pare, infatti, che l’oscuro conte attratto, forse, da una sorta di

potere oscuro, avesse deciso di dormire il suo sonno eterno

all’interno di un piccolo chiostro nascosto nel cuore della città,

collocato cioè, lì dove “o sol nun s ver”.

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I tesori sommersi pag. 42

Il gotico pag. 10

La magia nera pag. 58

La peste pag. 82

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«Questa città è Napoli l'illustre, le cui vie percorsi più di un anno.

D'Italia gloria e ancora del mondo lustro, chè di quante città in sè racchiude

non v'è nessuna che così l'onori. Benigna nella pace e dura in guerra, madre di nobilitade e d'abbondanza,

dai campi elisi e dagli ameni colli.»

(Miguel de Cervantes Saavedra, Viaje del Parnaso, Cap. VIII)

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Il marmo, che appartiene alla tomba di

Ferrillo, il «genero» di Dracula, è denso

di riferimenti che non apparterrebbero

alle spoglie dell’uomo che dovrebbe

essere lì dentro. E qui la realtà diventa

romanzo, almeno finché la scienza non

dirà che è tutto vero. Infatti il conte si

chiamava Dracula Tepes e raffigurato

sul marmo c’è la rappresentazione di

un drago, Dracula appunto, e ci sono

due simboli di matrice egizia mai visti

su una tomba europea. Si tratta di due

sfingi contrapposte che rappresentano

il nome della città di Tebe che gli egi-

ziani chiamavano Tepes. In quei simboli

c’è ”scritto” Dracula Tepes, il nome

del conte. Questo è quanto hanno sco-

perto i ricercatori di Tallin.

Questa è soltanto una delle numerose

storie narrate a Napoli misteriose e

sensazionali che verranno descritte

all’interno della sezione “Il Gotico”.

Chiesa di Santa Maria la Nova La Nova, chiamata così per distinguerla

dalla chiesa che un tempo sorgeva dove

poi fu eretto Castelnuovo, venne fon-

data dai Frati Minori verso la fine del

1200, sul terreno donato loro da Carlo I

d’Angiò. Dopo il 1596 fu completamen-

te riedificata, in seguito ai danni cau-

sati dallo scoppio della polveriera di

Castel Sant’Elmo. Tra le bellezze arti-

stiche racchiuse nella chiesa, vi è lo

splendido soffitto in legno dorato, nel

quale sono incassate 46 tavole dipinte

fra il 1598 e il 1603 dai più importanti

artisti napoletani dell’epoca, fra cui

Francesco Curia, Girolamo Imparato,

Fabrizio Santafede e Belisario Corenzio,

oltre a Giovan Bernardo Azzolino, Luigi

Rodriguez e Cesare Smet.

Dell’antico complesso conventuale po-

trà essere visitato il refettorio e il chio-

stro di San Giacomo, con le sue volte

affrescate e i numerosi monumenti

funerari del cinquecento.

In essa sono presenti due chiostri: il

primo, grande, che è detto "di San

Francesco" per via gli affreschi dedicati

al Santo; di forma quadrata conta nove

arcate per lato sorrette da colonne

ioniche in marmo bianco che contrasta-

Il gotico

Page 6: Non è la solita guida

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no la pietra di piperno degli archi.

Le decorazioni, volute da padre Cle-

mente da Nola, furono realizzate se-

condo il gusto orientale dopo che que-

sti ritornò dalle missioni in Cina. Gli

affreschi del Santo furono realizzati

da Luigi Rodriguez seguendo i dettami

di padre Clemente; le pitture erano

accompagnate da terzine che descrive-

vano la vita di san Francesco, opera di

padre Dioniso di Capua. Lo stesso padre

Clemente fece sistemare alcune colon-

ne al centro del chiostro ridecorandole

con motivi orientaleggianti con lo sco-

po di sostenere un pergolato coltivato a

viti.

Verso la fine del Seicento avvennero

sostanziali cambiamenti stilistici in

seguito al degrado delle decorazioni.

Già padre Leonardo del Giudice

nel 1686 fece eliminare il pergolato

orientale perché non consono allo stile

di vita del monastero. Gli affreschi con

il tempo scolorirono fino a quando,

nel 1747, padre Bonaventura da Ducen-

ta decise di farli imbiancare coprendoli

sotto una decorazione in stucco in sti-

le rococò caratterizzata da medaglioni

ovali vuoti.

Il chiostro piccolo è di forma rettango-

lare e si pone in posizione centrale tra

la chiesa ed il chiostro grande.

Le colonne monolitiche che compongo-

no il chiostro, sono sormontate da capi-

telli di ordine ionico e sono collocate

su un basso muretto interrotto da quat-

tro passaggi con cancelli in ferro battu-

to. Gli archi a tutto sesto hanno il rag-

gio di cinque metri, mentre i portici

sono caratterizzati da volte a crocie-

ra affrescate da Simone Papa nel 1627,

il quale eseguì un ciclo dedicato a San

Giacomo della Marca caratterizzato da

iscrizioni illustrative.

Nel chiostro sono presenti, oltre al poz-

zo di marmo e agli affreschi, anche

alcune tombe di nobili spostate qui

durante la ricostruzione tardo-

rinascimentale, tra cui quella si botte-

ga dei Malvito, dedicata a Sante Vita-

liano e alla consorte Ippolita Impera-

to del 1497. Da allora il chiostro fu

detto di San Giacomo e venne ricono-

sciuto tra i più bei chiostri di Napoli.

Oggi lo stesso ospita il museo d'arte

religiosa contemporanea.

La sezione di tale volume si intitola IL

GOTICO, e a tal proposito conviene

fare un excursus letterario su tale ter-

mine, in quanto viene considerato uno

dei movimenti artistici più importanti

nella storia dell’arte.

Il gotico ha ufficialmente origine nell’I-

le-de-France nella prima metà del XII

secolo, esattamente nel 1144, anno in

cui fu completato il deambulatorio

della Basilica di Saint Denis, una delle

più importanti cattedrali di Francia.

Per più di duecento anni, fino alla sua

cosiddetta fase “internazionale”, lo

stile gotico si diffuse a macchia d’olio

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in tutta Europa e coinvolse, oltre ovvia-

mente all’architettura, anche tutti gli

altri settori dell’arte, dalla pittura alla

miniatura, dalla scultura all’oreficeria.

In senso lato, il gotico può essere consi-

derato, alla pari del Barocco, uno stile

“capriccioso”, in cui i virtuosismi tecni-

ci e l’abbondare delle decorazioni,

spesso preziose, sono le caratteristiche

dominanti. In architettura, ad esempio,

il “capriccio” è evidente nella tenden-

za generale degli architetti gotici ad

abolire le masse murarie a favore di

elementi portanti e allo stesso tempo

decorativi, come colonne, archi, fine-

stre, pilastri e rosoni, spesso arricchiti

da elementi plastici, come statue, gu-

glie e pinnacoli, che ornano ulterior-

mente i colossali edifici gotici. Proprio

la monumentalità delle costruzioni

gotiche, altra caratteristica fondamen-

tale di questo stile, dovuta appunto

all’abbondante uso di archi, pilastri e

colonne, che alleggeriscono la struttura

dell’edificio, ha inoltre portato molti

studiosi a sostenere che il gotico na-

scesse dal desiderio, mai spento,

dell’uomo di raggiungere Dio; desiderio

metaforicamente espresso attraverso le

alte e slanciate chiese gotiche, le cui

navate spesso si innalzano a decine di

metri dal suolo, soprattutto grazie

all’impiego smisurato di archi ogivali, o

a sesto acuto, già più volte utilizzati in

epoca romanica, la cui forma permet-

teva di guadagnare nuovi metri in al-

tezza.

In Italia, dove la tradizione romanica

era fortemente radicata, il gotico giun-

se relativamente tardi, sul finire del XII

secolo, ad opera soprattutto dei mona-

ci cistercensi che, in Francia, avevano

quasi subito “riadattato” lo stile secon-

do la propria regola, eliminando dalle

loro chiese ogni forma di eccesso. Que-

sta versione “sobria e moderata” di

gotico ben si adattava al clima artistico

italiano dove la tecnica dell’affresco,

ereditata dagli antichi romani, era ri-

masta la forma più diffusa di decora-

zione architettonica.

Particolarissimo è il caso di Napoli do-

ve, sotto il dominio francese degli An-

giò, il gotico si affermò in una versione

ancora più spettacolare. Dal 1266 gli

Angioini governavano sulla città e una

rete di scambi commerciali e culturali

legava la città alla Provenza, territorio

di origine della casata. Per più di un

secolo artisti e architetti francesi lavo-

rarono fianco a fianco con artisti e ar-

chitetti napoletani. Il risultato fu la

formazione di uno stile ibrido, a cavallo

tra quello francese e quello italiano,

tuttora visibile nei due più importanti

cantieri ecclesiastici angioini: la Basili-

Page 7: Non è la solita guida

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fatto anche la sede giuridica dei Frati

Minori Conventuali nell’omonimo quar-

tiere.

Si trova, all’apice della via dei pastori

sulla direttrice del complesso monasti-

co di San Gregorio Armeno, più o meno

collocata sul territorio dell’antica regio

Nilensis, al vertice di un triangolo per-

fetto creato in asse con la chiesa e

convento dei Predicatori a piazzetta

San Domenico e gli Agostiniani alla Zec-

ca sul Rettifilo.

Costruita sullo sterrato dell’area ar-

cheologica e l’antichissima bottega

dell’allume, i restauri, apportati

nell’ultimo ventennio del ’900, l’hanno

restituita spogliata degli stucchi ag-

giunti sulle architetture primitive dise-

gnate di purissimo stile gotico d’Oltral-

pe, scoprendo tra l’altro affreschi, i

quali, assieme a quelli dell’Incoronata

a via Medina, Donnaregina Vecchia a

Settembrini e la Cappella Palatina al

Maschio Angioino, offrono una veduta

d’insieme dell’arte pittorica del Tre-

cento italiano.

La chiesa quindi è un grandioso monu-

mento di Storia Patria installata nel

quartiere un poco aragonese ed un po-

co barocco di San Gaetano ai Tribunali.

ca di San Lorenzo Maggiore e il Com-

plesso monastico di Santa Chiara.

La basilica di San Lorenzo Maggiore

La Basilica di San Lorenzo Maggiore,

eretta a partire dal 1270 da Carlo I

d’Angiò, è una delle più antiche chiese

di Napoli. Sebbene la facciata sia stata

ricostruita in epoca barocca da Ferdi-

nando Sanfelice, la chiesa conserva al

suo interno gran parte della struttura

originale. L’edificio è caratterizzato da

un ampia navata centrale, separata

dalle più basse navate laterali da una

serie di archi ogivali poggiati su pilastri

a fascio. Grandi finestroni, anch’essi

ogivali, innalzano ulteriormente le mu-

ra circostanti, evidentemente progetta-

te dalle maestranze italiane. L’abside,

invece, considerato uno dei più rari

esempi “classici” di gotico francese,

appare completamente traforato da

archi e finestre a sesto acuto, secondo

la più radicale tradizione nordeuropea.

Appartenente all’ordine francescano,

questa chiesa è certamente tra le più

importanti di Napoli. Pare infatti che,

in San Lorenzo, Boccaccio incontrasse

per la prima volta la sua Fiammetta e

che, nell’annesso convento, Petrarca

dimorasse. Nella stessa basilica, inol-

tre, fu consacrato sacerdote San Ludo-

vico da Tolosa, il santo erede rinuncia-

tario del trono angioino.

La chiesa di San Lorenzo Maggiore,

massima espressione architettonica del

Centro Storico UNESCO di Napoli, è

stato l’edificio delle riunioni della ma-

gistratura cittadina partenopea, prima

che divenisse la più antica chiesa e di

14

Anticipa e posticipa la via per la chiesa

della Misericordia ed il largo della chie-

sa dei Girolamini.

Qui si conservano le ceneri di Raimondo

Berengario, figlio di Re Carlo II, alias Lo

Zoppo, qui le ceneri di Ludovico, morto

nel 1310, figlio di Re Roberto il Saggio,

sepolto a Santa Chiara a Spaccanapoli;

in questa chiesa il sepolcro di Caterina

d’Austria morta nel 1323, Carlo di Du-

razzo del 1347, Maria figlia di Carlo III,

Roberto d’Artois con la moglie Giovan-

na duchessa di Durazzo.

Si Narra che qui Boccaccio incontrò la

sua Fiammetta, Teresa D’Aquino, figlia

del re Roberto D’Angiò, sua musa ispi-

ratrice, dopo averla vista nella chiesa

dopo la messa del Santo Sabato del

1334. Si ricorda inoltre, che Francesco

Petrarca dimorò nel convento per alcu-

ni giorni e la notte del 4 novembre del

1343, terrorizzato da un’eremita che

aveva predetto una spaventosa tempe-

sta, discese dalla sua cella per unire le

sue preghiere a quelle dei monaci.

La chiesa inoltre presenta una torre

campanaria, detta anche “Torre di

Masaniello” perché coinvolta nei moti

insurrezionali del 1647; le fonti narrano

che essa fu impiegata come un vero e

proprio fortino, nel quale furono nasco-

ste armi e cannoni.

Attualmente la chiesa è stretta dalla

morsa di abitazioni private che ne co-

prono l’intera visuale mortificando

l’originario slancio architettonico.

Senz’alcun dubbio, tutte le linee della

chiesa di san Lorenzo Maggiore erano di

stile archiacuto, come lo si osserva

dall’andamento del portale, unico ele-

mento superstite della chiesa trecente-

sca. Nonostante tutto, è sul suo portale

che è possibile leggere molta della sua

storia. Lo stemma di Bartolomeo de

Capua, protonotario del Regno, sta

sotto il lunettone soprastante la porta

centrale dove è ancora visibile sotto

poca forma l’affresco attribuito ad

Angelo Mozzillo, ritraente lineamenti

del Martirio di San Lorenzo, partono

della chiesa, che si presenta a navata

unica e che incrocia il transetto diviso

dall’abside dall’altare maggiore e dallo

spazio delle cappelle radiali. Ai lati del

transetto i varchi che conducono alla

Sala capitolare, la vecchia sacrestia, il

convento ed il chiostro francescano. Un

particolare effetto scenografico è dato

dall’abbondanza della luce solare cat-

turata dalle quattro lunghe finestre

bifore sfondate nelle pareti laterali

assieme ad altri nove finestroni sempre

bifori praticati nelle pareti dell’abside

della chiesa. Nel primo piliere dopo la

scomparsa cappella di Santa Maria di

Loreto, si trovava prima di andar per-

duto per sempre lo stupendo altare

della Santissima Concezione della Bea-

Page 8: Non è la solita guida

15

ta Vergine costruita nel 1549 da Nardo

Antonio Della Porta poi inseguito eredi-

tata dai figli uno dei quali è Giambatti-

sta Della Porta. Della medesima cap-

pella e dell’altare oggi non resta che

una lapide.

In chiesa le cappelle esistenti, la prima

a destra è la Cappella San Giuseppe

intercomunicante con la seconda cap-

pella San Bonaventura; la terza è la

Cappella del Rosario, seguono la Cap-

pella San Rocco, la Cappella del Croci-

fisso e la Cappella della Santissima

Annunziata ed infine la Cappella di San

Ludovico d’Angiò.

Ritornando verso l’ingresso a sinistra

del transetto l’egregia cappella

Sant’Antonio da Padova, opera barocca

di Cosimo Fanzago; la prima a sinistra

in direzione dell’ingresso è la Cappella

di Vito Pisanelli, segue la Cappella San-

ta Lucia, la Cappella del Puderico, ed

infine oltre la porta piccola le cappelle

dei Tre Magi, della Circoncisione, del

Salvatore e dell’Angelo Custode.

Basilica di Santa Chiara « Munastero 'e Santa Chiara / tengo 'o

core scuro scuro... / Ma pecché, pec-

ché ogne sera, / penzo a Napule

comm'era, / penzo a Napule

comm'è... »

Questa canzone venne scritta in memo-

ria della semi-distruzione della basili-

ca, in seguito ai bombardamenti aerei

del 4 agosto 1943, data in cui il notevo-

le interno barocco andò distrutto, ecco

perché si può osservare un aspetto così

scarno ed essenziale. Ogni volta che la

si visita, si può cogliere quell’essenza

primigenia dell’antica cristianità, quasi

si entrasse in contatto direttamente

con Dio, un luogo dove ci si può rin-

chiudere in se stessi e nella preghiera,

grazie alla totale assenza dell’artificio.

Qualcuno la definisce spettrale, qual-

cun altro spoglia, ma in realtà la basili-

ca è l’essenza di quel culto silenzioso e

intimista che caratterizzava proprio gli

ordini religiosi di inizio novecento.

La basilica di Santa Chiara, con l'adia-

cente complesso monastico, entrambi

conosciuti anche come monastero di

Santa Chiara, è un edificio di culto di

Napoli.

Edificato tra il 1310 e il 1340 su un

complesso termale romano del I secolo

d.C., per volere di Roberto d'Angiò e

della regina Sancha d'Aragona, nei

pressi dell'allora cinta muraria occiden-

tale, oggi piazza del Gesù Nuovo, al

convento faceva parte anche il com-

plesso delle Clarisse, oggi luogo di cul-

to a sé. Può essere considerata come la

più grande basilica gotica della città.

Nella basilica di Santa Chiara, il 14

agosto 1571, vennero solennemente

consegnate a don Giovanni d'Austria, il

vessillo pontificio di Papa Pio V ed il

16

bastone del comando della coalizione

cristiana prima della partenza della

flotta della Lega Santa per la battaglia

di Lepanto contro i Turchi Ottomani.

Lepanto, una delle più grandi battaglie

navali della storia, fu un momento fon-

damentale per la salvezza della Cristia-

nità e del mondo occidentale.

Nel 1590 fu a lungo custode del regio

monastero di S.Chiara, Antonino da

Patti, autore di varie grazie e miracoli

sui malati,

Il quale diverrà Venerabile.

Tra il 1742 e il 1796 venne ampiamente

r i s t r u t t u r a t a i n f o r -

me barocche da Domenico Antonio Vac-

caro e Gaetano Buonocore.[Gli interni

furono abbelliti con opere diFrancesco

de Mura, Sebastiano Conca e Giuseppe

Bonito; mentre Ferdinando Fuga eseguì

il pavimento decorato.[

Durante la seconda guerra mondiale un

bombardamento degli Alleati del 4 ago-

sto 1943 provocò un incendio durato

quasi due giorni che distrusse l'interno

della chiesa quasi interamente, per-

dendo così tutti gli affreschi eseguiti

nel XVIII secolo.

Nell’ottobre 1944 Padre Gaudenzio

Dell'Aja fu nominato "rappresentante

dell'Ordine dei Frati Minori per i lavori

di ricostruzione della basilica", alla cui

ricostruzione partecipò in prima perso-

na. In seguito, i massicci e discussi la-

vori di ristrutturazione riportarono la

basilica all'aspetto originario trecente-

sco omettendo in questo modo il ripri-

stino delle aggiunte settecentesche. I

lavori terminarono definitivamente

nel 1953 e la chiesa fu riaperta al pub-

blico.

La basilica di Santa Chiara sorge sul

lato nord-orientale di piazza del Gesù

Nuovo, di fronte alla chiesa omonima,

ed ha il suo ingresso su via Benedetto

Croce. Questo è costituito da un grande

portale gotico del XIV secolo, con arco

ribassato e lunettapriva di decorazioni,

sormontata da un'unghia aggettante di

lastre di piperno. Il sagrato antistante

la chiesa è recintato da un alto muro.

La facciata presenta una struttura a

capanna ed è preceduta da un pronao a

tre arcate ogivali, di cui quella centra-

le inquadra il portale di marmi rossi e

gialli con lo stemma di Sancha. In alto,

al centro, si apre il rosone, il quale è

stato in gran parte reintegrato durante

la ricostruzione.

Page 9: Non è la solita guida

17

Alla sinistra della chiesa, si eleva

la torre campanaria trecentesco, in

seguito restaurata in stile barocco. Il

campanile è a pianta quadrata e si arti-

cola su tre ordini separati da cornicioni

marmorei. Mentre l'ordine inferiore ha

un paramento in blocchi di pietra, i due

super io r i sono in mattonc in i

con lesene marmoree, tuscaniche in

quello inferiore e ioniche in quello su-

periore.

Tra il 1742 e il 1762 l'aspetto gotico fu

c e l a t o d a d e c o r a z i o -

ni barocche progettate da Domenico

Antonio Vaccaro, Gaetano Buonocore e

da Giovanni del Gaizo. La volta fu de-

c o r a t a d a s t u c c h i

e affreschi di Francesco De Mu-

ra, Giuseppe Bonito,Sebastiano Con-

ca e Paolo de Maio. Il bombardamen-

to alleato del 1943 distrusse il tetto e

la decorazione barocca, mentre le ope-

re scultoree furono totalmente o par-

zialmente danneggiate; quelle soprav-

vissute, dopo la ricostruzione, furono

spostate in un altro luogo, tranne il

pavimento disegnato da Ferdinando

Fuga.

L'interno risulta attualmente formato

da un'unica navata rettangolare, disa-

dorna e senza transetti, con dieci cap-

pelle per lato. Nella zona presbiteriale

sono posti sulla parete di fondo

il sepolcro di Roberto d'Angiò, opera

dei fiorentini Giovanni e Pacio Bertini.

Ai lati del sepolcro del re ci sono quelli

di Maria di Durazzo e del primogeni-

to Carlo, Duca di Calabria ,databili

1311-1341 con il primo attribuito ad

ignoto maestro durazzesco, mentre il

secondo a Tino di Camaino. Sulla pare-

te sinistra del presbiterio invece vi è

il Sepolcro di Maria di Valois, databile

1331 ed anch'esso del Camaino. Di

fronte ai monumenti funebri invece vi

è il trecentesco altare maggiore di

autore ignoto, con un crocifisso ligneo

del XIV secolo, di ignoto autore proba-

bilmente senese. A destra del presbite-

rio vi è l 'accesso alla baroc-

ca sagrestia con affreschi e arredi mo-

biliari risalenti al 1692; in una sala

adiacente si può ammirare un panno

ricamato del XVII secolo. Altri due am-

bienti di passaggio, il primo decorato

da maioliche del XVIII secolo e il secon-

do con affreschi di un pittore fiammin-

go del XVI secolo, si passa di fronte ad

18

una scalinata chiusa al pubblico che

sale al convento e quindi, per un porta-

le gotico, si accede al "Coro delle mo-

nache".

Sulla controfacciata si trova al lato

sinistro il Sepolcro di Agnese e Clemen-

za di Durazzo, opera di Antonio Baboc-

cio da Piperno, sulla destra invece resti

di un affresco vicino a Giotto.

Nelle venti cappelle ci sono principal-

mente sepolcri monumentali realizzati

tra il XIV e il XVII secolo, appartenenti

ai personaggi di nobili famiglie napole-

tane.

Chiesa San Giovanni a Carbonara La chiesa di San Giovanni a Carbonara è

senza ombra di dubbio uno degli esem-

pli più chiari e ben riusciti dell’archi-

tettura gotica del centro storico di Na-

poli.

E' ubicata in Via Carbonara, in zona

extra-moenia, vicino all'antica muraglia

aragonese, sul lato orientale dela città

che conserva gli elementi più preziosi

che si custodiscano in città.

Via Carbonara non è solo una strada

ricca per lo più di palazzi ottocente-

schi, innalzati durante i nuovi piani di

Carlo di Borbone, ma è anche un'area

di grande attrazione turistica, forse

fuori dai classici itinerari, ma che per

l'importanza, la bellezza e il prestigio

merita ampiamente una visita.

Il complesso di apre con un imponente

doppia scalinata in Piperno disegnata

dall'architetto Ferdinando Sanfelice nel

1707

famoso architetto che proprio in questi

anni darà i migliori frutti a Napoli. Ol-

trepassato il cancello, si accede alla

Barocca

Chiesa di Santa Sofia (il nome prende

dal tracciato del Decumanus Superior -

Via Santa Sofia).

Sulla sinistra si accede nella chiesa di

San Giovanni a Carbonara. Iniziata nel

1343, completata nel 1400 per volere

del Re Ladislao, famiglia Angioina, am-

pliata e rimaneggiata successivamente

nel XVIII secolo.

La facciata è dominata da un portale

gotico, la cui lunetta è stata affrescata

da un pittore lombardo.

Navata rettangolare con aggiunte di

varie cappelle, mostra ancora l'ossatura

gotica, particolarmente nel Presbiterio.

Oltre ai dipinti, di grande importanza è

il monumento funebre al Re Ladislao

elevato dalla sorella Giovanna II che gli

successe al trono è alto 18 metri, pre-

senta cuspidi e archi trilobi gotici. Al-

tro elemento prestigioso è la Cappella

Caracciolo del Sole con meravigliose

decorazioni, imponente la cupola e uno

straordinario pavimento a mattonelle

maiolicate di stile toscano.

San Giovanni a Carbonara è un gioiello

Page 10: Non è la solita guida

19

da tutelare, conservare e promuovere.

L'interno è a croce latina con un'uni-

ca navata rettangolare, il soffitto

a capriate e l'abside coperta a crociera

con cappelle aggiunte in tempi poste-

riori. L'altare maggiore con balaustra

(1746) presenta una pavimentazione a

marmi policromi ed è posto tra due

finestroni a linea tipicamente gotica.

Il complesso presenta sculture e pitture

di gusto prevalentemente gotico e rina-

scimentale. Nella zona absidale domina

il monumento funebre a re Ladi-

slao mentre per la sacrestia furono

composte nel 1546 sedici tavole

del Vasari con la collaborazione

di Cristoforo Gherardi oggi al museo di

Capodimonte; del pittore aretino è

rimasta nella chiesa, accanto al monu-

mento a re Ladislao, una Crocefissione.

Sull'altare maggiore vi è invece la sta-

tua della Madonna delle Grazie di Mi-

chelangelo Naccherino (1578) e dello

stesso autore sono altri monumenti

funebri ed una Madonna col Bambino.

Di Bartolomé Ordoñez è infine l'Altare

dell'Epifania del 1517 circa.

Napoli tra superstizione e leggende

Fino adora come un filo d’Arianna si è

cercato di creare connessioni tempora-

li ed emozionali tra Napoli, città non

solo dai mille volti, mille stili artistici

ma anche città misteriosa e affascinan-

te. La città partenopea è ricca di su-

perstizioni che la rendono per certi

aspetti spaventosa. Antiche storie di

chiese sconsacrate, spettri che si agi-

rano nei palazzi vecchi e abbandonati,

presenze quali “o munaciello”, popola-

no i vicoli della città, vengono bisbi-

gliate e sussurrate tra gli abitanti e

tramandate di padre in figlio. Scrittori,

poeti, cantautori, di qualsiasi città o

nazionalità di appartenenza hanno

contribuito ad arricchire questo aspet-

to del capoluogo partenopeo. Di segui-

to solo alcune delle numerose leggende

che contribuiscono a rendere Napoli

una delle più belle e affascinanti capi-

tali europee.

Le chiese sconsacrate

A Napoli sono presenti tantissime chie-

se sconsacrate, molte delle quali pur-

troppo ancora chiuse al pubblico, ma

in procinto di essere di nuovo riaperte,

per essere rivisitate dai turisti o riuti-

lizzate come punti di informazione o di

ritrovo, utili nel sociale.

Le chiese di una città sono la testimo-

nianza del suo glorioso passato, ma

soprattutto possono costituire un po-

tente mezzo di sviluppo perché in gra-

do di attirare, come ai tempi eroici del

Grand Tour, un esercito di forestieri.

