Date post: | 16-Feb-2019 |
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Salvatore e Maria Giordano
NOSTALGIA DEL PAESE
Ricordi di migranti
Web Edit
SALVATORE GIORDANO, autore – insieme alla sorella
MARIA - dei racconti qui raccolti, è nato in Sicilia, a
Pietraperzia (EN), dove è vissuto fino all’età di vent’anni
circa. Si è poi trasferito a Torino, città in cui vive, ora in
pensione, dove ha esercitato la professione di maestro e
successivamente quella di Dirigente Scolastico.
Nota autobiografica
Pochi anni della mia vita ho vissuto a Pietraperzia, rispetto a quelli ormai passati fuori dal mio paese, da quando lo lasciai per Torino. Ma, nonostante il radicamento nei costumi e nelle consuetudini della nuova realtà, gli impegni privati e pubblici, le nuove amicizie, gli anni trascorsi nella terra natale restano quelli fondativi di quello che sento di essere. Dalla nascita ai dodici anni, anni fondamentali, degli affetti e delle premure familiari, dei giochi, della strada, degli amici d’infanzia, della scuola; e quelli, importantissimi e non meno fondamentali dei primi, dai sedici al trasferimento, meno di un decennio, gli anni intensi delle amicizie più mature e profonde, dei ragionamenti seri, delle riflessioni che hanno indirizzato gli orientamenti e le scelte. Quegli anni, quei luoghi, quelle esperienze, quelle persone, anche se sono venute a mancare le occasioni di più frequenti contatti e comunicazioni, restano i punti fermi di riferimento della mia esistenza: basta un momento di riflessione su me stesso per constatare come immediatamente affiorino i
caratteri e i segni della mia identità e della mia reale appartenenza.
SALVATORE GIORDANO
INTRODUZIONE AI RACCONTI
di Salvatore Giordano
Molti ricordi risvegliò in noi quel viaggio dell’estate 2005 a
Pietraperzia dopo venticinque anni di assenza dal nostro paese.
Rivedere persone e luoghi della nostra infanzia dopo tanto tempo,
con occhi nuovi e nuovi parametri, fu motivo di varie sensazioni e di
momenti di profonda commozione. Il racconto “Storia di una tovaglia
d’altare”, di Maria, prende spunto dall’emozione da lei provata,
mentre, Domenica 21 agosto, partecipavamo alla Messa al Santuario
della Madonna della Cava, dall’aver riconosciuto, nella tovaglia che
addobbava l’altare centrale della chiesa, un lavoro di ricamo che lei
stessa aveva eseguito in età giovanile e che mai più si aspettava di
trovare ancora.
Da tale medesima condizione emotiva nacquero anche la sua
poesia “Ritorno al mio paese” e la mia “Littra a lu me pajisi”, in
dialetto, che inviammo alla Rivista <Pietraperzia>, organo della
rinata “Accademia Cauloniana”, fondata un anno prima, che le
pubblicò. Fu in seguito a tale circostanza che Maria mi passò una
serie di appunti e di bozze di racconti contenuti in una cartellina,
memoria di eventi ed esperienze della sua vita a Pietraperzia, che
era venuta scrivendo per suo diletto, per conservarne ricordo.
Le vicende narrate richiamavano alla mente luoghi, persone,
episodi che avevano segnato la nostra esistenza in famiglia e in paese
nel corso della nostra infanzia e della nostra adolescenza; pertanto
costituivano patrimonio comune di esperienze e di affetti di tutta la
nostra famiglia. Si trattava di rivederli, riordinarli, integrarli e
raccoglierli in un unico libro. Anche questa era un’idea che a Maria
piaceva realizzare. Così ci trovammo a mettere assieme i nostri
ricordi, a precisare, ad ampliare e rielaborare il lavoro ed un certo
numero di racconti uscì sulla Rivista PIETRAPERZIA. La raccolta è
sempre in fieri; altro materiale resta da mettere a punto.
MARIA GIORDANO
Storia di una tovaglia d’altare
di Maria Giordano
Era il 21 di Agosto del 2005, la domenica successiva al ferragosto. In pochi minuti
da Barrafranca eravamo giunti alla Cava. Considerata la rapidità con cui arrivammo,
mi fu spontaneo e immediato ripensare alle condizioni in cui si svolgevano i
pellegrinaggi parecchi anni addietro, quando le strade che dalla provinciale portano al
Santuario erano piene di sabbia. Che fatica seguire la mamma con i piedi che
sprofondavano e gli schizzi che pizzicavano le caviglie, mentre lei percorreva a piedi
scalzi i cinquecento metri dell’ultimo tratto di strada, “per grazia ricevuta”! Sapevo che
la zona era diventata luogo di villeggiatura e di soggiorno estivo di molti pietrini
benestanti che si erano fatta costruire la casa in prossimità del santuario della Madonna
della Cava; rimasi lo stesso sorpresa di vedere la chiesa gremita, anche se era domenica,
tanto da non trovare posto all’interno. Perciò dovemmo rimanere tra la porta di ingresso
e la ringhiera assieme alle mie sorelle, mio fratello, mio cognato Alessandro e ad alcuni
altri fedeli.
Eravamo arrivati in Sicilia qualche giorno prima , il 18 agosto, ed era già stato deciso
che la domenica successiva saremmo andati a messa al Santuario della Cava. Ci
eravamo informati dell’orario: avremmo assistito alla Messa delle ore 10 così da
soddisfare l’obbligo domenicale e compiere un viaggio alla Madonna. Il luogo ci era
molto caro per tradizione familiare, nonni e genitori ce lo avevano fatto conoscere e
venerare fin dalla nostra infanzia.
Celebrò la Messa Monsignor Bongiovanni , che, durante l’omelia, ebbe parole
particolari per i fedeli venuti da fuori ai quali rivolse, con la consueta sua affabilità, un
caloroso benvenuto. A fine Messa don Giovanni intonò il Salveregina in dialetto
pietrino, seguito dal coro unanime di fervore e di entusiasmo di tutti i presenti. Non
nascondo di essermi distratta per qualche momento durante la Messa, inseguendo il
filo dei ricordi che si accavallavano, mentre guardavo gli altari laterali i quadri, gli
addobbi, i banchi con i nomi dei benefattori. Quante cose erano cambiate! L’interno
della chiesa non era più lo stesso per me che portavo impresse le immagini di altri
arredi di altri addobbi…erano spariti i segni che testimoniavano la presenza costante e
devota di nonno Pasquale. Chi sa da quanto tempo erano già stati sostituiti i tendaggi
all’altare di S.Giuseppe che egli aveva fatto fare a sue spese. Uguale, immutabile,
insostituibile, restava invece il dipinto della Vergine col Bambino sopra l’altare
centrale, a sette secoli dal suo miracoloso ritrovamento, a segnare il tempo, a unificare
nella visione di esso la continuità tra il passato, il presente, il futuro.
Una cosa mi colpì in modo particolare facendomi venire i brividi: la tovaglia che
copriva l’altare maggiore. ancora bella, ancora come nuova: possibile dopo tanti anni?
Ero ancora molto giovane quando, insieme alla mamma, la confezionai e ne ricamai
l’orlo. Ne ero rimasta orgogliosa allora; mi commosse molto ritrovarla ancora. Dopo
la Messa don Giovanni ci raggiunse nello spiazzale del Santuario mentre stavamo
salutando conoscenti e amici che avevamo avuto la sorpresa e la gioia di incontrare. Ci
abbracciò con l’ abituale ed inconfondibile sorriso nel suo viso di eterno ragazzo e ci
rinnovò il benvenuto unito ad un bonario rimprovero per i nostri venticinque anni di
assenza. La nostra amicizia con monsignor Bongiovanni è un’amicizia di vecchia data,
siamo nati e cresciuti nello stesso quartiere; lui era Gianninu di donna Pasqualina . Sua
madre fu la sarta della nostra famiglia e,.grazie alla sua bravura, di un gran numero di
famiglie pietrine: chi desiderava l’abito da sposa fatto da lei doveva prenotarsi in
tempo. I periodi che precedevano la Pasqua e il ferragosto donna Pasqualina lavorava
giorno e notte per rispettare le scadenze e appagare i desideri delle numerose clienti. Il
suo atelier era frequentato da molte ragazze che, mentre aiutavano, apprendevano
l’arte. Era una donna molto paziente, donna Pasqualina, non si adirava mai nemmeno
con le clienti più fastidiose, e piena di fede in Dio: il sacerdozio del suo primogenito
Giannino fu per lei un premio del Signore. Ricordai queste cose a don Giovanni mentre
parlavamo facendolo commuovere. Tra l’altro portai il discorso sulla tovaglia che quel
giorno addobbava l’altare maggiore. Gli dissi che mi era piaciuta e gli chiesi se ne
conosceva l’origine. Mi spiegò che in effetti quella tovaglia era la più bella del corredo
del santuario e che per mantenerla tale e farla durare nel tempo la adoperava soltanto
per le feste solenni dedicate alla Madonna, per certi matrimoni e durante le domeniche
delle ferie estive per rendere la chiesa più bella agli occhi dei pietrini emigrati devoti
della Madonna, che tornavano in paese, e ai numerosi turisti. Circa l’origine aggiunse
che più volte se l’era chiesto, ma che di quel paramento non conosceva la provenienza.
Gli raccontai così l’origine di quella tovaglia che aveva interessato due continenti. Il
tessuto, fine e prezioso, proveniva infatti dagli Stati Uniti, l’aveva portato, in uno dei
suoi viaggi in Italia, la signora Anna Rindone Pace, nota in paese come Annuzza la
santa . In età non più giovanissima, Annuzza si era sposata con il signor Filippo Pace,
tornato dall’America dove era emigrato da giovane. Dopo tanto tempo egli aveva
deciso di riabbracciare i fratelli, con i quali era rimasto sempre in contatto epistolare, e
fare la conoscenza dei nipoti visti solo in fotografia. Ed essendo vedovo da parecchi
anni aveva anche maturato l’idea di risposarsi al paese natio. In Italia giunse
accompagnato da uno dei suoi due figli, Biagio, già in età di prendere moglie. Fu
così che, durante il loro soggiorno a Pietraperzia, con due cerimonie nuziali a breve
distanza l’una dall’altra, padre e figlio realizzarono quello che era nelle loro intenzioni
già alla partenza dall’America: il padre portò all’altare la signorina Anna Rindone; il
figlio sposò una bella sua cugina, e mia. Dopo un breve periodo di vita insieme, gli
“americani” ripartirono da soli alla volta degli Stati Uniti per essere raggiunti dalle
rispettive spose dopo circa sei mesi , tempo allora previsto dalla burocrazia per il
rilascio del permesso di espatrio. La signora Anna Rindone Pace lasciava in Italia
l’anziano padre e due sorelle, perciò spesso faceva ritorno al paese, trascorreva qualche
mesetto con i suoi cari e faceva poi ritorno dal marito. Durante i suoi soggiorni pietrini
non mancò mai di compiere un viaggio al santuario e di far celebrare una
messa alla Madonna della Cava di cui era molto devota. In una delle sue venute aveva
portato con sé una stoffa bellissima e fine con la quale desiderava far confezionare una
tovaglia per l’altare maggiore della chiesa della Cava. Voleva così dimostrare il suo
attaccamento alla Madonna, lasciando un segno della sua devozione. Fui pertanto felice
di collaborare allora alla realizzazione del suo desiderio e di vedere, oggi , quel dono,
a distanza di tanti anni, conservato ancora e scelto per addobbare l’altare della
Madonna il giorno in cui Pietraperzia dedica la festa più grande alla Sua SS.Patrona.
«Bene», mi disse don Giovanni, «sono contento di conoscere la storia di quella tovaglia
come anche di sapere che è stata ricamata da una mia amica d’infanzia. Avrò piacere
di raccontarlo a chi me lo chiederà e a chi non me lo chiederà».
La nascita
di Maria e Salvatore Giordano
Quella domenica 29 Giugno del …., fu la nonna paterna a dare
l’annuncio della mia nascita all’amica della mamma che la chiamava
per andare a messa, com’era nelle loro abitudini. Si sapeva che il
lieto evento era imminente ma fu ugualmente una sorpresa perché
si verificò con un certo anticipo. L’amica, nostra vicina di casa, disse
che avevo scelto un giorno particolare, il giorno della festa dei santi
Pietro e Paolo. Ed è grazie a tale particolarità che, con maggiore
facilità, ogni anno parecchi sono quelli che si ricordano, il ventinove
di giugno, di farmi gli auguri per il mio compleanno.
Mi fu dato il nome di Maria Cava che era quello della nonna
paterna: le usanze erano quelle e bisognava rispettarle, del resto
quale più bel nome di Maria? L’aggiunta di Cava al nome Maria, (il
suo significato è “della Cava”) è una peculiarità del nostro paese dove
ha grande rilevanza ed è abbastanza diffuso; il nome di Maria Cava
non si riscontra fuori da Pietraperzia, almeno credo
Il motivo di tale particolarità è legato ad un evento miracoloso,
citato anche nella Storia di Pietraperzia di Fra’ Dionigi, che si verificò
quasi otto secoli fa, intorno al 1223 presso una località di campagna
non molto distante dal paese. Tale località, nota per la presenza nella
zona di cave di pietra per costruzione e di sabbia, prima chiamata
Runzi, venne denominata Cava in seguito al ritrovamento, dopo vari
tentativi di scavo, di una immagine della Madonna col Bambino, ad
opera di un giovane sordomuto trapanese a cui la Madonna era
apparsa in sogno. Si tramanda che il muto all’atto di scoprire
l’immagine, ricevendo miracolosamente la parola, si sia messo a
gridare ” Viva Maria SS della Cava”. La lastra di pietra su cui è dipinta
la Madonna mentre allatta il Bambino troneggia, fin dall’epoca del
ritrovamento, sull’altare del piccolo santuario fatto erigere sul luogo
e meta di pellegrinaggi da parte dei pietrini. A Pietraperzia, che
proclamò la Madonna della Cava sua patrona, si sviluppò una
grandissima devozione alla Madonna che si esprime nelle più varie
forme interessando singole persone, famiglie, organizzazioni di
categorie e sodalizi, in ogni periodo dell’anno Tra le forme più
suggestive vanno ricordati i pellegrinaggi del mese di maggio,
organizzati nei giorni di Sabato (da cui I Sabati della Madonna) dalle
varie categorie di lavoratori La festa ricorre il 15 Agosto giorno
dell’Assunta giornata nella quale la devozione dei pietrini riveste la
forma più. solenne.
Furono tutti contenti della mia nascita ed anche del fatto che fossi
una bambina, così mi è stato detto, perché nella famiglia un
maschietto c’era già, il mio fratellino Salvatore che aveva tre anni.
Era stata la nonna Maria Cava ad aiutare la mamma a farmi
nascere: la mamma in quei momenti voleva vicina la suocera che con
la sua serenità le dava sicurezza. Forse la nonna aveva anche delle
attitudini particolari se spesse volte veniva chiamata dalle sue vicine
per essere assistite nel momento del parto.
Ad assistere la mamma durante la mia nascita, assieme alla
nonna, c’era donna Antonietta Attanasio la levatrice che prima di me
aveva fatto nascere il mio fratellino e dopo di me mia sorella Ninetta.
Michela invece, la mia ultima sorella, nata dopo la morte della nonna
paterna, venne al mondo con l‘aiuto di donna Giovannina “la Nuda”,
levatrice amica della nonna materna, nonna Nina. Donna Antonietta
Attanasio era quasi una nostra parente avendo sposato un fratello
della zia Angelina Attanasio moglie del prozio Michele Calì fratello di
bisnonna Francesca. Seppi dalla mamma che donna Antonietta
nell’imminenza di un parto veniva a dormire a casa nostra perché
sapeva che ai primi sintomi noi eravamo pronti a nascere e che se
avesse dovuto partire da casa sarebbe arrivata a parto avvenuto. Il
parto quindi si svolse in modo spontaneo, tutto andò bene come la
prima volta per la mamma, quando era nato mio fratello. Adesso
c’ero anch’io; la nonna annunciò che era arrivata una bambina e
grazie ai sonorissimi strilli che seguirono all’annuncio si capì che
avevo dei bei polmoni. Mamma finalmente poté vedere il mio viso e
fu molto felice; papà, sempre molto equilibrato nel manifestare i suoi
sentimenti, non nascose il suo appagamento. Il corredino era pronto;
la mamma si era molto adoperata a prepararlo aiutata da entrambe
le nonne. Era costituito da camicine giacchettini, scarpette, cuffiette
completati e impreziositi da delicati ricami all’uncinetto che vi aveva
applicato nonna Maria Cava, arte che aveva appreso dalla sua
mamma, la bisnonna Francesca. Nonna Nina, molto abile nel taglio e
cucito, si era invece occupata dei lunghi coprifasce completandoli con
rifiniture in pizzo, il necessario per avvolgere i neonati, i grandi
quadrati di stoffa picchè le lunghe fasce in damasco, lo stesso,
riciclato, che era servito per il mio fratellino. Crescendo ebbi modo di
ammirare parecchi capi dei corredini preparati per noi: mamma li
custodì a lungo; il ritrovarli era occasione per ricordare e raccontare
episodi dei primi momenti e dei primi anni della nostra vita e le
persone che ci erano state vicine. Sentivo così la mamma confermare
molti particolari su di essi e sugli eventi che seguirono, che la nonna
materna mi aveva raccontato nei nostri quotidiani dialoghi: del primo
bagnetto, del piumino soffice col quale mi aveva cosparso di
borotalco, di come mi aveva essa stessa agghindato con il lungo
coprifasce per presentarmi a tutti che volevano vedermi. Non sono
in grado di dare alcun giudizio su come ci si può sentire dentro le
fasce a fine giugno, so che mi era stata risparmiata la tortura della
cuffietta per il troppo caldo. Non mi mancò invece quella dei forellini
ai lobi delle orecchie: era d’obbligo, allora, che una bambina portasse
gli orecchini. Durante tale operazione fui molto irrequieta,
l’intervento non riuscì perfetto e ciò è ancora evidente, il forellino di
un orecchio, infatti, è più alto di quello dell’altro. Non mi mancava
più nulla per entrare in società.
I nonni materni, nonna Nina e nonno Pasquale, non erano in paese
il giorno della mia nascita perciò fu per essi una grande sorpresa al
loro rientro da Marcatobianco trovarmi già nata. I nonni addirittura
credevano di aver anticipato il ritorno dalla campagna rispetto al
giorno previsto dell’evento, pensavano di poter essere vicini alla loro
figlia in un momento così importante ma io ero stata più veloce. Il
loro stupore si mutò subito in gioia, la nonna si sentì alleggerita di
un grosso peso, essa sapeva, come diceva, che la figlia era in buone
mani, la mamma stessa la tranquillizzò su questo.
Come tutti i nonni, mi trovarono bellissima e di più il nonno che
poco esternava i suoi entusiasmi, disse che ero una bambina
speciale. Essendo ora, nonna anch’io capisco benissimo nonno
Pasquale. Per la nonna paterna era un momento propizio, dopo il
maschietto, la femminuccia la quale, cosa importante, portava il suo
nome. La sua gioia si accentuava quando venivo presentata ai parenti
e agli amici che venivano a conoscermi e a felicitarsi, tutti concordi
nell’affermare che somigliavo a papà: di lui il naso, gli occhi; per il
resto ero il ritratto della nonna, il suo.
Gina la Papalia
Le famiglie amiche, i vicini e le persone che ci conoscevano furono
informati del lieto evento da Gina la Papalia. persona idonea a tale
incombenza. E, a parere della mamma, svolse il compito con molta
precisione. Gina era una nostra vicina di casa; abitava una porta
accanto a quella degli zii Calogero e Damiana in via Tortorici Cremona
e noi tutti, delle due famiglie, la consideravamo un’amica di famiglia
e così lei si sentiva a casa nostra. Papalia in realtà era il cognome di
Gina da sposata ma noi avevamo imparato a conoscerla e a
nominarla così. Anche lei quando si riferiva al marito non lo chiamava
con il nome di battesimo, Salvatore o mio marito ma Papalia, il suo
cognome: “questa mattina Papalia è andato a giornata da massaro
Micheli Racchianedda”, diceva, contenta, “meno male, speriamo che
duri”. Subito dopo la guerra la vita era un po’ dura per tutti ma
specialmente per chi non aveva terra da lavorare e doveva andare a
sevizio da altri: fare lu jurnataru, cioè lavorare a giornata; non
c’erano altre attività se non quelle legate alla campagna e
all’esecuzione dei lavori secondo la stagione. Così Papalia provvedeva
a mantenere la famiglia composta dalla moglie e dai loro tre figli:
Salvatore, Luigi e Pasqualino che avevano più o meno la stessa età
di mio fratello, di mio cugino Pasqualino e mia e, perciò, erano anche
nostri amici. Anche Gina si dava da fare per dare una mano a portare
avanti la famiglia per cui spesso aiutava mamma nei lavori domestici,
ella aveva bisogno di essere aiutata e la mamma, sempre sensibile
alle necessità degli altri, la chiamava quando aveva da lavare o da
stirare. Gina veniva anche spontaneamente perché sapeva che a
casa nostra qualcosa da fare c’era sempre. Con la nascita di Michela,
l’ultima sorellina, eravamo diventatati una famiglia numerosa e la
mamma che rispetto alla pulizia era molto esigente, ci voleva sempre
puliti ed ordinati Ricordo che la cucina in muratura della casa di via
Quattro Novembre, d’inverno era sempre accesa perché non
mancasse mai l’acqua calda per le necessità quotidiane. Dopo l’età
della scuola elementare i nostri rapporti con Gina la Papalia e con i
suoi figli si allontanarono. Un rapporto più stretto rimase con la
famiglia di zio Calogero. Quando, negli anni cinquanta venne attuata
la riforma agraria e molte terre di feudatari vennero distribuite ai
contadini, dell’ERAS (Ente Riforma Agraria Siciliana), anche
Salvatore Papalia divenne un assegnatario. Negli appezzamenti
assegnati costruirono anche le case ma non risulta che famiglie vi si
siano trasferite dal paese e continuare l’attività agricola, restava
irrisolto il problema dell’acqua. I primi anni, era sorta anche una
macchina organizzativa gestita da funzionari regionali dell’Ente
(ERAS) che promossero la formazione di una cooperativa degli
assegnatari di cui lo zio Calogero divenne presidente Alcuni ragazzi
figli di assegnatari furono anche mandati a studiare in un istituto
agrario alle porte di Palermo, l’Istituto Castelnuovo per farne degli
agronomi. Ma l’attività della campagna non era attraente, legata a
tradizione di duro lavoro e sacrifici e poco reddito, risultava frustrante
tanto che venne abbandonata. Seguirono gli anni del boom
economico connesso con lo sviluppo delle fabbriche del nord e
dell’emigrazione di massa verso un lavoro sicuro non soggetto alle
condizioni atmosferiche. Anche per la famiglia di Gina le cose
andarono meglio, quando, cresciuti i suoi figli, come molti altri,
lasciarono Pietraperzia e si trasferirono in una città del nord dove
trovare lavoro per i tre figli sarebbe stato più facile. Molto tempo
dopo il loro trasferimento sapemmo che i Papalia abitavano in un
paese della cintura di Torino, a Venaria la famosa cittadina della
reggia dei Savoia, ora meta di numerosi visitatori. Quando
individuammo l’indirizzo telefonico di un Luigi Papalia, e lo
chiamammo, scoprimmo che si trattava proprio del Luigi nostro
amichetto dei primi anni di vita. Nello scambiarci le reciproche notizie
fu triste sapere che Gina non c’era più: Luigi ci disse avrebbe avuto
più di cento anni, calcolammo che era più anziana di mamma di sette
anni. Immaginammo la gioia che avrebbero provato le due vecchie
amiche se avessero potuto incontrarsi. Ma così non era stato scritto.
Il battesimo e i sacristi della Chiesa madre.
Maria e Salvatore Giordano
«Ricevetti il primo sacramento, dice Maria, una settimana esatta
dopo la festività della Madonna della Cava nostra patrona, ossia il 22
di agosto dello stesso anno della nascita; avevo poco meno di due
mesi». In una comunità contadina come la nostra, le attività di
conclusione dell’annata agricola avevano la precedenza per cui ogni
altro impegno veniva rimandato a dopo il raccolto (“a l’astaciunata“).
«Come era tradizione, mi fu imposto il nome di Maria Cava che era
quello della mia nonna paterna. Il vestito preparato per l’occasione
era bianco, di seta, impreziosito da applicazioni di pizzo in macramè
e fiocchetti di nastro luminoso. La moda dell’epoca voleva che i
neonati fossero portati al fonte battesimale con i gioielli che avevano
ricevuto in regalo; per le bambine gli immancabili orecchini, l’anellino
all’anulare fermato da un nastrino e legato al polso per evitare che si
sfilasse. Così anch’io fui ingioiellata con i monili che parenti e amici
di famiglia mi avevano donato; al collo portavo la collana d’oro regalo
del padrino di battesimo». La cerimonia religiosa ebbe luogo nella
Chiesa Madre dedicata a Santa Maria Maggiore di Pietraperzia, unica
chiesa parrocchiale del paese fino al 1951. Dalla nostra casa di
abitazione in via 4 Novembre, la Matrice fu raggiunta percorrendo la
Via Garibaldi sino alla Piazza Matteotti (dove sorgono il palazzo dei
Baroni Tortorici e la Chiesa del Rosario e in cui si affacciano il Palazzo
Comunale, lato della torre, e, allora, anche lu casinu di li
galantumini,) e l’ultimo tratto della salita Barone Tortorici. Da quando
posso avere ricordo del mio paese, vedo quel pezzo di strada sino al
sagrato della chiesa Madre adorno di una fila di oleandri, ciascuno
protetto e sostenuto da una piccola gabbia rotonda in ferro».
«Il fonte battesimale, con attorno la cornice marmorea con sculture
del Gagini, è posto accanto all’entrata di destra della chiesa.
Ad amministrare il sacramento fu il parroco di allora, don Michele
Carà, assistito dal sacrista».
Il parroco si avvaleva della collaborazione di due sacristi, i due fratelli
“Pupa”, Cosimo e Calogero, che in paese comunemente chiamavamo
“ lu zi Cosimu e lu zi Caloriju pupa ”. Essi continuarono a svolgere le
loro funzioni anche durante il periodo in cui la parrocchia fu retta da
don Luigi Lo Giudice, subentrato al Parroco Carà. I due fratelli erano
persone molto diverse sia nelle fattezze fisiche sia nel carattere e
svolgevano mansioni differenti nell’ambito delle esigenze
amministrative ed organizzative della chiesa parrocchiale. Tutti i
pietrini che incominciavano a frequentare la Matrici entravano per
forza di cose in contatto con l’uno e con l’altro dei due fratelli sacristi.
«Fin da bambina, ebbi l’occasione di conoscere meglio le loro
caratteristiche, soprattutto nel periodo in cui feci parte dell’Azione
Cattolica e frequentai più spesso la Chiesa Madre».
Lu zi Co’, era una persona di bell’ aspetto e dal portamento distinto.
Aveva però un carattere poco docile e facile a innervosirsi; era, come
si suol dire, un tipo da “prendere con le molle”; tuttavia, dopo la
sfuriata, i suoi bollori svanivano presto.
Cosimo curava le pubbliche relazioni con i parrocchiani riguardo ai
problemi burocratici ed amministrativi; a lui ci si rivolgeva per le
pratiche relative a battesimi, matrimoni, funerali .
Per lo zio Cosimo l’ordine e la disciplina in chiesa erano essenziali,
perciò non si esimeva dall’ intervenire energicamente tutte le volte
che notava comportamenti inadeguati al decoro del luogo sacro: non
esitava un minuto a cacciare fuori dalla chiesa i giovani che, durante
le feste solenni, quando l’edificio era gremito e ogni angolo occupato
da fedeli, a volte esageravano nella scompostezza per farsi spazio e
poter meglio ammirare le ragazze. Egli gridava loro che la chiesa non
serve a questo scopo. Era ancora lu zi Cosimu a rammentare alla
comunità che la parrocchia viveva di elemosine, ragion per cui chi
voleva assistere a qualsiasi cerimonia religiosa comodamente seduto
doveva pagare le cinque lire per la sedia; chi si rifiutava era giusto
che restasse in piedi. Nessuno si opponeva né arrivava in chiesa
senza aver prima preparato gli spiccioli necessari. A questo
proposito, il momento più redditizio era quello che precedeva la
Pasqua. Ogni anno, durante il periodo della quaresima, si registrava
in chiesa una grandissima affluenza di fedeli, soprattutto donne;
quello era anche occasione per le ragazze, specie se in età da marito,
di farsi vedere in giro. Nei giorni di predica, le sedie andavano a ruba:
si mandavano i bambini per tempo a prenotarle così da assicurarsi i
posti migliori per ascoltare e vedere. Sotto lo sguardo compiaciuto di
Cosimo la pila ordinata delle sedie si vedeva presto scemare e il
piattino riempirsi di monete. All’ora di inizio della predica non si
trovava più una sedia disponibile; non era raro il caso che i ritardatari
se la portassero da casa.
Il parroco prendeva accordi con predicatori esperti, quaresimalisti
francescani o domenicani abilissimi nell’ illustrare episodi della vita
di Gesù e nel commentare le parabole più note del Vangelo,
soprattutto quelle che meglio si prestavano ad un racconto
drammatizzato che suscitava commozione tra gli ascoltatori. Lo zio
Cosimo era presente e vigile a che tutto si svolgesse ordinatamente
al punto che, a volte, capitava di sentire, anche in corso di predica,
la sua sonora sgridata rivolta a qualche giovanotto che, entrato nella
chiesa, incominciava a gironzolare e a guardare in giro disturbando
e distraendo i fedeli. Il momento di maggiore tensione per lo zio
Cosimo era quello della fine della predica e dell’uscita. Molti giovani
facevano ressa davanti alla porta impedendogli di aprirla
completamente per affollarsi poi davanti al sagrato per adocchiare le
ragazze costrette a passare tra due ali di folla, ammiccando e
cercando di fare breccia su qualcuna o semplicemente di incrociarne
lo sguardo, per continuare poi a seguirla quando usciva, far la posta
sotto il suo balcone, fermarsi a la cantunèra vicina alla sua abitazione
sperando che si affacciasse. Provoca commenti da parte di persone
di una certa età ma oggi è spettacolo consueto, vedere nelle città,
come nei paesi, frotte di ragazzi e ragazze trovarsi tutti insieme i
pomeriggi in piazza, scherzare e ridere in un rapporto di completa
parità, manifestarsi in maniera disinvolta reciproche effusioni
affettuose. Allora non era così; ragazzi e ragazze potevano vedersi
solo nelle occasioni di festa e da lontano lanciarsi qualche sguardo e
qualche segno d’intesa. Le fasi del corteggiamento del fidanzamento
e del matrimonio avevano procedure e regole consuetudinarie che
sono state superate gradatamente.
Nel lungo periodo della sua attività di sacrista della Chiesa Madre non
vennero mai meno l’attenzione e lo zelo di lu zi Co’ verso la Catèva,1
1 Cateva o Caterva. Una disputa è sorta, riguardo al nome autentico della cripta, tra Giovcanni Culmone e don Filippo
Marotta, autori del Vocabolario Siciliano della Parlata di Pietraperzia. Il primo sostiene la versione Caterva sulla base
di documenti storici dell’archivio parrocchiale relativi a matrimoni e sepolture celebrati nella chiesetta,.in cui è
chiamata Caterva. Il secondo si appella alla tradizione popolare e all’opera storica di Fra’ Dionigi che l’hanno chiamata
Cateva, oltre che alla etimologia della parola che potrebbe derivare dal greco: cateva = sottostante..
la piccola chiesa attaccata alla matrici, che apriva con puntualità al
culto dei fedeli tutti gli anni per il mese mariano. Dopo un’accurata
pulizia, collocava all’ingresso della chiesetta un tavolo coperto da una
tovaglia in velluto rosso con l’immancabile piatto di ottone lucido per
le offerte e, accanto al tavolo, una sedia sulla quale, seduto, egli
sorvegliava ogni movimento.
Nella chiesetta della Catèva o Caterva si venera un antico crocefisso
dipinto, posto su un altarino. «Tutte le volte che vi entravo e
guardavo il crocefisso, dice Maria, mi venivano in mente certe
giaculatorie che avevo imparato sentendole recitare alla mia nonna
quando faceva le sue preghiere:
Ggesù cchì bbìddu dòrmiri faciti
Ntra ‘n trunculu di cruci arripusàti
Jì sugnu piccatùri e bbui patìti
Jì sugnu ddebbitùri e bbui pagàti
Caru Ggesuzzu ppi lu vostru custatu
Rènniri lu vùgliu a Bbui l’urtimu Xàtu.
o l’altra
O Santissimu Crucifissu
Li vostri grazzii sunu spissu
No d‘ha scurarii sta jurnata
Ca-mma essiri cunzulati
Io frequentai poco la Catèrva. La chiesetta ha una volta molto bassa,
poca luce vi filtra da una minuscola finestra e vi circola poca aria.
L’ambiente veniva illuminato dalle numerose candele che vi
accendevano i fedeli, ma non si riusciva a sostare a lungo, l’acuto
odore di cera misto a quello delle rose finiva col dare alla chiesetta
un’atmosfera funerea».
Lu Zì Caloriju era molto diverso dal fratello sia nell’aspetto fisico sia
nell’abbigliamento. Più basso di statura di Cosimo, aveva dei
lineamenti marcati che, uniti al modo di vestirsi, lo facevano
avvicinare molto ad un perfetto clown senza bisogno di trucco. Le
sue giacche e i suoi pantaloni, compresi quelli che indossava per le
feste, erano enormi, due tre misure sopra la sua taglia. Ciò è detto
in modo affettuoso, dal momento che lu zi Calò era buono e silenzioso
e raramente alzava la voce, diversamente dal fratello. Era
costantemente presente in Parrocchia e il suo lavoro era
fondamentale per il quotidiano pratico funzionamento della Matrici.