Si tratta di edifici più o meno noti co-

me Sant’Agostino alla Zecca o Santa

20

Maria delle Grazie a Caponapoli, come

la Sapienza o Santa Maria del Popolo

agli Incurabili, ma anche tante altre,

come Sant’Aspreno ai Crociferi, l’Im-

macolata a Pizzofalcone, San Giuseppe

a Pontecorvo, la Scorziata, la Disciplina

della Croce, i Santi Severino e Sossio, i

Santi Cosma e Damiano ai Banchi Nuo-

vi, Santa Maria Vertecoeli.

Su queste chiese aleggiano leggende e

miti, con vergini e draghi che bisogna

rammentare assieme a cenni su quando

e da chi furono edificate.

San Giovanni Maggiore, che nel I secolo

fungeva da tempio pagano, Fatto erige-

re dall’imperatore Adriano in onore di

Antino. Nel IV secolo poi l’imperatore

Costantino trasformò il tempio in chie-

sa che volle dedicare a San Giovanni

Battista per essere poi arricchita da

quadri e suppellettili.

La chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli

sorge su una piccola altura dove vi era

un boschetto utilizzato spesso per le

sfide a duello e dove molti pensavano

che vi fosse la tomba della sirena Par-

tenope, fondatrice della città e cono-

sciuta dal popolino come “’a capa ‘a

Napule”.

Un’altra leggenda ci parla di un’edicola

votiva pendente da un albero, davanti

alla quale una donna sterile venne ad

impetrare la grazia di un figlio, che

dopo poco nacque e venne battezzato

col nome di Agnello, in vernacolo Aniel-

lo, il quale da grande ascese alla gloria

degli altari.

La chiesa dei Santi Cosma e Damiano

ai Banchi Nuovi, entrambi medici, ven-

ne per esempio edificata nel 1616

dall’associazione dei barbieri e la cosa

non deve destare meraviglia, perché a

quell’epoca e per lungo tempo questi

artigiani svolgevano anche attività sani-

tarie.

Trecento vergini di nome Immacolata

frequentavano nel ‘500 una chiesetta

denominata del Rosario, sulla collinetta

di Pizzofalcone, frequentata dai soldati

spagnoli lì acquartierati. Nel 1850 il re

Ferdinando II la fece completamente

riedificare ed in ricordo dell’antica

frequentazione le impose il nome di

Immacolata a Pizzofalcone.

Orefici e gioiellieri, quasi tutti genove-

si, fondarono nel 1857 in via Medina

una chiesa, San Giorgio dei Genovesi.

Oltre a questi artigiani molto ricchi vi

era una vasta colonia di liguri, abilissi-

Page 11: Non è la solita guida

21

mi nell’attività di ristoratori. Infatti ai

napoletani piaceva molto la carne alla

genovese. Cuochi e camerieri si recava-

no a pregare nella cappella dell’infer-

meria di Santa Maria la Nova prima

dell’edificazione della loro chiesa, la

quale divenne famosa perché sull’alta-

re maggiore troneggiava un dipinto

raffigurante San Giorgio mentre trafig-

ge un drago.

In via Medina si trova anche la celebre

chiesa della Pietà dei Turchini, fondata

nel 1592, a cui era annesso un orfano-

trofio i cui componenti erano avviati

allo studio della musica indossando un

abito talare di colore turchino. Tra gli

allievi vi fu il grande Alessandro Scar-

latti e nella chiesa fu dato l’ultimo

saluto ad Aurelio Fierro.

IL Complesso degli Incurabili

Il complesso degli Incurabili è un sito

monumentale di Napoli ubicato

nel centro storico, non lontano dal de-

cumano superiore (ora via dell'Antica-

glia).

Dal 2010 una parte del complesso, in-

clusa la storica farmacia e la chiesa di

Santa Maria del Popolo, fa parte del

"museo delle arti sanitarie di Napoli". Il

complesso, di epoca rinascimentale,

comprendeva originariamente:

la chiesa di Santa Maria del Popolo

la chiesa di Santa Maria Succurre Mise-

ris dei Bianchi

lo storico ospedale di Santa Maria del

Popolo degli Incurabili.

Col tempo ingloberà anche la chiesa di

Santa Maria delle Grazie Maggiore a

Caponapoli e l'omonimo chiostro,

il complesso di Santa Maria della Con-

solazione, la chiesa di Santa Maria di

Gerusalemme e il chiostro delle Tren-

tatré.

Santa Maria del Popolo

La chiesa di Santa Maria del Popolo è

caratterizzata da un interno ad aula

unica con cappelle, decorato con stuc-

chibarocchi; gli altari delle cappelle

sono in marmo bianco, mentre quello

maggiore, opera di Dionisio Lazzari, è

in marmo commesso. Accanto all'altare

magg iore è posto un sepol -

cro r inasc imenta le real izzato

da Giovanni da Nola.

Gli affreschi della chiesa furono portati

a termine tra il XVI ed il XVIII secolo; le

principali opere pittoriche sono

di Giuliano Bugiardini, Marco Cardi-

sco, Francesco De Mura, Marco Pi-

no, Giovanni Battista Rossi e Carlo Sel-

litto. Nella Cappella Montalto è posta

un'opera di Girolamo D'Auria.

Nella sagrestia ci sono dei notevoli

pezzi di arredo risalenti al 1603 e la

volta fu affrescata ancora dal medesi-

mo Giovanni Battista Rossi.

22

Santa Maria dei Bianchi

La chiesa di Santa Maria dei Bianchi (o

congrega dei Bianchi della Giustizia) è

l'altro edificio sacro inglobato nel com-

plesso degli Incurabili. Il nome della

confraternita e quindi della chiesa fa

riferimento al colore dell'abito dei reli-

giosi ed al loro specifico ufficio, ovvero

l'assistenza ai condannati a morte.

La chiesa, insieme alla congregazione,

venne fondata nel 1473 da san Giacomo

della Marca e nel 1519, grazie all'ap-

poggio di papa Paolo IV, venne ingradi-

ta e restaurata. Nel XVI secolo la con-

gregazione, trasferitasi nella Santa

Casa degli Incurabili, divenne nota

nel Regno e fuori grazie alla sua attivi-

tà. Nel 1583 il re Filippo II ne ordinò lo

scioglimento poiché essa generava so-

spetti nelle autorità spagnole a causa

della segretezza nella quale si svolgeva

la sua opera. Nel 1673 vennero esegui-

te nella chiesa modifiche e restau-

ri barocchi su progetto di Dionisio Laz-

zari.

L'ingresso alla chiesa si trova su una

scala in piperno devastata; l'ingresso è

costituito da un portale anch'esso in

piperno. L'elemento architettonico di

spicco è la settecentesca scala a tena-

glia che dal cortile degli Incurabili sale

all'ingresso secondario della chiesa, e

che oggi versa in stato di degrado.

Nell'interno una effimera decorazione

barocca composta da affreschi sulla

volta; nelle fasce laterali vi so-

no efebi che hanno funzione

di telamoni, ai quali si alternano con-

chiglie con figure allegoriche. Sull'alta-

re è posta una statua del -

la Vergine diGiovanni da Nola, mentre

la volta fu affrescata da Giovan Batti-

sta Beinaschi. Nella sagrestia si trovano

a f f r e s c h i d i P ao l o De Ma t -

teis raffiguranti membri eminenti della

confraternita.

Chiesa della Monaca di Legno e la

chiesa della Riforma

La chiesa della Monaca di Legno e la

chiesa della Riforma, sono due piccole

strutture storico-religiose inglobate nel

complesso degli Incurabili che facevano

dapprima parte di due monasteri distin-

ti.

La prima prende la propria denomina-

zione dal cognome di una delle prime

suore che qui dimorarono; ma la leg-

genda vuole che una suora, tentando di

uscire dal monastero, restasse ferma

Page 12: Non è la solita guida

23

come una statua di legno. Col decennio

francese, la chiesa fu abbandonata, per

poi essere concessa alla Confraternita

della Visitazione di Maria, che vi collo-

cò un quadro ovale della Vergine

(opera di Paolo De Matteis). Nel 1867, i

frati si trasferirono nel monastero di

Donnaregina, portando con sé l'opera

d'arte. La cappella fu quindi ceduta ad

un'altra congrega.

L'altra chiesina, è chiamata della Rifor-

ma perché la fondatrice del complesso,

Maria Longo, qui raccoglieva le donne

di mondo, dette anche della Buona

Morte, per "riformarne" la vita e con-

durle sulla retta strada. Nel decennio

francese, queste furono trasferite nel-

la chiesa delle Trentatré e la cappella

fu concessa alla Congrega di Santa Ma-

ria Regina Paradisi, poi a quella dei

Cucchi. I due monasteri, espulse le

suore, nel 1813 passarono a far parte

dell'ospedale.

Chiesa di San Giuseppe delle Scalze a

Pontecorvo

L ' e d i f i c i o f u c o s t r u i t o

nel 1619 occupando l'area di palazzo

Spinelli a Pontecorvo ed ebbe un im-

portante rifacimento tra il 1643 e

il 1660 ad opera di Cosimo Fanzago.

Ulteriori decorazioni furono apposte

nel 1709, su progetto di Giovanni Batti-

sta Manni, con l'esito di un generale

danneggiamento della facciata e

dell'interno originari, ridecorata negli

interni intorno al 1903 per il crollo

della volta a causa dell'incuria.

La chiesa appartenne prima alle mona-

che Teresiane e successivamente vi

ebbero i loro offici i padri barnabiti.

Il terremoto del 1980 fece crollare il

tetto a capriate trascinando con sé il

controsoffitto affrescato, i cui fram-

menti residui si persero col passare del

tempo a causa dell'assenza di una co-

pertura che impedisse l'entrata di piog-

gia e il deterioramento dell'interno.

Negli anni novanta fu costruito l'attua-

le tetto a capriate in legno. Tuttavia la

chiesa fu depredata di molti arredi

sacri e decorazioni, come marmi e

balaustre. L'ipogeo è stato profanato.

Attualmente la chiesa mostra i danni

causati dalle intemperie e necessita di

una ristrutturazione complessiva, in

particolare della facciata. Tuttavia la

stabilità dell'edificio permette ad alcu-

ne associazioni di tenere aperta la

chiesa (e sfruttare gli ambienti del

24

complesso per attività ludiche e ricrea-

tive.

Sant’Aniello a Caponapoli

Il toponimo della zona è dovuto alla

chiesa di Sant’Agnello Maggiore nota

appunto come Sant’Aniello a Capona-

poli, era la parte più alta della

“Neapolis” sorta nel V secolo a.c.

quando gli antichi coloni si spostarono

nell’attuale zona dopo che fu abbando-

nata Palepolis, l’antica Partenope,

ubicata tra il Monte Echia e Pizzofalco-

ne, da loro fondata nel VII secolo a.c.

non più sicura dagli attacchi dei predo-

ni che venivano dal mare. Prima di

parlare dei rinvenimenti archeologici

passiamo a narrare la storia della chie-

sa e del luogo: lo descrive così il Cano-

nico Carlo Celano “vedesi una bellissi-

ma piazza detta S. Aniello che serve da

delizia in estate per i Napoletani poi-

ché oltre delle aure fresche che in essa

si godono, le nostre amene colline for-

mano alla vista un teatro molto diletto-

so, e la sera in questo luogo si vedono

adunanze di uomini eruditi e lettera-

ti” ,infatti l’aria di questa collina era

ritenuta la più salubre di Napoli, e die-

de luogo al detto: “Coppole pè cappiel-

le, e case ‘a sant’Aniello“, ossia con-

tentarsi di vivere modestamente, ma

respirare l’aria di Sant’Aniello.

Sant’Agnello, o Sant’Aniello, era un

vescovo di Napoli del VI secolo ed ave-

va salvato più di una volta la città dalle

invasioni barbariche. Proclamato santo,

divenne il settimo patrono della città,

molto venerato dai napoletani, e nel

1628 fu assurto a protettore del Regno

di Napoli. Si narra che i suoi genitori

venissero in questo luogo a pregar la

Vergine Maria affinché concedesse loro

la grazia di avere un erede che poi fu

Sant'Agnello e per grazia ricevuta fece-

ro costruire la chiesa di Santa Maria

Intercede a Caponapoli – ora non più

esistente - dove furono raccolti i resti

mortali dello stesso Santo.

Le prime notizie certe della chiesa di

Sant’Agnello Maggiore e del convento

risalgono al 1058. Nel 1517 essa inglobò

anche quel che restava della chiesa

dove era sepolto il Santo. La sua deca-

denza iniziò nel 1914 quando venne

spostata la sede della parrocchia e le

sue opere d’arte trasferite presso la

chiesa di Santa Maria di Costantinopoli,

ma il suo attuale stato di abbandono e

di devastazione è conseguenza dell’in-

discriminato e gratuito bombardamento

alleato del 1943 che polverizzò tutta la

zona antica della città, priva di obietti-

vi militari, e poi dai consueti furti van-

dalici e da un interminabile cantiere di

scavi archeologici iniziati nel 1962 e

terminati solo pochi anni fa. Oggi vi

rimane (ma fino a quando?) solo il gran-

de altare opera di Girolamo Santacro-

ce, capolavoro del rinascimento napo-

letano del 1524, straziato e sfregiato

Page 13: Non è la solita guida

25

dai furti.

La zona è ricca di reperti archeologici

ai quali solo oggi è stata ridata valenza

culturale; era la collina su cui sorgeva

“l’Acropoli” a nord ovest della Neapo-

lis, con destinazione religiosa che si

riempì di templi in marmo, tanto da

meritare l’appellativo di “Regio Mar-

morata” che le rimase fino al Medioevo

quando ancora erano visibili i resti di

alcuni templi: quello del Dio Sole, di

Demetra, di Apollo e di Diana, que-

st’ultimo, identificato con l’attuale

chiesa di Santa Maria della Pietrasanta.

Qui si svolgevano i fondamentali riti

religiosi, si veneravano le divinità della

città, si svolgevano i sacrifici e le pro-

cessioni che si inerpicavano sulla via

“Sacra” probabilmente corrispondente

all’attuale via del Sole, oggi delimitata

dalla caserma dei Vigili del Fuoco e

dalla sede del vecchio Policlinico.

Sant’Aspreno ai crociferi

La chiesa di Sant'Aspreno ai Crociferi è

uno storico luogo di culto di Napoli; si

erge nell'omonima piazzetta nel cosid-

detto Borgo dei Vergini. La struttura

religiosa fu costruita nel 1633 e, dan-

neggiata dalle lave, venne ricostruita

nel 1760 grazie a Luca Vecchione. Per

la nuova ricostruzione furono presenta-

te varie proposte architettoniche, la

più famosa delle quali fu certamente

quella di voler realizzare un tempio a

pianta stellare, secondo il progetto di

Ferdinando Sanfelice. Tuttavia, alla

fine della disputa, l'edificio venne

eretto con pianta a croce latina, con

cappelle laterali e navata unica; ele-

mento architettonico di spicco è sicu-

ramente l'impostazione centrale della

possente cupola. La facciata è prece-

duta da una bella scalinata, creata in

pietra lavica; questa venne costruita

affinché la chiesa venisse rialzata ri-

spetto alla quota stradale, visto che il

tempio era stato più volte invaso da

torrenti di varia natura. La facciata

vera e propria propone due ordini arti-

colati da lesene composite (decorate

completamente in stucco) e raccordati

da volute. L'ingresso secondario è ca-

ratterizzato dal portale riccamente

decorato, testimone di una indubbia

influenza del rococò. Il tempio conser-

va un interno prettamente barocco,

26

molto bello e finemente decorato, di

particolare pregio è la bella cupola

caratterizzata da una geometrizzazione

degli ornamenti; attualmente la chiesa

è chiusa e versa in stato di abbandono.

Le sue scalinate spesso sono rifugio di

mendicanti. Questo piccolo borgo è di

fatto l’epicentro storico della leggen-

daria sepoltura negli ipogei greci di

questo comparto del primo vescovo di

Napoli, Sant’Aspreno, ed i padri Croci-

feri, proprietari dell’immobile, furono i

medesimi fondatori della chiesa delle

Crocelle al Chiatamone.

Esso rappresenta il primo varco su via

Foria, aperto come libero accesso a via

dei Vergini e via dei Miracoli, che con-

duce all’omonimo comparto alle sue

spalle, ed un’ assegnazione di caratteri

polifunzionali lo distinguono nettamen-

te dai comparti afferenti via Mario Pa-

gano, strada aperta nell’Ottocento a

sostegno della piazza dei commestibili

dei Vergini e delle chiese di Santa Ma-

ria della Misericordia e Santa Maria

Succurre Miseris.

Il toponimo Crociferi sembra non giusti-

ficarsi affatto, per la presenza sul po-

sto della chiesa delle Crocelle, che,

stante alle vedute della città di Napoli,

prima del Lafrery del 1566 che lo pre-

senta priva dell’immobile, e poi della

veduta di Alessandro Baratta del 1629

che invece lo edita con una fila di case

che marcano il fronte della strada e

subito dietro orti e giardini, ma ancora

senza chiesa, è verosimile credere gli

sia stato dato il nome di Crociferi solo

al sopraggiungere degli stessi padri

Ministri degli Infermi nel 1633.

Il borgo è praticamente piccolissimo,

con appena una micro rete di vicoletti

che ne segnano i confini al di qua e al

di là degli accessi speculari al quartiere

della Stella e lo stringono fino all’ordi-

ne di piazzetta dei Crociferi, sulla qua-

le, affaccia la chiesa dei Crociferi, fac-

ciata a doppio ordine, incassata nella

quinta scenica ed arretrata rispetto ai

corpi di fabbrica prospicienti l’omoni-

ma stradina. Significativo resta, alla

fine, la storia di questo piccolo borgo a

partire dalla storia stessa della chiesa

attorno alla quale sembra tutto ruota-

re.

Si evince dai testi, infatti, che al di-

scendere delle lave d’acqua piovana, la

chiesa a mano a mano venne quasi del

tutto sepolta, segno, evidentemente,

che l’attuale facciata in sostanza

dev’esser stata rialzata di quota rispet-

to alle sue fondamenta.

La chiesa fu dunque ricostruita, nel

1760, a spese del matematico Antonio

Monforte, forse probabilmente solo

allora, dovette esser stata consacrata a

Sant’Aspreno, ”primo christiano e pri-

mo vescovo della città di Napoli”.

Esiste un progetto autografato Ferdi-

Page 14: Non è la solita guida

27

nando Sanfelice che prevedeva la rico-

struzione dell’immobile sacro a pianta

stellare, che, per motivi economici non

fu mai realizzato. L’incarico di rico-

struire la chiesa fu affidato all’archi-

tetto Luca Vecchione con la direzione

dei lavori al fratello Bartolomeo . In un

rilievo quindi del Settecento, la chiesa

di Sant’Aspreno appare a croce latina,

una sola navata, con transetto, quattro

cappelle per lato ed una cupola molto

alta, unico elemento architettonico

emergente della fabbrica stretta tra i

palazzi di seconda fondazione

Chiesa dei Santi Cosma e Damiano ai

Banchi Nuovi

La chiesa dei Santi Cosma e Damia-

no ai Banchi Nuovi è una chiesa monu-

mentale di Napoli ubicata il largo Ban-

chi Nuovi . La chiesa sorge nel punto

dove prima esisteva la loggia dei Banchi

Nuovi. L'edificio venne fondato

nel 1616 e ampliato nel corso

del secolo; alle strutture venne fatto

un restauro diretto dall'ingegnere Luigi

Giura che la ampliò ulteriormente.

La facciata utilizza l'impianto del pree-

stistente edificio: si notano infatti

gli archi a tutto sesto della loggia cin-

quecentesca. Nei tompagni laterali si

aprono due botteghe, mentre nel cen-

trale si apre il portale secentesco inpi-

perno sormontato da un finestrone po-

lilobato in stucco del Settecento; lo

schema della facciata è scandito dalla

presenza quattro lesene rialzate da un

basamento.

Nell'interno c'è l'altare settecentesco

su l qua le è posta una te la

del Donzelli e una della scuola di Luca

Giordano.

Le credenze popolari e leggende

La leggenda di Donnalbina, Donna Romi

ta, Donna Regina, corre ancora per

la lurida via di Mezzocannone, per le

primitive rampe del Salvatore, per

q u e l -

la pacifica parte di Napoli vecchia che

c o s t e g -

gia la Sapienza. Corre la leggenda per

quelle vie, cade nel rigagnolo,

s i r i a l z a , s i e l e v a s i n o

a l c i e l o , d i s c e n d e ,

si attarda nelle umide ed oscure navat

e d e l l e c h i e s e , m o r m o -

ra nei tristi giardini dei conventi,

si disperde, si ritrova, si rinnovella – ed

è sempre giovane, sempre fresca.

E r a n o l e

tre figlie del barone Toraldo, nobile de

l s e d i l e d i N i l o .

La madre, Donna Gaetana Scauro,

d i n o b i l i s s i m o p a r e n t a -

do, era morta molto giovane:

il barone si crucciava che il

suo nome dovesse estinguersi con es-

s o : p u re , n o n r i p r e s e m o -

28

glie. Ottenne come special favore dal r

e R o b e r t o d ' A n g i ò c h e l a

sua figliuola maggiore, Donna Regina,

pot e s se , una vo l t a convo l a -

t a a n o z z e , c o n s e r v a r e i l

suo nome di famiglia e trasmetterlo ai

s u o i f i g l i u o l i . E

nel 1320 si morì, racconsolato nella

f e -

de del Cristo Signore. Donna Regina ave

v a a l l o -

ra diciannove anni, Donnalbina diciasse

tte, Donna Romita quindici.

La maggiore, aveva nell’anima una

g r a n d e a u s t e r i t à ,

un sentimento assoluto del dovere,

un'alta idea del suo compito,

una venerazione cieca del nome, del-

l e t r a d i z i o n i , d e i d i r i t t i ,

d e i p r i v i l e g i . E r a l e i

il capo della famiglia, l'erede.

Donnalbina, la seconda sorella, veni-

va chiamata cosi dalla bianchezza ecce

zionale del volto ed era una fanciulla

a m a b i l e , m e n t r e D o n -

na Romita era una singolare giovinetta,

mezzo bambina e di animo irrequieto.

Nel palazzo in cui vivevano le tre sorel-

le tutto regnava tranquillo fino a quan-

do il re di Napoli D’Angiò non scrisse

una lettera alla sua priimogenea, per

comunicarle che le aveva trovato come

sposo, il cavaliere della corte napoleta-

na Filippo Capece.

Un giorno mentre Donna Regina leggeva

il libro delle sue preghiere le si avvici-

nò sua sorella Donn’Albina , rivelandole

le sue enormi preoccupazioni verso la

loro sorella minore, perché sembrava

soffrire di pene d’amore. L’uomo in

questione era proprio Don Filippo. In

realtà non solo Donn’Albina ma anche

la stessa Donna Romita erano profonda-

mente innamorate di Don Filippo Cape-

ce, e così da quel momento Donna Re-

gina cominciò a passare le sue giornate

a pregare la Madonna Bruna

(raffigurata nella chiesa di Santa Maria

del Carmine) affinché potesse dimenti-

care il suo amore. Le tre sorelle si per-

sero di vista perché tutt’e tre innamo-

rate contemporaneamente dello stesso

uomo, fin quando non si ritrovarono nel

periodo della Santa Pasqua, dove le

sorelle minori implorarono il perdono di

Donna Regina e ritenendo fosse indi-

spensabile intraprendere la vita mona-

cale. Donna Regina rispose che non

dovevano sacrificarsi perché lei aveva

scoperto che in realtà Don Filippo non

l’amava e così sarebbe stata lei quella

a prendere i voti e rinchiudersi in un

convento che lei stessa aveva fondato.

Così prese uno scettro d’ebano borchia-

to d’oro, lo spezzo in due parti, e rivol-

gendosi all’ultimo ritratto del Barone

Toralto disse che la sua casa era morta.

Per omaggiare questa storia d’amore

Page 15: Non è la solita guida

29

cosi triste a Napoli ci sono tre luoghi

con i nomi delle tre sorelle, Via Don-

nalbina in prossimità di piazza Matteot-

ti, via Donnaromita e Largo Donnaregi-

na adiacenti al duomo.

Maria D’Avalos

Nel maggio 1586 Napoli era governata

dagli spagnoli, quando nella chiesa di

San Domenico Maggiore, fu celebrato il

matrimonio tra Carlo Gesualdo, princi-

pe di Venosa e sua cugina Maria D’Ava-

los D’Aragona. Era allora abitudine

delle famiglie nobili, sposarsi tra con-

sanguinei per non disperdere il patri-

monio. Naturalmente date le premesse

non fu di certo un matrimonio d’amore,

visto che l’unico motivo era quello di

procreare un erede che succedesse ed

ereditasse il titolo e le ricchezze. Don-

na Maria era già convolata a nozze ben

due volte, rimasta vedova con due figli,

era certamente una donna fertile. L’e-

rede si chiamò Emanuele, e nel giro di

un paio di anni il principe Carlo potè

ritornare alla sua antica passione, vale

a dire la musica. Principe Carlo produ-

ceva dei bellissimi madrugali, ma pur-

troppo nella vita coniugale era un uo-

mo rozzo, avvezzo a manifestare in

maniera ossessiva il suo amore per Ma-

ria. Quest’ultima fu presto delusa dalla

sua vita matrimoniale, accettò il cor-

teggiamento di Fabrizio Carafa, duca

D’Andria e Conte di Ruvo. Questa rela-

zione durò all’incirca due anni prima

che il principe Carlo se ne accorgesse,

o quanto meno cominciasse ad averne

il sospetto. I due amanti furono scoper-

ti dallo zio del principe Carlo che a sua

volta aveva tentato di sedurre Maria

ma non ci era riuscito, così decise di

vendicarsi. Don Carlo tese loro una

trappola, fece finta di partire, e in

realtà mandò da loro dei sicari, mentre

lui aspettava nella stanza accanto.

Uccisi con diverse pugnalate i loro cor-

pi furono esposti nudi in pubblico, e

tutti accorsero il giorno dopo per assi-

stere allo scempio. Ancora oggi sembra

ancora di sentire in alcune mattinate

tranquille e silenziose l’urlo di Maria

prima di essere uccisa brutalmente,

nella piazza di san Domenico Maggiore,

tra l’obelisco e il celebre Palazzo di

Sangro dei Principi di Sansevero. Nel

1889 crollo l’ala del palazzo dove fu

commesso l’omicidio e si narra che

solo così lo spirito di Maria riuscì a tro-

vare un po’ di pace. Ma nelle notti di

luna piena pare sia possibile scorgere

ancora oggi una figura evanescente di

donna, che con vesti succinte si aggire-

rebbe dolente alla ricerca del suo eter-

no amante Fabrizio. Anche il celeberri-

mo poeta Torquato Tasso gli ha dedica-

to dei versi molto affascinanti :

30

<Piangete o grazie, e voi Amori, feri

trofei di morte, e fere spoglie di bella

coppia cui n’vidia e toglie, e negre

pompe e tenebrosi orrori… la bella e

irrequieta Maria >.