Curava la pulizia dei vari ambienti della chiesa, rimetteva in ordine
le sedie e i banchi, predisponeva l’altare prima di ogni funzione,
accendeva tutti i candelieri, accompagnava, con cotta addosso e il
bastone crocifero in mano, i funerali. Serviva la messa ma il latino
non era il suo forte: l’unica risposta che si percepiva era un amen
che lu zi Calò amplificava e trascinava facendola diventare aammenn.
Annunciava orari di messe e funzioni, il mezzogiorno e l’Ave Maria,
col suono delle campane, cosa che faceva con grande perizia, dallo
scampanio a distesa dei giorni di festa che trasmetteva gioia e
allegria, ai rintocchi mesti e tristi con cui accompagnava all’ultima
dimora…già un ammonimento e una meditazione.
«All’epoca del mio battesimo, continua Maria, Cosimo poteva avere
cinquant’ anni e Calogero trovarsi sui quarantacinque. Immagino,
anzi sono certa che Lu zi’ Calò fu presente alla cerimonia. Per aver
partecipato a diversi battesimi come madrina o come invitata, ho
sempre notato la sua presenza accanto al parroco per aiutarlo nella
celebrazione del Sacramento e suggerire ai parenti del bambino le
risposte alle domande di rito: “rinunci a Satana alle sue vanità alle
sue opere ?” e Calogero con voce robusta seguito dai presenti.:
“Rinuncio”. Per la verità la risposta del sacrista era lontana dalla
corretta pronuncia della parola perché dalla sua bocca usciva una
specie di verso che faceva pensare ad essa e in cui predominava il
suono della lettera “R” a cui veniva unita, pronunciata con più forza,
la parte finale della parola stessa:, “abr..nzio”, intanto che, con molta
serietà e devozione, porgeva al Sacerdote officiante la conchiglietta
per spargere l’acqua sul capo del bambino, la ciotolina del sale e la
boccettina dell’olio santo.
Finché i due sacristi ebbero fiato furono i pilastri della Matrice e delle
chiese ad essa collegate. Io ricordo i due fratelli con grande simpatia,
come due persone familiari con le quali siamo venuti a contatto
moltissime volte. Essi mi fanno tornare anche ai tempi della mia
infanzia e della mia giovinezza
In quanto al trattenimento, per il mio battesimo non ci furono sfarzi:
si era in piena guerra, nessuno si trovava nello spirito giusto per
allestire ricevimenti fastosi .
Del mio padrino, che non ebbi la gioia e il piacere di conoscere, so
soltanto quello che di lui mi raccontò mio padre che l’aveva scelto.
Era un suo intimo amico, si chiamava Vincenzo Siciliano, Vicinzu lu
Vicchiu, persona di gradevole presenza e, come, parlando di lui, ho
avuto confermato recentemente da certi suoi parenti, aveva modi
educati e sani principi. Non era sposato, allora, viveva in famiglia con
altri fratelli e con i genitori che parteciparono alla gioia del figlio
assistendo alla cerimonia del battesimo. Forse fu tra le ultime volte
che lo videro e felice. Poco tempo dopo, richiamato alle armi,
s’imbarcò per la Grecia da dove non fece più ritorno. Non fu l’unico
del nostro paese.
La bisnonna Francesca
di Maria e Salvatore Giordano
«Eravamo dei bambini fortunati, mio fratello ed io, dice Maria,
sempre circondati dalle premure dei nonni e degli zii, oltre che da
quelle dei genitori
Era soprattutto la nonna paterna Maria Cava che si occupava di noi,
assieme alla giovane zia Mariù (Mariuzza nel nostro gergo) sorellina
di papà, l’ultima nata della famiglia. Assieme con la nonna e la zia
vivevano nella stessa casa due fratelli più giovani di papà, zio Biagio
e zio Michele e la bisnonna Francesca. La zia Lucietta, sorellastra di
papà e di lui più anziana perché nata dal precedente matrimonio del
nonno, sposata da tempo, era già madre di quattro bambine, l’ultima
era nata due mesi prima di me».
Spesse volte ci accudiva anche la bisnonna Francesca, mamma della
nonna paterna, l’unica tra i bisnonni che abbiamo avuto la fortuna e
la gioia di conoscere. La bisnonna Francesca era piccola di statura
ma molto carina e disponibile. Era pulitissima e sempre in ordine
nella persona e nell’abbigliamento. Per profumarsi faceva dei
mazzettini di menta che metteva nel bustino. Fu felicissima quando
riuscì ad indossare il profumo “Paradiso perduto” della Paglieri che
suo nipote, lo zio Biagio, le portava da Palermo quando tornava a
casa in licenza durante il suo primo servizio militare. La bisnonna
proveniva da una buona famiglia, la famiglia Calì, li Chjarapachjè,
tutte persone molto stimate in paese per il loro ben fare e il loro
decoro.
Era la prima di otto figli, dopo di lei erano nati una sorella e sei
fratelli: l’ultimo di questi aveva la stessa età della figlia, quella che
sarebbe diventata la nostra nonna paterna. Si raccontava che proprio
quest’ultimo fratellino fu da lei stessa allattato perché il seno della
madre non dava più latte. Ebbe molti pretendenti la bisnonna e nella
scelta dello sposo la famiglia pensò di fare bene orientandosi verso
quello che sembrava il giovane più affidabile e il miglior partito dal
punto di vista economico. La realtà però si rivelò diversa dalle
aspettative dei suoi familiari e sue: il bisnonno era un accanito
giocatore di carte e per assecondare il suo vizio metteva in secondo
piano ogni altro impegno. Manifestò inoltre un carattere piuttosto
fastidioso e per nulla simpatico che procurò alla bisnonna non pochi
dispiaceri nel corso della loro lunga convivenza matrimoniale. Si
tramandava in famiglia, a tale riguardo, la risposta che ella aveva
dato, quando il bisnonno, molto vecchio, era morto, alla sorella che
le portava il suo conforto, e le chiedeva come si sentisse,:- «mi sento
come una rosa secca appena annaffiata».
Da quel momento la figlia la tenne accanto a sé, nella sua casa dove
visse serena con i suoi nipoti dando esempi di saggezza e loro la
sostennero e l’amarono fino alla morte, avvenuta all’età di
ottantasette anni.
Nonna Francesca fu sempre autentica, genuina e schietta gentile e
presente ad ogni necessità; amò i suoi nipoti incondizionatamente e
si adoperò alla stessa maniera verso i pronipoti, noi. Nel corso dei
primi anni di frequenza di Salvatore della scuola elementare, quando
già da aprile i nostri genitori si trasferivano in campagna, era la
bisnonna Francesca che, a casa della nonna, in via Ville Superiori, si
sostituiva ad essi nel preparare da mangiare pietanzine appetitose e
profumate alla menta.
Si muoveva con passettini svelti dentro il suo abbigliamento
armonico ed elegante che portava con disinvoltura e «a me, dice
Maria, faceva pensare a quale affascinante graziosa ragazza doveva
essere stata nella sua giovinezza». La bisnonna lavorava benissimo
con l’uncinetto, faceva dei bellissimi pizzi con i quali rifiniva le sue
sottane. Amava molto la campagna dove trascorreva lunghi periodi
Portava abitualmente gonne lunghe nere con bustini ricamati stretti
in vita chiusi da lunghe file di bottoni e camicie bianche rifinite con
l’immancabile pizzo. Calzava stivaletti a punta neri alti legati alla
caviglia. D’inverno, per proteggersi dal freddo, si legava un fazzoletto
in testa e si copriva le spalle con mantelline di lana da lei stessa
lavorate. Aveva molta cura di ciò che indossava e sapeva mantenersi
pulita; prima di accingersi a qualsiasi opera culinaria si annodava alla
vita un lungo grembiule per evitare sgradevoli macchie alla sua
gonna, la stessa alla quale parecchie volte con mio fratello ci
attaccavamo impedendole di camminare e lei con molta pazienza e
dolcezza ripeteva « cruci santa, cruci santa ”. «La nonna mi raccontò,
dice Maria, che ad imboccarmi il primo ovetto fu proprio la bisnonna
Francesca intuendo il motivo di un mio apparentemente ingiustificato
pianto. Lei sola capì che si trattava di fame affermando che il latte
materno non era sufficiente. Subito preparò due uova alla coque, uno
per me – che divorai con avidità chetandomi come per incanto,- e
uno per mia mamma affermando che anche lei doveva alimentarsi di
più per incrementare il suo latte.»
Durante il periodo della guerra la bisnonna Francesca fu la nostra
vivandiera. Per sfuggire ai pericoli dei bombardamenti ci eravamo
trasferiti tutti in campagna “ li Minniti”; anche la zia Lucietta era
venuta con noi assieme alla sua numerosa famiglia. Papà che allora
era militare a Caltanissetta più facilmente poteva venirci a trovare
quando gli era possibile. Per maggior sicurezza avevamo
abbandonato la casa colonica per rifugiarci nelle grotte, tra le rocce
che sorgevano in prossimità di essa, dove avevamo sistemato
materassi e pagliericci vari. Nonna Francesca non aveva voluto
seguirci preferendo restare nella casa, ci preparava da mangiare e
molto spesso era lei stessa che ce ne portava su non preoccupandosi
minimamente dei rischi che correva. Mentre gli adulti andavano e
venivano dalla casa dove svolgevano dei lavori e accudivano gli
animali, noi bambini quasi mai ci allontanavamo dalle grotte, la cosa
che maggiormente ci metteva paura era il rombo degli aerei, appena
li sentivamo arrivare correvamo velocemente ai rifugi se ce ne
eravamo allontanati di qualche metro. Ancora tempo dopo la guerra
gli stessi tuoni durante i temporali ci facevano tremare dallo
spavento. Niente successe a nessuno di noi per fortuna ma, più di
una volta, bombe furono sganciate nelle vicinanze. L’affetto della
bisnonna per noi fu da tutti ricambiato nella stessa misura, le
volevamo bene come alla nonna e ai genitori; «gli anni trascorsi con
lei mi sono rimasti nel cuore come le cose più belle che potessero
capitarmi nella vita e a ricordarli mi prende un forte senso di
nostalgia e di commozione», dice Maria.
TRA PACE E GUERRA
di Salvatore e Maria Giordano
<< I pochi intimi che avevano partecipato al mio battesimo, dice
Maria, fecero ritorno, lo stesso giorno o il giorno seguente, alle loro
residenze di campagna >>. Trascorrere l’estate in campagna era
consuetudine al nostro paese. Quelli che vi avevano una casa, ancora
prima che iniziassero le attività legate al momento del raccolto, vi si
trasferivano con tutta la famiglia. Gli uomini, in questo modo,
potevano essere meglio accuditi dalle loro donne ed occuparsi con
maggiore serenità delle varie incombenze che il momento richiedeva.
Al 22 di Agosto, del resto, si è ancora in piena estate, né la
stasciunata può dirsi conclusa: è il periodo della raccolta delle
mandorle e c’è, forse, ancora chi, tra le donne, ha da terminare la
preparazione delle conserve da riporre per l’inverno. Anche i nonni
materni, nonno Pasquale e nonna Nina, lu papà Pasquali e la mamma
Nina, dopo il Battesimo fecero ritorno a Marcato Bianco, “a lu
Funnacu”, dove trascorrevano gran parte dell’anno occupandosi con
i figli della conduzione dell’azienda agricola dei baroni Piaggia.
Insieme ai nonni e ai figli Francesco, Maria e Filippo, vivevano la
giovane nuora, zia Damiana, e il suo bambino, il cuginetto
Pasqualino, che allora aveva quasi due anni. Già da più di un anno
anche l’Italia era in guerra, si combatteva lontano da noi, ma
moltissime famiglie vivevano in grande apprensione per la sorte di
loro congiunti inviati ai vari fronti. In casa dei nonni, in quel periodo,
non regnava un clima molto lieto: del loro primogenito Calogero,
padre di Pasqualino e nostro zio materno, al fronte in Africa
Settentrionale, da qualche tempo non giungevano notizie. La cosa
faceva vivere in ansia tutte le nostre famiglie. Avremmo saputo dopo
della presa di Tobruk e del gran numero di soldati italiani fatti
prigionieri da parte degli inglesi. Ma, sino a quando lo zio non ebbe
la sua destinazione definitiva come prigioniero di guerra, non ci
pervennero notizie .
Lo zio partecipava alla guerra come richiamato alle armi; egli, infatti,
aveva prestato, dieci anni prima, i previsti 18 mesi di servizio come
militare di leva presso il 10° Reggimento Bersaglieri di Palermo.
Nell’ambito dell’esercito i Bersaglieri costituiscono uno dei corpi più
prestigiosi, tanto che sono tra i primi ad essere impiegati in
particolari operazioni o missioni; loro caratteristica è quella di
spostarsi sempre di corsa: tante volte, nelle parate militari, li
abbiamo visti sfilare, piume al vento, dietro il loro trombettiere. Di
quel periodo conserviamo dello zio Calogero una fotografia di lui in
uniforme: indossa la divisa grigio-verde composta da giubba a
quattro tasche con bottoni argentati, pantaloni larghi alla zuava su
scarpe e gambali con cinghie e, in testa, il tipico copricapo piumato.
Al braccio porta i gradi di caporale. Lo zio era orgoglioso di
appartenere a tale corpo e poco mancò che non mettesse firma per
restarvi; ma il pensiero della famiglia prevalse e, dopo il periodo
previsto, era tornato ad occuparsi dei lavori agricoli assieme ai suoi
genitori e fratelli. Dopo il congedo, lo zio venne iscritto alla M.V.S.N.
(Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale) e nominato
caposquadra con l’incarico di curare, il sabato e la domenica,
l’istruzione premilitare dei giovani di leva. Nel 1936 si era sposato
con la zia Damiana. A fine agosto 1939, richiamato in seguito alla
mobilitazione ordinata in previsione della probabile entrata in guerra
dell’Italia, ancora “non belligerante”, venne inquadrato nel
Battaglione “Enna ”, uno dei reparti della 172^ Legione provinciale
della M.V.S.N. Un mese dopo, la Legione (corrispondente
probabilmente all’attuale Reggimento, così chiamata secondo la
terminologia adottata dal regime che aveva preso a modello di
riferimento l’esercito romano di cui voleva emulare le glorie) si era
imbarcata a Messina con destinazione Derna, in Cirenaica, regione
orientale della Libia allora colonia italiana, e qui aggregata alla
Divisione Camicie Nere “3 Gennaio”. Il Battaglione venne dislocato
presso il villaggio “Giovanni Berta”, a pochi chilometri a sud-ovest
della città, dove trascorse l’inverno e parte della primavera, fino a un
mese prima dell’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno del 1940.
Pertanto era lì che lo zio si trovava quando, nel novembre 1939,
nacque Pasqualino. Fu solo dopo tre mesi dalla nascita del figlio che
egli, ottenuta una licenza di dieci giorni, poté venire a conoscere il
suo primogenito e festeggiarne il battesimo. Tornato subito dopo al
reparto, gli sembrò di aver vissuto come in un sogno quel breve
periodo.
Lo scrittore Lino Guarnaccia, amico di nostro cugino Pasqualino, nella
circostanza della morte dello zio avvenuta a Milano il 4 ottobre 1985,
scrisse un Ricordo di Calogero Messina. Le notizie riportate in tale
opuscolo ci consentono di completare e approfondire la conoscenza
degli eventi bellici a cui lo zio partecipò. A tale proposito lo studioso
(egli stesso militare di leva del 31° Battaglione Guastatori al fronte
in Africa, fatto prigioniero probabilmente in una delle operazioni del
1941/’42), nel ripercorrere le tappe significative della vita dello zio,
riporta anche i nomi dei pietrini che si trovavano con lui nella stessa
Compagnia, o Centuria, come allora veniva chiamata.
Assieme al Caporale Calogero Messina erano presenti i seguenti
graduati: il Caporal Maggiore Filippo Di Gloria, con l’incarico di
aiutante sanitario del Battaglione, Caporal Maggiore Salvatore Calì
(Piscialacinniri), e i seguenti soldati: Calogero Barone (Liddu lu
puntinaru), Giuseppe Calì (Chiarapachiè), Luigi Cipolla, Giuseppe
Ciulla (Nataliddu), Antonino Corvo, Pasquale Di Cataldo (lu
Lampariu), Rosario Farulla, Giuseppe Giusto (Racchianedda), Santo
Marotta (Santu Cavigliuni), Salvatore Puzzo (Lu Farchisi), Giuseppe
Rabita, Giuseppe Salamone (Calacipuddi), Filippo Sammartino
(Bellacitu), Calogero Tisa (Mburna), Salvatore Viola (
Assicutangiddi).
La compagnia era comandata dal capitano (Centurione) Conti di
Nicosia.
Tenente medico del Battaglione “Enna” era il dott. Rocco Sillitto,
nostro paesano, Ufficiale Sanitario del paese per molti anni dopo la
guerra.
Tutte le forze armate italiane in Africa Settentrionale costituivano il
10° Corpo d’Armata; Comandante supremo e Governatore della Libia
era il Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani. Il Maresciallo aveva
sostituito il generale Italo Balbo, morto in seguito all’abbattimento
del suo aereo da parte dell’incrociatore italiano S. Giorgio, ancorato
nel porto di Tobruk, con il quale l’aereo non era riuscito a stabilire
contatti e a farsi riconoscere2.
Entrata in guerra anche l’Italia, 10 giugno 1940, il battaglione, al
seguito della X Armata, avanza verso est partecipa allo sfondamento
2 Montanelli-Cervi, Storia d’Italia-L’Italia del Novecento, Milano, Fabbri Editori, 1998, p. 181.
del confine egiziano e alla presa, il 19 settembre 1940, di Sidi el
Barrani.
Gli Italiani tengono le posizioni per più di due mesi. A dicembre però,
gli Inglesi, ricevuti rinforzi di uomini e soprattutto di carri armati più
moderni ed efficienti, passano al contrattacco e, con una “incursione
in grande stile”, appoggiati dal cannoneggiamento della flotta, il 9
dicembre ‘40, sfondano inesorabilmente la prima linea della X Armata
di Graziani, riconquistano Sidi el Barrani, presidiata dalla Divisione
“3 Gennaio”, e proseguono l’avanzata ad ovest verso Tobruk, Derna,
Bengasi. Inutile è il tentativo da parte degli Italiani di sbarrare
l’accerchiamento: «le scatole di sardine italiane» con le loro fragili
corazze e le loro mitragliatrici […] erano spacciate in partenza»3.
L’epopea di Giarabub
Il 21 marzo del ’41, sotto le preponderanti forze inglesi, cadeva, dopo
più di tre mesi da Sidi el Barrani, anche il forte di Giarabub. L’oasi,
situata a circa 200 chilometri all’interno del territorio desertico della
Cirenaica, considerata strategica per i rifornimenti, era difesa da
1350 soldati italiani e meno di un migliaio di ascari libici armati dei
tradizionali moschetti 91/38 e di modesti pezzi di artiglieria leggera.
Il contingente, sotto il comando del Ten. Colonnello Salvatore
Castagna di Caltagirone, aveva resistito strenuamente, fino ad
esaurimento di viveri e munizioni, dando in più circostanze esempi di
eroismo e di valore, rifiutando ogni trattativa di resa. Sulla base delle
cronache giornalistiche degli inviati di guerra, che conciliavano le
esigenze professionali con le esigenze del regime, l’avvenimento
3 Ibidem, p. 193.
rifulse come una pagina di gloria delle forze armate italiane;
mitizzato e oggetto di spettacoli teatrali e di film a fini
propagandistici, venne celebrato come “L’ epopea di Giarabub”.
Grazie alla radio, molto popolare divenne la celebre canzone “La
sagra di Giarabub”, il cui ritornello era allora facile sentire intonare o
fischiettare:
…. …. ….
“Colonnello non voglio pane
voglio fuoco pel mio moschetto,
ho la terra nel mio zainetto
che per oggi mi basterà…
Colonnello non voglio acqua
voglio il fuoco distruggitore
con il sangue di questo cuore
la mia sete si spegnerà….
Colonnello non voglio il cambio
qui nessuno ritorna indietro
non si cede neppure un metro
se la morte non passerà!
…. …. ….
La battaglia di Sidi el Barrani era costata alle forze italiane la morte
di un generale, di 47 ufficiali (78 feriti), di 2147 tra sottufficiali e
soldati (2208 feriti); della Legione “Enna” erano rimasti feriti in modo
grave otto militari, tra cui un capitano, nessuno del gruppo pietrino.
I prigionieri furono circa 38.000; a pezzi il morale. È difficile calarsi
nello stato d’animo che può provare un soldato fatto prigioniero,
probabilmente lo prende un forte senso di frustrazione misto a un
sentimento di inutilità e di impotenza, a cui si aggiunge l’insicurezza
di non sapere in quali mani sia capitato e cosa sarà di lui e del suo
futuro. D’altra parte la gestione dei prigionieri costituisce un
problema anche per gli eserciti vincitori, sia pure delle nazioni le più
rispettose delle convenzioni internazionali: l’organizzazione dei
campi, incominciando dalla località in cui far sorgere il baraccamento,
il vettovagliamento, il controllo di un gran numero di nemici, tolti sì
dal fronte ma pronti alla fuga, al sabotaggio, allo spionaggio...,
comporta sottrarre risorse di uomini e mezzi alle esigenze più
pressanti della guerra. Iniziano, pertanto, per i nostri prigionieri,
mesi in cui sperimentano la precarietà della loro situazione, fatta di
privazioni, tra improvvise evacuazioni dei campi e trasferimenti
forzati nel deserto provocati dall’andamento delle operazioni belliche.
Dopo la resa i prigionieri vennero avviati a piedi verso un unico posto
in territorio egiziano per essere poi smistati in campi diversi. Zio
Calogero venne internato in un campo di Alessandria d’Egitto,
successivamente nel campo di prigionia presso Suez. Al suo ritorno
in paese egli ci raccontò delle peripezie e delle sofferenze provate. In
tutto il periodo che restò in Egitto aveva perso diversi chili di peso:
ci faceva vedere una fotografia in cui appariva irriconoscibile per
quanto era dimagrito, tanto da suscitare le lacrime delle donne di
casa.
Col passaggio del comando delle forze dell’Asse in Africa
Settentrionale al generale tedesco Rommel (la famosa “volpe del
deserto”), le armate italo-tedesche furono protagoniste (marzo
1941-maggio 1942) di una poderosa avanzata sino a raggiungere El
Alamein, a una cinquantina di chilometri da Alessandria d’Egitto4. In
4 Come è noto, le sorti in Africa volsero a favore degli inglesi che, tra il ’42 e il ’43 (battaglia di El Alamein - ottobre ’42
- di cui ci sono tramandati esempi di eroismo degli italiani), sotto il comando del generale Alexander, con una
quei frangenti i prigionieri vennero evacuati dall’Egitto e distribuiti in
campi di concentramento in Palestina, India, Australia. Lo zio venne
inviato in Inghilterra, nel campo di Burton on Trend, nella contea
dello Stafford, nei pressi della cittadina di Notthingam, ed impiegato
presso un’azienda agricola. Fu grazie a questa destinazione che egli
poté abituarsi gradatamente ad una alimentazione più normale, e
riprendersi fisicamente bevendo il latte delle mucche che si
allevavano nella fattoria.
A lui, come caposquadra, era affidato il compito di accompagnare i
soldati al lavoro e riportarli al campo. Per queste sue funzioni egli
disponeva di una bicicletta. I prigionieri per il loro lavoro ricevevano
una regolare paga. Zio Calogero raccontava spesso dell’umanità e
della benevolenza con le quali i proprietari della fattoria lo avevano
trattato; ci disse anche il loro nome, che non poteva dimenticare, si
trattava dei signori Hamilton, i quali avevano preso ad apprezzare le
sue qualità come uomo e la sua competenza come agricoltore.
Sembra che avessero anche maturato l’intenzione di fargli sposare
una loro figlia ma, quando gli prospettarono la cosa, lo zio, con molto
tatto e sincerità, dichiarò la sua condizione di uomo sposato e padre
di un bambino, cosa che accrebbe la stima dei proprietari della
fattoria nei suoi confronti. Nostro cugino Pasqualino ci ha raccontato
che nel 1973, in occasione di un suo viaggio in Inghilterra, dove
risiedono dei parenti della moglie, lo zio volle accompagnarlo e, nella
circostanza, andare a salutare la famiglia che tanto gentile era stata
con lui circa trenta anni prima. La ricerca risultò vana, l’ambiente
controffensiva verso ovest, raggiungono la Tunisia, ponendo fine alla guerra in Africa Settentrionale (maggio 1943). Un
mese dopo iniziava la campagna d’Italia con lo sbarco a Lampedusa e a Pantelleria e, a luglio, in Sicilia.
fisico e umano era cambiato: non solo non trovarono gli Hamilton,
ma nessuno nella zona seppe dare riscontri o notizie di essi.
Al campo la vita trascorreva in modo ordinato, ciascuno svolgeva il
compito affidatogli, secondo gli orari. Alle attività seguivano i
momenti di riposo e di ricreazione durante i quali i prigionieri
potevano scrivere alle loro famiglie. Il momento più atteso era quello
della posta: contavano i giorni che intercorrevano tra una lettera
inviata e l’attesa risposta. Le lettere dello zio giungevano alla famiglia
con una certa regolarità e, certe volte, venivano recapitate
direttamente in campagna: l’impiegato addetto al servizio postale del
Borgo Cascino, che conosceva la situazione, prelevava la lettera
appena arrivata e, passando da Marcatobianco, la consegnava ai
nonni, con la riconoscenza e i ringraziamenti della nonna che mai lo
lasciava a mani vuote. I prigionieri potevano andare anche al cinema
dietro pagamento del biglietto. A questo proposito lo zio ricordava,
per la sua caratteristica particolare, un suo commilitone: era un vero
attore, uno show-man, abilissimo nel raccontare barzellette con le
battute e le pause al momento giusto. Per non pagare tutti quanti il
biglietto, quelli del suo gruppo facevano la colletta e mandavano lui
ad assistervi; la sera successiva si radunavano nella baracca ed egli
raccontava il film descrivendo con precisione, grazie alla sua
memoria e alla sua abilità, ambienti e situazioni senza trascurare
nessuna scena, nessun dialogo, rendendone la drammaticità o la
comicità, aiutandosi con la mimica: per loro era come assistere allo
spettacolo. Egli alleviava così la tristezza derivata dall’attesa della
sospirata notizia dello scambio dei prigionieri e della liberazione che
si protraevano, e la nostalgia per la famiglia e il paese lontani.
***
Fu per un avvenimento fortuito se papà non seguì la stessa sorte
dello zio. Anche lui, infatti, era stato richiamato, aggregato al
Battaglione “Enna” e destinato in Africa Settentrionale; ma non vi era
rimasto a lungo. Alcuni giorni dopo l’arrivo in Cirenaica e la
sistemazione del Battaglione al “Giovanni Berta”, a papà si erano
gonfiate le gambe, probabilmente in seguito alla puntura di un
insetto o al morso di chissà quale ragno o scorpione velenoso e, nel
giro di un paio di giorni, era rimasto paralizzato. Aveva “marcato
visita”, gli erano state prescritte delle pomate e dei bagni con acqua
e sale, con acqua e diverse sostanze medicinali, senza alcun esito. Il
Tenente medico dottor Sillitto, pensando, forse, che papà fingesse
allo scopo di essere rimandato a casa o temendo anche di poter
venire accusato di avere favorito un compaesano, lo sottopose ad
accertamenti e a prove scrupolosissime e di ogni genere, tra cui
l’introduzione nelle gambe di lunghi aghi acuminati a cui non si
sarebbe potuto resistere se si fosse trattato di una messinscena;
senza contare il rischio di incriminazione che papà correva se fosse
stata accertata una simulazione. Effettuate tutte le verifiche e
perdurando lo stato di immobilità, papà era stato rimandato in Italia.
Qui, dopo un lungo periodo di degenza in ospedale militare, aveva
riacquistato gradatamente l’uso delle gambe e superato la paura di
restare paralizzato. Rientrato in servizio dopo la brutta avventura,
era rimasto in Sicilia e destinato a Caltanissetta, presso la Caserma
di Terrapilata, dove svolgeva l’incarico di magazziniere economo del
distaccamento col grado di Caporal Maggiore.
«Anche noi, dopo il mio battesimo», dice Maria, «tornammo tutti in
campagna. Avevo due mesi, ero una bambina sana che non dava
problemi, venivo allattata dalla mamma, che si era ripresa bene dal
parto. La nonna Maria Cava, che non aveva lasciato la nostra casa
da quando vi si era trasferita in previsione dell’evento, viste le
condizioni floride di salute di noi bambini, pensò che fosse il momento
di riunirci al resto della famiglia trasferendoci tutti a li Minniti, a
cinque-sei chilometri da Pietraperzia, lungo la strada per
Caltanissetta». La nonna sollecitava questo trasferimento perché
voleva raggiungere gli zii Michele e Maria che erano soli in campagna.
Infatti, anche lo zio Biagio, suo secondogenito, era stato richiamato
alle armi (aveva adempiuto agli obblighi di leva alcuni anni prima, a
Palermo, nell’Arma dell’artiglieria) e, mandato a Castelvetrano, era
stato assegnato alla contraerea. Il peso della conduzione della
campagna gravava quindi su Michele, che si faceva aiutare,
stagionalmente, da qualche bracciante. Anche lui, per la sua età,
avrebbe dovuto trovarsi alle armi, ma era stato esonerato perché
aveva già due fratelli alla guerra ed era orfano di padre. Per questo
motivo era stato rimandato a casa da Verona-S. Bonifacio dove, in
attesa dell’espletamento della pratica di esenzione, prestava servizio
nel corpo dei Bersaglieri.
Seguendo la volontà della nonna ci avvicinammo così anche a papà.
La caserma di Terrapilata (oggi Villaggio Santa Barbara) dista, infatti,
pochi chilometri dalla casa colonica de li Minniti e, quando il servizio
glielo permetteva, papà inforcava la bicicletta e ci raggiungeva in
pochi minuti. «Fu a li Minniti che, circondata e coccolata dai familiari,
trascorsi la mia prima infanzia e incominciai a balbettare e a imparare
le prime parole. Presto, a detta di tutti, diventai una gran
chiacchierona. Ad un anno circa cominciai a camminare e già allora
avevo un vocabolario fornitissimo di parole e, a chi mi cullava per
farmi addormentare, suggerivo la ninna nanna che più gradivo.
Ma una gravissima disgrazia segnò la nostra vita in quel periodo. Mi
avvicinavo a festeggiare il mio primo compleanno quando la nostra
famiglia fu colpita dal terribile evento: il giovane zio Michele, una
mattina, mentre accudiva le bestie, venne colpito, da una delle mule,
da un calcio forte e improvviso al basso ventre. A nulla valsero il
ricovero immediato all’Ospedale Civile di Caltanissetta, l’intervento
chirurgico e le cure. Lo zio non durò più di una ventina di giorni ed
avvertì che non ce l’avrebbe fatta. Ci volle tutti vicini, ci chiamava
per nome e continuava ad abbracciarci e a baciarci. Ci lasciò nella più
profonda costernazione: era il 17 giugno del 1942; aveva appena 22
anni. Da quel dolore la nonna non si riprese più; nel corso della
giornata spesso la sentivamo invocare il nome del figlio tra lamenti e
profondi sospiri, spesso accompagnati da urla disperate, tremende».
Quando anche l’Italia divenne campo di battaglia e, nell’imminenza
dello sbarco degli alleati in Sicilia, le incursioni aeree si fecero più
frequenti e intense, moltissima gente lasciò il paese per cercare rifugi
più sicuri nelle campagne, anche chiedendo ospitalità presso parenti
o conoscenti. Allora, a li Minniti, ci raggiunse la zia Lucietta con tutta
la sua famiglia. Con l’arrivo dei nuovi sfollati raddoppiò il numero
delle persone e, di conseguenza, il fabbisogno di generi alimentari
per sfamare tante bocche. Per maggior sicurezza avevamo
abbandonato la casa colonica e ci eravamo rifugiati nelle grotte, tra
le rocce vicine, la puntara di li Minniti, dove avevamo sistemato
materassi e pagliericci vari. La bisnonna Francesca non aveva voluto
seguirci: più rischioso sarebbe stato per lei muoversi tra i sassi e
salire sino alle grotte che restare nella casa. Durante quei terribili
mesi di paura la bisnonna non perse la sua serenità continuando a
badare alle galline, a raccogliere le uova, a preparare la cagliata con
il latte della capra, a predisporre quanto occorreva per facilitare i
lavori ai nipoti, uomini e donne. Gli adulti andavano e venivano dalla
casa per accudire gli animali e provvedere a tutte le esigenze della
numerosa compagnia; noi bambini, invece, quasi mai ci
allontanavamo dalle grotte. La cosa che maggiormente ci metteva
paura era il rombo degli aerei: appena li sentivamo arrivare
correvamo velocemente ai rifugi, se ce ne eravamo allontanati di
qualche metro. Ancora tempo dopo la guerra, gli stessi tuoni durante
i temporali ci facevano tremare dallo spavento. Niente successe a
nessuno di noi, per fortuna, ma spesso assistemmo a
bombardamenti su Caltanissetta: sentivamo il frastuono delle
esplosioni e notavamo le grosse nuvole di polvere dalla parte del
cimitero della città. Una bomba sola cadde a metà strada tra la nostra
casa colonica e la rrobba di li Minniti che probabilmente avevano
voluto colpire. Noi sentimmo il fortissimo boato e il rumore dei vetri
andati in frantumi. Grande fu lo spavento di mamma e di zia Mariù
che, all’interno della casa, in quel momento stavano scaldando il
forno per cuocere il pane. Nonna trascorse quella giornata in grande
agitazione: zio Biagio (dopo la morte di Michele l’esonero era passato
a lui), partito il mattino presto per andare al mulino per macinare del
grano, tardava a tornare. La paura della nonna era che avessero
bombardato anche il mulino e che allo zio fosse capitata qualcosa di
grave. Si tranquillizzò la sera tardi quando lo zio tornò con il suo
carico di farina. Noi bambini fummo i primi a dirgli della bomba. Solo
dopo qualche giorno gli uomini andarono a vedere il grosso cratere
che l’ordigno aveva provocato.