Donn’Anna Carafa

Il Palazzo Donn’Anna fu edificato nel

cinquecento è un grosso edificio che si

erge nel mare di Posillipo. Uno dei pri-

mi proprietari fu Dragonetto Bonifacio,

poi diventò di proprietà dei Ravaschieri

e dopo il 1571 fu acquistato da Luigi

Carafa di Stigliano. Uno dei discendenti

dei Carafa, Antonio, sposò Elena Aldo-

brandini, nipote di Clemente VIII, ed

ebbe tre figli: Onofrio, Giuseppe ed

Anna. Purtroppo la giovane Anna non

ebbe una vita facile perché in giovane

età perse in pochissimo tempo il padre

e i due fratelli, e visse con la madre e i

nonni. Quando nel 1636 sposò il vicerè

spagnolo Filippo Ramiro Guzman, Duca

di Medina, Donn’Anna ereditò il palaz-

zo. Una famosissima scrittrice italiana,

Matilde Serao scrisse nelle sue Leggen-

de Napoletane, riferendosi al palazzo:

< sotto le sue volte s’ode solo il fragor

del mare...le sue finestre alte, larghe,

senza vetri, rassomigliano ad occhi

senz’anima>.

Tanti anni fa dalle finestre del palazzo

splendevano vivide luci, numerose bar-

che erano ormeggiate li attorno e la

nobiltà spagnola e partenopea accorre-

va numerosa alle splendide feste

dell’altera Donna Anna Carafa. Anna

era una donna bellissima e raffinata,

contesa da nobili e personaggi illustri,

ma la sua inesauribile brama di potere

aveva contribuito a crearle diverse

ostilità Quella sera, alla festa ci sareb-

be stata una rappresentazione teatrale,

una commedia e una danza moresca e

gli attori come da moda francese in

voga in quegli anni sarebbero stati

membri della stessa nobiltà. Tra gli

attori c’era anche donna Mercede de

las Torrres, nipote spagnola di Anna, ed

era una ragazza molto bella e affasci-

nante, e doveva interpretare il ruolo di

una schiava innamorata del suo padro-

ne, che muore per salvare la vita al

suo amato. La ragazza recitò con gran-

de trasporto accanto al suo compagno

di scena Gaetano di Casapesenna che

interpretava a sua volta la parte del

Page 16: Non è la solita guida

31

cavaliere. Infatti nella scena finale

dove lei avrebbe dovuto separarsi dal

suo innamorato lo baciò con così tanto

trasporto che applaudi commossa tutta

la platea, tutti tranne Anna, che fu

improvvisamente mossa da gelosia in

quanto Gaetano di Casapesenna era

stato il suo amante. Nei giorni successi-

vi alla festa le due donne si ingiuriaro-

no profondamente fino a quanto la

ragazza scomparve improvvisamente e

tutti pensarono che fosse stata mossa

da un sentimento religioso e si fosse

chiusa in convento. Il giovane Gaetano,

innamorato di lei, la cercò ovunque, in

Spagna, Francia e Ungheria fin quando

non morì in battaglia prematuramente.

Il 7 maggio 1644 Guzman fu nominato

vicerè a Castiglia e Anna invece si ritirò

a Portici dove morì il 24 ottobre 1645

in totale solitudine.

La leggenda vuole che nel palazzo di

Posillipo appaia di tanto in tanto lo

spettro di donn’Anna. Altri invece ri-

tengono che le oscure presenze siano

ad ascriversi alle anime in pena di Gae-

tano di Casapesenna e Mercede de Las

Torres, altri ancora ritengono invece

che nella struttura appaia il fantasma

della regina Giovanna I D’Angiò. Nelle

credenze popolari la regina Giovanna

d'Angiò avrebbe incontrato qui i suoi

giovani amanti, scelti fra prestanti

pescatori e con i quali trascorreva ap-

passionate notti di amore, per poi am-

mazzarli all'alba facendoli precipitare

dal palazzo; la leggenda vuole che le

anime di questi sventurati giovanotti

tuttora si aggirino nei sotterranei

dell'antica dimora, affacciandosi al

mare ed emettendo lamenti. Altri inve-

ce raccontano che la regina facesse

uscire il suo amante con una barca a

remi dall'entrata che dà sul mare,

quella che oggi è possibile vedere dalla

spiaggia, tuttora usata dagli inquilini

per accedere alle imbarcazioni. Co-

munque sia il palazzo ancora oggi, an-

che dopo le ristrutturazioni, presenta

ancora un alone di fascino e mistero.

Chiesa di Sant'Arcangelo a Baiano

La chiesa ha origini molto antiche;

infatti, sembra sia stata fondata insie-

me al monastero attiguo verso la fine

del VI secolo da una comunità di basi-

liani, passando poi alle monache bene-

dettine. Nel XIII secolo venne rifatta su

commissione del re Carlo I d'Angiò,

c o s t i t u e n d o l a p r i m a o p e -

32

ra angioina della città. Il re si prodigò

anche di donare alle monache del con-

vento, le reliquie di San Giovanni Batti-

sta.

Secondo la tradizione, nel monastero si

ritirò Maria d'Angiò figlia di Roberto

d'Angiò e Fiammetta di Boccaccio. La

chiesa venne rimaneggiata anche

nel XVII secolo con la costruzione della

piazzetta antistante.

Il monastero annesso alla chiesa ebbe

vita breve, poiché fu soppresso

nel 1577 a causa delle gravi accuse di

condotta immorale e delittuosa mosse

alle monache come ricorda an-

che Benedetto Croce: « Di orrenda me-

moria, ma per diversa ragione, non

perché infestato di spiriti ma perché

bruttato da fatti di libidine e di sangue

e di sacrilegio, era il vicolo di Sant'Ar-

cangelo di Baiano, dove si vedeva anco-

ra la chiesa superstite dell'antico mo-

nastero di monache benedettine, aboli-

to nel 1577. »

Il filosofo racconta anche di un giovane

pittore che, per volontà del principe

di Fondi, dipinse un quadro raffigurante

i vari scempi che accadevano nel mona-

stero. L'artista, a tal riguardo asserì:

« Anch'io, che qualcosa avevo letto di

quegli orrori nelle Leggende napoleta-

ne del Dalbono e altrove, provavo l'im-

pressione di calcare un suolo maledet-

to, quando la prima volta percorsi quel

vecchio vicolo ed entrai nell'ammoder-

nata chiesa. »

Anche Stendhal ne parlerà in un suo

famoso libro, intitolato: Cronaca del

Convento di Sant'Arcangelo a Baiano.

Lo scrittore francese, partendo proprio

dalle vicende di questo monastero, né

approfitterà per spiegare le numerose

vicende storiche patite dalla città e di

come queste, abbiano "schiacciato",

sotto un clericalismo intransigente e

"miope", una parte dei suoi abitanti.

Secondo la tradizione, tra le mura mas-

sicce di quella costruzione venne edu-

cata e si ritirò a viverci Maria d'An-

giò, figlia di Roberto d'Angiò; vi sog-

giornò inoltre anche la Fiammet-

ta amata da Giovanni Boccaccio ed il

convento fu anche citato nel Filocolo –

etimologicamente Fatica d'amore – uno

dei lavori della giovinezza del poeta e

scrittore nato a Certaldo, pri-

mo romanzo avventuroso della lettera-

tura italiana, scritto in prosa ed

in volgare (mentre i romanzi delle ori-

gini erano costituiti da poemi scritti in

versi) durante il suo soggiorno

a Napoli, nel 1336.

Il monastero annesso alla chiesa ebbe

però vita breve. Nella seconda metà

del Cinquecento – era l’anno 1577 –

notizie sulla corruzione in esso dilagan-

te cominciarono rapidamente a diffon-

dersi fino ad arrivare a tal punto da

Page 17: Non è la solita guida

33

provocare una reazione delle autorità

ecclesiastiche che portò alla chiusura:

causa scatenante dello scandalo era la

vita non certo “religiosa” delle giovani

monacate.

Era regola imperante nelle le famiglie

aristocratiche che tutte le figlie nate

successivamente alla primogenita do-

vessero ritirarsi giovanissime in conven-

to. La loro provenienza nobiliare non

era un ostacolo, anzi era addirittura

una condizione necessaria ed indispen-

sabile per entrare a far parte di un

convento di alto lignaggio. L’obbligo

imposto alle fanciulle di rinunciare ad

avere legami con il mondo, ad aspirare

di costruirsi una famiglia, a poter di-

sporre della propria sessualità, accop-

piato alla incontenibile voglia di liberti-

naggio dei giovani maschi in genere,

meglio ancora se dabbene e se proiet-

tati fuori dalle loro mura domestiche,

venne a formare una miscela esplosiva

di immense proporzioni.

Le cronache di quegli anni del mona-

stero di San’Arcangelo a Baiano tra

sedute esoteriche e messe nere più o

meno vere o presunte si ridussero

quindi a continui incontri sfocianti in

orge erotiche che le novizie napoleta-

ne, pare tutte belle e nobilissime, era-

no costrette ad avere nelle loro celle,

trasformate in confortevoli alloggi pri-

vati, con irresistibili nobiluomini più o

meno coetanei. L’assurdo della vicen-

da è che il cattivo esempio per tutto

ciò sarebbe stato dato dal comporta-

mento pubblico di un personaggio, lo

stesso che probabilmente fu costretto

ad ordinare la chiusura del convento,

cioè il viceré don Pedro da Toledo. Con

lo sgombero del monastero e la chiusu-

ra della chiesa non tardarono a farsi

vive le voci di apparizioni notturne

dietro le finestre schiuse della facciata

del palazzo, quindi mostranti l’ondeg-

giare di ombre inquiete vaganti nella

luce surreale degli interni ed al fruscìo

lento di affannosi lamenti.

Quella vicenda non poteva non richia-

mare l’attenzione delle penne di scrit-

tori e storici.

Vicoli di partenope

Figure sospese tra il mito e la storia: il

munaciello, la bella ’mbriana, i miti di

Virgilio. Fatti di Napoli, misteri tradot-

ti in realtà, episodi reali, talvolta im-

brattati di sangue e poi trasfigurati in

leggende ancora vive tra i vicoli della

bella Partenope. La città e il fascino

dell’occulto, una miscela unica dal

sapore antico, la cui origine si perde

nella notte dei secoli. Quali e quanti

storie hanno animato, nel corso dei

secoli, le notti dei Napoletani? Quali

e quanti racconti sono stati tramanda-

ti di padre in figlio fino a giungere ai

34

giorni nostri, praticamente intatti? Le

storie sono tantissime, amori finiti in

tragedia, storie senza un lieto fine o

passioni sconvolgenti che poi hanno

condotto gli amanti alla rovina, tutto

ciò è presente a Napoli e in ogni vicolo

di queste antiche stradine, così ricche

di storia, così misteriose.

Non è una storia di fantasmi, ma non

per questo merita di rimanere nascosta

la leggenda legata all’arco di Sant’Eli-

gio, uno dei luoghi simbolo della città

di Masaniello. Anche in questo caso si

tratta di un racconto che ha cominciato

a prendere piede nel corso del Seicen-

to, anche se i fatti narrati sembrano

portarci alla prima metà del Cinque-

cento. Tutto è legato alle due teste

scolpite nella cornice che si trova alla

base dell’arco, proprio sotto lo storico

orologio. Le teste, secondo la tradizio-

ne popolare, sarebbero quella di una

giovane fanciulla di nome Irene Malarbi

e quella del potente duca, Antonello

Caracciolo. Si narra che l’uomo, privo

di scrupoli, innamoratosi della giovane

vergine e vista l’impossibilità di poterla

fare propria, fece condannare senza

alcuna colpa il padre di lei, chiedendo

in cambio della sua liberazione le gra-

zie della fanciulla. A quanto pare Ca-

racciolo riuscì nel suo intento, ma la

famiglia della bella Irene non rimase

con le mani in mano e si rivolse

a Isabella d’Aragona, figlia del sovra-

no Ferdinando II, pur di ottenere giusti-

zia. La richiesta diede i suoi frutti.

Impietosita, la principessa condannò

infatti, Caracciolo alla pena di morte

per decapitazione, ma prima lo costrin-

se a sposare la giovane per poter ripa-

rare al torto subìto.

Il parco vergiliano

Il Vergiliano nel 1930 ha ricevuto la

"nomina" di Parco ed accoglie tra il

verde le tombe del poeta Giacomo Leo-

pardi e del poeta Publio Virgilio Maro-

ne. Poeta e mago, secondo le leggen-

de.

Una di queste innumerevoli dicerie

vede il poeta dell'Eneide, circa 40 anni

prima della nascita di Cristo, evocare

dal nulla un gruppo di demoni infuocati

affinché potessero scavargli una grotta

lunga un chilometro ai piedi di una

collina. Un'apertura come se fosse un

acquedotto che avrebbe rifornito le

città e i paesi circostanti.

Page 18: Non è la solita guida

35

Il lavoro si sarebbe completato in una

sola notte, se non fosse passato di lì un

cittadino che, gridando impaurito verso

i lampi di luce e il frastuono del lavo-

rìo, mise in fuga gli spiriti infernali che

si volatilizzarono nel nulla. Questi la-

sciarono il lavoro quasi ultimato, poi-

ché soltanto per altri 100 metri il tun-

nel sarebbe stato costruito.

E' così che nacque la Cripta Neapolita-

na, sita tra la tomba commemorativa di

Leopardi e il colombario che conteneva

(ma ora non più) le ossa di Virgilio.

Arrivati al Parco ciò che risalta subito

all'occhio è il particolare sentiero che

porta sino al colombario. Ai lati, sul

verde, sono poste delle indicazioni

scritte riguardo gli organismi vegetali

(alberi, piante, fiori) che si incontrano

lungo il tragitto, i quali hanno a che

fare con le opere del poeta (come, un

esempio tra tutti, l'alloro).

Sulla prima rampa in una nicchia è po-

sto il busto di Virgilio; alla seconda si

raggiunge la tomba di Leopardi che

costeggia la Cripta Neapolitana. Al cen-

tro delle due c'è una rampa di scale

che porta al corridoio che rappresenta

un acquedotto romano (dal quale è

possibile carpire alcuni dettagli dell'a-

pertura della Cripta altrimenti non

raggiungibili dalla vista). La rampa di

scale poi continua sin a raggiungere un

passaggio per il colombario in cui è

riposto un braciere e una corona d'allo-

ro, simboli commemorativi per il poe-

ta/divinatore.

L'entrata della Cripta Neapolitana è ad

oggi sbarrata da una cancellata che,

confrontando foto antiche e quelle

moderne, è stata resa sempre più alta

per non permettere l'ingresso ad alcu-

no.

E' perennemente chiusa al pubblico per

lavori in corso che non vengono com-

pletati.

Il motivo per cui non è permesso entra-

re, è la paura dei lavoratori che scap-

pano via terrorizzati in seguito all'a-

scolto di rumori e visioni mai sentiti e

viste prima.

I più superstiziosi parlano di alcuni

demoni che sono rimasti nascosti tra le

mura interne dopo che Virgilio li richia-

mò dagli inferi; c'è chi afferma di aver

sentito i suoni dei baccanali che si ce-

lebravano all'interno della grotta.

In entrambi i casi, per scongiurare il

riavvicinarsi delle credenze pagane e

delle paure per il maligno (e probabil-

mente anche per superstizione pura!),

furono installati al di fuori della Cripta

degli affreschi: una Madonna con Bam-

bino in braccio è visibile anche dal

basso, sul muro sinistro - inserita nel

1353 da Don Pedro di Toledo durante i

suoi riassestamenti territoriali per

scongiurare anche i riti orgiastici in

n o m e d i P r i a p o ; u n s a n t o

36

(probabilmente San Luca, come ci fu

indicato da un'esperta guida) è posto

sulla parete destra, visibile però attra-

versando il cunicolo più piccolo dell'ac-

quedotto romano, che corre parallelo

alla Cripta vera e propria.

Il Parco Vergiliano (che ricordiamo non

è il Parco Virgiliano su a Posillipo) è

una delle tante gemme della città, che

splende ancor di più per la presenza

della Cripta Neapolitana.

Ciò che più affascina però è il lato

oscuro, la leggenda della divinazione di

Virgilio.

La Chiesa della Madonna a Piedigrotta

Al numero 27 di Piazza Piedigrotta,

durante il cammino verso il Parco Ver-

giliano, sorge la Chiesa di Santa Maria a

Piedigrotta.

Nella seconda metà del 1300 l'architet-

to Albino ordinò la costruzione di que-

sto edificio sacro. In realtà una piccola

cappella fu costruita già dai pescatori

che dal borgo di Santa Lucia si trasferi-

rono nel borgo di Piedigrotta.

Nella cappella, semplicemente vuota,

scarna ed essenziale, fu eretta soltanto

una statua di legno, per pregare la Ma-

donna, la quale, vuole la leggenda,

fece visita in quel luogo alcuni secoli

dopo la nascita di Cristo. Improvvisa-

mente la Madonna apparve.

Si narra che precisamente il giorno 8

settembre, la Vergine apparve a tre

persone: una monaca, un eremita e un

monaco benedettino.

Da al lora, la umile cappella

"artigianale" che poi divenne chiesa a

tutti gli effetti dal 1307 (anno ufficiale

di inizio dei lavori) mantiene il nome

della Madonna di Piedigrotta, per bene-

dire tutti coloro che attraversano la

grotta per giungere ai Campi Flegrei o

tornare indietro.

Negli anni in cui prendeva piede il culto

cristiano della Madonna dell'Idria (così

veniva chiamata, come quella tipica-

mente siciliana), il culto pagano della

Crypta Neapolitana teneva testa ai

numerosi tentativi di cristianizziazione

di Don Pedro di Toledo.

E’ da notare che la Madonna di Piedi-

grotta è la stessa raffigurata nell'affre-

sco appena fuori l'ingresso chiuso della

Crypta Neapolitana, per allontanare i

Page 19: Non è la solita guida

37

rimanenti demoni che scavarono la

grotta per Virgilio, per distruggere ogni

tipo di superstizione, per rendere cri-

stiano un luogo pagano dove Priapo

veniva festeggiato con riti orgiastici.

Inoltre sulla facciata principale esterna

verso la piazza, in alto, vi sono delle

scritte in latino e una di queste frasi

dice: "Indulgentia Plenaria Quotidiana

Perpetua Pro Vivis Et Defunctis".

La chiesa di Santa Maria di Piedigrotta,

dedicata alla Natività di Maria, fu eret-

ta a partire dal 1352 e terminata

nel 1353, sul sito di una precedente

chiesa dedicata all'Annunciazio-

ne alla Vergine Maria costruita nel V

secolo, dove già si venerava un'immagi-

ne lignea della Vergine. Nei pressi sor-

geva anche la piccola ed ugualmente

antica cappella di Santa Maria dell'Itria,

nome derivante per deformazione da

"Odigitria", che è il nome di un partico-

lare culto ed aspetto mariano di origi-

ne bizant ina r iconosc ibi le da

una iconografia specifica, cioè col bam-

bino in braccio nell'atto di benedire, e

diffuso in tutto il sud dell'Italia, Questa

cappella fu costruita su un preceden-

te sacello del dio Priapo citato nel Sa-

tyricon di Petronio. Riti orgiastici eroti-

ci settembrini che si svolgevano antica-

mente, con danze e canti osceni intor-

no al simulacro del dio, anticiparono la

successiva festa di Piedigrotta. D'altra

parte ritrovamenti archeologici testi-

moniano con assoluta evidenza come

nell'area dell'attuale chiesa già si prati-

casse il culto di Mitria.

Nel 1453 il re Alfonso d'Aragona conces-

se la chiesa ai canonici lateranensi, per

essere poi restaurata nel 1520,

nel 1820 e nel 1853. In origine l'ingres-

so principale della chiesa era presso

l'altare maggiore, ma nel 1506 fu spo-

stata sulla facciata rivolta verso la

città.

Nel 1571 don Giovanni d'Austria, co-

mandante della flotta della Lega San-

ta, si recò in agosto a pregare la Ma-

donna di Piedigrotta prima del-

la battaglia di Lepanto e vi ritornò in

ottobre in ringraziamento, dopo avere

sconfitto la flotta dell'impero ottoma-

no. L'interno della chiesa fu rimaneg-

giato tra il 1809 ed il 1824 e

nel 1912 la chiesa fu eretta a parroc-

chia dal cardinale Prisco.

Chiesa di Santa Maria Maggiore alla

Pietrasanta

La chiesa di Santa Maria Maggiore alla

P i e t r a s a n t a è

una chiesa basilicale del centro stori-

co di Napoli; è tra le più interessanti

dal punto di vista storico ed artistico e

fu la prima chiesa della città ad essere

dedicata alla Vergine. Sorge dinnanzi

38

alla cappella dei Pontano e alla chiesa

dell'Arciconfraternita del Cappuccio

alla Pietrasanta.

L 'ed if ic io sorse ne l V I seco-

lo come basilica paleocristiana su una

struttura di epoca romana; la chiesa

attuale fu eretta tra 1653 e il 1678 su

progetto di Cosimo Fanzago che la rie-

dificò in chiave barocca. Notevole è

la facciata che è rimasta incompiuta al

secondo ordine, mentre il portale, rea-

lizzato da Pietro Sanbarberio, risale

al 1675.

Ulteriori restauri furono compiuti tra

il XVIII ed il XIX secolo; inoltre,

nel 1803 il complesso conventuale ven-

ne adibito a caserma dei pompieri. I

bombardamenti della seconda guerra

mondiale colpirono gravemente la

struttura religiosa ed il restauro fu por-

tato a termine nel 1976.

Venne chiamata "della Pietrasanta"

perché all'interno veniva custodita una

pietra che, quando la si baciava procu-

rava l'indulgenza. La tradizione vuole

che vi sia stato sepolto papa Evaristo.

Sorse, come molti edifici ecclesiastici,

per contrastare i vecchi riti romani

pagani: in quella zona era radicato

fortemente il culto per la dea Diana e

riservato alle sole donne (perché a que-

ste prometteva parti non dolorosi).

Gli uomini ne furono sempre più infa-

stiditi, tant'è che tali donne venivano

appellate col sostantivo di ianare, dia-

nare o sacerdotesse di Diana, in modo

dispregiativo. Furono infine bollate di

stregoneria, capaci di invocare il demo-

nio.

Forse qui nasce la leggenda del diavolo

travestito da enorme maiale che, tutte

le notti, si aggirava minaccioso per la

piazza e le strade limitrofe per spaven-

tare col suo diabolico grugnito i passan-

ti.

La leggenda fu efficace per poter per-

mettere al vescovo Pomponio, nel 533,

la costruzione della versione più antica

della Chiesa di Santa Maria Maggiore:

durante il sonno la Vergine si presentò

al vescovo e gli ordinò di costruire que-

sta basilica paleocristiana sul tempio

della dea Diana. Solo in questo modo

avrebbe sconfitto il porco.

Così fu, e ogni anno per molti secoli il

vescovo sgozzava affacciato alla fine-

stra della basilica un'enorme scrofa.

Suino che doveva essergli offerto dai

fedeli. La pratica è stata poi abbando-

nata perché ritenuta indecorosa.

Riguardo l'edificio, è stato numerose

volte restaurato: nella seconda metà

del 1600 fu ricostruita per mano dell'ar-

chitetto Cosimo Fanzano che le diede

uno sfarzo del tutto barocco e il porta-

le fu opera di Pietro Sanbarberio nel

1675.

Page 20: Non è la solita guida

39

Il pavimento fu ricostruito da Giuseppe

Massa nel 1764 e furono collocate sta-

tue dello scultore e pittore Matteo Bot-

tiglieri.

Per esigenze di spazio fu usata come

caserma dei pompieri all'inizio del

1800.

Nel 1976 furono ultimati i restauri ne-

cessari per rimetterla in sesto dopo i

bombardamenti nel secondo conflitto

mondiale.

Nonostante tutto ciò, non è mai stata

ritrovata la favolosa Pietra Santa (da

qui il nome alternativo della piazza e

della chiesa): una roccia capace di dare

l'indulgenza completa a chi la bacia.

La leggenda del sogno del vescovo

Pomponio si estende appunto alla Pie-

tra che la Vergine indicò ricoperta da

un leggero fazzoletto, proprio al di

sotto del tempio di Diana. Non era im-

portante trovarla, ma almeno costruirci

su la chiesa.

I resti del tempio di Diana, comunque,

sono ancora visibili dentro, fuori e nel-

la cripta della chiesa, come ad esempio

i frammenti di un antico mosaico roma-

no.

Il campanile della Pietrasanta: il più

antico campanile d'Italia. Costruito in

laterizio, classico esempio di architet-

tura romana, databile tra il X e l'XI

secolo. I resti in opus reticulatum alla

base sono una riprova dell'esistenza

dell'antico tempio della dea Diana che

fu eretta proprio in quella piazza.

E le effigi di marmo a forma di grugno

di maiale che si possono tutt'ora trova-

re nelle parti pù alte ricordano la leg-

genda del vescovo Pomponio.

Negli ultimi anni lavori di restauro han-

no rinvenuto, nella parte inferiore del

campanile, la tavola del gioco romano

"ludus latrunculorum", il gioco dei sol-

dati, un antenato del gioco della dama

o dell'Otello, e il feretro funebre del

naturalista Stefano delle Chiaie che,

divenuto direttore del Museo di Anato-

mia Umana di Napoli per venti anni

prima della sua morte, fu sepolto in

quel luogo nel 1860.

I segnali della leggenda della Pietra

Santa sono troppi e troppo insistenti.

Non è da escludere che prima o poi

verrà ritrovata in un anfratto dell'infi-

nita cripta che si estende al di sotto

della piazza.

Intanto, i grugniti del maiale in alcune

notti dell'anno possono essere udite

distintamente.

Una leggenda locale non accreditata

del tutto è quella di Sant'Evaristo, il

quinto papa della chiesa cattolica dalla

sua fondazione, che è stato sepolto

sotto la piazza.

Si dice che ogni 27 ottobre, il giorno

della sua commemorazione, la piazza

40

emani una forte sensazione di benesse-

re dalle sue fondamenta.

Conclusione

Questa sezione intitolata “Il Gotico”

voleva semplicemente palesare ancora

una volta che il capoluogo partenopeo

è un luogo meraviglioso dove poter

trascorrere un intero fine settimana o

periodi di lunga durata perché i luoghi

da visitare non mancano. Chiese, catte-

drali, piazze, strade, vicoli o parchi,

tutto è intriso di cultura e tradizioni

che investono la città di un’aura leg-

gendaria e meravigliosa. Non solo, si è

tentato di dimostrare che anche par-

tendo da un tema generale come il vino

aglianico, si riesce a creare una sorta

di percorso immaginario che parte dal-

lo stesso vino, per arrivare alle leggen-

de di Dracula, il signore della notte, al

“gotico” inteso sia come stile artistico

che nell’accezione di “noir”, vale a

dire il ricorso al misterioso. Napoli è

una città dalle mille angolazioni e pro-

spettive proprio perché lo stesso popo-

lo partenopeo ne rispecchia molteplici.

Negli ultimi anni si è cercato di dare di

Napoli un’immagine stereotipata, con

accezioni negative, il napoletano a

volte è stato dipinto come rissoso, vio-

lento, incolto, rozzo o incivile. Anche

questa è un’angolazione da cui guarda-

re la città o chi ci abita, ma non è solo

questa. Napoli vive nei cuori della per-

sone che hanno avuto il piacere di visi-

tarla o nell’immaginario di chi invece

spera di poterla visitare un giorno.

Questa città non è solo la terra che ha

dato i natali a personaggi famosi e illu-

stri che l’hanno resa celebre in tutto il

mondo come Totò, Troisi, De Filippo,

ma è la stessa che fa invidia a molte

altre semplicemente perché non ci si

sente in grado di reggerne il confronto.