Non passarono più di due settimane dalla caduta della bomba che
osservammo sbalorditi, da una purtedda all’altra del tratto di strada
che vedevamo dalla casa (circa un chilometro), i soldati anglo-
americani provenienti da Caltanissetta avanzare in una fila
interminabile verso Pietraperzia, con le divise di colori diversi, cachi,
color petrolio, grigio-verde, e notammo le piccole jeep americane che
sembrava dovessero capovolgersi da un momento all’altro da come
si muovevano veloci, quasi saltellando sui sassi della strada.
Dopo alcuni giorni tornò papà: era arrivato a piedi; ce lo vedemmo
comparire improvvisamente dalla parte della piana del Salso.
Scoprimmo che durante un bombardamento era stato ferito alla
gamba e al braccio sinistro dove aveva ancora una scheggia
conficcata che si sentiva toccandolo. Niente di ciò ci aveva fatto
sapere prima. Aveva portato con sé un commilitone, un certo
Palazzetti, marchigiano, che aveva preferito restare ancora in Sicilia
e accettare l’ospitalità che papà gli aveva offerto piuttosto che
avventurarsi in un pericoloso ritorno a casa. Infatti i tedeschi
opponevano una forte resistenza all’avanzata degli alleati in Italia. I
pericoli erano aumentati, specie quando, un mese dopo l’armistizio
dell’8 settembre con gli Americani, l’Italia aveva dichiarato guerra
alla Germania, provocando crudeli rappresaglie da parte dei tedeschi
che si erano sentiti traditi.
Notammo che papà e Palazzetti erano stati seguiti da un grosso cane
dal pelo fulvo, che essi chiamavano Churchill (non avevamo ancora
le conoscenze necessarie per capire il motivo dell’attribuzione al cane
di tale nome). Palazzetti rimase a li Minniti alcuni mesi, aiutando nei
lavori della campagna e della stalla, poi decise di partire; di lui non
sapemmo più niente. Il cane rimase con noi a far la guardia alla casa
colonica e noi continuammo a chiamarlo col nome che gli avevano
dato i militari di Terrapilata.
Fu in quel periodo che a casa dei nonni materni, in Via Ville Superiori,
venne a trovarci Mike Mancuso, figlio di Salvatore, fratello della
nonna emigrato negli Stati Uniti, nella sua tipica divisa da libera
uscita dell’aviazione americana che avremmo visto in tanti film
americani sulla guerra. Fu quello un momento di gioia per la nonna
che, tra le lacrime, abbracciava il figlio di suo fratello, mentre
mormorava il nome di Calogero, suo figlio, di cui, ora, sperava
imminente il ritorno.
Conoscenti in paese ci raccontarono che erano state sganciate alcune
bombe, una decina, ma solo due avevano centrato il paese: una
aveva distrutto il negozio di ferramenta di Paolo Fiorino, in Piazza
Vittorio Emanuele, e danneggiato il Teatro Comunale; l’altra,
purtroppo, aveva fatto una vittima, la signora Rosa Farinelli moglie
del meccanico don Turiddu Mancusu. Per diversi anni ancora dopo la
guerra restarono i ruderi del negozio di Fiorino col tetto sfondato,
fino a quando la Società Militari in Congedo non acquistò il locale e
vi costruì la propria sede sociale. Qualche tempo dopo sapemmo
anche della disgrazia che aveva colpito la famiglia Culmone: una
bomba a mano inesplosa, che bambini tante volte avevano preso in
mano e si erano lanciata per gioco, questa volta era scoppiata
vicinissimo a Salvatore, figlio di don Rusariu Ddoca e della maestra
Torrenti, e ne aveva provocato la morte5.
Lo zio Calogero tornò a casa il 20 giugno 1946; mancavano due mesi
circa a sette anni, tanti ne erano trascorsi da quando era partito.
Vestiva pantaloni e giubbotto della divisa inglese senza stellette;
stanco del lungo viaggio, ma molto somigliante a come si vede nella
5 Il tragico evento è ricordato da Giovanni Culmone in Pietraperzia anni ’40-Reminiscenze-, 1996, p.10. Lo stesso, in
ibidem, pp.31-38, racconta le giornate di luglio 1943, a Pietraperzia, attraverso una serie di testimonianze.
fotografia fatta qualche tempo prima della sua liberazione, con lo
sguardo sicuro e il sorriso sulle labbra, forse scattata appena saputo
dell’imminente ritorno a casa.
Zia Damiana lo accolse nella loro casa in via Tortrici Cremona, la casa
dove erano andati ad abitare appena sposati. L’incubo era finito.
Pasqualino non aveva ancora sette anni, frequentava la scuola
assieme a Salvatore fin dalla prima elementare; non poteva
ricordarsi del suo papà che aveva visto solo quando era ancora in
fasce, benché di lui sempre si parlasse in casa e si vivesse nell’attesa
del suo ritorno. Difficile dire quello che Pasquale provò di fronte a
quell’evento sconvolgente della sua vita. Quando lo ricorda, egli ne
parla come di uno shock: confuso e frastornato, cercava di rendersi
conto di quello che gli stava capitando. Fu un momento di intensa
emozione quello dell’abbraccio tra padre e figlio, anche per chi vi
assistette.
La casa presto si riempi di gente: parenti, amici, venuti per
partecipare alla gioia della famiglia; restava difficile seguire il filo dei
molti discorsi che si iniziavano, si intrecciavano, si riprendevano,
tante erano le domande, tanti i ricordi, tante le cose che egli aveva
da raccontare, tante quelle di cui voleva essere informato.
Del gruppo dei pietrini del Battaglione “Enna” non sappiamo dove
erano stati internati dopo l’ultimo smistamento dei prigionieri, né
come abbiano trascorso la loro prigionia. Certo è che anche loro
tornarono al paese e all’affetto dei loro cari nello stesso periodo dello
zio. Molti li abbiamo conosciuti, con alcuni di essi abbiamo
intrattenuto rapporti di amicizia.
Il ritorno dei prigionieri in patria poneva fine al lungo periodo di lutti
e rovine che aveva attraversato il mondo. Nuovi scenari si aprivano
di natura politica, economica, sociale. Si era di nuovo all’inizio.
Altri eventi I parte
Altri eventi ed aspetti del dopoguerra a Pietraperzia
di Salvatore e Maria Giordano
Quell’ estate del 1943 i lavori agricoli a li Minniti furono portati a
termine come consentì la situazione, ma senza incidenti. Il peso
maggiore era stato sopportato dallo zio Biagio: esonerato dal sevizio
militare in seguito alla morte dello zio Michele, era rientrato da
Castelvetrano e rappresentava l’unico uomo della casa che potesse
dedicarsi con costanza ai lavori della campagna. Nelle fasi del
raccolto, sino a quando non incominciarono le operazioni di guerra in
Sicilia, era stato aiutato da papà che, compatibilmente con i suoi turni
di servizio e grazie alla collaborazione di suoi commilitoni disponibili
a sostituirlo, poteva spesso raggiungerci da Terrapilata. Trascorso il
periodo della guerra e cessati i pericoli, con la liberazione dell’ isola
da parte delle forze alleate, tornammo in paese nella nostra casa di
Via 4 Novembre.
Eravamo ancora molto giovani per comprendere in tutta la loro
intensità e interpretare nella loro complessità i momenti che stavamo
attraversando, circondati dalle premure dei nostri cari che facevano
di tutto per non farci sentire alcun disagio. I ricordi della vita di
allora, piuttosto confusi e sbiaditi, sono stati rischiarati in seguito dai
racconti dei genitori e dei nonni e dalle loro risposte alle nostre
domande. Ancora oggi zia Maria, sorella di papà, l’ultima della
famiglia Giordano della generazione a noi precedente, (che ogni tanto
abbiamo la gioia di avere con noi), lei che ci fu pure vicina negli anni
della nostra infanzia, essendo allora nel pieno della sua giovinezza,
ci aiuta con i suoi ricordi, che ha ben presenti e vivi, a chiarire i nostri
dubbi riguardo a particolari degli accadimenti. Quando siamo con lei
è inevitabile che il discorso cada su quei tempi e quei luoghi e,
soprattutto, su quelle persone che erano al centro della nostra
esistenza e con le quali dividemmo un unico destino. Esse rivivono
nella nostra immaginazione con sentimenti di nostalgia e tenerezza:
manca solo la loro presenza.
«Dell’esperienza della guerra-dice Maria- ricordavo solo la paura
degli aerei e delle bombe; le incursioni degli aerei e i loro sordi
rumori, quando si avvicinavano, mi sconvolgevano le viscere; del
resto avevamo avuto pochi disagi. Mi raccontano che un giorno allo
scoppiare di un temporale, sentendo il rumore dei tuoni, rivolta alla
zia Damiana che stavo andando a trovare in via Tortorici Cremona,
a pochi passi da casa nostra, « Mamma, zi’ Dommià», mi misi a
gridare, «zi’ Dommià, aiutu ca mi stanu bummardannu ‘ntesta! ».
In paese l’atmosfera non era lieta; la guerra era durata poco e aveva
provocato modesti disastri, ma tante preoccupazioni occupavano il
cuore della gente. La liberazione aveva riguardato soltanto parte del
sud d’Italia; nel resto della penisola gli alleati stentavano a sfondare
le linee tedesche e ad avanzare verso nord. Contingenti militari
italiani erano presenti nei vari teatri di guerra, in Iugoslavia, in
Albania, in Grecia, in Russia. Le famiglie che avevano congiunti ai
vari fronti non avevano cessato di temere per la sorte dei loro cari.
Ma altri eventi erano intervenuti in quel periodo a rendere più
complicata e difficile la situazione in Italia. I fatti sono noti; li
riassumiamo brevemente.
Nel luglio del ’43, con le forze anglo-americane già in Sicilia,
destituito e arrestato il suo capo, l’esperienza del governo fascista è
finita. Il nuovo esecutivo, presieduto dal Gen. Badoglio, concluso
l’armistizio separato con gli Alleati, ne dà l’annuncio l’8 settembre. I
termini poco chiari del proclama non fatto seguire da precise
indicazioni operative (…”ogni atto di ostilità contro le forze anglo-
americane deve cessare”…”le forze italiane reagiranno ad eventuali
attacchi da qualsiasi altra provenienza ) creano grande
disorientamento nelle forze armate italiane, a tutti i livelli, con
disastrose conseguenze. I tedeschi, all’annuncio dell’armistizio, da
alleati sono diventati forze di occupazione. I nostri quadri militari non
sanno cosa fare né quali ordini impartire ai loro reparti di fronte alla
scelta drammatica se arrendersi ai tedeschi, combattere al loro fianco
o contro di essi. Si verificano casi di suicidio da parte di alti ufficiali
per non subire l’onta della cattura e della prigionia; episodi di interi
reparti che reagiscono con le armi alle condizioni dei tedeschi e
cadono in combattimento o, se superstiti, vengono barbaramente
trucidati6. Sono i luoghi e le particolari circostanze in cui ciascuno si
trova che determinano le scelte individuali e di gruppo. L’esercito
italiano è in gran parte formato da contadini del meridione; il primo
impulso è quello di tornare a casa e comunque di pensare alla
sopravvivenza7. Di quelli che tentano la via del ritorno a casa, molti
sono catturati e fucilati o deportati, come successe al nostro
concittadino Liborio Meglio, (6/9/1912), finito nel campo di sterminio
di Flossenburg (Norimberga). Alcuni vi riescono, sfuggendo
fortunosamente ai rischi della cattura, tra mille difficoltà e dopo molti
6 Montanelli-Cervi, Storia d’Italia-L’Italia del Novecento, Milano, Fabbri Editori, 1998, pp.244-245. 7La situazione era quella che avremmo vista rappresentata nel film di Luigi Comencini, Tutti a casa, del 1960, con
l’interpretazione di Alberto Sordi.
giorni di cammino: nascondendosi di giorno e camminando di notte,
sempre lungo le linee ferrate, dormendo, quando possibile, nei
casolari ferroviari, nutrendosi di frutta e di quello che offriva la
campagna e qualche famiglia di buon cuore. Tale fu l’esperienza di
un nostro parente, che, partito il 13 settembre assieme ad altri
commilitoni, da Gorizia, dove prestava servizio, giunse a Pietraperzia
dopo 23 giorni di viaggio. Intercettati una sola volta, ormai nei pressi
di Salerno, da carabinieri italiani e portati al comando inglese, furono
trattenuti per due giorni ed impiegati in lavori di scarico viveri da una
nave. Fu l’occasione per potersi rifocillare, fare rifornimento di
scatole di sardine e di carne. Lasciati inoperosi e senza alcun
controllo, ripresero il loro cammino8.
Altri, invece, isolati di reparti allo sbando, trovano rifugio presso
famiglie del luogo con le quali avevano instaurato buoni rapporti, si
accasano e lì superano, senza conseguenze, il periodo della guerra
civile, e vi rimangono per il resto della loro vita.
Ma la storia documenta anche di moltissimi militari che, abbandonate
le caserme al seguito di loro ufficiali, vanno verso le montagne, a
ingrossare le fila delle “bande partigiane” che erano incominciate a
formarsi, dando vita alla resistenza armata per liberare l’Italia dai
nazifascisti. Il regime fascista, infatti, ripristinato con la liberazione
del suo capo, e organizzato nella Repubblica Sociale Italiana (RSI)
con l’intento di far rivivere un nuovo stato fascista repubblicano,
sostenuto dai soldati ad esso rimasti fedeli e forte dell’appoggio
militare tedesco, governa l’Italia settentrionale ancora occupata. Dal
1943 al 1945 il nostro Paese, quindi, rimase diviso in due: Regno del
8 Testimonianza di Vincenzo Siciliano (Vicinzu Barraggiddu).
Sud e Repubblica Sociale Italiana (o di Salò dal nome della cittadina
in provincia di Brescia, sede del governo fascista).
La guerra che imperversò per due anni in quella parte d’Italia fu,
pertanto, una vera e propria guerra civile. Essa conobbe atti di feroce
crudeltà e di inumana rappresaglia anche nei confronti di popolazioni
inermi, soprattutto ad opera dei tedeschi.
Ma la delimitazione fu solo geografica. È senza fondamento la
convinzione che la resistenza per la liberazione dell’Italia dalla
dittatura nazifascista sia stata “faccenda”esclusiva della gente del
nord. Ad essa parteciparono, con contributo di sacrifici e di sangue,
uomini e donne provenienti da tute la parti d’Italia. Perché, se da una
parte “prevalevano le divise”, dall’altra, nelle formazioni partigiane
“si parlavano tutti i dialetti”9.
Non esistono dati certi circa il numero di meridionali che scelsero di
combattere per la libertà. Una stima parziale, fatta dall’Istituto di
Storia della Resistenza di Torino (ISTORETO) relativa alle squadre
partigiane che operarono nelle province di Torino e Cuneo,
ridimensiona al 20%, la precedente valutazione dello storico Augusto
Monti che sosteneva aggirarsi intorno al 40% la presenza di
meridionali in quelle formazioni10.
Per quanto riguarda, in particolare, il contributo dato dai siciliani alla
Resistenza, in un articolo sul quotidiano “la Repubblica” del 25
/4/2008, si parla di 2.600 partigiani siciliani, riconosciuti
dall’ISTORETO, che operarono in Piemonte; a parte le province di
Biella Novara e Vercelli che dipendevano dal comando di Milano11. Ad
integrazione di tale dato, portandolo a 2727 unità, l’articolo di Mauro
9 Bianco, Dante Livio, Guerra partigiana, Einaudi, 1974. 10 Amelia Crisantino, I partigiani siciliani liberatori di Torino, la Repubblica, 23 aprile 2005, sezione: Palermo. 11 Carmela Zangara, Ecco i partigiani di Sicilia, la Repubblica, 25/4/2008.
Begozzi, pubblicato sulla Rivista “Nuova Resistenza”, riporta i
nominativi di 127 combattenti siciliani presenti nelle formazioni
partigiane del novarese e del VCO (Verbano Cusio Ossola, i paesi
intorno al lago Maggiore ) tra cui 18 caduti e 3 deportati in
Germania12
Non sono solo militari ma anche operai, impiegati, ferrovieri,
studenti, carabinieri siciliani, giovani e meno giovani, provenienti da
tutte le province dell’isola, in Piemonte per precedenti migrazioni o
trasferimenti. Situazioni simili si trovavano anche in altre regioni del
nord occupate dai tedeschi. Un esempio molto noto è quello di
Concetto Marchesi di Misterbianco (CT), latinista, rettore
all’Università di Padova, il quale fu tra i primi ad incitare studenti e
professori a lasciare la scuola, dandone l’esempio, e a unirsi ai
resistenti per liberare l’Italia dal terrore nazista.
Secondo dati ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani), 211
furono i siciliani che persero la vita in Piemonte, molti dei quali
insigniti di medaglia d’oro (26), d’argento ( 85), di bronzo e di croce
di guerra. Altri 70 si immolarono nelle altre regioni d’Italia, 5 perirono
nel massacro delle Fosse Ardeatine di cui uno insignito di medaglia
d’oro, due d’argento13. Tra i caduti è indicato il nome di un figlio di
Pietraperzia: Filippo Di Blasi (Pirtusiddu), 12-9-1920, caduto in
combattimento a Chiusa Pesio (CN) il 24/3/1945. Quella di Filippo Di
Blasi è una vicenda toccante; sentirla raccontare dal cognato,
Vincenzo Guarnaccia (Vicinzu Caniglia), ci ha procurato intensa
emozione. Filippo, in servizio a Cuneo, si è fidanzato con una ragazza
12 Mauro Begozzi (a cura di), Dalla Sicilia per la Libertà. I combattenti siciliani nelle fila delle formazioni partigiane del
Novarese e del VCO. Su “Nuova Resistenza”, Luglio-Agosto 2007. Inserto speciale. 13 I dati relativi ai caduti, come quelli che riguardano la partecipazione dei siciliani alla resistenza, sono approssimativi e
parziali e non da considerare come esaustivi e definitivi.
di Beinette, piccolo comune di quella provincia, dove i genitori di lei,
sig.ri Quaranta, possiedono una grossa cascina. Dopo l’8 settembre
Filippo viene accolto dai futuri suoceri, tra l’altro figure di spicco della
Resistenza alla quale anche lui ha aderito. Della IV Divisione Alpini,
Filippo opera con le bande dislocate nelle montagne della Valle Pesio.
Le valli del cuneese, culla delle prime formazioni partigiane, sono le
zone in cui più frequenti si susseguono i rastrellamenti e più accesi i
combattimenti. Spesse volte, tra molti rischi, il nostro giovane
partigiano è sceso a Beinette, in quei venti mesi di vita di trincea,
rinsaldando il legame con la famiglia Quaranta, e parlato di
matrimonio, da celebrare a liberazione avvenuta. Quando però
manca circa un mese alla liberazione, in uno di quegli scontri che si
fanno più violenti quando la conclusione si avvicina, Filippo rimane
ucciso. La notizia colpisce e addolora la ragazza e i suoi familiari;
sono loro che si occupano del recupero del corpo e della tumulazione
nel cimitero di Beinette. La Cascina Quaranta, a Beinette, ora si trova
in Via Filippo Di Blasi: i Quaranta, membri influenti della comunità,
hanno voluto che la strada in cui si trova la loro casa fosse intitolata
al ragazzo siciliano che si era immolato per la liberazione dell’Italia.
Tra gli esempi più illustri del contributo dato dai siciliani alla
liberazione dell’Italia è annoverato, per il ruolo che vi svolse, l’on.
Pompeo Colajanni, classe 190614. Il personaggio sarebbe divenuto
molto noto a Pietraperzia: fisicamente inconfondibile per i suoi
foltissimi baffi neri, più volte, nel dopoguerra, i pietrini udirono la sua
voce robusta risuonare nella Piazza Vittorio Emanuele, durante le
14 Dalla scheda biografica ANPI di Palermo: on. .P. Colajanni, nato a Caltanissetta il 4/1/1906, morto a Palermo nel 1987
”…fu sottosegretario alla Difesa nel primo governo Parri e nel primo governo De Gasperi, ricoprì diverse cariche politiche
di rilievo nel Parlamento nazionale e nell’Assemblea siciliana. Fu segretario delle federazioni comuniste di Enna e di
Palermo.
campagne elettorali. Egli, nel 1943, tenente di complemento presso
la Scuola di cavalleria di Pinerolo, fu tra i primi, subito dopo l’8
settembre, ad organizzare, con altri ufficiali, i suoi soldati e civili, la
resistenza, fondando a Borgo San Dalmazzo (CN) la banda partigiana
“Carlo Pisacane” da cui si svilupparono le brigate “Garibaldi”. Le
imprese da lui condotte, come comandante delle brigate garibaldine
della zona del Monferrato, con il nome di battaglia di “Barbato”, sono
rimaste leggendarie. Per la sua esperienza e competenza militare fu
nominato Vice comandante del Comando Militare Regionale
Piemontese del Corpo Volontari della Libertà che riuniva i vari
raggruppamenti partigiani di diverso orientamento di tutto il
Piemonte. Furono le formazioni partigiane guidate da “Barbato” che
liberarono Torino il 28 aprile 1945. Il Comune di Cavour (TO) ha
voluto ricordare il grande partigiano apponendo sulla facciata del
palazzo comunale, in piazza Sforzini, una lapide con questa
iscrizione: «Da Cavour (TO) il 10/9/1943 con alla testa il comandante
Barbato on. Pompeo Colajanni un gruppo di militari e civili iniziò la
guerra di liberazione nella zona per dare al nostro paese pace libertà
e democrazia. L’Amministrazione Comunale e i partigiani superstiti
posero il 25 /4/1992. »
Non meno degno di essere ricordato è il Comandante “Petralia”,
nome di battaglia di Vincenzo Modica, classe 1919, di Mazara del
Vallo. Ufficiale presso la Scuola di cavalleria di Pinerolo, come
Pompeo Colajanni, ma di diversa formazione ed esperienza politica,
convinto dal più anziano tenente, lo seguì e ne divenne vice e braccio
destro. Si rese celebre come comandante della I Divisione
Garibaldina. “Petralia”era al fianco di “Barbato” nella liberazione di
Torino. A lui, ferito al braccio sinistro, toccò l’onore di portare la
bandiera del CVL ( Corpo Volontari della Libertà) nella sfilata dei
partigiani vittoriosi del 6 maggio 1945, a Torino.
La data del 25 aprile ‘45 segna la fine della guerra fratricida e la
liberazione dal nazifascismo. Dovevano passare ancora 14 mesi
prima che i prigionieri di guerra potessero tornare alle loro famiglie.
ALTRI EVENTI E ASPETTI DEL DOPOGUERRA A PIETRAPERZIA (II PARTE)
Salvatore e Maria Giordano
Assieme agli aspetti che concernevano il piano delle vicende belliche
e politiche, molte erano le difficoltà di natura materiale che
angustiavano le famiglie nel periodo del dopoguerra. Esse
riguardavano la carenza di generi di prima necessità, come
alimentari, indumenti, medicine e materie prime. Presso i negozi
convenzionati si potevano prelevare con la tessera annonaria,
distribuita dal Comune (ECA), pasta, pane, olio, zucchero, secondo
la misura prevista in base ai punti assegnati ad ogni famiglia; si
trattava, comunque, di quantità non sufficienti in rapporto alle
esigenze. Le famiglie dei contadini, che potevano contare sulla
campagna, non lamentavano disagi rispetto alla disponibilità di
prodotti base dell’alimentazione: grano per fare pane e pasta, olio,
ortaggi, frutta. Più pesanti erano le condizioni delle famiglie degli
impiegati, degli operai e degli artigiani. Questi ultimi, nelle
ristrettezze generali, ricevevano poche commissioni e mancavano
anche delle materie prime per eseguire gli ordini connessi alla loro
attività. In una civiltà contadina, la cui economia si fonda
essenzialmente sulla coltivazione della terra, è consuetudine
stipulare contratti tra le categorie, regolati sulla base del pagamento
in natura di servizi e beni, da onorare al raccolto. Contratti fondati
sul baratto erano da tempo in atto nel nostro paese tra i contadini e
gli artigiani; questa pratica andava bene per gli uni e per gli altri
specie in momenti di carestia. Ricordiamo benissimo di aver visto il
sig. Cosimo Tragno, barbiere, ritirare il pattuito presso la casa del
nonno, mentre faceva il suo giro, con un somarello evidentemente
chiesto in prestito, per le abitazioni dei clienti. E ritornare a casa con
le bisacce piene di grano. Tali forme tradizionali di contratto
andarono avanti a lungo nel nostro paese, almeno sino a quando il
modello di sviluppo rimase fondato sull’agricoltura. Le cose
cambiarono quando le mutate scelte politiche nazionali provocarono
l’abbandono delle campagne e l’esodo dei contadini verso le città
industriali del nord, dove diventarono operai presso le varie industrie.
Quelli del dopoguerra furono anni in cui, come e più di prima,
passarono ai figli i vestiti smessi dei genitori, ai fratelli minori quelli
dei maggiori; in cui scucire vecchie maglie, recuperare con cura i filati
e riutilizzarli per confezionarne di altre; in cui materassi e cuscini
vennero svuotati della lana, sostituita con materiale vegetale, lu
crinu, lana che, lavata, cardata, filata, serviva per tessere nuovi
indumenti per adulti e bambini.. Anni, insomma, in cui, per parecchio
tempo ancora, si continuarono ad usare la rocca e lu fusu, majidda,
maidduni e sagnaturi, e a cerniri farina e a mpastari lu pani, ed ogni
altra attrezzatura casalinga per confezionare a mano ogni cosa che
serviva per la vita quotidiana, dal cibo ai capi di vestiario, dal sapone
e la cinniri di minnula per pulire, ai colori per tingere indumenti.
Ad alleviare, in parte, la penuria di tali generi contribuirono gli aiuti
dell’UNRRA, United Nations Relief Rehabilitation Administation
(Amministrazione delle Nazioni Unite per la riabilitazione e il soccorso
dei paesi liberati) organizzazione umanitaria internazionale, fondata
nel 1943 a Washington, e sottoscritta da 44 Stati, con lo scopo di
portare aiuti alle popolazioni colpite dalla guerra liberate dagli alleati.
Sostenuta per il 70% dal contributo degli USA, l’UNRRA prevedeva
interventi a largo raggio che andavano dall’invio gratuito di generi di
prima necessità come prodotti alimentari per i bambini e le madri,
medicine per la lotta contro malaria e tubercolosi, distribuzione di
tessuti per confezionare indumenti, a sovvenzioni per l’acquisto
facilitato di concimi, di attrezzature, di mezzi meccanici per il rilancio
dell’agricoltura. Prodotti dietetici americani come latte in polvere,
omogeneizzati, gallette fecero sicuramente parte della alimentazione
di molti neonati pietrini dell’epoca.
« La distribuzione dei tessuti a Pietraperzia, racconta Salvatore,
avveniva in via San Domenico nel locale al piano terra del palazzo
comunale, laboratorio di sartoria di Angelo Di Gregorio. Io mi ci
recavo per andare a trovare papà che faceva parte del comitato che
sovrintendeva alla distribuzione. Fu in una di tali visite che incontrai
Rosario Mendola, Sariddu Minnula, dei Mendola di Via Roma, fratello
di Michele, Cristina, Pino, ed ebbi subito la sensazione di una
reciproca simpatia. Spirito allegro e giocherellone, così mi sembrò
dal suo sguardo, gli piacque entrare in confidenza con un bambino
molto più giovane di lui, stuzzicandolo simpaticamente con delle
trovate spiritose. Ricordo ancora la sua prima battuta: «Cosa stanno
a significare tutti questi “schinopeggi” che disegnano sulla stoffa?!»,
fece, invitandomi ad osservare gli arabeschi a zig-zag tracciati sulla
cimosa del tessuto. Da quel momento, “ciao schinopeggi”, fu il nostro
modo di salutarci, ridendo. Sariddu aveva sempre qualche curioso
fatterello da raccontare, commentandolo scherzosamente, con cui
rendeva piacevoli i momenti trascorsi in sua compagnia». «Non l’ho
mai più rivisto ma la sua figura mi è rimasta impressa».
Le operazioni dell’UNRRA si interruppero nel 1947; la prosecuzione
di molti dei progetti previsti dal piano passò alle strutture dell’ONU.
Entrarono invece in funzione le più consistenti forme di aiuti
postbellici per la ricostruzione materiale delle città distrutte dalla
guerra, previste dall’E.R.P. (European Recovery Program) noto come
“Piano Marshall”.
Nel periodo successivo alla guerra anche gli emigrati americani
intensificarono la loro spedizioni di pacchi ai parenti in Italia, forse
spinti dalle stesse istituzioni USA. Questa consuetudine contribuì ad
accrescere in noi la percezione del mito della ricchezza americana.
Molti dei nostri paesani avevano parenti emigrati in USA; anche tre
dei quattro fratelli di nonna Nina, Calogero, Francesco e Salvatore,
vi erano emigrati nei primi decenni del ‘900. La nonna parlava
sempre di questi fratelli più giovani di lei, ai quali era molto legata e
dei quali soffriva la lontananza. Non era infrequente che giungessero
alla nonna pacchi dai suoi fratelli, qualche volta anche dei dollari.
L’arrivo di un avviso dall’ufficio postale di andare a ritirare un pacco
la emozionava molto ed eccitava la nostra curiosità. I pacchi erano
così grossi e pesanti che, a volte, neanche un adulto da solo poteva
trasportarli a casa. Era nello stile degli zii non inviare indumenti o
roba usata, ma tagli di stoffa adatti a confezionare vestiti e cappotti
maschili e femminili, biancheria per la casa, lenzuola, camicie per il
nonno e per i nipoti. «Ricorderò sempre il vestito in rosatello a fiori,
dice Maria, che mamma mi fece cucire da donna Pasqualina la Pitarra
, così come ricordo un carinissimo gilè che la nonna, appena estratto
dal pacco, volle che fosse destinato a me, sicura che l’avrei gradito:
era nero con la scollatura a V e con delle bordure bianche e rosse. Lo
indossai subito e volentieri». Mike, venutoci a trovare durante la
guerra, fu l’unico che conoscemmo di persona dei nostri cugini
americani; altri ne conoscemmo tramite le fotografie che gli zii
inserivano nelle loro lettere. Conserviamo ancora quella di due fratelli
sui diciotto-vent’anni, un fratello e una sorella elegantemente vestiti,
figli di una figlia di Zio Salvatore: «così la nonna amava immaginare
i suoi due nipoti, Salvatore e me, quando fossimo cresciuti», dice
Maria.
«Per anni, prosegue Maria, curai io la corrispondenza della nonna con
i suoi fratelli. Discutere con la nonna quando decideva di rispondere
alle lettere dei fratelli era davvero divertente: storceva la bocca
quando sentiva tradotte in italiano le espressioni che lei mi veniva
dettando in dialetto; le sembrava che dicessero un’altra cosa rispetto
a quello che lei aveva voluto comunicare. In una sua lettera uno degli
zii aveva chiesto la ricetta del torrone con le mandorle e quella volta
ebbi un gran da fare, ci volle tutto il pomeriggio, ma alla fine riuscii
ad elencare ingredienti e casseruole adatte e a descrivere con
chiarezza le fasi di lavorazione. Mi sentii sollevata quando lo zio
rispose, «il torrone mi è riuscito ottimo». Anzi, volle che gli
inviassimo la fotografia della nipotina che, con tanta pazienza, teneva
viva la corrispondenza con la sorella. Li accontentammo e ne furono
felici; risposero che somigliavo alla sorella da giovane , aggiungendo
che «guardandola ci siamo fatti una “piangiutella». Allora, quando
lessi quella parola, mi venne quasi da riderne; ripensandoci, dopo
tanto tempo, la “piangiutella” viene da farla anche a me».
A rendere più triste la vita dei pietrini, alle tante vicissitudini della
ripresa si aggiungeva quello della mancanza della corrente elettrica.
L’unica centrale esistente in paese, la centrale di Callararu, che aveva
erogato energia, era fuori servizio per la scarsa disponibilità di
carburante. Al calar della sera, all’interno delle case si accendevano
i lumi a petrolio ccu lu tubbu americanu, e le antiche lumeri ad ugliu
ccu lu meccu di cuttuni. Petrolio e tubi si compravano nti Civittuni
che aveva il negozio in Via Barone Tortorici, vicino a la Matrici, e su
cui il nostro affabulatore, don Cicciu Cudduzzu, aveva ricamato una
divertente storiella in versi, Lu tubu americanu, appunto. Prima
ancora di leggerli sul libro, passi di questa e di altre poesie, noi
sentivamo recitare da nostra madre; lei è stata la nostra prima fonte
di conoscenza del poeta pietrino.
L’ottu marzu annu vintunu,
si vi spia quarchedunu,
chi cci fu ntra ‘na citati,
chistu fattu cci cuntati
[… … … ..]
Un viddanu ruppi un tubbu,
percò dissi:” Cumu addubbu
senza tubbu e ccu lu fumu
di l’assuliu ca m’affuma?
Teni cca ‘na lira e vinti
Lu v’accatti e cci lu minti.
[… … … …]
Cchiù a sta via di la Matrici
abitava un negozianti,
cu ’na machina parlanti,
ca vinnia tanti ratteddi:
sita lana zagareddi,
rinalicchi e piatta fini,
nastri, lazzi di scarpini
[... … … …]
pumittedda di gilecchi,
tazzi, lumi, tubbi e mecchi
[… … … …]15.