Parlarono di Napoli numerosi scrittori

celebri, perché è vero quanto si dice e

cioè che non può dire di aver viaggiato

se Napoli non è stata visitata. Difatti

Stendhal poco prima di partire disse:

<Parto, non dimenticherò ne la via di

Toledo ne tutti gli altri quartieri di

Napoli, ai miei occhi e senza nessun

paragone, la città più bella dell’univer-

so>.

Page 21: Non è la solita guida

41

42

Un piccolo percorso che porta i viaggia-

tori a scoprire le origini di Neapolis, dai

resti delle antiche mura greche invase

dalla modernità fino al sottosuolo di

Napoli, dai preziosi ritrovamenti degli

scavi della metropolitana fino ai tesori

nascosti sotto gli edifici napoletani.

Il sottosuolo di Napoli offre numerosi

tesori che sono stati custoditi per mil-

lenni dal successivo depositarsi di ma-

teriale di risulta derivante dalla costru-

zione della città. Venuti poi alla luce a

seguito di quattro eventi particolari: il

risanamento dopo il colera, le ricostru-

zioni dopo i bombardamenti, il terre-

moto del 1980 ed infine i lavori per la

realizzazione della metropolitana.

Alla fine del nostro piccolo percorso dei

tesori del centro di Neapolis non pos-

siamo non parlare di un altro importan-

te tesoro archeologico: il parco som-

merso di Baia.

Le origini di Parthenope e Neapolis

Il primo nucleo della città di Napoli,

che si chiamò Parthenope dal nome

della sirena che vi era venerata, sorse

nell’area del promontorio di Pizzofalco-

ne e sull’isolotto di Megaride, lì dov’è

oggi il Castel dell’Ovo, a quel tempo

collegato alla terraferma. Secondo

Strabone (63a. C.-20 d. C. ca.) e Stefa-

no di Bisanzio (VI sec. d. C.) Partheno-

pe fu fondata dai Rodii, popolo prove-

niente dalla Grecia, probabilmente

prima dell’VIII secolo a. C. Più verosi-

milmente, invece, qualche decennio

prima della metà del VII secolo a. C.,

proprio in questa stessa zona era stato

realizzato un epineion, e cioè uno scalo

marittimo fortificato voluto dai Cumani

in una posizione particolarmente stra-

tegica, a guardia dell’accesso meridio-

nale del golfo che in quel periodo pren-

deva da loro il nome, mentre l’accesso

settentrionale era controllato dalle

colonie di Pithecusa (Ischia) e di Capo

Miseno. Considerando che la navigazio-

ne avveniva principalmente sotto co-

sta, presidi di tal genere consentivano

un controllo efficace dei traffici marit-

timi ed in particolare, nel caso di Par-

thenope, delle rotte tirreniche verso gli

empori minerari del Lazio e della To-

scana, offrendo un porto sicuro e bene

attrezzato anche per le navi che invece

dovevano prendere il mare aperto in

direzione della Sardegna, delle Baleari

e dell’Iberia. La collocazione di Parthe-

nope nella zona sopraindicata, in pas-

sato piuttosto discussa, è stata definiti-

I tesori sommersi

Page 22: Non è la solita guida

43

vamente confermata solo nel 1949 gra-

zie alla fortuita scoperta, in via

G.Nicotera, di una necropoli suburbana

composta di tombe “a cassa ditufo”

che avevano conservato corredi funera-

ri, in larga parte di tipo greco e greco-

coloniale, affini a quelli di Cuma, costi-

tuiti principalmente da unguentari di

Corinto e da brocche di Cuma, databili

appunto tra il 650 a. C. ed il 550 a. C.,

ed anche dal rinvenimento di analoghi

frammenti di ceramica nella zona di via

Chiatamone, ove erano stati certamen-

te portati dalle acque defluenti dall’al-

tura di Pizzofalcone. Parthenope co-

nobbe però certamente una fase di

declino tra la prima metà del secolo VI

ed i primi decenni del V secolo, ma non

è ben chiaro se in realtà sia stata ab-

bandonata dai fondatori Cumani, la cui

egemonia nel golfo era ormai in crisi,

oppure sia stata distrutta dagli Etruschi

che erano i loro principali antagonisti.

Secondo l’opinione generalmente se-

guita fino a pochi anni orsono, comun-

que, dopo la grave sconfitta navale

subita proprio dagli Etruschi nel 474 a.

C. per opera dei Cumani e dei Pithecu-

sani-Siracusani, i primi ed i loro alleati

poterono riprendere il controllo delle

zone perdute in precedenza, compresa

ovviamente Parthenope. Lavecchia

rocca posta a strapiombo sul mare era

però evidentemente in sufficiente ad

accogliere oltre che gli antichi fondato-

ri anche i Pithecusani-Siracusani, e per

tali motivi fu necessario fondare un più

ampio insediamento urbano che prese

appunto il nome di Neapolis ovvero

“città nuova”, per distinguerla dalla

Palaepolis, la “cittàvecchia” e cioè

Parthenope. Quest’opinione si fondava

in particolare, sull’elemento offerto

dalla datazione dei frammenti di vasi di

ceramica attica rinvenuti durante gli

scavi del 1914-1916 nella necropoli di

Castel Capuano, dalla quale poteva

ritenersi che la realizzazione della nuo-

va città fosse avvenuta intorno al 470

a. C.. Più recentemente invece, a se-

guito dell’individuazione in vico So-

prammuro a Forcella di un tratto di

fortificazione risalente al periodo tra la

fine del VI e gli inizi del V secolo a. C.

e del ritrovamento di vari frammenti

ceramici di età precedente il V secolo

nelle zone di S. Aniello a Caponapoli,

S.Domenico maggiore e S. Marcellino,

può ritenersi che Neapolis sia stata

fondata piuttosto intorno alla seconda

metà del VI secolo a. C.

La tradizione sulla sirena Partenope

Le Sirene, nella versione di Omero (Od.

XII,45;159;167), erano solo due, situate

su un prato fiorito ed anonime, prive di

un genealogia.

Nella tradizione successiva- che appare

nei tratti definitivi nel poeta greco di

44

età ellenistica Licofrone (717 ss; 732

ss.- le Sirene, figlie di Acheloo e di una

Musa, coi nomi di Parthenope, Leukosia

e Ligeia, divengono tre, sono situate

sulle tre isolette Seirenoussai (ovvero

Li Galli), presso il promontorio sorrenti-

no (Strabone V,4,8) , e si suicidano

gettandosi nel mare subito dopo il pas-

saggio di Odisseo, che aveva senza dan-

no ascoltato il loro canto.

Tutte e tre sono eponime dei luoghi in

cui sono sepolte : Parthenope nell’a-

rea portuale di Neapolis ,Leukosia su

un’isola a sud di Poseidonia (l’attuale

Licosa), Ligeia su un’isola presso Teri-

na.

Cinta muraria e urbanistica

La zona prescelta aveva un’area di cir-

ca 80 ettari, pari a quattro volte quella

di Parthenope dalla quale il nuovo inse-

diamento distava solo 1,5 km circa, e

consisteva in un ampio pianoro in gran

parte costituito da un banco di tufo

giallo misto ad altri materiali pirocla-

stici, articolato in basse terrazze digra-

danti dolcemente verso il mare dove,

dopo un salto di circa 15 metri, era

posta la spiaggia. Il pianoro era in par-

ticolare munito di valide difese naturali

essendo chiuso a nord dalle tre colline

di Capodimonte-Sanità, dell’Arenella e

del Vomero e dal vallone di Foria, a sud

dal litorale marino, mentre ad est e ad

ovest si trovavano due opposte vie na-

turali di deflusso delle acque pluviali

denominate anche lavinarii, costituite

dal vallone di via S. Giovanni a Carbo-

nara e dalla valle di piazza Dante-

calata Trinità Maggiore. Questa parti-

colare conformazione fu attentamente

sfruttata per la realizzazione di una

prima cinta muraria del tipo a doppia

cortina collegata da briglie trasversali e

r a f f o rz ate da un te r r ap ieno

(emplekton) realizzato con scaglie di

tufo e terra. Le mura erano lievemente

a scarpa con torri a base quadrata, e

ne esistono ancora oggi resti in via Fo-

ria sotto lo strapiombo degli Incurabili,

in via Costantinopoli, nell’area orienta-

le di via Mezzocannone, al corso Um-

berto I, in piazza Calenda ed in via

Duomo. Il tracciato murario era in linea

di massima il seguente: da via Foria,

lungo via Costantinopoli, piazza San

Domenico Maggiore, poi su entrambi i

versanti di via Mezzocannone, quindi

attraverso le rampe di S.Marcellino fino

all’Archivio di Stato, per poi ridiscen-

dere fino a piazza Nicola Amore, da

dove le mura costeggiavano il lato set-

Page 23: Non è la solita guida

45

tentrionale del corso Umberto, e da via

Pietro Colletta risalivano verso Forcella

e C a s t e l C a p u a -

no, ricongiungendosi infine in via Fo-

ria. La prima fase della costruzione

della cinta muraria risale all’inizio del

V secolo, nuovi interventi comunque si

ebbero in concomitanza della guerra

sannitica nel corso del IV secolo a. C.,

ed ancora nel secolo III a. C..

La città murata era percorsa da tre

strade più ampie, denominate in gre-

co plateiai e non decumani, corrispon-

denti la prima, alle attuali vie SS. Apo-

stoli, Anticaglia, Pisanelli e Sapienza,

la seconda a via Tribunali, e la terza

alle vie Vicaria e S. Biagio dei Librai,

che correvano tutte in direzione est-

ovest, ed in circa venti strade minori,

in greco stenopòi e non cardines,,

orientate invece in direzione nord-sud.

(Com’è noto decumanus e cardo desi-

gnano gli assi della divisione agraria, la

centuratio del mondo romano, e non

hanno niente a che vedere con le stra-

de urbane, specialmente di una città

greca come Neapolis) Gli isolati

(insulae) determinati dall’incrocio delle

strade minori con i principali assi viari,

avevano in particolare dimensioni di-

metri 187 circa per 37 circa. Possiamo

ubicare una serie di porte in corrispon-

denza con gli assi stradali citati; all’e-

stemità est della platea di San Biagio vi

era Porta Nolana o Furcellansis (unica

porta di cui abbiamo dei resti) a ovet

invece era ubicata una porta nell’area

di piazza S. Domenico; la era una por-

ta ubicata sotto platea dei Tribunali ad

est terminava con porta Capuana( da

ubicare nei pressi del castello), e a

ovest sotto la chiesa di S. Pietro a Ma-

jella; la platea dell’Anticaglia termina-

va a est con una porta presso la chiesa

di Santa Sofia ma non aveva sbocchi sul

lato occidentale. La tradizione conosce

anche una Porta San Gennaro (allo

sbocco di via Duomo) ed una Porta

Ventosa che viene solitamente ubicata

sul lato sud di via Mezzocannone.

Mentre i vici erano larghi 3 metri le

platee erano larghe circa 6 metri. La

larghezza di 6-7 metri risulta corri-

spondere a quella della carreggiata,

ma la platea era fornita anche da mar-

ciapiede, largo 3,5metri. Se si ipotizza

una situazione su entrambi i lati della

strada possiamo dire che la platea era

larga 14 metri.

Tale impianto “a fasce” (per strigas) è

analogo a quello adottato nelle colonie

greche di Selinunte, Imera, Locri e

Poseidonia e sarebbe dunque più anti-

co della pianta stabilita da Ippodamo

di Mileto, architetto ricordato anche

da Aristotele, per la città di Thurii nel

444a.C.. Secondo un’altra tesi invece,

il reticolo urbanistico di Napoli greca

deriverebbe proprio dal modello ippo-

dameo, che sarebbe stato adottato,

46

infatti, a Napoli solo intorno al 430 a.

C., a seguito dell’arrivo in città degli

Ateniesi fondatori di Thurii.

Quasi sempre in rapporto agli accessi

sono collocate le torri che potevano

essere sia a pianta quadrata che a pian-

ta circolare.

Poi vi erano due strade principali una

chiamata via per colles e l’altra via per

cryptam.

Dalla porta situata nei pressi di San

Pietro a Majella la strada per i colli

montava per Salita Tarsia, il Vomero e

poi scendeva per Fuorigrotta per rag-

giungere via Terracina dove era un vi-

cus(villaggio) cui apparteneva l’edificio

termale riportato alla luce; qui incon-

trava la via per crypta e proseguiva

fino al territorio di Pozzuoli, attraverso

il valico tra la Solfatara ed il monte

Olibano.

La via per cryptam usciva dalla porta in

piazza San Domenico, percorreva la

Riviera di Chiaia a Mergellina entrava

nella crypta e, a via Terracina, incon-

trava l’altra che scendeva dai colli.

I

tesori del centro di Neapolis

Nel centro di Neapolis, a cavallo della

platea mediana coincidente con l’at-

tuale via Tribunali, e precisamente tra

via Anticaglia, via San Biagio dei Librai,

via Fico al Purgatorio, via Purgatorio ad

Arco e vico Giganti, in periodo greco,

era posta l’agorà, che costituiva invece

la piazza dove si riuniva l’assemblea

popolare e si svolgeva la vita politica e

amministrativa. Qui si trovava anche il

tempio dei Dioscuri, al cui posto è oggi

la chiesa di S. Paolo Maggiore.

In periodo romano l’agorà della città

greca fu trasformata in un forum du-

plex e cioè un foro doppio, perché a

sud della piazza già destinata alle riu-

nioni dell’assemblea cittadina, fu rea-

l i z z a t o i l m e r c a t o

o forum rerum venalium , al cui centro

era posto il macellum , un edificio adi-

bito alla vendita di commestibili, pro-

prio nell’area oggi occupata dal con-

vento di S. Lorenzo Maggiore. L’antico

tempio dei Dioscuri fu allora riedificato

in dimensioni imponenti, fino a rag-

giungere la notevole altezza di 27 me-

tri dal livello stradale, mentre alle sue

spalle furono costruiti o, secondo alcu-

ni, ristrutturati, l’Odeion , teatro co-

Page 24: Non è la solita guida

47

perto destinato agli spettacoli musicali,

i cui resti non sono stati ancora esatta-

mente individuati, ed il Teatro scoper-

to capace di accogliere fino a circa

diecimila spettatori, e le cui attuali

strutture risalgono a dopo il 62 d. C.

I Teatri

Nella topografia di Neapolis i Teatri

occupavano la parte settentrionale

dell’area pubblica della città cioè nel

Foro, a nord del Tempio dei Dioscuri

ora sormontata dalla Chiesa di San Pao-

lo Maggiore, nei moderni isolati com-

presi tra via dell’Anticaglia, Vico Pur-

gatorio ad arco e Vico Giganti. L’attua-

le via San Paolo separa l’Odeion dal

Teatro scoperto. Nella parte meridio-

nale invece si trovava il Macellum i cui

resti si trovano al di sotto dell’attuale

Chiesa di San Lorenzo Maggiore.

Non restano tracce evidenti delle im-

portanti costruzioni, se non nella forma

curvilinea degli attuali edifici. Per

quanto concerne il Teatro scoperto,

lungo via Anticaglia sono visibili due

arcate che documentano interventi di

rinforzo della facciata. Successive co-

struzioni incorporarono il Teatro sco-

perto così che i due archi sembrano

sostenere soltanto i muri esterni dei

palazzi.

C’è una tradizione letteraria sull’esi-

stenza del Teatro di Neapolis la quale

dice che sicuramente la città doveva

avere un Teatro già durante il regno di

Augusto, perché nel 2 d.c. quest’ulti-

mo decide di far celebrare dei giochi a

Napoli (Napoli era considerata la città

della cultura nel mondo romano) che

erano l’imitazione delle olimpiadi gre-

che. Le olimpiadi prevedevano manife-

stazioni ginniche che si tenevano nella

parte bassa della città dove c’era il

Gymnasio, manifestazioni musicali

nell’Odeion ed infine rappresentazioni

drammatiche (commedie e tragedie)

nel Teatro scoperto. Quindi certamen-

te nel 2 d.c. Napoli doveva avere il suo

Teatro. Sappiamo anche che sia l’im-

peratore Claudio e poi successivamen-

te Nerone si sono recati a Napoli per

rappresentare delle loro opere. Di con-

seguenza almeno dall’epoca Neroniana

vi è conferma che Napoli avesse un

teatro.

Il teatro che si osserva attualmente

48

non appartiene né al periodo di Augu-

sto né a quello di Nerone. È un monu-

mento costruito alla fine del I sec. d.c.

durante o dopo il regno di Domiziano,

periodo in cui diversi edifici furono

ricostruiti a seguito del terremoto che

aveva devastato la Campania come

conseguenza dell’eruzione del Vesuvio

(79 d.c.). Si ipotizza che sia stato rico-

struito ex novo dalle fondamenta in

quel periodo, quindi sicuramente non è

quello frequentato né da Claudio né da

Nerone. È vero si che Nerone si è reca-

to a Napoli per recitare in un teatro ma

di certo non si tratta del Teatro roma-

no in quanto sicuramente è stato co-

struito dopo.

I lavori di restauro per questo monu-

mento non sono ancora ultimati a causa

dei mancati fondi economici. L’obietti-

vo, oltre a riportare alla luce il Teatro,

è stato anche capire quando il monu-

mento fu realizzato. Attraverso questi

studi si è giunti ad una conferma cioè

che il Teatro è stato realizzato alla fine

del I sec. d.c. restando in uso fino alla

fine del IV sec. d.c. Venne abbandona-

to intorno al V sec. d.c. iniziando così a

riempirsi con scavi di risulta e con tutti

i rifiuti di questo quartiere. Era divenu-

to una vera e propria discarica perché

si trattava di uno spazio enorme che

non apparteneva più a nessuno. Questi

rifiuti sono stati la sua fortuna poiché

hanno nascosto una parte della cavea.

Nella struttura di un teatro viene defi-

nita cavea l'insieme delle gradinate di

un anfiteatro o di un teatro classico,

dove prendevano posto gli spettatori

per assistere alle rappresentazioni, ai

giochi, o ad altri intrattenimenti. Divisa

per ceto sociale, era distinta in ”ima”,

”media” e ”summa cavea”, in cui pren-

devano posto rispettivamente i ceti

dei rango senatorio (in prima fila) e

di rango equestre, le categorie inter-

medie, e la plebe. La zona indicata fino

ad ora è l’ima cavea. Nella media ca-

vea invece venne realizzato un orto.

Sono state infatti ritrovate delle buche

che venivano utilizzate per inserire le

piante.

La parte superiore invece, che corri-

sponde alla summa cavea, è andata

Page 25: Non è la solita guida

49

progressivamente distruggendosi a cau-

sa delle intemperie e soprattutto per la

costruzione delle nuove abitazioni.

Le case che si vedono osservando la

figura sono tutte disposte in curva in

quanto anticamente sono state costrui-

te seguendo il perimetro del monumen-

to. Questa disposizione permetteva

ancora una visione del Teatro.

Successivamente vennero addossati alla

facciata esterna del Teatro degli edifici

che ne impedirono la visibilità.

Solo nel 1500, l’apertura di Vico Cin-

quesanti ha spaccato tutte le abitazio-

ni all’interno delle quali sono state

rinvenute tracce delle gradinate e dei

muri romani.

Gli ambienti interni

Gli spettatori che entravano nel Teatro

avevano tre strade per poter raggiunge-

re i posti da occupare. Se erano parti-

colarmente importanti e dovevano an-

dare ai posti più bassi quindi nell’ima

cavea non facevano scale ma attraver-

savano gli ambienti aperti. Se dovevano

andare nella parte alta cioè nella sum-

ma cavea, quella dedicata al popolo,

dovevano prendere delle scale quindi

dal corridoio esterno con una prima

rampa di scale arrivavano sul ballatoio,

poi attraverso questo passaggio trova-

vano nell’ambiente accanto una secon-

da rampa di scale che li portava in

un’altra zona più in alto. Gli spettatori

che invece dovevano andare nella me-

dia cavea percorrevano un’unica rampa

che li portava direttamente nella zona

a loro destinata.

Nei sottoscala il pubblico non aveva

accesso infatti la pavimentazione è più

rozza (coccio pesto), probabilmente

questa zona veniva usata anche come

bagno per il pubblico.

All’epoca avevano già capito che l’on-

da sismica veniva trasmessa diagonal-

mente, quindi il teatro fu organizzato

secondo la tecnica dell’opus mixtum,

dove il reticolatum serviva a disperde-

re l’onda e il latericium a bloccarla.

I vomitoria erano degli ambienti di

passaggio che venivano utilizzati per

dirigersi diversamente nella cavea.

Attraverso il vomitorium dall’ambula-

cro esterno a quello interno indicato

nell’immagine si arriva nell’anello in-

terno in cui si aprivano una serie di

ambienti: alcuni erano ambienti di

passaggio che facevano arrivare i visi-

50

tatori direttamente nella cavea altri

erano ambienti chiusi che venivano

utilizzati per custodire tutto quello che

serviva durante le rappresentazioni

(maschere, costumi, scenografie) quin-

di non erano destinati al pubblico.

Il pavimento degli ambienti di passag-

gio era molto più consistente ma anche

più pregiato, era sempre cocciopesto

ma oltre alla terracotta conteneva an-

che pezzetti di marmo bianco e pezzet-

ti di marmo colorato in tessere più

grandi.

Quest’ultime non sono disposte a caso

ma seguono un percorso preciso, per

cui negli ambienti rettilinei sono visibili

tre file parallele di tessere più grandi,

nell’ambulacro la disposizione è diversa

mentre nel punto di incontro tra il vo-

mitorium e l’ambulacro la quantità

delle tessere colorate è maggiore.

Su alcune pareti dell’ambulacro si pos-

sono osservare delle decorazioni molto

semplici, bianche nella parte alta e con

delle fasce rosse e verdi nella parte

bassa, il cui intonaco si è preservato

grazie alla presenza dei rifiuti, mentre

per la parte superiore delle pareti non

abbiamo decorazioni perché andate

perdute.

L’unica zona della cavea che si può

osservare, nonostante sia circondata da

palazzi è la media cavea nella quale è

ancora presenta l’arco di tufo che dava

accesso al giardino pensile del palazzo.

Di fronte alle gradinate che si vedono

in figura c’era il palcoscenico purtrop-

po non più visibile, ora è possibile os-

servare solo il muro posteriore alla

scena che affaccia nel chiostro del

complesso dei Padri Teatini.

Tutte le case che circondano i resti del

Teatro sono rimaste al loro posto poi-

ché non era giusto chiedere ad un in-

terno quartiere di andarsene e anche

perché gli archeologi erano certi del

fatto che nei palazzi non ci fossero

resti tali da giustificare un esproprio.

Oltretutto questa bella convivenza tra

passato e presente è stata accettata di

buon grado dai residenti.

Un’altra parte interna del teatro può

essere osservata attraverso il percorso

di Napoli Sotterranea visitabile tramite

una botola in un basso di vico Cin-

quesanti che conduce al lato est del

teatro: il proprietario del terraneo ave-

va ricavato l'accesso agli ambienti sot-

terranei che aveva adoperato come

cantina tramite una botola che era

situata sotto il letto. Aveva inoltre

escogitato un meccanismo che permet-

Page 26: Non è la solita guida

51

teva la scomparsa del letto, che scorre-

va lungo dei binari, in una nicchia del

muro. La scoperta di frammenti murari

in opus latericium portò successiva-

mente all'esproprio del basso e alla

nuova destinazione d'uso.

Macellum

Questo monumentale complesso si

estende all'angolo fra via Tribunali e

via San Gregorio Armeno e rappresenta

un notevole esempio di stratificazione

edilizia, avvenuta nel corso dei secoli.

A causa della conformazione non pia-

neggiante del territorio, in epoca greca

in quest'area fu creato un terrazzamen-

to, sostenuto da un muro di conteni-

mento lungo tre lati (quello meridiona-

le è a doppia cortina per contenere la

spinta del terreno): lo spazio interno fu

poi colmato artificialmente, in modo

da avere a disposizione un pianoro.

Nessuna certezza sulla funzione dell'a-

rea, da alcuni identificata con l'agorà.

Con l'arrivo dei Romani, l'area ricadde a

ridosso del Foro e su di essa sorse il

Macellum, il mercato della città, con

botteghe estese su due livelli e con

l'Erario.

Nel corso del V secolo d.C., una colata

di fango dovuta ad un'alluvione ricoprì

la zona, colmando l'intera strada ed il

livello inferiore del macellum. Lo spes-

sore della colata fangosa portò alla

radicale decisione di colmare l'area

fino al livello stradale.

Tra il 537 ed il 557, Giovanni II, vesco-

vo di Napoli, fece costruire una Basili-

ca paleocristiana le cui fondazioni,

oltre a sfruttare le sostrutture del de-

cadente macellum, furono in parte

allocate nel fango.

Al IX-X secolo risale la fondazione del

Seggio. Nel 1234 l'area fu ceduta ai

Francescani che, a partire dal 1284,

iniziarono la costruzione della Basilica

gotica con annesso convento, il che

comportò l'abbattimento delle struttu-

re romane superstiti, della Basilica

paleocristiana e del Seggio. Le struttu-

re sottostanti ancora utilizzabili venne-

ro cosi usate nel corso dei secoli come

sversatoio di materiale edilizio, nonché

come fosse comuni.

I primi sporadici ritrovamenti si ebbero

nel 1929, durante lavori di restauro.

Altri materiali vennero alla luce duran-

te scavi tra il 1945 ed il 1950. Nel

1954, durante lavori di sistemazione

del pavimento della chiesa, venne rile-

vato quasi completamente il perimetro

della basilica paleocristiana, mentre

scavi nel transetto portarono alla luce

52

notevoli resti. I lavori di scavo riprese-

ro nel 1972 portando alla luce i resti

attualmente visibili. Negli ultimi anni si

lavora solo per interventi di restauro o

di consolidamento: essendo, infatti, gli

scavi in galleria, il rischio maggiore è

quello di trovarsi di fronte a crolli o a

caduta di materiale.

Si accede agli scavi dai chiostro sette-

centesco della chiesa, dove è possibile

vedere parte del Macellum, ossia il

mercato della città romana. L'intero

edificio è largo 36 metri e si sviluppa a

forma di rettangolo sul terrazzamento

sopra citato In epoca romana, poste-

riormente al terremoto del 62 d.C.,

tutta l'area fu sistemata nell'attuale

configurazione. Il Macellum, all'interno

del terrazzamento, si presenta con un

edificio circolare centrale (tholos) e

file di botteghe (tabernae) sui lati est,

sud, ovest, mentre il lato nord costitui-

va l'ingresso monumentale sulla platea

mediana (l'attuale via Tribunali), all'al-

tezza del Foro.

Da una scala si scende al livello inferio-

re che corrisponde allo stenopos vico

Giganti, che accoglie una serie di am-

bienti in doppia fila. Numerose sono le

trasformazioni d’uso leggibili all’inter-

no di questi ambienti: in alcuni ad

esempio vi sono delle vasche per l’alle-

stimento di fulloniche( tintorie), o un

piccolo forno in un altro ambiente.

Lungo l’estremità settentrionale dello

stenopos si estendono forse ambienti

destinati all’Erario della città, dove

erano conservate le finanze cittadine

provenienti dalle tasse; l’identificazio-

ne si deve alla presenza di una spessa

inferriata alla finestra e alla robustezza

dei battenti della porta.

Al termine della strada, si incontra

invece uno dei quattro lati di un cripto-

portico, costituito da ambienti interco-

municanti, con volta a botte e lucerna-

ri per l'ingresso dell'aria e della luce

solare.

Le terme

Un altro tesoro sommerso del centro

storico è il complesso termale di Santa

Chiara.

La terma romana è composta da vari

ambienti. La zona per i bagni di acqua

fredda Frigidarium, tiepida Tiepida-

rium, calda Calidarium, sauna Laconi-

Page 27: Non è la solita guida

53

cum.

Ognuno di questi ambienti aveva una

propria planimetria: laconicum forma

circolare, frigidarium rettangolare, il

calidarium aveva generalmente pianta

rettangolare terminava con un abside.

Le terme erano considerate come luo-

ghi di ritrovo in quanto utilizzate dalla

maggior parte dei romani come bagni

pubblici dove erano soliti lavarsi poiché

non lo facevano nelle proprie abitazio-

ni.

In tutte le strutture termali c’era la

zona detta Prefurnium, dove c’era un

grande forno che generava calore e che

attraverso condutture, dette intercape-

dini, veniva disperso nelle parerti e

sotto i pavimenti. Sia sotto le piscine

che sotto il laconicum il pavimento era

sorretto da colonnine di mattoncini

disposte in un modo regolare proprio

per facilitare il passaggio del calore.

Queste colonnine dette sospensure

identificano una particolare tecnica di

costruzione romana, laddove vengono

rinvenute si parla chiaramente di strut-

tura termale e romana.

Vi erano anche la Natatio, piscina uti-

lizzata solo per nuotare, e lo spoglia-

toio Apodyterium.

Il complesso termale di Santa Chiara,

compreso all'interno del trecentesco

convento, è sito in un'area che ricadeva

al di fuori della cinta muraria greca, ad

ovest della porta urbica. La scoperta

dell'edificio termale e l'analisi di vecchi

e nuovi rinvenimenti archeologici, han-

no chiarito come il luogo, già dal I se-

colo d.C., sia divenuto, per esserlo

almeno fino al IV, un quartiere residen-

ziale con edifici a carattere pubblico.

Inglobato nella cinta muraria a seguito

dell'ampliamento del 440 d.C., il com-

plesso termale di Santa Chiara conser-

vò la sua funzione sino all'età tardoan-

tica, quando se ne affrontò una consi-

stente ristrutturazione. L'area com-

prende una serie di ambienti termali e

rappresenta tuttora il più completo

esempio di therma documentato per

Neapolis. L'impianto, che si estende

per una superficie di oltre 900 mq ed è

ascrivibile alla fine del I sec. d.C. L'im-

pianto è costituito da un ambiente

coperto ospitante una piscina

(natatio), dinanzi alla quale è un'area

destinata forse a palestra. Segue l'im-

pianto termale vero e proprio che si

sviluppa su due livelli (quello inferiore

non è visibile) e nel quale si distinguo-

no: un ambiente absidato con rivesti-

mento marmoreo, forse la vasca di un

tepidarium; un ampio ambiente in la-

terizio con quattro absidi angolari e

pavimento mosaicato, forse un laconi-

cum; una grande cisterna a tre navate.

54

Domus romana sotto l’Archivio storico

del Banco di Napoli

Nei cantinati del Palazzo Ricca, attual-

mente sede dell'Archivio Storico del

Banco di Napoli, sono stati rinvenuti

resti di un monumentale complesso di

età tardo repubblicana (II sec. a. C.)

con decorazioni parietali del IV stile e

quasi sicuramente connesso al comples-

so rinvenuto e distrutto dai lavori del

Risanamento. Di particolare evidenza

sono le strutture di età Flavia in opera

laterizia (arcate e sostruzioni di am-

bienti) con notevole ricorso a pareti in

opera reticolata e da un imponente

ambulacro, in laterizio, disposto orto-

gonalmente al decumano maggiore (via

dei Tribunali). Il rinvenimento di un

ipocausto non può che confermare la

pertinenza ad un impianto termale.

Immediatamente dopo il maestoso por-

tale dell'edificio, antica sede del Monte

e Banco dei Poveri (1617), sulla sinistra

di un ampio cortile, si apre sulla sini-

stra un corridoio che immette nell'area

archeologica rinvenuta negli anni '70 a

seguito di lavori di consolidamento del

palazzo. Sulla sinistra del corridoio si

accede ad un vasto ambiente che pre-

senta sul lato di fondo due poderose

arcate in laterizio che immettono in un

altro ambiente, tompagnato in epoca

successiva, forse interpretabile come

criptoportico.

Proseguendo lungo il corridoio si acce-

de da un ampio salone ad un altro am-

biente a forma rettangolare diviso in

due da un muro di epoca successiva.

Sul lato sinistro si evidenzia un pavi-

mento a mosaico, realizzato a tessere

bianche e nere, poste in modo da for-

mare una raffigurazione a motivi geo-

metrici, racchiusa da una doppia fascia

a tessere bianche. Alla parete di fondo,

presumibilmente in opera laterizia, si

appoggia una struttura muraria in ope-

ra vittata, che si sovrappone in parte al

pavimento a mosaico, segno che si trat-

ta di un intervento di epoca successiva.

Entrambe le strutture sono rivestite da

una decorazione pittorica con zoccolo a

motivi vegetali, su fondo rosso, inqua-

drabili nel IV stile. L’ambiente era

chiuso da una struttura in opera retico-

lata, individuata in un altro ambiente

dell’edificio.

Dall’ampio salone si accede ad un altro

settore, parallelo al corridoio di acces-

so, costituito da una serie di ambienti

in opera laterizia o laterizia con spec-

chiature in opera reticolata e copertura

Page 28: Non è la solita guida

55

con volta a botte. L’identificazione

funzionale di questi ambienti, prospi-

cienti ai primi visitati, è incerta.

Necropoli

Altri tesori importanti per la nostra

città sono le necropoli.

Le necropoli urbane sono state scoper-

te nelle aree immediatamente adiacen-

ti alla cinta muraria, dove sono stati

individuati diversi nuclei per lo più

ubicati in corrispondenza delle porte e

delle strade.

Almeno quattro sono i principali nuclei

di necropoli. Il primo, dove sono stati

rinvenuti i corredi più importanti di

Neapolis, è quello situato nell’area di

Castel Capuano; il secondo si estende

da via Settembrini a via Foria fino alle

alture dei Cristallini e dei Vergini, e a

valle della Sanità; il terzo gruppo occu-

pa la zona di via Santa Teresa degli

Scalzi; il quarto è situato tra il Pallo-

netto Santa Chiara e Santa Maria la

Nova.

Un ruolo rilevante lo assumono le tom-

be ipogee di via Cristallini in quanto

sono veri e propri monumenti scavati

nel banco tufaceo della collina. E’ co-

stituito da quattro ipogei adiacenti,

ciascuno caratterizzato da un vestibolo

e una camera sepolcrale a pianta ret-

tangolare disposti su due livelli; il ve-

stibolo presenta su tre lati banchine

per le offerte funebri e al centro una

scala che conduce alla camera funebre

sottoposta. In quest’ultima sono collo-

cati lungo le pareti sarcofagi ugual-

mente cavati nel tufo, imitano i letti

funebri. Sono riccamente decorati,

infatti in un ipogeo è presente una

enorme testa di Medusa inscritta in un

tondo decorato da foglie e serpenti.

Ritrovamenti grazie ai lavori per la

realizzazione della metropolitana

Durante gli scavi della metropolitana di

Napoli sono stati rinvenuti numerosi

56

reperti archeologici attribuibili a diver-

se epoche della città partenopea. Col-

locabili nell'epoca preistorica, greca,

romana, bizantina, medievale e arago-

nese, i reperti sono esposti all'interno

della Stazione Neapolis, un piccolo

ambiente museale facente parte del

complesso del museo archeologico na-

zionale di Napoli.

La maggior parte dei reperti sono stati

portati alla luce negli scavi delle sta-

zioni di Municipio e Duomo.

Municipio

« Lo scavo della metropolitana è stata

un'occasione unica. Il nucleo greco-

romano è rimasto più o meno delle

stesse dimensioni per molti secoli, in

età angioina, aragonese e vicereale,

come un gioco di scatole cinesi. »

(Daniela Giampaola, l'archeologa italia-

na che dirige lo scavo di piazza Munici-

pio)

Gli scavi della stazione di Municipio si

sono rivelati molto fruttuosi infatti

sono stati rinvenuti più di tremila re-

perti.

Grazie a questi scavi è stato possibile

ubicare il porto di Neapolis in quanto

per anni vi erano diverse ipotesi.

Secondo il Capasso vi erano due porti

grande e uno piccolo. Il primo, Portus

Vulpulum, era ubicato nell’area occu-

pata oggi da Castel Nuovo, piazza Muni-

cipio e Via Medina; il secondo, Portus

de Arcina, era situato tra via Porto e

Maio di Porto.

Mario Napoli sosteneva invece che l’a-

rea portuale si trovava nella vasta ae-

rea occupata da Palazzo Reale, dal

Teatro San Carlo, dal Castello Angioino

e da piazza Municipio sino all’alteza di

via Medina.

Ma grazie agli scavi si è arrivati alla

conclusione che il porto era situato tra

piazza Municipio e piazza Bovio.

Questi scavi hanno riportato alla luce

tre navi chiamate A,B,C. Le prime era-

no navi commerciali marittime, la ter-

za era utilizzata per servitù portuale

per il carico e lo scarico delle merci o

per attività di pesca.

Napoli A e Napoli C sono state trovate

in posizione perpendicolare tra loro,

probabilmente affondate e poi insab-

biate. Napoli B affonda forse per una

mareggiata.

Oltre alle navi sono stati portati alla

luce suole in cuoio di calzari romani,

monete, sigillate corinzie con decora-

Page 29: Non è la solita guida

57

zioni di scene bacchiche, balsamari,

una notevole quantità di ceramica ben

conservata (ovvero anfore, pentole di

terracotta, coppe di produzione africa-

na che si erano frantumate cadendo

nell'acqua), bottiglie di vetro tappate

chiuse con tappi di sughero.

Duomo

Durante gli scavi della stazione di Duo-

mo, sita a piazza Nicola Amore, sono

emersi numerosi reperti archeologici

che, per numero, sono secondi solo a

quelli ritrovati nei cantieri della poco

distante stazione di Municipio. Però, in

precedenza grazie ai lavori del Risana-

mento si è potuto identificare l’area di

piazza Nicola Amore, come aerea dei

giochi.

Dell'antico gymnasium sono testimo-

nianza una statua di Nike acefala,

un'erma di Eracle e numerose iscrizioni

relative ai Sebastà, tutti provenienti

dalla zona compresa fra Sant'Agostino

alla Zecca, corso Umberto e Sant'Agata

degli Orefici. Recente è infine il rinve-

nimento in piazza Nicola Amore dei

resti di un tempio prostilo su podio,

identificato con il tempio annesso

al gymnasium, di età giulio - claudia,

circondato da un portico le cui pareti

erano rivestite di lastre iscritte, ritro-

vate ribaltate, con le dediche dei vin-

citori nei diversi tipi di gare ginniche,

equestri e musicali dei Giochi Isolimpi-

ci. Le lastre portano portano impressi,

in greco, i nomi dei vincitori delle Iso-

limpiadi, divise per categorie (uomini,

donne, fanciulle, ragazzi) e discipline

(pancrazio, lotta, pugilato, corsa arma-

ta).

58

Un mago a Napoli

Quando si parla di magia nera nella

città di Napoli, non si può non pensare

immediatamente a Virgilio.

Il poeta, difatti, fu apprezzato non solo

per le sue doti letterarie quanto, e

soprattutto, per aver liberato la città

da varie iettature, così come racconta-

no le leggende popolari.

A lui, i napoletani dedicarono l’omoni-

mo parco di Piedigrotta: il Vergiliano,

spesso erroneamente confuso con il

Virgiliano che si trova, invece, a Posilli-

po.

Dalla visita di questo parco inizia il

nostro Itinerario.

Percorrendo la lunga scalinata che,

anticamente, collegava la città di Na-

poli alla zona dei campi Flegrei, i napo-

letani potevano ritrovarsi dinanzi al

colombario, antico monumento funebre

romano chiamato così per le numerose

nicchie scavate al suo interno e leggere

la seguente incisione: “Mantua me ge-

nuit, Calabri rapuere, tenet nunc Par-

thenope;cecini pascua, rura, duces

” (Mantova mi generò, la Calabria mi

rapì, mi tiene ora Napoli; cantai i pa-

scoli, le campagne, gli eroi). È nel Ver-

giliano, infatti, che è custodita la tom-

ba del poeta.

Il Mausoleo di Virgilio, decorato con

affreschi medievali, non è l’unico mo-

numento funebre presente nel parco.

Poco distante, difatti, precisamente

subito dopo l’ingresso del parco, un

altro poeta dorme il suo sonno eterno:

si tratta di Leopardi, la cui tomba fu

trasferita qui nel 1934, anno in cui fu-

rono ultimati i lavori all’interno del

parco.

Proseguendo più avanti, potremo nota-

re, sulla destra, la Cripta Neapolita-

na , un’antica galleria, ora chiusa per

restauri, che collegava Mergellina con

Fuorigrotta.

Alcuni raccontano che sarebbe stato lo

stesso Virgilio a creare la galleria in

una sola notte, ricorrendo alle sue doti

magiche.

La magia nera

Parco Vergiliano

Page 30: Non è la solita guida

59

In realtà essa fu realizzata da Lucio

Cocceio Aucto per volontà di Marco

Vipsanio Agrippa. Secondo i racconti,

Cocceio, usufruendo del lavoro di cento

uomini, avrebbe terminato l’opera in

quindici giorni. Mentre le altre gallerie

flegree persero, in seguito alla guerra

tolemaica, la loro importanza strategi-

ca, la Crypta Neapolitana continuò ad

essere utilizzata come infrastruttura

civile. Seneca, però, la descrive come

un luogo angusto, buio ed opprimente

e, proprio per questo motivo, nel corso

dei secoli si cerco di ampliarla e miglio-

rarla per porre fine a tali problemati-

che.

Nel 1455 il re alfonso V d’Aragona rese

meno ripido il pendio d’accesso da Mar-

gellina. Nel 1548 don Pedro di Toledo

la fece ampliare e pavimentare e, suc-

cessivamente, furono effettuati vari

restauri volti al rafforzamento della

galleria.

La galleria, tenendo in considerazione

le conoscenze tecniche dell’epoca, può

essere considerata un capolavoro

dell’ingegneria. La crypta, inoltre, ave-

va una forte valenza simbolica, essa

era, difatti, considerata il simbolo

materno e uterino, del passaggio tra la

morte e la vita, tra la luce e il buio.

Nei suoi scritti, Petronio racconta che,

nel I secolo, la cripta era stata consa-

crata a Priapo, il dio della fertilità. In

onore del dio furono organizzate ceri-

monie misteriche e riti orgiastici. In

epoca magno-greca nella grotta furono

celebrate feste in onore di Afrodite,

dea dell’amore, durante le quali le

fanciulle vergini e le spose infeconde

praticavano pratiche propiziatorie.

Se la testimonianza di Petronio non ha

altri riscontri, durante i lavori eseguiti

sotto la dominazione spagnola fu ritro-

vato un bassorilievo rappresentante

Mitra Tauroctono tra il sole e la luna,

datato intorno al III-IV secolo, che oggi-

giorno è conservato presso il Museo

Archeologico Nazionale di Napoli. La

galleria era, inoltre, orientata in modo

tale che, in occasione degli equinozi, il

sole fosse perfettamente allineato tra i

due ingressi all'alba e al tramonto, in

modo tale che, in quei momenti, la

galleria che solitamente era immersa

nell’oscurità, potesse risplendere, da

ogni parte, di luce.

Il tunnel acquisì un carattere ambiva-

lente: da un lato si riteneva che un

grande maleficio si sarebbe abbattuto

su coloro che avessero provato ad at-

traversarlo, da soli, di notte; dall’altro

uscirne indenni ma, soprattutto, uscir-

ne, era considerato un presagio fausto.

I riti legati al culto di Mitra furono, nel

corso dei secoli, sostituiti con quelli del

Cristianesimo. Petrarca, nei suoi scrit-

ti, parla del culto della Madonna Odi-

gitria in una cappella ricostruita sui Iscrizione tomba di Virgilio

60

resti del sacello di Priapo. Tale cap-

pella divenne un luogo di culto per i

cristiani, fino a quando non fu costruita

la chiesa di Santa Maria di Piedigrotta

proprio dinanzi all’ingresso della Cryp-

ta.

Boccaccio, in una lettera del 1339,

parla di una “donna di pederocto “

riferendosi, probabilmente, risale al

simbolismo del piede, legato al parto e

al passaggio morte-vita. Secondo le

credenze popolari, esisteva un talisma-

no, chiamato lo scarpunciello da Ma-

donna” che aveva un potere propiziato-

rio per le partorienti che, come avveni-

va in passato per la crypta, dovevano

recarsi nella Chiesa della Madonna di

Piedigrotta.

Il Castel Dell’Ovo

Virgilio era, dunque, un mago

o ,comunque, così lo consideravano i

napoletani.

La testimonianza più famosa di questi

suoi poteri sarebbe, secondo le leggen-

de, il Castel dell’Ovo. Il nome di questo

castello, costruito sull’antica Megaride,

racchiuderebbe in sé il destino dell’in-

tera città. Si racconta, infatti, che Vir-

gilio abbia nascosto, in una delle nic-

chie presenti nelle fondamenta del

castello, un uovo. Alla rottura di que-

st’ultimo, l’interacittà sarebbe crolla-

ta.

I napoletani credettero così tanto a

questa leggenda che, nel XIV secolo, in

seguito al crollo di alcune parti dell’ar-

co principale del castello, la regina

Giovanna I, per evitare che in città si

diffondesse la paura tra il popolo, fu

costretta a recarsi in città per rassicu-

rare tutti: lei stessa aveva personal-

mente provveduto a sostituire l’uovo,

che i poteri dell’uovo erano stati rista-

biliti e che i sudditi non avevano più

nulla da temere.

In realtà, secondo alcuni studiosi meno

inclini a credere a simili “storielle”, il

nome del castello sarebbe legato

all’”uovo filosofico”, termine esoterico

che si riferisce all’athanor ovvero al

Tomba di Leopardi

Santa Maria di Piedigrotta

Page 31: Non è la solita guida

61

forno di metallo o vetro all’interno del

quale gli elementi primari, quali zolfo e

mercurio, si trasmutavano lentamente

nell’oro alchemico. A napoli, durante il

periodo medievale sorge un’importante

scuola ermetica dedita allo studio

dell’alchimia.

Secondo alcuni scritti antichi , oltre

che un grande poeta, Virgilio sarebbe

stato un alchimista e uno sperimenta-

tore dell’uovo filosofico.

Per operare nella massima segretezza,

Virgilio si sarebbe recato, insieme con i

suoi seguaci, in uno degli antri segreti

dell’isoletta di Megaride attirando l’at-

tenzione di qualche curioso che avreb-

be raccontato in giro di quel uovo mi-

sterioso di cui, in realtà, aveva frain-

teso il vero significato.

Prima, però, di soffermarci sul Castello

è opportuno fare qualche passo indie-

tro nel tempo e tornare alle origini di

quell’isoletta che, quasi come una ma-

dre, aveva accolto il corpo inerte della

sventurata sirena Partenope…

Nel I secolo a.C. Lucio Licinio Lucullo

realizzò, sull'isola, una splendida villa

dotata di una grande biblioteca, di

allevamenti di murene e di alberi di

pesco importati dalla Persia, che per

l'epoca erano una novità assieme ai

ciliegi che il generale aveva fatto arri-

vare da Cerasunto. La memoria di que-

sta proprietà perdurò nel nome di Ca-

strum Lucullanum che il sito mantenne

fino all'età tardoromana.

Intorno alla metà del V secolo la villa

fu fortificata per volontà di Valentinia-

no III. Nel 476 re Odoacre rinchiuse,

nel castello, l’ultimo imperatore d’Oc-

cidente: Romolo Augusto. Alla morte di

quest’ultimo, sull’isola giunsero i mo-

naci basiliani che, approfittando

dell’immensa biblioteca luculliana,

crearono un importante scriptorum.

Nel 1140, dopo aver conquistato Napo-

li, Ruggiero il Normanno si trasferì in

città dando inizio ad una fortificazione

del sito. Testimonianza più evidente di

questa fortificazione è la Torre Nor-

Castel dell’Ovo.

Resti Villa Luculliana

62

mandia. Con Federico II, nel 1222, il

castello fu ulteriormente fortificato

divenendo sede del tesoro reale. Con

Federico II furono erette la Torre di

Colleville, la Torre Maestra e la Torre

di Mezzo. Il castello divenne reggia e

prigione di stato.

Con l’avvento di Carlo I d’Angiò la cor-

te fu spostata al Maschio Angioino, ma

il Castel dell’Ovo mantenne la sua fun-

zione di prigione di stato. Qui, infatti,

fu rinchiuso Corradino di Svevia prima

di essere decapitato nella piazza del

Mercato.

Dopo il terremoto del 1370 che causò il

crollo di una parte dell’arco principale,

la regina Giovanna I fece rinforzare le

murature e restaurò anche le antiche

costruzioni normanne. Dopo avere

abitato il castello come sovrana, la

regina venne qui imprigionata dall’infe-

dele nipote Carlo di Durazzo, prima di

essere mandata in esilio a Muro Luca-

no.

Alfonso V d'Aragona apportò al castello

ulteriori ristrutturazioni: egli arricchì

il palazzo reale, ripristinò il molo, po-

tenziò le strutture difensive. Alfonso lo

preferì al Maschio Angioino, trasferen-

dovi la sua corte e passando qui la

maggior parte del suo tempo. Dopo

aver previsto di essere vicino alla mor-

te, il sovrano chiese di essere tempora-

neamente seppellito nel castello prima

di essere trasferito, in maniera definiti-

va, nel suolo natio.

Nel 1503 l’assedio alla città di Napoli,

realizzato da Ferdinando il Cattolico, si

concluse con la distruzione delle due

torri e la conquista dell’intero Regno di

Napoli in favore della Spagna. Le mura

del castello, che assunse la forma

odierna, furono inspessite, furono mi-

gliorati gli armamenti e le strutture

difensive furono orientate verso terra.

Durante il vicereame spagnolo e, suc-

cessivamente, con i Borbone, il castello

fu fortificato e furono aggiunti due

ponti levatoi. La struttura perse il ruolo

di residenza reale e dal XVIII secolo

divenne un avamposto militare. Da qui,

gli spagnoli bombardarono la città du-

rante i moti di Masaniello. Il Castello

mantenne, però, la funzione di prigio-

ne. In esso, infatti, furono rinchiusi

Tommaso Campanella, prima di essere

condannato a morte, e, in seguito, al-

cuni giacobini, carbonari e liberali co-

me, ad esempio, Carlo Poerio, luigi

Settembrini e Francesco de Sanctis.

Durante il periodo del cosiddetto

"Risanamento", che cambiò il volto di

Napoli dopo l'Unità d'Italia, un progetto

Interno Castel dell’Ovo

Page 32: Non è la solita guida

63

elaborato dall'Associazione degli scien-

ziati letterati e artisti nel 1871 preve-

deva l'abbattimento del castello per far

posto ad un nuovo rione. Tuttavia, ,

fortunatamente per la storia e la cultu-

ra della città, quel progetto non fu

attuato e l'edificio rimase in possesso

del demanio.

Nelle grandi sale presenti al suo interno

si svolgono, durante tutto l’anno, mo-

stre, convegni e manifestazioni. Alla

sua base sorge il porticciolo turistico

del "Borgo Marinari", animato da risto-

ranti e bar, sede storica di alcuni tra i

più prestigiosi circoli nautici napoleta-

ni.

Percorso il breve pontile che congiunge

il castello e Via Caracciolo, vi sentire-

te quasi catapultati in un’altra dimen-

sione, in un’epoca che va dal vicerea-

me spagnolo fino a giungere all’età dei

Borbone. Camminando per il castello

potrete osservare la Torre Maestra, le

celle dei monaci, la Torre Normandia.

Sarà il punto più alto del castello, pe-

rò, a mostrarvi lo spettacolo più gran-

de: da un lato il mare e tutto ciò che

potete toccare solo attraverso l’imma-

ginazione, dall’altro la concretezza di

secoli di storia, di cultura che quasi

sembrano proporsi come biglietto da

visita a coloro che giungono dal mare e

che si trovano dinanzi ad una città che

di storia ne ha da raccontare…

Il Diavolo di Mergellina

Nella prima metà del Cinquecento, una

bella donna napoletana, il cui nome

era Vittoria, si innamorò del vescovo di

Ariano, Diomede Carafa. La fanciulla,

che in passato aveva deciso di farsi

suora, abbandonò il noviziato e incari-

cò una fattucchiera di creare una fat-

tura d’amore per fare in modo che il

vescovo si innamorasse di lei.

Improvvisamente il vescovo iniziò a

sentirsi attratto da quella fanciulla

tanto che la sua immagine iniziò a per-

seguitarlo. Resosi conto di essere vitti-

ma di un maleficio, il vescovo inizio a

documentarsi per trovare una soluzio-

ne al maleficio. L’unico modo per riu-

scire a scacciare la fattura, secondo i

testi da lui letti, era quello di far rea-

lizzare da un artista un dipinto raffigu-

Interno Castel dell’Ovo Pontile che congiunge il Castel dell’Ovo e via Caracciolo

64

rante S. Michele e un drago

(rappresentazione del diavolo) avente

il volto di Vittorio: egli progettò, in

poche parole, una sorta di contro fattu-

ra. L’opera, inoltre, doveva essere pro-

tetta in un posto sacro ed essere rico-

perta di acqua santa e balsamo. Il di-

pinto si trova ora nella Chiesa di S,

Maria del Parto a Mergellina.

La leggenda, narrata tra l’altro da Be-

nedetto Croce, si diffuse presto tra il

popolo napoletano tanto che fu creato

il detto “si bella e ‘nfama comm’ ‘o

riàvule ‘e Margellina”

La Chiesa di Santa Maria del Parto

Nel 1497 Federico I salì al treno del

Regno di Napoli e concesse a Jacopo

Sannazaro un terreno nella zona di Mer-

gellina appartenuto, in passato, ai mo-

naci benedettini . Alla villa preesisten-

te, Sannazaro fece aggiungere una tor-

re e due chiese sovrapposte i cui lavori

inizarono nel 1504, anno del definitivo

trasferimento a Napoli del poeta.

La Chiesa sottostante, interamente

scavata nel tufo, fu terminata nel 1525

e fu dedica a Santa Maria del Parto.

Essa divenne luogo di pellegrinaggio di

tutte le donne incinta o di coloro che

volevano avere figli. Dopo la morte del

poeta la chiesa cadde in uno stato di

abbandono, mentre quella superiore

rimase inconclusa non solo a causa

dell’epidemia di pesta dell’epoca ma

anche e, soprattutto, per l’instabilità

politica dell’epoca.

Prima della sua morte Sannazaro donò

il suo possedimento ai frati dei Servi di

Maria facendosi promettere che al suo

interno avrebbero fatto costruire il suo

monumento funebre.

Quando. Nel decennio francese, Napo-

leone Bonaparte fece sospendere gli

ordini sacerdotali la chiese e le sue

proprietà passarono nelle mani dei pri-

vati che ne modificarono la facciata

per allargare lo spazio necessario per le

abitazioni. Nel 1971 la Chiesa tornò

nelle mani dei Servi di Maria.

La facciata della chiesa ha forma ret-

tangolare ed è tinteggiata in rosso.