Nei locali pubblici, sodalizi o bar, si usavano i petromax, il cui
funzionamento consentiva la completa bruciatura del gasolio; non
emettevano fumo ed emanavano una luce bianca ed intensa. In
occasione di feste private, matrimoni, battesimi o serate danzanti, le
famiglie se li procuravano; c’era chi li affittava, o li chiedevano in
prestito, per rendere più luminosi gli ambienti in cui venivano tenute
le feste serali. Alla luce dei petromax si tennero nella casa della
nonna paterna, in Via Ville Superiori, i trattenimenti in occasione dei
matrimoni dello zio Biagio, nel 1947, e della zia Maria, nel 1948. Per
le strade il buio era totale, tanto che pochissima gente si poteva
vedere in giro dopo una certa ora: era come se continuasse
l’oscuramento del periodo bellico. Col buio, inoltre, in un paese in cui
solo qualche abitazione disponeva di allacciamento alla rete fognaria,
era facile evento riceversi addosso qualche scarica di liquido di odore
pungente. Se si era costretti a uscire per qualche serio motivo, era
necessario fornirsi di un lume; a questo scopo si prestava lu lumi di
li carrittera, di cui tutte le famiglie erano fornite. Spesse volte, dopo
esserci attardati a casa dei nonni sino a sera inoltrata, era lo zio
Francesco che ci accompagnava alla nostra abitazione. Nel caso dei
medici e delle levatrici, la cui presenza era necessaria in certi
momenti, erano solitamente i parenti dell’ammalato o della
partoriente che andavano a prelevarli a casa loro e li
riaccompagnavano. I Pietrini dovettero attendere parecchi anni
15 Francesco Tortorici Cremona, Aranci di nterra, Breve collezione di novelle e aneddoti espressi in linguaggio poetico
siciliano, con introduzione di Antonio Lalomia.
prima di poter godere delle loro case e delle loro strade illuminate;
quando quel momento arrivò fu un grande sollievo, che servì anche
a mettere di buon umore la gente. La corrente elettrica, la luci
bianca, arrivò a Pietraperzia nel 1951, tramite l’allacciamento con la
centrale di Caltanissetta. Fu per tutti una gioia potersi liberare
finalmente del fumo e dell’odore del petrolio; era comodo, inoltre,
potere, con una sola lampadina, dedicarsi ciascuno a ricamare, cucire
e a leggere anche in punti distanti della stessa camera. Tuttavia,
come tutte le novità, l’innovazione trovò qualche resistenza da parte
delle persone più anziane, le quali si opposero all’attacco nelle loro
case, sentendosi più sicure del sistema di illuminazione centrato sulla
tradizionale lumera, che meglio conoscevano e potevano controllare.
La prima cabina di trasformazione, con una porta d’entrata e una di
uscita, fu costruita in fondo alla Discesa S.Orsola, a qualche decina
di metri da Via della Pace. Con l’aumentare delle richieste di
allacciamento da parte delle famiglie, fu presto necessario costruirne
un’altra. La società erogatrice dell’energia elettrica era la SGES,
(Società Generale Elettrica della Sicilia); la persona addetta alla
gestione tecnica dell’impianto a Pietraperzia fu, per molti anni, il sig.
Castelli che divenne presto noto in tutto il paese. Alto, con pochi
capelli, una parlantina veloce, oltre che esperto conoscitore del suo
mestiere “Castelli”, come comunemente veniva chiamato omettendo
il nome, tanto che ora ci sfugge, era persona disponibile, cordiale,
pronta ad ascoltare tutti; e tutti a lui si rivolgevano con fiducia per
qualsiasi problema inerente al servizio. A cercarlo lo si poteva
incontrare facilmente in piazza, mentre si recava, indaffaratissimo, a
soddisfare qualche richiesta. Il nome di Castelli, Giuseppe, non
sfugge invece a Lillu Maddalena, figlio dello storico pietrino Giuseppe
Maddalena, che, per via della sua attività, gestore del “Mulino La
Monica-Maddalena”, ebbe spesso a che fare con lui. Castelli, racconta
tra l’altro Lillu, aveva le mani coperte da spessissimi calli a causa
delle scariche elettriche che aveva preso toccando, a mani scoperte,
fili in tensione. Ora quella massa callosa gli serviva da protezione ed
egli continuava con noncuranza a fare come prima, suscitando la
meraviglia degli astanti: quando lo mettevano in guardia, Castelli
alzava e faceva vedere le mani, come a dire che non c’era da
preoccuparsi, ormai.
La SGES cessò la sua attività alla fine del 1962, quando con la legge
della nazionalizzazione dell’energia elettrica (L. 1643 del 6/12/1962),
voluta dal primo governo di centro sinistra, fu creato l’ENEL, che
assorbì circa 1270 imprese che operavano nel settore della
produzione commercializzazione e distribuzione dell’energia elettrica.
Ma la gente non stava con le mani in mano, contando soltanto sugli
aiuti esterni. Le diverse attività erano rallentate per forza di cose, ma
mai si erano interrotte del tutto. In quegli anni l’ansia e la volontà di
ripresa erano segnate dalla presenza nelle strade di vecchi e nuovi
personaggi, di ogni genere di venditori ambulanti, commercianti
anche improvvisati, artigiani, che offrivano servizi ed ogni tipo di
merce. Erano salinari, venditori di sarde salate, di baccalà, di olio, di
frutta, di uova, di cannistra e panara, impagliatori di sedie, ombrellai,
canciacapiddi. Non era strano vedere in mezzo alla via piccoli
assembramenti di donne attorno a lu purciddaru -venditore di
porcellini mentre, tra gli acuti grugniti delle malcapitate bestiole,
sceglievano, si consigliavano, valutavano, contrattavano e tornavano
a casa con il loro roseo o nero lattonzolo. Perfino l’inchiostro si poteva
acquistare; lo vendeva, sfuso, un signore che andava in giro con una
vecchia bicicletta con un paio di bocce impagliate piene, ben
assicurate sul portabagagli. Quando arrivava si faceva subito
riconoscere per il suo verso e la sua voce inconfondibili: “Inchiostlo
pe’ sclivele…”, annunciava, alla maniera dei cinesi quando parlano
l’italiano, strappandoci anche qualche risata.
Tra i venditori ambulanti del paese, Calogero Barone, Liddu lu
Puntinaru, era il più noto e conosciuto. Tornato dalla prigionia aveva
ripreso a girare per le strade con il suo fagotto sulle spalle contenente
merce varia per uso personale e domestico, dalla biancheria intima
per uomini e donne, adulti e bambini, alle tovaglie da tavola, alle
lenzuola ecc., tutta merce di ottima qualità. «Si conservano ancora
belli, dopo molti anni, degli asciugamani di spugna in puro cotone
che la mamma comprò da lui per il mio corredo», dice Maria. Piaceva
a Liddu fermarsi e discutere con le clienti, alle quali offriva la sua
mercanzia elencando i vari prodotti e decantandone i pregi. Era un
uomo buono e pieno di fede; riprendendo il cammino, nella paziente
accettazione della sua quotidiana fatica, non mancava di pronunciare
la frase: «avanti, Liddu, in nome di Dio, va’ guadagnati la pagnotta».
Fino a quando ce lo ricordiamo, non smise mai di esercitare questo
lavoro; col passare del tempo e l’avanzare dell’età si era comprato
un somarello, sulla groppa del quale aveva potuto caricare maggior
quantità di roba, risparmiando così un po’ di fatica. In anni più vicini
a noi il figlio maggiore,Vincenzo, continuando nell’attività paterna, si
sarebbe procurato un furgoncino.
Un modo originale di vendita era quello del “lunario”, il venditore a
rate del lunedì. Lu lunariu vendeva la stessa merce di Liddu lu
Puntinaru, ma passava a ritirare le rate pattuite ogni lunedì;
concedendo alle acquirenti più tempo per il pagamento della merce
acquistata, esse si sentivano incoraggiate a comprare. La vendita a
rate in forme diverse si sarebbe incrementata ed allargata a
moltissimi prodotti.
Un mestiere che non si ricorda neanche più che sia esistito, e che
può perfino far sorridere in un’epoca in cui, piuttosto che riparare un
oggetto rotto, si preferisce sostituirlo con uno nuovo, era quello di lu
conzapiatti. Era comune usanza del nostro paese adoperare grossi
piatti di terracotta smaltata ad uso dell’intera famiglia, dove veniva
scodellata la pastasciutta e più persone potevano, ciascuno dalla
propria parte, affondare la forchetta. L’acquisto di tali piatti avveniva,
per lo più, durante le fiere di ferragosto o della Madonna del Rosario
ai primi di ottobre: Erano belli e robusti questi piatti, fatti a mano,
pertanto non raffinatissimi, smaltati e pitturati con colori vivaci. Sul
bordo del piatto scorreva tutt’intorno una greca, generalmente
azzurra; all’interno dominavano il verde, il giallo, il rosso, che
dipingevano i soggetti rappresentati al centro: spighe dorate, cesti di
frutta. I piatti più venduti erano quelli col motivo del gallo: altero,
impettito, cresta rosso vivo, due grossi bargigli, una coda lunga e
fitta di piume brillantissime. Quando si rompeva uno di questi piattoni
era un dispiacere per la massaia, sia per la spesa ed i possibili
rimbrotti del marito, sia perché poteva non essercene uno di ricambio
e magari si era ancora lontani dalla più prossima fiera. Per fortuna
c’era lui, l’aggiustapiatti, lu cunzaturaru. I cocci del piatto rotto
venivano messi da parte, prima o poi lui sarebbe passato. Le famiglie
che hanno conservato tali oggetti li adoperano adesso per ornare
cucine o altri locali, appendendoli alle pareti a mo’ di quadri. Uno
bellissimo, ancora come nuovo, fa mostra di sé nella casa di Graziella
e Saro Siciliano, a Santena, collocato sopra il bordo superiore della
cappa del camino del forno, all’interno della tavernetta: testa alta,
possente cresta rossa, il gallo, nei suoi sgargianti colori, domina al
centro del piatto; fiero, quasi abbia coscienza del proprio ruolo, fa
pensare a un generale in alta uniforme.
Lu conzaturaru, che girava per le strade del nostro paese era un
uomo non più giovane e che, chiamato dalle donne che avevano
sentito il suo annuncio, si fermava a riparare, “cunzari”, piatta, tazzi,
ggiarriteddi, vasi, boccali ed altri recipienti di terracotta. Portava sulle
spalle una cassettina di legno contenente gli attrezzi da lavoro: un
piccolo trapano, tenaglie, pinze, lima, un rotolino di fil di ferro e un
barattolino di latta contenente una sostanza molle di colore grigio, il
mastice. Più che strumenti di lavoro, i suoi sembravano giocattoli,
quasi che egli andasse in giro per far divertire i bambini più che per
guadagnarsi da vivere. I bambini, infatti, si fermavano ad osservare
lu conzapiatti mentre adoperava quegli attrezzi minuscoli, coi quali
loro avrebbero volentieri giocato, e la montagnetta di polvere color
della creta che si depositava ai suoi piedi e che copriva il suo
grembiule di grossa tela. «Io lo vidi all’opera una volta davanti la
porta di casa di nonna Nina, in via Ville Superiori», dice Maria.
«Posata a terra la sua cassetta e ricevuti dalla nonna i cocci del piatto
si mise a verificare con attenzione che combaciassero perfettamente.
Appoggiati poi i cocci del piatto su una tavoletta di legno che si era
sistemata sulle gambe, col suo piccolo trapano vi praticò i fori
necessari; tagliò dal suo rotolino dei pezzetti di fil di ferro, ne fece
delle graffette e le introdusse nei fori dalla parte interna dei pezzi da
unire, tenendoli strettamente accostati. Attorcigliò ben bene le
estremità sporgenti delle graffette e le ripiegò in modo che facessero
meno spessore. Sopra i punti infine passò il mastice».
«Cummà», disse il conzapiatti alla nonna consegnando il piatto
cucito, « lassatilu asciucari tantì, appena s’asciuca lu piattu jè
prontu». Pagato il pattuito, la nonna, cui era consuetudine offrire
sempre da bere a chiunque passasse da casa sua per visita o per un
servizio: «Cumpà», disse, «bbunu vinni lu piattu, sprammu ca nun
perdi; ntantu vivitivi stu bicchiri di vinu».
«V’arringrazziu cummà, salutatimi a Pasquali».
Nel frattempo la gnura Cuncittina, affacciatasi sulla porta, chiamava
lu cunzaturaru : «Passassi di nti mi’ ca aiju u’ llemmu di cunzari».
Il piatto riparato restava comunque sempre lu piattu cunzatu, ed era
utilizzato come ripiego: equilibrio e tenuta lasciavano spesso a
desiderare. Nella novella La giara Luigi Pirandello, nel personaggio di
Zi’ Dima Licasi, ha reso immortale la figura del “conciabrocche”.
Per la vendita di pizzi, merletti, nastri di raso e affini, erano famose
le modicane. Arrivavano da Modica (RG) ed erano le stesse che, in
estate, venivano a spigolare nei nostri campi. «Ne ebbi una prova,
dice Maria, un giorno che una venditrice di pizzi passò da casa mia
per vendere i suoi merletti. La riconobbi per averla vista a
Marcatobianco, dai nonni, durante il periodo della trebbiatura del
grano. Volentieri la donna si fermò a bere e a chiacchierare con la
mamma da vecchi conoscenti».
Modicani e sciclitani praticavano una specie di nomadismo estivo:
singolarmente o in piccole carovane di due tre carri, sui quali
caricavano tende ed attrezzature, dopo aver viaggiato anche di notte,
arrivavano con tutta la famiglia dalle nostre parti, luoghi di
coltivazione estensiva del grano. Si accampavano in posti vicini a
qualche casa colonica e in prossimità di pozzi, e vi restavano per
qualche tempo o per tutto il periodo della loro spigolatura. Se
l’esperienza era stata positiva anche dal punto di vista dei rapporti
umani con le persone del posto, vi tornavano l’anno successivo. Ai
tempi della nostra infanzia, viveva a la rrobba di li Minniti, una
famiglia di modicani, lu Massaru Saru e la gnura Grazziedda, che,
arrivati un’estate per spigolare, ottenuta della terra da coltivare a
mezzadria, vi erano rimasti definitivamente. Avevano tre figlie
femmine Carmela, Palmina e Maria. Ce li ricordiamo come persone
laboriose, buonissime e pazienti.
Forniti di sacchi e di sacchini, dalla postazione base, i modicani si
spostavano anche di chilometri, spigolando tutto il giorno nei campi
dove i covoni erano stati ritirati e il grano trebbiato. Tornavano
all’attendamento la sera per depositare il raccolto e riprendere il
giorno dopo, fin dalle prime luci dell’alba. Così, giorno dopo giorno,
spiga dopo spiga, riuscivano, alla fine, a mettere insieme, dopo
accurato lavoro di battitura e di pulitura, alcuni tumoli o alcuni sacchi
di grano, a seconda delle annate. Lo spiazzo di fronte al fondaco di
Marcatobianco, proprio dove vivevano i nonni, d’estate era sempre
occupato da qualche famiglia di modicani. La presenza del pozzo a
pochi passi, la grande estensione, nel feudo, di terra coltivata a
grano, lo rendeva un posto strategicamente adatto a piantarvi le
tende. Per molti anni vi si accampò una famiglia di sciclitani, quella
dei Ficili, composta dal padre, Bartolomeo, Vartulu, madre Ignazia,
Tudda, e i figli Francesco e Giuseppina, Ciccio e Pina. Il nonno che,
per istinto, intuiva l’indole delle persone, non fece mai mancare la
sua generosa disponibilità a questa famiglia. Con la disposizione sua
e della nonna a trasformare in amicizia ogni nuova conoscenza, si
stabilì con suoi componenti un rapporto di familiarità e di fiducia che
continuò per tutta la vita, fino ad interessare figli e nipoti. Il nonno
consentiva loro di attingere acqua al pozzo, dava la disponibilità di
un magazzino all’interno del fondaco per depositare gli attrezzi e i
sacchi del grano; a utilizzare il forno per la preparazione del pane. La
famiglia Ficili si mostrava altrettanto generosa nel ricambiare tale
ospitalità, rendendosi utile e, soprattutto, compari Vartulu, abile e
versatile nell’usare aghi e filo da vardunaru, ascia e pialla come un
mastru d’ascia, riparava visazzi, rutuna, varduna e finimenti, carri e
strauli ed altri attrezzi agricoli. «Mastru Vartulu», gli diceva il nonno,
«vu’ muririti poviru, sapiti fari tanti cosi utili e nu’ vi faciti pagari».
Con la signora Tudda si facevano assieme pane e dolci e spesso si
mangiò a tavola pane di pasta dura alla maniera modicana. Quando
la violenza della malattia non consentì più allo zio Filippo di lavorare,
la famiglia Ficili arrivava da Scicli già all’inizio del periodo della
falciatura del grano per dare una mano. Vartulu e Tudda non ci sono
più, ma Pasqualino, nostro cugino, mantiene ancora rapporti di
amicizia con Ciccio, con il quale aveva giocato da bambino. Si
sentono spesso al telefono e, quando si reca in Sicilia, Pasqualino va
a trovarlo. Francesco, che ora abita a Ragusa e lavora presso il
Comune, quando sa dell’arrivo dell’amico programma le sue ferie in
modo da poterlo accogliere e dedicarsi a lui libero da impegni
lavorativi.