Essa è divisa in due parti: quella infe-

riore è caratterizzata da un arco, nel

quale è iscritto un arco più piccolo che

dà l'accesso al vestibolo; accanto ad

esso altri due archi più piccoli sono

utilizzati come ingressi secondari e

sono sormontati da due epigrafi, una a

S. Michele e il Drago– Santa Maria del Parto

Esterno Chiesa di S. Maria del Parto

Page 33: Non è la solita guida

65

destra, l'altra a sinistra, che narrano

alcuni degli eventi riguardanti la storia

della chiesa.

Al di sopra delle due epigrafi sono af-

frescate le figure di Federico d’Aragona

e Jacopo Sannazaro, entrambe forte-

mente danneggiate. A concludere que-

sta parte della facciata, vi sono una

botola che è utilizzata come fonte di

luce e due stemmi gentilizi.

La parte superiore della facciata, inve-

ce, è caratterizzata da tre balconi,

tutti terminanti con stucchi riproducen-

ti un timpano, e nella parte centrale,

sormontato da una croce in ferro, si

trova un rosone. La facciata non è

quella originale progettata da Sannaza-

ro, ma fu modificata durante il decen-

nio francese .

« La nobile e decorosa facciata con

porta rettangolare, coronata da tra

statue marmoree, come ben rammen-

tano i vecchi abitatori di quella contra-

da, fu deformata miseramente da un

lungo braccio di casa privata, edificato

sopra di quella e sopra l'area dell'inter-

no vestibolo. »

(Antonio Mancini)

Superato l'arco di ingresso si accede al

vestibolo: ai lati del portale ligneo,

che funge da vera entrata alla chiesa,

sono visibili resti di affreschi, mentre

nel lato destro, in una sorta di piccola

cappella, è custodito un presepe con

statue lignee, realizzato nel XVI secolo

da Giovanni da Nola e precedentemen-

te custodito nella chiesa inferiore. La

chiesa ha un’unica navata. La volta

della chiesa non ha decorazioni mentre

il pavimento fu rifatto nel XX secolo

con piastrelle bianche e nere mentre,

in una delle cappelle laterali, rimango-

no tracce della pavimentazione di

maioliche.

Lungo tutto la navata vi sono decora-

zioni di stucco bianco e dorato che

riproducono non solo elementi natura-

li, ma anche putti che recano, oltre

alle allegorie della Fortezza, Carità,

Fede e Speranza, anche i simboli della

passione di Gesù.

Su ogni lato della navata vi sono, inol-

tre, tre cappelle recanti dipinti e deco-

razioni di vari artisti.

Nel XVIII secolo fu aggiunto l’altare

maggiore nelle vicinanze dell’arco

trionfale realizzato, quest’ultimo, da

Pietro Nicolini e su cui, tra l’altro, è

posata la statua della Madonna col

Bambino, in legno policromo, realizza-

ta da Francesco Saverio Citarelli nel

1865. Subito dopo troviamo un altro

arco sotto le cui curve sono poste le

tele di Giovanni Battista Lama. L’absi-

de, la cui forma è rettangolare, ospita

la tomba di Sannazaro. Il monumento

funebre fu realizzato da Giovanni An-

gelo Montorsoli . Interno– Santa Maria del Parto

66

L’oscuro principe di San Severo

Tra i principali personaggi che figurano

nella scuola degli alchimisti napoletani,

spicca il nome di Raimondo di Sangro

Principe di San Severo . Tra i massimi

scienziati napoletani e accanito studio-

so di tutti i fenomeni riguardanti la

natura, il principe divenne famoso per

le sue numerose scoperte: dalla tipo-

grafia simultanea a più colori alla pro-

prietà dei metalli, dalla decifrazione

del linguaggio esoterico degli Indios

fino alla realizzazione di “intrugli” in

grado di indurire i materiali. Tali sco-

perte restano, però, avvolte nel più

totale mistero: considerando le cono-

scenze dell’epoca, com’è possibile che

il Principe sia arrivato a tali risultati?

Grande anatomista, il di Sangro lasciò

tutti stupefatti ed increduli attraverso

la sua perfetta ricostruzione delle reti

venose del corpo umano, grazie all’aiu-

to del suo allievo salerno.

Figlio di Antonio di Sangro, Raimondo

poteva vantare una discendenza Borgo-

gnona dallo stesso Carlo Magno. Lo

stemma della casate dei di Sangro,

difatti, è quella della dinastia borgo-

gnona che fondeva al suo interno la

stirpe carolingia, longobarda e norman-

na.

Raimondo, per la sua versatilità e intel-

ligenza fu annoverato tra i più insigni

studiosi del XVIII secolo.

Uomo animato da una grande voglia di

rinnovamento ideologico, aderì alla

massoneria un’associazione, questa,

che inizialmente non trovò alcun tipo

di opposizione nella città di Napoli.

Successivamente Benedetto XIV fece

intervenire il re Carlo per reprimerla e,

nel 1751, il clero ebbe reazioni violente

contro la massoneria e contro tutti

quelli che ne facevano parte. Lo stesso

Principe fu costretto, almeno apparen-

temente, ad allontanarsene. Solo appa-

rentemente perché quando, nello stes-

so anno, vi fu una forte battuta d’arre-

sto per l’associazione, il di Sangro deci-

se di affidare alla cappella di famiglia,

che stava restaurando, il compito di

trasmettere ai posteri il suo pensiero

Tomba di Sannazaro—Chiesa S. Maria del Porto

Stemma casata di Sangro

Page 34: Non è la solita guida

67

ideologico.

Nel suo laboratorio sotterraneo iniziò

un’attività topografica, supportato

dall’ausilio di macchine costosissime,

con i quali, si dice, abbia stampato

anche alcune opere scientifiche e testi

massoni ritrovati nella sua immensa

libreria. Questa notizia si diffuse ben

presto in città tanto che il Principe,

per evitare problemi, decise di regalare

la stamperia a re Carlo di Borbone

Nonostante le sue invenzioni, o comun-

que parte di esse, siano andate perdu-

te, è possibile averne testimonianza

grazie alle lettere, poi ritrovate, che

egli si scambiò con i suoi amici.

Tra le sue prime invenzioni realizzato

con l’aiuto di poche corde, facile da

smontare e realizzabile in uno spazio

non vastissimo. Il palcoscenico fu rea-

lizzato per festeggiare la nascita del

figlio di Carlo VI d’Austria e, grazie ad

esso, riuscì ad ottenere l’ammirazione

dei più grandi scienziati dell’epoca.

Da questo momento in poi realizzerà

numerose e geniali invenzioni: dal mar-

chingegno che poteva sparare sia a

polvere che a salve alla macchina capa-

ce di far giungere l'acqua a notevole

altezza senza l'aiuto di animali; da una

lega metallica ultra leggera e, con es-

sa, un cannone con una gittata superio-

re a quelli del suo tempo ad un panno

impermeabile, resistente alla pioggia

più forte; dal congegno che utilizzò,

poi, per costeggiare il golfo senza l’aiu-

to dei remi ad una lampada esterna;

dalla scoperta di come realizzare pie-

tre preziose utilizzando pietre grezze

fino alla realizzazione di due macchine

anatomiche di cui, però, parleremo più

avanti.

La Cappella di San Severo

Quando si parla del Principe di san

Severo non si può non far riferimento

alla Pietà dei Sangro di San Severo, una

cappella fortemente voluta dal Princi-

pe per onorarne i personaggi sepolti e

dare un maggior lustro alla sua casata:

ecco, dunque, che egli farà mettere in

mostra il valore e la nobiltà di spada

degli uomini, e la virtù e la nobiltà

d’animo delle donne.

Animato da una forte ideologia masso-

nica, il Principe progettò opere che

racchiudessero quella simbologia e la

trasmettessero ai posteri. Le rappre-

sentazioni presenti nella cappella cor-

rispondono ad un preciso codice allego-

rico: dopo aver scelto la vitù più ade-

guata a rappresentare un determinato

membro della sua famiglia, egli aggiun-

ge nuove simbologie per dare un signi-

ficato ancor più profondo all’opera.

Per la realizzazione di tale opera, oltre

ai napoletani Sanmartino, Celebrano,

Persico, Russo e Amalfi, furono chia-

mati in città anche Queirolo e Corradi-

ni. A loro il principe consegnò anche i

marmi da utilizzare e colori alchemici.

Dopo l’ultimazione della cappella Rai-

mondo lasciò scritto, nel suo testamen-

to, che le opere in essa contenuta non

dovevano essere né spostate dal l’ubi-

cazione originale né, tantomeno, modi-

ficati.

La Cappella di San Severo

Quando si parla del Principe di san

Severo non si può non far riferimento

alla Pietà dei Sangro di San Severo, una

68

cappella fortemente voluta dal Principe

per onorarne i personaggi sepolti e

dare un maggior lustro alla sua casata:

ecco, dunque, che egli farà mettere in

mostra il valore e la nobiltà di spada

degli uomini, e la virtù e la nobiltà

d’animo delle donne.

Animato da una forte ideologia masso-

nica, il Principe progettò opere che

racchiudessero quella simbologia e la

trasmettessero ai posteri. Le rappre-

sentazioni presenti nella cappella corri-

spondono ad un preciso codice allegori-

co: dopo aver scelto la vitù più adegua-

ta a rappresentare un determinato

membro della sua famiglia, egli aggiun-

ge nuove simbologie per dare un signi-

ficato ancor più profondo all’opera.

Per la realizzazione di tale opera, oltre

ai napoletani Sanmartino, Celebrano,

Persico, Russo e Amalfi, furono chiama-

ti in città anche Queirolo e Corradini. A

loro il principe consegnò anche i marmi

da utilizzare e colori alchemici. Dopo

l’ultimazione della cappella Raimondo

lasciò scritto, nel suo testamento, che

le opere in essa contenuta non doveva-

no essere né spostate dal l’ubicazione

originale né, tantomeno, modificati.

Le sculture che decorano l’intera strut-

tura sono espressione di una simbologia

massonica-templare che ha un impatto

visivo così forte che persino coloro che

non sono esperti di iconografia o sim-

bologia, riescono a percepire che quel-

le sculture vogliano “dire” molto di più

di quello che potrebbe sembrare.

Ma andiamo per gradi…

La vegetazione marmorea, scolpita in

tutta la cappella, rappresenta rami e

arbusti di quercia. Il ramo rappresenta

la forza e la sapienza, due virtù fonda-

mentali per la massoneria. Gli arbusti,

invece, rappresentano, sempre in ma-

niera simbolica, la conoscenza del bene

e del male.

Soffermiamoci, a questo punto, sulla

statua della Pudicizia: è quasi impossi-

bile non rimanere stupiti dinanzi ad

una rappresentazione così sensuale e

femminile di tale virtù. Il velo che la

ricopre, anch’esso frequente nelle rap-

presentazioni della cappella, rappre-

senta la Sapienza che deve essere sve-

lata.

La lapide spezzata, segno evidente

della morte prematura della madre

Cecilia Gaetani, si riferisce al tema

dell’antica sapienza velata e intangibi-

le per coloro che non sono “iniziati” ai

suoi misteri. Ai piedi della statua, inol-

tre, vi è un vaso bruciaprofumi che

allude alle fumigazioni con le quali i

massoni erano soliti sacralizzare le loro

cerimonie.

La piramide, presente sullo sfondo del-

la "Liberalità", della "Soavità del giogo

coniugale", della "Sincerità" e della

"Educazione", simboleggia la chiara ed Pietà dei Sangro di San Severo

Page 35: Non è la solita guida

69

alta gloria dei principi che hanno fab-

briche sontuose per mostrare la loro

gloria.

L’ Aquika, rappresentata nella statua

della Liberalità, è il simbolo della vit-

toria, mentre la colomba, rappresen-

tata nella “Sincerità” e nella “soavità

del giogo coniugale”, rappresenta la

pace e rafforza il concetto di unione

coniugale.

Che voi siate degli esperti d’arte o

meno, non potrete non rimanere im-

pressionati dinanzi al Cristo Velato,

nell’ammirare una scultura che, a ve-

derla, sembra così reale , da suscitare

una forte commozione in colui che la

osserva.

Tale scultura, attualmente ubicata al

centro della struttura era originaria-

mente pensata per essere collocata

nella cripta ovale che si trova al di sot-

to della cappella.

Il Cristo velato, per secoli, ha impe-

gnato numerosi studiosi: com’ è possi-

bile che il velo di marmo possa rende-

re visibile anche i lineamenti del viso

di Gesù e i particolari del resto del suo

corpo? Secondo alcuni fu lo stesso Rai-

mondo a realizzare il velo del corpo di

Gesù ma, a questo punto le ipotesi più

accreditate sarebbero due: da una

parte, Raimondo avrebbe usato una

sostanza in grado di indurire, come il

marmo, un tessuto lasciandone anche

i drappi; dall’altra è possibile che Rai-

mondo avesse creato uno strato così

sottile di marmo da averlo reso traspa-

rente. Fu compito di Sammartino, il

realizzatore del corpo di Gesù, quello

di rendere i due blocchi di marmo un

pezzo unitario.

Il tema del Cristo risorto rimanderebbe

al viaggio compiuto dall’iniziato che,

dopo essere morto simbolicamente,

risorge a nuova vita. Il tema della Mor-

te è riproposto ben due volte all’inter-

no della cappella: la ritroviamo, infat-

ti, sia nel Cristo Velato che nella Depo-

sizione.

Numerosi sono, anche, i simboli nel

La Pudicizia– Cappella di San Severo Il Cristo velato– cappella di San Severo

70

Disinganno. La statua, che rappresente-

rebbe il padre di Raimondo, mostra un

uomo, circondato da una fune piena di

nodi che lo avvolgono senza, però, toc-

carlo. Il tema della statua è quello del-

la rottura con i legami mondani fino ad

arrivare alla redenzione. A quest’ulti-

ma l’uomo giungerà non attraverso la

fede ma grazie all’intelletto che, illu-

minando la mente, la libera dalle pas-

sioni umane.

Scolpito su tutto il pavimento della

cappella, vi era un labirinto di cui pur-

troppo, ora, restano solo poche tracce.

Il significato del labirinto è duplice: da

una parte potrebbe rappresentare la

volontà, del Principe, di esplorare e

conoscere anche le parti più oscure

della natura, conoscerla, in sostanza,

come nessuno aveva mai fatto prima di

lui; dall’altra potrebbe rappresentare

l’idea che per giungere alla verità è

necessaria l’intelligenza, così come la

luce è fondamentale per non perdersi

nel labirinto dell’universo.

La vera entrata della cappella era quel-

la laterale , l’entrata era dunque al

Nord come prevedevano le antiche Log-

ge massoniche; mentre la porta attual-

mente utilizzata come ingresso era

murata. Ciò non era un caso, ma faceva

parte di quel labirinto iniziatico che

l’adepto doveva affrontare per uscire,

davvero, dalla vita profana.

Nella zona dove sorge tale cappella, un

tempo vi era ubicato il tempio che gli

alessandrini d’Egitto dedicarono alla

dea Iside e dove essi veneravano la

statua, velata, della dea.

La cappella del Principe era segreta-

mente unita al suo palazzo da un pas-

saggio segreto, oggi andato completa-

mente distrutto. Proprio all’intorno del

palazzo egli realizzò la sua officina

dove sperimentò l’impermeabilizzazio-

ne dei tessuti e progettò il famoso Lu-

me della Fama che avrebbe dovuto

risplendere, ai piedi del Cristo, velato

senza mai spegnersi.

Collocate originariamente nel Palazzo

della Fenice del di Sngro e spostate,

solo successivamente alla sua morte,

nel sotterraneo della cappella, vi sono

le due “Macchine Anatomiche”: (una

maschile e una femminile) che rappre-

Il Disinganno– Cappella di San Severo

Ingresso Cappella di San Severo

Page 36: Non è la solita guida

71

sentano in maniera, quasi perfetta e

dettagliata, l’intero sistema circolato-

rio del corpo umano. Le Macchine era-

no, in verità, tre,. Purtroppo, però,

l’ultima, che rappresentava un feto, fu

rubata intorno al XX secolo e di essa

non si è mai più saputo nulla.

Anche intorno a quest’opera, che da

sempre suscita sbigottimento e ammi-

razione in coloro che la osservano, sono

circolate numerose leggende. Secondo

alcuni, infatti, il Principe , aiutato dal

suo allievo Salerno, avrebbe realizzato

tali macchine facendo degli esperi-

menti su due dei suoi servi, iniettando

nelle loro vene una sostanza, da lui

inventata, che avrebbe salvato il cir-

cuito sanguigno.

Tale “leggenda” viene ritrovata anche

negli scritti di Benedetto Croce che,

nei suoi “Scritti di storia letteraria e

politica, così scrive:

« [...] fece uccidere due suoi servi, un

uomo e una donna, e imbalsamarne

stranamente i corpi in modo che mo-

strassero nel loro interno tutti i visceri,

le arterie e le vene. »

Le due Macchine furono realizzate, non

solo per creare stupore ma anche ,e

soprattutto, come materiale didattico

per coloro che volevano acquisire una

conoscenza maggiore dell’apparato

circolatorio umano.

Quando il Vaticano costrinse il Principe

ad abiurare e a fare i nomi di altri Ini-

ziati come lui, i suoi parenti distrusse-

ro gran parte delle sue creazioni e sco-

perte, per evitare che i massoni, rite-

nutisi traditi dal loro fratello, potesse-

ro vendicarsi. Tutto ciò che potesse

collegare il Principe al mondo oscuro

fu prontamente fatto sparire da coloro

che avevano ocn lui legami di parente-

la.

Tra queste invenzioni non possiamo

non citare l’orologio, dotato di un

particolare carillon a campane ,che

rappresentava una sorta di faro, utile

ad indicare il sito iniziatico dei nuovi

adepti . Tale meccanismo, nascosto in

un tempietto ad otto colonne ( il nu-

mero 8 rappresenta un simbolo onni-

presente nella rappresentazione mas-

sonica), permetteva di eseguire qual-

siasi motivo percuotendo dei tasti ro-

tondi che corrispondevano ai vari suoni

delle campane.

Il Segreto del bugnato del Gesù Nuovo

Camminando per la famosissima Piazza

del Gesù, collocata a poca distanza

dalla cappella di Sansevero, si erge la

maestosa Chiesa del Gesù Nuovo.

La struttura, inizialmente concepita

come palazzo, fu progettata da Novello

da San Lucano, per volontà di Roberto

Sanseverino, e ultimato nel 1470. Ai

tempi di Ferrnte Sanseverino e di sua Macchina Anatomica– Cappella di

72

moglie Isabella, il palazzo divenne fa-

mosso per lo sfarzo e la bellezza delle

sue decorazioni, per gli affreschi e per

lo splendido giardino. Divenne inoltre

un punto di riferimento per la cultura

napoletana non solo rinascimentale ma

anche barocca. NEL 1536, dopo aver

conquistato Tunisi, Carlo V giunse a

Napoli e fu ospitato in questo palazzo

da Ferrante in persona che, per l’occa-

sione, organizzò una festa che rimase

celebre nelle cronache del tempo.

Nel 1547, durante il viceregno di don

Pedro di Toledo, gli spagnoli cercarono

di introddurre in città l’Inquisizione. I

napoletani, sostenuti da Ferrante, si

opposero a quest’imposizione riuscendo

ad evitarla. Le conseguenze, però, per

Ferrante furono gravose: egli fu co-

stretto ad andare in esilio. E a rinuncia-

re a tutti i suoi beni che, per volontà di

Filippo II, furono messi in vendita. Nel

1548 il palazzo acquistato dai gesuiti.

Costoro affidarono i lavori di manuten-

zione a due dei loro confratelli: Giu-

seppe Valeriano e Pietro Provedi. Essi,

della costruzione originale, risparmia-

rono solo il bugnato esterno ed il porta-

le marmoreo. La Chiesa fu consacrata

nel 1601.

Tra il 1629 e il 1634, sotto la direzione

di Agatio, fu eretta la cupola il cui af-

fresco, rappresentante il Paradiso, fu

realizzato da Giovanni Lanfranco. La

Chiesa fu sottoposta , in seguito ad un

incendio verificatosi nel 1639, ad alcuni

restauri al termine dei quali fu incari-

cato Aniello Falcone di eseguire la de-

corazione della volta della grande sa-

crestia. Nel 1688, in seguito al terre-

moto, la cupola crollò.

Tra 1693 e 1695, ad opera di Arcangelo

Guglielmelli, fu ricostruita la cupola e

il portale marmoreo fu arricchito con

nuove decorazioni (due colonne, due

angeli e lo stemma dei gesuiti “IHS”).

Su progetto di Ferdinando Fuga, la

Chiesa fu rinforzata con sottopilastri ed

archi e a Paolo de Matteis fu affidato il

compito di realizzare un nuovo affresco

per la cupola.

Nel 1767 i gesuiti furono banditi dal

regno di napoli e la Chiesa passò nelle

mani dei francescani che, a causa di

alcuni crolli, lasciarono la struttura.

Nel 1774, infatti, parte della cupola

Chiesa del Gesù Nuovo Interno della Chiesa del Gesù Nuovo

Page 37: Non è la solita guida

73

crollò e si decise di abbatterla total-

mente per evitare nuovi ed improvvisi

crolli. La Chiesa rimarrà chiusa per

circa trentanni.

Nel 1786 l’ingegnere Ignaziodi Nardo

sostituì la cupola originaria con una

falsa a calotta schiacciata, mentre la

copertura della Chiesa venne provvista

con un tetto a capriate.

Il Segreto del bugnato del Gesù Nuovo

Camminando per la famosissima Piazza

del Gesù, collocata a poca distanza

dalla cappella di Sansevero, si erge la

maestosa Chiesa del Gesù Nuovo.

La struttura, inizialmente concepita

come palazzo, fu progettata da Novello

da San Lucano, per volontà di Roberto

Sanseverino, e ultimato nel 1470. Ai

tempi di Ferrnte Sanseverino e di sua

moglie Isabella, il palazzo divenne fa-

mosso per lo sfarzo e la bellezza delle

sue decorazioni, per gli affreschi e per

lo splendido giardino. Divenne inoltre

un punto di riferimento per la cultura

napoletana non solo rinascimentale ma

anche barocca. NEL 1536, dopo aver

conquistato Tunisi, Carlo V giunse a

Napoli e fu ospitato in questo palazzo

da Ferrante in persona che, per l’occa-

sione, organizzò una festa che rimase

celebre nelle cronache del tempo.

Nel 1547, durante il viceregno di don

Pedro di Toledo, gli spagnoli cercarono

di introddurre in città l’Inquisizione. I

napoletani, sostenuti da Ferrante, si

opposero a quest’imposizione riuscendo

ad evitarla. Le conseguenze, però, per

Ferrante furono gravose: egli fu co-

stretto ad andare in esilio. E a rinuncia-

re a tutti i suoi beni che, per volontà di

Filippo II, furono messi in vendita. Nel

1548 il palazzo acquistato dai gesuiti.

Costoro affidarono i lavori di manuten-

zione a due dei loro confratelli: Giu-

seppe Valeriano e Pietro Provedi. Essi,

della costruzione originale, risparmia-

rono solo il bugnato esterno ed il por-

tale marmoreo. La Chiesa fu consacra-

ta nel 1601.

Tra il 1629 e il 1634, sotto la direzione

di Agatio, fu eretta la cupola il cui

affresco, rappresentante il Paradiso, fu

realizzato da Giovanni Lanfranco. La

Chiesa fu sottoposta , in seguito ad un

incendio verificatosi nel 1639, ad alcu-

ni restauri al termine dei quali fu inca-

ricato Aniello Falcone di eseguire la

decorazione della volta della grande

sacrestia. Nel 1688, in seguito al terre-

moto, la cupola crollò.

Tra 1693 e 1695, ad opera di Arcange-

lo Guglielmelli, fu ricostruita la cupola

e il portale marmoreo fu arricchito con

nuove decorazioni (due colonne, due

angeli e lo stemma dei gesuiti “IHS”).

Su progetto di Ferdinando Fuga, la

Chiesa fu rinforzata con sottopilastri

ed archi e a Paolo de Matteis fu affida-

to il compito di realizzare un nuovo

affresco per la cupola.

Nel 1767 i gesuiti furono banditi dal

regno di napoli e la Chiesa passò nelle

mani dei francescani che, a causa di

alcuni crolli, lasciarono la struttura.

Nel 1774, infatti, parte della cupola

crollò e si decise di abbatterla total-

mente per evitare nuovi ed improvvisi

crolli. La Chiesa rimarrà chiusa per

circa trentanni.

Nel 1786 l’ingegnere Ignaziodi Nardo

74

sostituì la cupola originaria con una

falsa a calotta schiacciata, mentre la

copertura della Chiesa venne provvista

con un tetto a capriate.

Nel 1821, rientrati i Borboni a Napoli, i

gesuiti tornarono in possesso della

Chiesa da cui verranno, però, nuova-

mente abbandonati nel 1860.

L'8 dicembre del 1857, l'altare maggio-

re ideato dal gesuita Giuseppe Grossi,

fu ultimato e la chiesa fu dedicata

all'Immacolata Concezione. Nel 1900

l'ordine dei Gesuiti poté rientrare defi-

nitivamente. La Chiesa subì numerosi

danni durante gli attacchi aerei della

seconda guerra mondiale. Durante uno

dei bombardamenti una bomba cadde

sul soffitto della Chiesa rimanendo,

però, inesplosa: la bomba è ancora oggi

esposta all’interno della Chiesa.

L’interno barocco, con pianta a croce

greca, è caretterizzato da una ricca

decorazione marmorea realizzata da

Fanzago nel 1630. Le decorazioni delle

controfacciate della navata centrale e

di quelle laterali, furono realizzata da

Francesco Solimena e dalla sua scuola.

Le volte a botte, invece, furono dipinte

da Belisario Corenzio e da Paolo De

Matteis.

La cupola, ricostruita da Ignazio Nardo,

fu rinforzata con una struttura in calce-

struzzo armato ed è caratterizzata da

una calotta sferica scandita da fine-

strellle lunettate.

Il transetto presenta ,sul lato sinistro,

opere pittoriche di Jusepe de Ribera

(Gloria di sant'Ignazio e Papa Paolo III

approva la regola di sant'Ignazio, poste

in alto al centro ed a destra, entrambe

del 1643-44), sculture di Cosimo Fanza-

go (che eseguì le statue del David e

Geremia laterali all'altare, 1643-1654),

cicli di affreschi di Paolo De Matteis e

Belisario Corenzio. Sul lato destro inve-

ce vi sono tele di Luca Giordano (San

Francesco Saverio trova il Crocifisso in

mare, Il Santo caricato dalle croci ed Il

Santo che battezza gli indiani, tutte del

1690-92, poste rispettivamente in alto

a sinistra, al centro ed a destra della

cappella), un dipinto di Fabrizio Santa-

fede sulla parete di destra, ed ancora

cicli di affreschi del Corenzio e del De

Matteis, mentre del Fanzago sono le

due sculture ai lati dell'altare raffigu-

ranti Sant'Ambrogio e Sant'Agostino,

entrambe databili 1621. Sul lato destro

del transetto, inoltre, vi è una porta

d'accesso alle antiche stanze private di

Giuseppe Moscati, con esposti tra l'al-

tro anche alcuni manoscritti del santo, Interno Chiesa del Gesù Nuovo

Page 38: Non è la solita guida

75

sue fotografie storiche ed alcuni rosari.

Nella navata destra si aprono tre cap-

pelle ed una cappella più grande che

corrisponde alla parte terminale del

transetto: la prima cappella presenta ,

al suo interno, decorazioni marmoree

di Costantino Marasi e Vitale Finelli e

dipinti di Giovanni Bernardino Azzolino;

la seconda è dedicata a San Giuseppe

Moscati e conserva un dipinto all'altare

di Massimo Stanzione; il Cappellone di

San Francesco Saverio è ornato da di-

pinti di Luca Giordano, la decorazione

marmorea è di Giuliano Finelli, Donato

Vannelli e Antonio Solaro mentre le

sculture sono di Michelangelo Naccheri-

no e Cosimo Fanzago; la cappella a

destra del presbiterio è arricchita con

decorazioni di Angelo Mozzillo e Seba-

stiano Conca, mentre i marmi furono

disegnati nel XVIII secolo da Giuseppe

Astarita; l’ultima cappella, che funge

da abside destro, presenta ornamenti

di Belisario Corenzio e marmi di Co-

stantino Marasi.

Nella navata sinistra, con stesso sche-

ma di quella destra, si aprono le cap-

pelle: la prima presenta una decorazio-

ne del Marasi, una tela dell'Azzolino e

affreschi di Corenzio; la seconda è im-

preziosita con decorazioni di Corenzio

e di Girolamo Imparato ed inoltre con

statue di Michelangelo Naccherino,

Pietro Bernini e Girolamo D'Auria; il

Cappellone di Sant'Ignazio fu decorato

da Cosimo Fanzago, Costantino Marasi e

Andrea Lazzaro, mentre le statue furo-

no eseguite dal Fanzago e le tele sono

dello Spagnoletto e di Paolo De Mat-

teis; la cappella di sinistra del presbi-

terio ha decorazioni di Giovanni Batti-

sta Beinaschi e Francesco Mollica; la

cappella che funge da abside sinistro

presenta marmi disegnati da Giuseppe

Bastelli, Domenico di Nardo, Donato

Gallone e affreschi di Francesco Soli-

mena.

L'organo a canne della chiesa è stato

costruito da Gustavo Zanin nel 1989

riutilizzando la cassa barocca e parte

del materiale fonico del precedente

strumento secentesco, che era stato

realizzato, invece, da Pompeo de

Franco.

Il portale marmoreo , pur avendo subi-

to delle modifiche per volontà dei ge-

suiti, è originario del Palazzo di Sanse-

verino e risale al XIV secolo. Essi ag-

giunsero, lateralmente, due colonne

prolungando la cornice ed il frontone

fu spezzato per inserirvi uno scudo

ovale che ricorda la generosità della

principessa di Bisignano, Isabella Fel-

tria della Rovere. Alla sommità latera-

Organo a canne—Gesù Nuovo

76

le furono apposti gli stemmi dei Sanse-

verino e dei della Rovere e sull'archi-

trave un altro fregio con cinque testine

che sorreggono dei festoni di frutta.

La facciata della Chiesa del Gesù Nuo-

vo è caratterizzata da particolari bu-

gne, una sorta di piccole piramidi ag-

gettanti verso l'esterno, tipèiche del

Rinascimento veneto e pittosto insolite

nel Meridione. Guardando attentamen-

te il bugnato della Chiesa è impossibile

non notare dei segni, quasi un alfabe-

to, che si ripetono in maniera ordinata

quasi a scandire un ritmo. Per tanto

tempo gli studiosi si sono interrogati su

quelle incisioni, realizzate dai taglia-

pietra napoletani che avevano inciso la

dura pietra di piperno, chiedendosi

quale fosse il messaggio in esse nasco-

sto.

Nel Rinascimento esistevano a Napoli

alcuni maestri della pietra che si cre-

deva fossero in grado di caricarla di

energia positiva per tenere lontane le

energie negative. Gli strani segni incisi

che si riconoscono sulla facciata ai lati

delle bugne "a punta di diaman-

te" (disposti in modo che sembrasse si

ripetessero secondo un ritmo particola-

re che lasciasse intuire una “chiave” di

lettura occulta) hanno dato luogo ad

una curiosa leggenda.

La leggenda vuole che Roberto sanseve-

rino avesse voluto che ,a partecipare

alla realizzazione dell’opera , ci fosse-

ro i maestri pipernieri che avevano

anche conoscenza di segreti esoterici

capaci di caricare la pietra di energia

positiva. Tali segreti, gelosamente e

attentamente custoditi, venivano tra-

mandati da maestro ad adepti solo in

seguito ad un giuramento: nessuno di

loro avrebbe dovuto svelare quelle co-

noscenze.

I segni misteriosi graffiti sulle piramidi

della facciata, secondo la leggenda,

avevano a che fare con queste arti ma-

giche o conoscenze alchemiche. Essi

dovevano convogliare tutte le forze

positive e benevole dall'esterno verso

l'interno del palazzo. Per imperizia o

malizia dei costruttori, queste pietre

segnate non furono piazzate corretta-

mente, per cui l'effetto fu esattamente

opposto: tutto il magnetismo positivo

veniva convogliato dall'interno verso

l'esterno dell'edificio, attirando così

ogni genere di sciagure sul luogo.

Questa sarebbe la ragione per cui nel

corso dei secoli tante sventure si sono

abbattute su quell'area: dalle confische

dei beni ai Sanseverino, alla distruzione

del palazzo, dall'incendio della chiesa,

ai ripetuti crolli della cupola, alle varie

Bugnato facciata del Gesù Nuovo

Page 39: Non è la solita guida

77

cacciate dei Gesuiti, e così via.

Nel 2010 però, lo storico dell'arte Vin-

cenzo De Pasquale e i musicologi un-

gheresi Csar Dors e Lòrànt Réz hanno

identificato nelle lettere aramaiche

incise sulle bugne, note di uno spartito

costituito dalla facciata della chiesa,

da leggersi da destra verso sinistra e

dal basso verso l'alto. Si tratta di un

concerto per strumenti a plettro della

durata di quasi tre quarti d'ora, cui gli

studiosi che l'hanno decifrato hanno

dato il titolo di Enigma.

Questa interpretazione è stata messa in

discussione dallo studioso di ermetismo

e simbologia esoterica Stanislao Sco-

gnamiglio, che ha sostenuto che i segni

sulle bugne non siano caratteri dell'al-

fabeto aramaico, ma che invece possa-

no essere sovrapponibili ai simboli ope-

rativi dei laboratori alchemici in uso

fino al Settecento.

Che si tratti di uno spartito musicale o

di un messaggio in codice da trasmette-

re solo a coloro che avessero “occhi per

vedere ed orecchie per sentire” non è

dato sapere; il bugnato del Gesù Nuovo

resta, ancora oggi, avvolto dal mistero.

Un vampiro a spasso per Napoli: Dracu-

la

Napoli terra che ,un tempo, era stata

abitata da maghi, alchimisti e massoni

non poteva lasciarsi scappare la possi-

bilità di ospitare la creatura più oscura

conosciuta nell’immaginario mondiale:

Dracula. Se Virgilio e Raimondo di San-

gro si erano lasciati sedurre dalla magia

nera e ne avevano conosciuto i meandri

più oscuri, ecco che in città giunge

colui che con l’oscurità aveva stretto

un patto: Vlad Tepes .

Vlad nacque in Transilvania nel 1431.

Divenne famoso con il nomignolo di

“L’Impalatore” per la sua abitudine di

impalare i corpi dei suoi nemici. Il suo

patronimico rumeno “Draculea” e il

suo essere un sanguinario e crudele

combattente, ispirarono Bram Stoker

nella realizzazione del famoso romanzo

Dracula.

Impalare i suoi nemici, i traditori o

semplicemente coloro che si mostrava-

no poco inclini a rispettarlo era diven-

tato il suo passatempo preferito tanto

che egli, invento un modo diverso di

impalare le persone a seconda del

misfatto compiuto: a seconda della

colpa, insomma, aumentava la durata

dell’agonia del malcapitato.

La crudeltà dell’Impalatore divenne

famosa in tutta Europa tanto che, si

dice, dopo la sua morte molti avrebbe-

ro pregato in nome suo per

“mantenerlo buono” altri, invece, rac-

contano che ,dopo la sua morte, i ne-

mici gli tagliarono la testa temendo

che potesse tornare in vita.

In realtà il corpo di Dracula non è mai

stato ritrovato.

Negli ultimi tempi , secondo le ricer-

che condotte da alcuni studiosi, è

trapelata la notizia secondo la quale il

corpo del conte potrebbe trovarsi in

una nicchia di Santa Maria la Nova, a

Napoli. Ma perché il sanguinario conte

decise di venire a Napoli? Dopo essere

stato portato a Costantinopoli, secondo

questi studiosi, Vlad fu riscattato da

sua figlia che , avendo sposato un ita-

78

liano, pensò di trovare rifugio per il

padre proprio a Napoli.

Santa Maria la Nova

Nel 1279 Carlo I d’ Angiò concesse ai

francescani , come risarcimento della

struttura che gli era stata confiscata

per la realizzazione del Maschio Angioi-

no, di poter costruire una nuova strut-

tura nella zona in cui sorgeva un vec-

chio torrione difensivo, risalente all’al-

to medioevo. La Chiesa fu chiamata,

Santa Maria la Nova.

Giovanni Pisano progetto la chiesa dan-

dole forme gotiche e dotandola di tre

navate. I terremoti del 1456,1538 e

1569 danneggiarono fortemente la co-

struzione e l’esplosione della polverie-

ra del Castel Sant’Elmo provocò nume-

rosi danni alle decorazioni in legno

dell’edificio.

Tra il 1596 e il 1599, sotto la direzione

di Giovanni Cola, furono realizzati i

restauri. Se consideriamo il breve tem-

po impiegato per il rifacimento della

struttura, possiamo ipotizzare che i

setti murari della chiesa precedente,

siano stati inglobati nei nuovi lavori. Di

sicuro, della vecchia struttura, furono

riutilizzati tufo, piperni e tegole.

Nel 1603 fu realizzato il soffitto ligneo,

nel 1606 fu innalzata la facciata, nel

1620 fu costruito il coro e nel 1663

Cosimo Fanzago lavorò al rinnovo, in

stile barocco, del transetto e del pre-

sbiterio, realizzando il maestoso altare

maggiore.

Tra 1858 e 1859 Federico Travaglini

dovette restaurare le decorazioni in

piperno che, a causa della scarsa ma-

nutenzione, avevano subito un veloce

degrado. Inizialmente Travaglini pensò

di riportare alla luce le antiche decora-

zioni rinascimentali ma, la mancanza di

fondi, lo fece desistere da tale decisio-

ne e lo spinse a rafforzare la decorazio-

ne barocca arricchendola con motivi

nuovi. Egli, inoltre, rafforzò il soffitto a

cassettoni e realizzò gli altari laterali

addossati ai pilastri delle navate.

La facciata della chiesa è composta da

Presunta Tomba di Dracula– santa Santa Maria la Nova

Page 40: Non è la solita guida

79

un doppio registro con quattro pilastri

corinzi e compositi e si raccorda sul

prospetto della cappella di S.Giacomo

della Marca , al centro vi è un portale

in marmo e granito con l’edicola raffi-

gurante la Vergine. A sinistra, nell’an-

golo, vi è una piccola cappella con cu-

pola che era appartenuta ai Fasano .La

scala d’accesso, costituita da una dop-

pia rampa, è stata realizzata con pi-

perno e marmo.

Ciò che colpisce di più, entrando in

chiesa, è il cassettonato, realizzato tra

1598 e il 1603, dove sono collocate tele

realizzate dai principali pittori manieri-

sti attivi a Napoli come, ad esempio,

Francesco Curia, Girolamo Imparato-

Giovanni Bernardino Azzolino, Belisario

Corenzio, Luigi Rodriguez, Cesare Smet

e Tommaso Maurizio. I restauri effet-

tuati nel Novecento spostarono i dipinti

in cassettoni diversi da quelli in cui,

originariamente, erano stati disposti.

L'altare maggiore fu realizzato, se-

guendo il progetto di Cosimo Fanza-

go,nella metà del XVII secolo. Esso

occupa tutta la larghezza del presbite-

rio .

All’interno delle cappelle presenti nel-

la chiesa vi sono dipinti e decorazioni

di numerosissimi artisti attivi a Napoli.

Il chiostro maggiore è caratterizzato da

una pianta quadrata con nove arcate

per lato epresenta resti di antiche de-

corazioni.

Il chiostro più piccolo, invece, risale al

XVI secolo ed ha forma rettangolare. Il

perimetro del chiostro è percorso quasi

interamente da un muretto su cui pog-

giano le colonne ioniche che sorreggo-

no l’ambulacro. Nei quattro punti in

cui il muretto si interrompe, vi sono

delle cancellate realizzate in ferro

battuto.

Sulla volta dell’ambulacro vi sono,

inoltre, affreschi del pittore Simone

Papa che raccontano la vita si San Gia-

como la Marca.

All’interno del chiostro vi sono conser-

vati alcuni monumenti funebri tra i

Interno Santa Maria la Nova Interno Santa Maria la Nova

80

quali, come detto precedentemente, si

nasconderebbe anche quella del conte

Dracula.

Page 41: Non è la solita guida

81

82

La peste del 1656 a Napoli e i suoi luo-

ghi.

La promiscuità, il sovraffollamento, il

mancato rispetto delle più elementari

regole dell’igiene sono state nei secoli

le cause primarie del diffondersi nella

città di Napoli di disastrose epidemie,

che talune volte hanno falciato quote

cospicue della popolazione.

Tra queste il colera sembra essere di-

venuto quasi endemico; esplode sem-

pre d’estate tra luglio ed agosto, quan-

do le temperature raggiungono i loro

picchi annuali e colpisce per primi gli

abitanti dei bassi, dove le precarie

condizioni di vita favoriscono la diffu-

sione del contagio.

Lungo i secoli bui del Medioevo le epi-

demie si susseguivano e si sovrappone-

vano procurando migliaia di decessi:

difterite, tifo, malaria, vaiolo, epatite

e salmonellosi hanno imperversato a

lungo in città ed in provincia.

Tra le epidemie più disastrose bisogna

ricordare quella di peste del 1191, du-

rante l’assedio di Enrico lo Svevo con

migliaia di morti, anche se la vera pe-

ste fu quella del 1656, che dimezzò la

popolazione, spazzando via un’intera

generazione di pittori, mentre i pochi

superstiti ne hanno immortalato scene

indimenticabili, come Micco Spadaro,

che ci ha fornito un’immagine grandio-

sa dell’odierna piazza Dante con una

marea di moribondi, mentre squadre di

monatti compivano il loro triste ufficio

o Carlo Coppola che inquadra gli avve-

nimenti della grande piazza del Merca-

to e Luca Giordano il quale ci mostra

San Gennaro nel pieno della sua attivi-

tà di protettore della città e nel basso

della composizione ci restituisce il par-

ticolare straziante di un bambinello

abbandonato al suo destino dalla madre

morta, che cerca disperatamente nutri-

mento nelle mammelle di una puerpera

da poco spirata. E concludiamo con

Mattia Preti che ebbe l’incarico di ese-

guire sulle porte della città dei gigan-

La peste

Page 42: Non è la solita guida

83

teschi ex voto di ringraziamento per la

cessazione del morbo.

Anche il Settecento fu triste sotto il

profilo delle epidemie e nell’Ottocen-

to, dopo l’Unità d’Italia, in poco più di

venti anni Napoli venne colpita ben

cinque volte dal colera, pagando nel

1865 un tributo di oltre 6000 vittime

alla furia del morbo ed ancora di più

l’anno successivo, fino a quando, dopo

l’ulteriore disastrosa epidemia del

1884, si raccolse l’urlo disperato della

Serao:”Bisogna sventrare Napoli” e si

diede mano alla colossale opera del

Risanamento, ridisegnando interi quar-

tieri.

Del persistere delle epidemie molti

abitanti davano la colpa ai nuovi ammi-

nistratori al punto che in alcuni ospe-

dali circolava il demenziale ritornello:

“Si vulite ca cacammo tuosto, Datece

‘o Rre Nuosto”.

Il colera ha infuriato incontrastato per

decenni, complice il degrado in cui

versava gran parte della città antica,

servita da un acquedotto, che chiamare

vergognoso significava fargli un compli-

mento, perché in molti punti era inqui-

nato dai liquami fognari. Anzi in quasi

tutti i bassi si utilizzava per bere e per

cucinare l’acqua di un pozzo, che

“fraternizzava” con gli escrementi che

scolavano verso la cloaca da un orribile

buco, il quale fungeva in ogni abitazio-

ne da cesso, permettendo il passaggio

verso il basso e l’esterno di feci ed

urine e verso l’alto e l’interno di topi e

zoccole, da cui la necessaria presenza

in ogni basso di una colonia di gatti,

che cercava disperatamente di opporsi

al proliferare dei ratti.

Il periodico presentarsi delle epidemie

di colera provocava numerosi decessi,

per cui fu necessario realizzare nel

1836 un cimitero dedicato unicamente

ai trapassati per via del morbo. Anzi ad

essere più precisi ne vennero creati

due, perché al primo accedevano pre-

valentemente gli appartenenti alle

famiglie illustri della città, mentre al

secondo, un sepolcreto costruito nel

1837 vicino al cimitero delle 366 fosse,

il popolino, che altrimenti sarebbe fini-

to nelle fosse comuni dell’attiguo cimi-

tero realizzato dal Fuga per trovare

un’eterna dimora ai senza dimora ospi-

tati nell’Albergo dei poveri.

E qui si apre un’altra dolorosa ferita

nella conservazione della memoria del-

la città, perché il cimitero, per quanto

conservi le spoglie del gotha dell’ari-

stocrazia napoletana, a partire dai Ca-

racciolo e dai Carafa ed un profluvio di

epigrafi che ci raccontano, con accenti

84

commossi, storie di amore e di soffe-

renza, versa in uno stato di abbandono

deplorevole, con i monumenti funebri

avvolti da un’inestricabile boscaglia

che umilia questa prodigiosa Spoon

River partenopea.

Le colpe di queste infinite epidemie,

che fanno somigliare Napoli ad una

città del terzo mondo, vanno equamen-

te divise tra amministratori ed ammini-

strati, presenti e passati. Nei secoli

nessuno è riuscito a regolare la crescita

tumultuosa della città, cercando di

limitare la sproporzione tra numero

degli abitanti e superficie a disposizio-

ne, per cui una quota significativa della

popolazione è costretta a sopravvivere

in condizioni precarie.

Nella mastodontica opera di ristruttu-

razione del Risanamento vennero ab-

battute 17000 abitazioni e scomparvero

sotto i colpi di piccone anche 64 chie-

se, 144 strade e 56 fondachi. Prese

forma il Rettifilo lungo quasi due chilo-

metri, che tagliò letteralmente in due

il ventre di Napoli, ma non si costruiro-

no come promesso case economiche,

per cui la popolazione più povera fu

costretta a ritornare nei bassi con l’u-

nica differenza che dove abitavano in

sei o otto, dovettero arrangiarsi in die-

ci o dodici.

Piazza Dante

Piazza Dante è una delle più importanti

piazze di Napoli ed è situata nel centro

storico cittadino.

Costituisce l'inizio di via Toledo e, tra-

mite l'accesso a Port'Alba sul lato nord

della piazza, la stessa confluisce lungo

il Decumano maggiore.

In origine era detta Largo del Mercatel-

lo, poiché vi si teneva, fin dal 1588,

uno dei due mercati della città, diffe-

renziandosi con il diminutivo mercatel-

lo da quello più grande ed antico di

piazza del Mercato.

Fino alla metà dell'Ottocento sorgevano

a nord l'edificio delle fosse del grano e

a sud le cisterne dell'olio, per secoli i

principali magazzini di derrate della

città; inoltre vi gravitano uffici, ospe-

dali, istituzioni culturali e rinomatissi-

mi bar.

Ulteriore importanza fu l'apertura

"ufficiale" di port'Alba nel 1625, ufficia-

le perché la popolazione aveva creato

nella muraglia un pertuso abusivo per

facilitare le comunicazioni con i borghi,

in modo particolare con quello dell'Av-

vocata che si stava rapidamente in-

grandendo.

La piazza assunse l'attuale struttura

nella seconda metà del Settecento, con

l'intervento dell'architetto Luigi Vanvi-

telli; il "Foro Carolino" commissionato-

gli doveva costituire un monumento

celebrativo del sovrano Carlo III di Bor-

bone. I lavori durarono dal 1757 al

1765, e il risultato fu un grande emici-

clo, tangente le mura aragonesi, che

visto orizzontalmente inglobava Port'Al-

ba a ovest, e affiancò la chiesa di San

Michele ad est.

L'edificio, con le due caratteristiche ali

ricurve, vede in alto la presenza di

ventisei statue rappresentanti le virtù

di Carlo (tre sono di Giuseppe Sanmar-

tino, le altre di scultori carraresi), e al

centro una nicchia che avrebbe dovuto

Page 43: Non è la solita guida

85

ospitare una statua equestre del sovra-

no (che non fu mai realizzata), oltre a

un torrino d'orologio, di epoca successi-

va.

Dal 1843 la nicchia centrale costituisce

l'ingresso al convitto dei gesuiti, dive-

nuto nel 1861 Convitto nazionale Vitto-

rio Emanuele II, ospitato nei locali

dell'antico convento di San Sebastiano

e di cui sono ancora visibili i due chio-

stri (la cupola della chiesa è crollata

nel maggio 1941); il più piccolo e anti-

co è rara testimonianza della Napoli tra

età romanica e gotica, il maggiore con-

serva la strutture cinquecentesche.

Al centro della piazza si erge una gran-

de statua di Dante Alighieri, opera de-

gli scultori Tito Angelini e Tommaso

Solari junior, inaugurata il 13 luglio

1871 (data dalla quale la piazza è inti-

tolata al sommo poeta) e collocata su

un basamento disegnato dall'ingegner

Gherardo Rega. Oggi ai suoi lati, più

defilate, ci sono le vetrate delle uscite

della linea 1 della metropolitana. La

piazza è stata ridisegnata e riarredata

proprio in occasione dei lavori per la

metropolitana, conclusi nel 2002. L'in-

tero emiciclo è divenuto così area pe-

donale.

Ancora, presso la piazza sono presenti

quattro monumentali chiese: in senso

antiorario da nord quella dell'Immaco-

lata degli Operatori Sanitari, di Santa

Maria di Caravaggio, di San Domenico

Soriano e di San Michele a Port'Alba.

Sul lato opposto all'emiciclo sono situa-

ti oltre alle chiese di Santa Maria di

Caravaggio e San Domenico Soriano

anche i rispettivi ex-conventi: il primo

divenne sede dell'istituto per ipoveden-

ti fondato da Domenico Martuscelli

(ricordato con un suo busto scolpito nel

1922 da Luigi De Luca e collocato nei

giardinetti della piazza) per poi diven-

tare sede della Seconda Municipalità di

Napoli. Il secondo convento è oggi sede

degli uffici anagrafici del Comune.

Tra i due ingressi è situato il palazzo

Ruffo di Bagnara con annessa cappella

privata mentre sul lato sinistro di

Port'Alba il palazzo Rinuccini. Poco

distante dalla piazza al numero civico

7 di vico Luperano, la villa Conigliera,

quest'ultima fatta edificare durante

l'epoca aragonese.

Dopo i lavori di realizzazione della

Stazione Dante della Linea 1, l'emiciclo

della piazza è stato totalmente pedo-

nalizzato. Nel settembre 2011, la piaz-

za è stata completamente inibita al

traffico privato per scoraggiare l'uso

86

dell'automobile in città, divenendo una

corsia preferenziale ad uso esclusivo

dei mezzi pubblici. Successivamente,

dall'estate del 2013, la chiusura al traf-

fico è stata ridotta dalle 9 alle 18 di

tutti i giorni, trasformandosi così in

ZTL.

Basilica di San Gennaro fuori le mura

La Basilica di San Gennaro Fuori le Mu-

ra si trova in Vico San Gennaro dei Po-

veri.

La basilica di San Gennaro Fuori le Mu-

ra deve il suo nome al luogo di costru-

zione, scelto al di fuori delle mura del-

la città per tenerla lontana dal mondo

pagano. La sua edificazione risale al V

secolo, nella zona delle Catacombe di

San Gennaro, probabilmente come ri-

sultato dell'unione di due preesistenti

siti cimiteriali di epoche diverse: uno

del II secolo in cui era conservato il

corpo di Sant'Agrippino, primo patrono

di Napoli, e un altro del IV secolo che

ospitò le spoglie di San Gennaro fino

alla loro prima traslazione nel IX seco-

lo.

L'edificio rappresenta un'altra buona

testimonianza di architettura paleocri-

stiana, anche se ha subito alcune modi-

fiche nei secoli successivi alla sua edifi-

cazione, soprattutto tra il IX e il XV

secolo; inoltre, nel XVII secolo fu re-

staurata e modificata secondo il gusto

barocco, diventando prima un ospedale

per gli appestati e, poi, un ospizio per i

poveri. Nel 1892 la volta fu sostituita

con un soffitto a capriate, mentre in un

restauro di inizio Novecento si tentò di

recuperare la struttura originaria elimi-

nando alcune modifiche fatte in prece-

denza.

Il risultato è un ibrido tra molti stili;

per esempio, l'interno, con una struttu-

ra a 3 navate, richiama quello tardo

gotico e presenta un'abside semicirco-

lare paleocristiana, sorretta da due

colonne corinzie.

Le opere d'arte che erano contenute

nella basilica, sono state traslate nel

Museo Civico di Castel Nuovo per motivi

Page 44: Non è la solita guida

87

di sicurezza.

Chiesa di Sant'Agnello Maggiore

La chiesa di Sant'Agnello Maggiore,

detta anche Sant'Aniello a Caponapo-

li o Santa Maria Intercede, è una delle

più antiche chiese monumentali

di Napoli; si trova nel centro storico

della città.

Sant'Agnello, oggi, è compatrono della

città di Napoli; secondo la tradizione è

sepolto proprio in questa chiesa, seb-

bene altre fonti sostengono che sia

stato sepolto nella cattedrale di Lucca.

La storia di questo tempio è stretta-

mente legata a quella

di sant'Agnello che fuvescovo di Napoli

nel VI secolo. Il santo fu un accanito

difensore della città contro l'assedio

dei Longobardi. Secondo un'antica tra-

dizione, i genitori del santo avrebbero

già eretto in quel luogo una chiesetta;

questa, fu dedicata a santa Maria Inter-

cede e venne costruita come voto di

ringraziamento allaVergine per aver

concesso loro la grazia della nascita di

un erede. L'edificio sorse sul luogo di

un'antica acropoli, dove sono stati sco-

perti resti risalenti al IV secolo.

Morto il santo alla fine del secolo, la

chiesa cambiò il nome in "Santa Maria

dei Sette Cieli". Nel IX secolo, il vesco-

vo Attanasio di Napoli vi fece erigere

un nuovo edificio religioso dedicandolo

all'abate e fece trasportare le sue reli-

quie nella chiesa. Nel corso

del Medioevo, il culto divenne sempre

più importante e dalla fine del XIII se-

colofu governata da un rettorato che

durò fino al 1517, anno in cui si unì

ai canonici regolari della Congregazio-

ne del Santissimo Salvatore lateranen-

se.

Dal secondo decennio del XVI secolo, la

chiesa fu completamente rifatta ed

ampliata ad opera dell'arcivesco-

vo Giovanni Maria Poderico. Il transet-

to, che anticamente era la chiesa di

Santa Maria Intercede, fu ampliato

prima dei lavori d'inizio del nuovo cor-

po di fabbrica; i lavori iniziarono

nel 1517 e terminarono nel XVIII seco-

lo, in questo lasso di tempo furono

commissionate opere di grande valore

come l'altare maggiore di Girolamo

Santacroce (Nola, 1502 – Napoli, 1537).

Negli interventi tardo-settecenteschi

eseguiti dall'architetto Giovanni Batti-

sta Pandullo, l'altare fu portato più

avanti rispetto all'originaria posizione e

le spoglie del santo furono traslate

nella cappella a lui dedicata. Altri in-

terventi sono di Vincenzo Martino, che

rifece il pavimento in terracotta e il

cassettonato; coeva a quiesti interven-

ti è una cisterna ritrovato insieme agli

scavi archeologici.

Il 7 agosto 1809 fu soppresso l'ordine

monastico e il 12 gennaio 1813 i locali

del monastero furono venduti dal Mini-

88

stero delle Finanze ad un certo Cosimo

d'Orazio; nel 1856 il Ministero dell'In-

terno ne curava la manutenzione. Dopo

i restauri eseguiti nel XIX secolo,

nel 1903, si ipotizzò la demolizione

della chiesa che però non fu mai attua-

ta. Nel 1913, la parrocchia fu trasferita

nella chiesa di Santa Maria di Costanti-

nopoli per le precarie condizioni stati-

che dell'edificio. Nel 1944 la chiesa fu

danneggiata dai bombardamenti e

nel 1962 fu restaurata con il ripristino

della copertura e con la scoperta di

resti dell'acropoli. Nel 1980 fu danneg-

giata dal sisma e nuovamente restaura-

ta. Nel corso degli anni la chiesa ha

subito atti vandalici come furti delle

opere d'arte e marmi.

Nel 2011, dopo un lungo lavoro di re-

stauro, la chiesa è stata riaperta.

Piazza del Mercato e Piazza del Carmi-

ne

Piazza del Mercato (già Foro Magno,

detta comunemente piazza Mercato) è

una delle piazze storiche di Napoli,

situata nel quartiere Pendino, a pochi

passi dal quartiere Mercato.

Confina con piazza del Carmine e con

l'attigua basilica del Carmine Maggiore.

Oggi è una delle maggiori piazze della

città, ma in origine non era altro che

uno spiazzo irregolare esterno al peri-

metro urbano, chiamato Campo del

moricino (o muricino) "perché

«attaccato» a mura divisorie della cinta

muraria cittadina".

Gli Angioini ne fecero un grande centro

commerciale cittadino: infatti

nel 1270 sotto Carlo I d'Angiò la sede

mercatale della città fu spostata dalla

piazza di San Lorenzo (cioè piazza San

Gaetano, che lo ospitava sin dall'età

greco-romana) in una zona extra-

moenia, appunto il campo del morici-

no, che d'ora in poi sarà detto mercato

di Sant'Eligio e principalmente foro

magno, snodo fondamentale dei traffici

provenienti dalle più importanti basi

commerciali italiane ed europee e vo-

lano dello sviluppo urbanistico della

fascia costiera.

Ivi si svolgevano le esecuzioni capitali,

a partire dal-

la decapitazione di Corradino di Svevia,

il 29 ottobre 1268, fino a quelle

dei giacobini dopo la soppressione del-

la Repubblica Napoletana del 1799.

La piazza, poi, è particolarmente cele-

bre per essere stata il luogo dove ebbe

inizio la rivoluzione di Masaniello, il

quale nacque e visse in una casa alle

spalle della piazza, dove oggi, in sua

memoria, è murata, dal 1997, un'epi-

grafe che recita le seguenti parole:

“In questo luogo era la casa dove nac-

que

il XXIX giugno MDCXX

Page 45: Non è la solita guida

89

Tommaso Aniello D'Amalfi

e dove dimorava quando fu capitano

generale

del popolo napoletano”

Nel 1781 le numerose botteghe in legno

che costellavano la piazza presero fuo-

co dopo uno spettacolo pirotecnico. Su

volontà di re Ferdinando IV di Borbo-

ne si procedette alla realizzazione di

un'esedra che lambisse il perimetro

della piazza e che desse alle attività

commerciali una degna sistemazione. Il

progetto fu guidato dall'architet-

to Francesco Sicuro, il quale realizzò

anche la chiesa di Santa Croce e Purga-

torio unendo in un solo edificio le pree-

sistenti chiese di Santa Croce e Purga-

torio distrutte dall'incendio e inoltre

tre fontane che avrebbero decorato la

piazza.

I bombardamenti alleati durante la

seconda guerra mondiale danneggiaro-

no gravemente la zona portuale e in

particolare la piazza e i suoi stretti

dintorni. Nel 1958 a sud della piazza fu

realizzato il cosiddetto palazzo Ottieri

(il più simbolico degli edifici che il co-

struttore edile Mario Ottieri realizzò

negli anni della speculazione edili-

zia laurina per tutta la città) che si

sostituì agli antichi edifici e al corri-

spondente reticolato viario. L'enorme

palazzo si presentò subito come una

barriera visiva che la separava dalla

vicina piazza del Carmine.

La piazza è ornata da due settecente-

sche fontane-obelischi (sul lato est e

sul lato ovest), ed è inoltre abbellita

dalla presenza al centro dell'esedra

settecentesca dellachiesa di Santa Cro-

ce e Purgatorio al Mercato. Le fontane

e la chiesa, nonché l'esedra che con-

torna la piazza sono di Francesco Sicu-

ro. Sono visibili dalla piazza la Chiesa

di Sant'Eligio Maggiore e la Basilica

santuario di Santa Maria del Carmine

Maggiore.

In piazza vi erano altre tre fontane.

Una era la fontana dei Delfini, dalla

quale si crede

che Masaniello arringasse la folla. Il

monumento fu acquistato nel 1812 dal

comune di Cerreto Sannita nella cui

piazza principale è oggi ospitato.

La seconda fontana fu eretta

nel 1653 sotto il viceregno del conte

di Ognatte, Iñigo Vélez de Guevara.

Progettata da Cosimo Fanzago, era

detta fontana maggiore ed era colloca-

90

ta sul lato destro della piazza. Fu re-

staurata da Francesco Sicuro nel1788.

Oggi non è più esistente.

La terza fontana è la fontana dei Leoni,

la terza fontana che Sicuro realizzò

nella piazza. Dagli anni trenta del XX

secolo è visibile nei giardini del Molosi-

glio.

Cimitero delle fontanelle

Il cimitero delle Fontanel-

le (in napoletano 'O campusanto d' 'e

Funtanelle) è un antico cimitero della

città di Napoli, situato in via Fontanel-

le.

Chiamato in questo modo per la pre-

senza in tempi remoti di fonti d'acqua,

il cimitero accoglie 40.000 resti di per-

sone, vittime della grande peste del

1656 e del colera del 1836.

Il cimitero è molto noto anche perché

vi si svolgeva un particolare rito, detto

delle "anime pezzentelle", che preve-

deva l'adozione e la sistemazione di un

cranio (detta «capuzzella»), al quale

corrispondeva un'anima abbandonata

(«pezzentella» quindi) in cambio di

protezione.

L'antico ossario si sviluppa per circa

3.000 m2, mentre le dimensioni della

cavità sono stimate attorno ai 30.000

m3.

Si trova all'estremità occidentale del

vallone naturale della Sanità, uno dei

rioni di Napoli più ricchi di storia e tra-

dizioni, appena fuori dalla città greco –

romana, nella zona scelta per la necro-

poli pagana e più tardi per i cimiteri

cristiani. Il sito conserva da almeno

quattro secoli i resti di chi non poteva

permettersi una degna sepoltura e,

soprattutto, delle vittime delle grandi

epidemie che hanno più volte colpito la

città.

In quest'area, situata tra il vallone dei

Girolamini a monte e quello dei Vergini

a valle, erano dislocate numerose cave

ditufo, utilizzate fino al 1600 per repe-

rire il materiale, il tufo, appunto, per

costruire la città.

Lo spazio delle cave di tufo fu usato a

partire dal 1656, anno della peste, che

provocò almeno trecentomila morti,

fino all'epidemia di colera del 1836.

A tali resti si aggiunsero nel tempo

anche le ossa provenienti dalle cosid-

dette "terresante" (le sepolture ipogee

delle chiese che furono bonificate dopo

l'arrivo dei francesi di Gioacchino Mu-

rat) e da altri scavi.

Il canonico ed etnologo Andrea de Jo-

rio, nel 1851 direttore del ritiro di San

Raffaelea Materdei, racconta che verso

la fine del Settecento tutti quelli che

avevano i mezzi lasciavano disposizioni

per farsi seppellire nelle chiese. Qui

però spesso non vi era più spazio suffi-

ciente; accadeva, allora, che i becchi-

Page 46: Non è la solita guida

91

ni, dopo aver finto di aderire alle ri-

chieste e aver effettuato la sepoltura,

a notte fonda, posto il morto in un sac-

co, se lo caricassero su una spalla e

andassero a riporlo in una delle tante

cave di tufo.

Tuttavia, in seguito alla improvvisa

inondazione di una di queste gallerie, i

resti vennero trascinati all'aperto por-

tando le ossa per le strade. Allora le

ossa furono ricomposte nelle grotte,

furono costruiti un muro ed un altare

ed il luogo restò destinato ad ossario

della città.

Secondo una credenza popolare uno

studioso avrebbe contato, alla fine

dell'Ottocento, circa otto milioni di

ossa di cadaveri rigorosamente anoni-

mi. Oggi si possono contare 40.000 re-

sti, ma si dice che sotto l'attuale piano

di calpestio vi siano compresse ossa per

almeno quattro metri di profondità,

ordinatamente disposte, all'epoca, da

becchini specializzati.

Nel marzo 1872 il cimitero fu aperto al

pubblico e affidato dal Comune al ca-

nonico Gaetano Barbati, ritenuto erro-

neamente parroco di Materdei, il qua-

le, con l'aiuto del Cardinale Sisto Riario

Sforza, eseguì una sistemazione dei

resti secondo la tipologia delle ossa

(crani, tibie, femori) e organizzò a mo'

di chiesa provvisoria la prima cava, in

attesa che fosse costruito un tempio

stabile.

Negli anni sessanta, gli anni del Conci-

lio Vaticano II, il parroco della chiesa

delle Fontanelle Don Vincenzo Scanca-

marra preoccupato per

il feticismo insito nel culto delle "anime

pezzentelle" chiese consiglio all'arcive-

scovo di Napoli, il cardinaleCorrado

Ursi, sul problema. Il 29 luglio 1969 un

decreto del Tribunale ecclesiastico per

la causa dei santi proibì il culto indivi-

duale delle capuzzelle, oggetto di una

fede pagana, consentendo che fosse

celebrata una messa al mese per le

anime del purgatorio e che fosse ese-

guita una processione al suo interno

ogni 2 novembre, giorno della comme-

morazione dei defunti. Non fu la deci-

sione delle istituzioni religiose, ma il

progressivo oblio devozionale a far

scivolare il cimitero nel dimenticatoio.

Per anni in stato di abbandono, fu mes-

so in sicurezza e riordinato nel marzo

del 2002, ma mai riaperto al pubblico

se non per pochi giorni l'anno, specie in

occasione del Maggio dei Monumen-

ti napoletano.

Il 23 maggio 2010 una pacifica occupa-

zione degli abitanti del rione ha con-

vinto l'Amministrazione Comunale a

riaprirlo. Da quel giorno il cimitero è

realmente di nuovo accessibile.

Il cimitero è scavato nella roccia tufa-

cea gialla della collina di Materdei. È

formato da tre grandi gallerie a sezio-

ne trapezoidale, in direzione N-S, con

un'altezza variabile tra i 10 e i 15 m e

lunghe un centinaio di metri collegate

da corridoi laterali. Queste gallerie,

per la loro maestosa grandezza, sono

chiamate navate come quelle di una

basilica. Ogni navata ha ai propri lati

delle corsie dove sono ammucchiati

teschi, tibie e femori e ha un proprio

nome: la navata sinistra è detta navata

dei preti perché in essa sono depositati

92

i resti provenienti dalle terresante di

chiese e congreghe; la navata centrale

è detta navata degli appestati perché

accoglie le ossa di quanti perirono a

causa delle terribili epidemie che colpi-

rono la città (la peste su tutte, in spe-

cial modo quella del 1656); infine la

navata destra è detta navata dei pez-

zentielli perché in essa furono poste le

misere ossa della gente povera.

L'ingresso principale è attraverso una

cavità sulla destra della piccola chiesa

di Maria Santissima del Carmi-

ne, costruita sullo scorcio del XIX seco-

lo a ridosso delle cave di tufo. Già alla

fine del Settecento si registrò una pri-

ma sommaria sistemazione dei resti e si

assistette al concretizzarsi di numerose

stuoie e sudari di ossa.

I resti anonimi si moltiplicarono col

passare degli anni ed è qui che conflui-

rono, oltre alle ossa trasferite dal-

le terresante, anche i corpi dei morti

nelle epidemie. Alla fine dell'Ottocento

alcuni devoti, guidati da padre Gaetano

Barbati, disposero in ordinate cataste

le migliaia di ossa umane ritrovate nel

cimitero.

Da allora è sorta una spontanea e signi-

ficativa devozione popolare per questi

defunti, nei quali i fedeli identificano

le anime purganti bisognose di cura ed

attenzione. Alcuni teschi furono quindi

"adottati" da devoti che li allocarono in

apposite teche di legno, identificandoli

anche con un nome e con una storia,

che affermavano essere svelati loro in

sogno. Per lunghi anni, il cimitero è

stato teatro di questa religiosità popo-

lare fatta di riti e pratiche del tutto

particolari.

Si vuole che qui riposino anche i resti

del poeta Giacomo Leopardi, morto

durante il colera del 1836. In realtà il

poeta fu inumato prima nella cripta,

poi nell'atrio della chiesa di San Vita-

le fino a quando nel 1939 fu spostato

al Parco Vergilianoanche se sui resti di

Leopardi esiste tuttora un caso.

In esso furono collocate le ossa ritrova-

te nel corso della sistemazione di via

Toledo degli anni 1852-1853, risalenti

alla peste del 1656. Ed ancora,

nel 1934, vi furono collocate le ossa

ritrovate ai piedi del Maschio Angioi-

no durante i lavori di sistemazione

di via Acton e quelle provenienti dalla

cripta della chiesa di San Giuseppe

Maggiore demolita nello stesso anno,

come ricordano due lapidi ben visibili

nella prima ala destra del cimitero.

Alla fine dell'Ottocento, dinanzi all'in-

gresso principale della cava, viene

eretta lachiesa di Maria Santissima del

Carmine. Il tempio sostituisce la cap-

pella ricavata all'interno della cava,

regolarmente utilizzata per le celebra-

zioni liturgiche fino aglianni ottan-

ta (anche se alcune celebrazioni sono

state svolte recentemente).

La chiesa interna è accessibile dalla

prima ala a sinistra ed è longitudinal-

mente appartenente in toto alla navata

sinistra. Alla destra dell'ingresso, in una

specie di atrio dominato dall'abside

della nuova chiesa, è collocata la ripro-

duzione della grotta di Lourdes, dove si

trovano la statua dell'Immacolata e

di Bernadette.

All'interno, a sinistra si trovano due

Page 47: Non è la solita guida

93

bare con gli unici scheletri ben visibili

dentro il cimitero, entrambi vestiti.

Sono le spoglie di una coppia di nobi-

li: Filippo Carafa conte di Cerreto, dei

duchi di Maddaloni, morto ad ottanta-

quattro anni nel 1793 e sua moglie,

donna Margherita, morta a cinquanta-

quattro anni. Quest'ultima, il cui cranio

si è preservato mummificato, presenta

la bocca aperta e da qui proviene la

diceria che sarebbe morta soffocata da

uno gnocco.

A destra vi è la cappella con la statua

di Cristo deposto che ricalca molto

sommariamente il Cristo vela-

to di Giuseppe Sanmartino. Sulla sini-

stra dell'altare maggiore, su cui cam-

peggia il Crocifisso sagomato, è presen-

te un alto finestrone e un presepe si-

stemato nella prima metà del Novecen-

to, con Maria e Giuseppe a grandezza

naturale. Sotto il finestrone, infine, ci

sono le prime due bare che raccolgono

i resti di ossa (forse di bambini).

La navata dei preti.

Proseguendo nella prima navata subito

a sinistra è stata realizzata la cappella

che ricorda il canonico Gaetano Barba-

ti il quale organizzò le prime squadre

di fedeli per la sistemazione dei resti e

fece inoltre scrivere la lapide sulla

facciata della chiesa, come monito di

pietà cristiana per i posteri.

Ai piedi della statua di Gaetano Barba-

ti vi è una bara in cui sono deposti i

resti di due scheletri posti l'uno accan-

to all'altro e la credenza popolare li

identifica come i due sposi.

Proseguendo, in una cavità sempre a

sinistra, illuminata da un impossibile

raggio di luce, si innalza l'inquietante

figura del Monacone: l'impressionante

statua di San Vincenzo Ferrer col tipico

abito domenicano bianco-nero e deca-

pitata, sulla quale una mano ignota ha

posto un teschio in luogo della te-

sta che fu rimosso dopo i lavori di risi-

stemazione del cimitero.

Nel fondo si trova l'antro forse più no-

to, definito il Tribunale per la presenza

di tre croci con una base di teschi. Qui,

secondo quanto si racconta da almeno

un secolo, si riunivano i vertici della

camorra antica per i famosi giuramenti

di sangue e gli altri riti di affiliazione

e, anche, per emettere le condanne a

morte.

94

La corsia alla destra del tribunale ospi-

ta il teschio più famoso, ovvero quello

del Capitano. Sulla sua figura aleggiano

varie leggende e ad essa è legata anche

quella dei suddetti sposi, situati nella

bara sotto la statua del canonico Bar-

bati.

Non lontano vi è il Calvario, chiamato

così perché il Golgota - il monte dove

spirò Gesù - in aramaico significa te-

schio. Attualmente la sistemazione non

è più quella originaria per via di un'al-

luvione, che determinò la copertura di

fango di quasi tutti i teschi.

La navata degli appestati.

Continuando nella navata centrale,

quella degli appestati, ogni lato è occu-

pato da cataste di teschi che, in base

all'ennesima leggenda, sarebbero stati

ordinati secondo la condizione sociale

dei defunti. Sulla sinistra, nel mezzo

d'un ambiente di grande impatto visivo

ed emozionale, quello che si potrebbe

definire l'ossoteca, una grande cappella

piena di tibie e femori, al cui centro si

erge un Cristo risorto.

Dopo il Calvario sulla sinistra si possono

osservare i teschi adottati e custoditi in

teche di marmo apprestate da chi po-

teva permetterselo, con su scritto: Per

Grazia ricevuta, nome, cognome e l'an-

no di adozione del devoto; chi invece

non aveva possibilità custodiva il te-

schio adottato in una scatola. Poteva

andar bene anche una scatola di biscot-

ti.

Nell'ultimo antro ci sono gli scolatoi,

dove i morti venivano appoggiati per

far colare i liquidi. Sulle pareti sono

ancora ben visibili le grappiate utilizza-

te dai cavamonti per scendere nella

cavità e poter estrarre e lavorare il

tufo.

La leggenda del Capitano.

La prima versione ci racconta che una

giovane promessa sposa era molto de-

vota al teschio del capitano, e che si

recava spesso a pregarlo e a chiedergli

grazie. Una volta il fidanzato di lei,

scettico e forse un po' geloso delle at-

tenzioni che la sua futura moglie dedi-

cava a quel teschio, volle accompa-

gnarla e portandosi dietro un bastone

di bambù, lo usò per conficcarlo

nell'occhio del teschio (da qui l'aition

dell'orbita nera), mentre, deridendolo,

lo invitava a partecipare al loro prossi-

mo matrimonio.

Il giorno delle nozze apparve tra gli

ospiti un uomo vestito da carabiniere.

Page 48: Non è la solita guida

95

Incuriosito da tale presenza, lo sposo

chiese chi fosse e questi gli rispose che

proprio lui lo aveva invitato, accecan-

dogli un occhio; detto ciò si spogliò

mostrandosi per quel che era, uno

scheletro. I due sposi e altri invitati

morirono sul colpo.

L'altra versione raccolta da Roberto De

Simone, mette in scena una leggenda

nera popolare: un giovane camorrista,

donnaiolo e spergiuro, aveva osato pro-

fanare il cimitero delle Fontanelle, ivi

facendo l'amore con una ragazza. A un

tratto sentì la voce del capitano che lo

rimproverava ed egli, ridendosene,

rispose di non aver paura di un morto.

Alle nuove imprecazioni del capitano, il

temerario giovane lo aveva sfidato a

presentarsi di persona, giurando ironi-

camente di aspettarlo il giorno del suo

matrimonio (e intanto giurando in cuor

suo di non sposarsi mai). Però il giova-

ne, dimentico del giuramento, dopo

qualche tempo si sposò. Al banchetto

di nozze si presentò tra gli invitati un

personaggio vestito di nero che nessuno

conosceva e che spiccava per la sua

figura severa e taciturna.

Alla fine del pranzo, invitato a dichia-

rare la sua identità, rispose di avere un

dono per gli sposi, ma di volerlo mo-

strare solo a loro. Gli sposi lo ricevette-

ro nella camera attigua, ma quando il

giovane riconobbe il capitano fu solo

questione di un attimo. Il capitano tese

loro le mani e dal suo contatto infuoca-

to gli sposi caddero morti all'istante.

Donna Concetta: 'a capa che suda

Un'altra capuzzella "di spicco" nel cimi-

tero delle Fontanelle è quella di donna

Concetta, più nota come 'a capa che

suda.

La particolarità di tale teschio, posto

all'interno di una teca, è la sua lucida-

tura: mentre gli altri crani sono rico-

perti di polvere, quest'ultimo è infatti

sempre ben lucidato, forse perché rac-

coglie meglio l'umidità del luogo sot-

terraneo che è stata sempre interpre-

tata come sudore: "Se domandate ai

devoti vi diranno che quell'umidità è

sudore delle anime del Purgatorio".

Gli umori che si depositano su questi

resti sono ritenuti dai fedeli acqua

purificatrice, emanazione dell'aldilà in

quanto rappresentazione delle fatiche

e delle sofferenze cui sono sottoposte

le anime.

Secondo la tradizione, anche donna

Concetta si presta a esaudire delle

grazie; per verificare se ciò avverrà,

basta toccarla e verificare se la propria

mano si bagna.

Il culto delle anime pezzentelle

Le ossa anonime, accatastate nelle

caverne lontano dal suolo consacrato,

sono diventate per la gente della città

le anime abbandonate, cosiddet-

te anime pezzentelle, un ponte tra

l'aldilà e la terra, un mezzo di comuni-

cazione tra i mondi dei morti e i mondi

dei vivi. Queste sono un segno di spe-

ranza nella possibilità di un aiuto reci-

proco tra poveri che scavalca la soglia

della morte: poveri sono infatti i mor-

ti, per il semplice fatto di essere morti

e dimenticati, e poveri i vivi che vanno

a chieder loro soccorso e fortuna.

96

Al teschio, spesso, era associato un

nome, una storia, un ruolo. Ancora

negli anni settanta c'era l'abitudine di

sostare di notte ai cancelli del cimitero

per aspettare le ombre mandate dal

teschio di don Francesco, un cabalista

spagnolo, a rivelare i numeri da giocare

al lotto.

Spesso il napoletano, più che altro don-

ne, si recava sul posto, adottava un

teschio particolare che l'anima le aveva

indicato nel sogno. Da questo punto in

poi il cranio diventava parte della fami-

glia del devoto.

Al camposanto delle Fontanelle, il com-

portamento rituale si esprimeva in un

preciso cerimoniale: il cranio veniva

pulito e lucidato, e poggiato su dei

fazzoletti ricamati lo si adornava con

lumini e dei fiori. Il fazzoletto era il

primo passo nell'adozione di una parti-

colare anima da parte di un devoto e

rappresentava il principio affinché la

collettività adottasse il teschio. Al faz-

zoletto si aggiungeva il rosario, messo

al collo del teschio per formare un cer-

chio; in seguito il fazzoletto veniva

sostituito da un cuscino, spesso ornato

di ricami e merletti. A ciò seguiva l'ap-

parizione in sogno dell'anima prescelta,

la quale richiedeva preghiere e suffra-

gi.

I fedeli sceglievano chi pregare e a chi

offrire i lumini nelle loro visite costanti

e regolari. Solo allora il morto appariva

in sogno e si faceva riconoscere.

In sogno comunque la richiesta delle

anime è sempre la stessa: tutte hanno

bisogno di refrisco, cioè di refrigerio: la

frase ricorrente nelle preghiere rivolte

alle anime purganti era infatti la se-

guente: «A refrische 'e ll'anime d'o pria-

torio».

Si pregava l'anima per alleviare le sue

sofferenze in purgatorio, creando un

vero e proprio rapporto di reciprocità,

in cambio di una grazia o dei numeri da

giocare al lotto. Se le grazie venivano

concesse, il teschio veniva onorato con

un tipo di sepoltura più degno: una

scatola, una cassetta, una specie di

tabernacolo, secondo le possibilità

dell'adottante. Ma se il sabato i numeri

non uscivano o se le richieste non era-

no esaudite, il teschio veniva abbando-

nato a se stesso e sostituito con un

altro: la scelta possibile era vasta. Se il

teschio era particolarmente generoso si

ricorreva addirittura a metterlo in sicu-

rezza, chiudendo la cassetta con un

lucchetto.

I teschi, inoltre, non venivano mai rico-

perti con delle lapidi, perché fossero

liberi di comparire in sogno, di notte.

Secondo la tradizione popolare infatti

l'anima del Purgatorio rivelava in sogno

la sua identità e la sua vita. Il devoto

ritornava allora sul luogo di culto, rac-

contava il sogno, e se l'anima del te-

schio era particolarmente benevola, si

concedeva a tutti di pregare lo stesso

teschio determinando così una sorta di

santificazione popolare.

Utili erano tutti i tipi di segni che pote-

vano venire alle anime. Un primissimo

segno era il sudore, cioè la condensa

da umidità. Se ciò si verificava era se-

gno di grazia ricevuta. Se il teschio non

sudava, questo veniva interpretato

come una sofferenza dell'anima abban-

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97

donata e cattivo presagio. In questo

caso si chiedeva soccorso a Gesù e,

soprattutto, alla Madonna. Ancora oggi

un teschio particolarissimo riguardo a

questo fenomeno è quello di donna

Concetta, insolitamente e costante-

mente lucido.

L'unico mezzo di comunicazione tra i

vivi e i morti era il sogno: dai sogni

spesso nascono così varie personifica-

zioni delle anime pezzentelle, ed ecco

moltiplicarsi le diverse figure di giovi-

nette morte subito prima del matrimo-

nio, di uomini morti in guerra o comun-

que in circostanze drammatiche e sin-

golari.

Il culto fu particolarmente vivo negli

anni del secondo conflitto mondiale e

del primo dopoguerra: la guerra aveva

diviso famiglie, allontanato parenti,

provocato morti, disgrazie, distruzioni,

miseria. Non potendo aspettarsi aiuto

dai vivi, il popolo lo chiedeva ai morti,

e l'evocazione delle anime purganti

diventa insieme la concreta rappresen-

tazione della memoria e la speranza di

sottrarsi miracolosamente all'infelicità

e alla miseria.

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NOTE

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