Un’attività economico-commerciale affatto nuova, legata alla
situazione post bellica, era quella della compravendita di robbi
americani. Alcuni pietrini la intrapresero con successo, realizzando
buoni guadagni tanto da migliorare la loro precedente condizione ed
investire in altre imprese. Tali nuovi imprenditori compravano, a
basso prezzo, enormi quantità di indumenti, per lo più usati, di tutte
le fogge e le misure, grossi ritagli di stoffa e accessori vari, tutti
affastellati e pressati insieme alla rinfusa in grosse balle. Bastimenti
carichi di tale materiale arrivavano al porto di Napoli dagli Stati Uniti.
Gli articoli imballati venivano da lì smistati in molte zone d’Italia. Ad
ogni nuovo arrivo i commercianti vi si recavano personalmente per
assicurarsi la merce. Essi, successivamente, smantellavano le balle
selezionando e suddividendo gli articoli per tipo e qualità, che
vendevano al minuto a differenti prezzi, con grossi margini di
guadagno. Anche al minuto, però, i prezzi praticati erano accessibili;
la curiosità e la speranza di trovare nel mucchio qualche pezza buona
attirava molta clientela. Tale era l’interesse della gente ad essere
informata dei nuovi arrivi che stavano all’erta aspettando l’annuncio
del banditore.
Questo tipo di mercato ebbe molto successo soprattutto nel mondo
femminile. Tra i primi e più noti protagonisti di tale redditizio
commercio era molto conosciuta Beatrice, Bijatrici per i pietrini. Nel
campo del vestiario usato il suo nome attraversò un momento di
notorietà per tutti gli anni cinquanta ed oltre. Bijatrici vestì
all’americana molte signore pietrine di ogni età e ceto sociale.
L’affluenza al suo negozio era forse dovuta anche al carattere
benevolo e cordiale della titolare, allo sguardo sorridente e aperto sul
viso rubicondo, mentre seno e pancia si muovevano come seguendo
un accordo musicale. Coraggiosa e disinvolta, Beatrice esercitava la
sua attività in autonomia e libertà. La collaborazione del marito
consisteva nel non impedire che ella conducesse il suo commercio,
concedendole piena fiducia, preferendo una vita tranquilla ai fastidi
che l’attività comportava. Al momento di ogni nuovo arrivo,
numerose signore, fin dalle prime ore del mattino, si recavano a casa
di Beatrice, dove teneva il negozio, con andatura quasi ansiosa,
perché ognuna voleva essere la prima ad avere l’opportunità di
scegliere le migliori pezze. La casa di Beatrice non era grande e tutto
l’insieme consisteva in una sola camera, una camera multiuso: in un
angolo c’era la cucina, in un altro il gabinetto, chiuso dietro una tenda
di stoffa americana; la parte più ampia della camera era occupata
dal letto, sul quale Beatrice sparpagliava la sua merce. Non fu raro
vedere la mercanzia scivolare improvvisamente da una parte o
dall’altra sottratta alla scelta della gente, come se uno spiritello
dispettoso aleggiasse in quella casa- negozio improvvisato. Le
signore venivano subito rassicurate da Beatrice con una risata:
nessuno spirito aveva mosso la roba, era suo marito che era rimasto
sotto perché dormiva quando lei aveva sistemato la merce e non
aveva fatto in tempo ad alzarsi prima del loro arrivo. E chissà se nel
dormiveglia, coperto da morbide sete americane odorose di strano
profumo e cullato dal vocio di signore intente a scegliere un capo che
le facesse sognare, in quel momento anche lui sognasse di trovarsi
sull’ oceano a navigare per chi sa quali lidi.
Altri avvenimenti, intanto, avevano cominciato a profilarsi,
sconvolgenti e traumatici. Essi vedevano protagonisti anche
moltissimi pietrini.
Il mio primo giorno di scuola
di Maria Giordano
Ho sempre avuto la passione per i libri che mi sono stati compagni
della vita. La lettura l’ho sempre amata, fin da bambina.
Quando mio fratello cominciò ad andare a scuola ero quasi gelosa
di lui che aveva un libro tutto suo, e sapeva leggere! E vederlo
andare via con la sua cartella? Era un magone che si ripeteva tutte
le mattine.
Tutto questo io sognavo per me e mi andavo costruendo il mio
percorso scolastico.
Conoscevo delle maestre e, in particolare, una era quella che avrei
voluto proprio per me. Frequentava l’Azione Cattolica, dove più volte
andavo con la mamma che in quel periodo era la presidente delle
Donne Cattoliche; era lì che l’avevo conosciuta: era carina, ben
pettinata, e aveva lo sguardo dolce.
Il mio primo giorno di scuola iniziò però in modo molto diverso da
come me l’ero immaginato.
Partii da casa felicissima, quella mattina, il mio sogno si stava
avverando.
Indossavo il grembiule blu con il collettino bianco con sopra legato
un grosso fiocco azzurro, come allora era d’uso, che sembrava una
colomba pronta a spiccare il volo; ero molto orgogliosa della mia
prima, nuova cartella: non era la comune cartella di cartone ma di
cuoio nero, del tipo di quelle che alla mamma erano piaciute di più,
non solo perché davvero più belle ma anche perché, essendo più
robuste e resistenti, potevamo finirci l’anno scolastico e servire per
qualche anno ancora. Le cartelle, naturalmente, erano state
comprate uguali, la mia e quella di mio fratello, altrimenti erano guai!
Dentro venivano messi un quaderno a quadretti, perché era più facile
imparare a tracciare le aste, una matita e un temperino. Dopo
qualche mese venivano aggiunti il quaderno a righe, la scatola con
sei colori marca Giotto, la penna e il libro di lettura. La penna a
cannuccia aveva un pennino in rame che bisognava manovrare con
attenzione altrimenti si sgangherava subito; per scrivere occorreva
intingerlo nel calamaio che era inserito nel banco e che veniva
riempito tutte le mattine dalla bidella. Il banco, composto da un
sedile lungo e stretto senza schienale e da un piano di appoggio
piuttosto ruvido, serviva a più bambini che si sedevano uno accanto
all’altro. La bidella, che era anche la custode della scuola, era una
zitella dai modi burberi ma di un burbero finto, “benefico”, come
scoprivamo dopo qualche giorno, perché voleva bene a tutti i
bambini. Viveva, assieme ad un fratello, anche lui scapolo, in un
appartamentino di pochi locali all’interno dell’edificio scolastico, che
era una costruzione antica con corridoi e ambienti molto spaziosi; le
stesse aule erano degli enormi saloni con soffitti a volta altissimi.
Per andare a scuola non ebbi la fortuna di fare la strada assieme a
mio fratello perché le scuole femminili non erano accanto a quelle
maschili ma molto distanti da quelle situate nella parte opposta del
paese.
Il primo giorno andai accompagnata dalla mamma; ero sicura,
serena, fiduciosa. Ma grande fu la mia sorpresa quando entrai
nell’aula e vidi quella che doveva essere la mia maestra. Il mio
stupore si tramutò subito in disperazione: dov’era finita la maestra
dei miei sogni? Eppure esisteva, io l’avevo vista e conosciuta, sapevo
che aveva bimbe di prima elementare. Evidentemente io non ero
stata scritta nel suo elenco e perciò dovevo rassegnarmi e restare in
quella classe con quella maestra… Almeno così la pensavano gli
adulti. E più la guardavo, più quella, vista con i miei occhi, mi
appariva un mostro: piccola, goffa, tutta nera dai vestiti ai capelli,
con due grossi baffi! La guardavo e, costernata, pensavo all’altra,
così bella, esile, dolce, vestita bene… Ruppi in un pianto inconsolabile
che mise la mamma in grande imbarazzo e che, mortificata, si
scusava con la maestra per me che non capivo quello che facevo.
Intanto mi riportò a casa; non si sentì di lasciarmi a scuola in quello
stato, era certa che a casa mi sarei calmata e convinta. Ma non ci fu
niente da fare: sarei tornata a scuola solo se mi cambiavano di
maestra. Della cosa si parlò in tutta la scuola.
Mio papà, visti inutili tutti i tentativi di convincermi e dietro quel
mio pianto disperato e ininterrotto, prese lui in mano la situazione;
ne parlò con il direttore didattico che mise a posto la cosa secondo i
miei desideri. Tornai a scuola vittoriosa e felice; fui ben accolta dalla
nuova maestra, molto lusingata per la preferenza ma dispiaciuta per
essere stata causa, senza volerlo, di una situazione così delicata.
Intanto io superai l’incubo in cui ero vissuta e tornai alla realtà: per
me fu la realizzazione di un sogno: andare a scuola e da quella
maestra. Tutte le mattine la raggiungevo in chiesa da dove passava
prima di andare a scuola e, dopo la messa, insieme, mano nella
mano, ci avviavamo verso l’edificio scolastico. Così fino alla fine
dell’anno che per me si chiuse con la promozione a pieni voti.
Ogni anno all’inizio delle scuole corro sempre col pensiero al mio
primo giorno di scuola, così movimentato, così triste, così lieto, che
non dimenticherò mai. ».
Via 4 Novembre e dintorni . Caratteri e tipi. (1)
di Salvatore e Maria Giordano
Ritorno in paese
Con il ritorno in paese ebbero fine le vacanze in campagna e con esse
i giochi all’aria aperta: rincorrere le farfalle, stanare le lucertole, fare
la marmellata schiacciando i fichi sulla mattonella, preparare i
biscotti pasticciando con la farina. Cessarono le arrampicate sulle
rocce e sugli alberi, la ricerca dei nidi, il piacere di ammirare
meravigliati, nelle ore più calde della giornata lo spettacolo dei falchi
che, libratisi in aria volteggiavano leggeri sullo sfondo della volta
azzurrissima del cielo o si lasciavano cullare dal vento, simili ad
aquiloni tenuti da un filo invisibile. Finirono anche le entusiasmanti
escursioni al Salso, tutte le lvolte che lo zio Biagio ci portava con sé
a raccogliere li pumadoru, li milinciani, li pipi e li muluna di xiauru
che coltivavamo nell’orto della piana. Al fiume ci piaceva giocare coi
grossi ciottoli neri e levigati; lucentissimi mentre erano ancora
bagnati, tolti dall’acqua presto si asciugavano, perdendo la loro
brillantezza, e apparivano opachi e coperti da una polverina bianca.
Noi ne prendevamo alcuni di varia grandezza e ce li portavamo a
casa, ci attraeva la loro forma rotonda e liscia; li usavamo per
schiacciare le mandorle.
Era però altrettanto appagante, in paese, andare a trovare i nonni.
Tutti i pomeriggi, salvo imprevisti, eseguiti i compiti scolastici,
correvamo a casa loro in Via Ville Superiori. Lì trovavamo le cugine
Antonietta e Rocca, Totò, Maria e Vincenzina, figlie della zia Lucietta,
le cui abitazioni sorgevano a poca distanza da quella dei nonni. Nonna
Nina, che attendeva il nostro arrivo, aveva predisposto le tasche della
sua lunga gonna nera riempiendole di leccornie, come biscottini a
forma di animaletti, i famosi nnicchinnà: con gesto improvviso, che
chiamava l’ammuccata, ce li cacciava in bocca al momento di
salutarla; li muscardini sicchi, dolcissimi, che sgranocchiavamo con
avidità. Canestrate intere di moscardini freschi e morbidi non
mancavano comunque mai a casa della nonna, che ne era abilissima
confezionatrice. Nelle capienti tasche del suo grembiule trovavano
posto anche i ceci tostati, li ciciri calliati, che lei stessa preparava, di
cui eravamo pure molto ghiotti. In una grossa padella posta sul
fuoco, contenente già della sabbia di fiume, metteva i ceci sbollentati
che, a contatto con la sabbia sempre più calda, man mano che la
nonna li rigirava con un lungo cucchiaio di legno, prendevano quel
colore tipico tra il bianco e l’avana. Quando, a suo parere, i ceci
avevano preso la giusta tonalità, versava il contenuto della padella
in un setaccio e, fatta cadere la sabbia, restavano i ceci tostati,
coloriti e friabili, che travasava in un panierino di paglia intrecciata,
con il fondo ormai sfilacciato e bruciacchiato. I ceci ci piacevano
anche verdi; grosse bracciate di piante con i semi attaccati ne
portava tante volte lo zio Francesco dalla campagna. Ceci tostati
venivano venduti sulle bancarelle della frutta secca, soprattutto nel
periodo natalizio, ma non avevano niente a che vedere con la
friabilità, la freschezza e la bontà di quelli preparati dalla nonna.
Ancora oggi i ceci tostati si trovano anche nei mercati rionali di
Torino, in sacchetti o sfusi venduti a peso: «Quando vado al
mercato» dice Maria «mi lascio attirare e ne prendo qualche bustina,
li offro alle mie sorelle e agli amici che vengono a trovarmi e che
volentieri li accettano come occasione di ritorno a vecchie sensazioni
e ad allegri e nostalgici commenti».
Andando dalla nonna conoscemmo molte persone che non sapevamo
fossero nostri parenti. Di parenti i nonni ne avevano tanti, sparsi nei
diversi quartieri del paese; in molti venivano a trovarli di proposito o
passavano a salutarli trovandosi nei dintorni di via Ville Superiori per
i loro affari. Se ci fosse stato un dubbio su qualche persona di cui si
stava parlando, la nonna lo risolveva subito: la persona in causa era
ma cuscina Giuannina o ma niputi Cuncittina o ma cummari Filippa.
E se uscivamo con lei era la stessa cosa, tutte le persone che
incontravamo la salutavano: bongiornu cuscina Nì o ssa bbanadica
zi’ Nì, se era una persona giovane; e magari si fermavano a
raccontarsi le ultime reciproche vicende familiari. Ed io spesso,
continua Maria:
- «Ma mamma Nì, cu jera ssa fimmina ca t’ha ssalutato ora ora?»
- « Bbi’ Mariuzzè,… ma figliozza Catarina, figlia di ma cummari
Maracava la Campanedda».
La casa di via 4 Novembre
Noi abitavamo al n° 72 della Via 4 Novembre, prima parallela a Nord
del Corso Umberto I, la strataranni. Dedicata com’è alla data della
vittoria della Grande Guerra (1915/1918) che completò l’unificazione
dell’Italia, la via 4 Novembre ben si inserisce, e ne costituisce
coronamento, nel gruppo di strade della zona intitolate ad eventi e
personaggi della storia patria, siciliana e pietrina. Essa si estende,
infatti, da via Giuseppe La Masa alla Discesa Leone, per tutta la
lunghezza del più noto corso di lu ringu di sutta; la via Tortorici
Cremona la separa dalle vie Garibaldi e Capitano Bivona; a poco
meno della metà del suo percorso incrocia la discesa Rosolino Pilo,
perpendicolare al corso Umberto16. Esattamente a quell’incrocio
sorgeva, (e sorge ancora, abitata da altri) la nostra casa.
L’abitazione, che era composta dalla parte anteriore ristrutturata del
piano terra e dal piano superiore dello stabile che era stato lu tarpitu
della famiglia di papà, ne formava l’angolo, la cantunera nord/ovest;
mamma e papà vi andarono ad abitare subito dopo il loro
matrimonio. In quella casa di via 4 Novembre ebbe inizio la vita di
noi, quattro figli; è lì che abbiamo trascorso la nostra infanzia e parte
della giovinezza, fino agli inizi degli anni ’60 del ‘900. Di essa
rivediamo ogni componente, ogni angolo: la porta d’ingresso a due
ante ccu li stanghi e lu licchettu di firru, il pianerottolo in cima alla
scala, dove si aprivano le entrate per la stanzetta e per la camera
grande con i mobili in legno di noce costruiti dal falegname Turiddu
Calì, disposti lungo le pareti: il letto matrimoniale con sopra, sulla
parete, il quadro della Sacra Famiglia e, accanto, i due comodini, il
comò con lastra di marmo grigio, sormontato dalla specchiera,
l’armadio, la scrivania col ripiano ricoperto di panno verde, la
credenza con le antine dei due piani superiori a vetri, dove mamma
aveva sistemato alcuni regali del matrimonio e, in fondo a sinistra
della camera, la cucina, da dove si sprigionava l’odore della salsiccia,
sfrigolante nella padella, che papà prenotava dal macellaio Micheli
Fimminedda.
La casa aveva un balcone sopra l’entrata dell’ex frantoio e una
finestra che dava sulla discesa Rosolino Pilo, ma non aveva sbocco
16 Giuseppe La Masa (Trabia- PA, 1819), patriota,contribuì a promuovere la rivolta di Palermo del 1848; in esilio sotto i
Borboni, nel 1860 partecipò alla Spedizione dei Mille. Rosolino Pilo (PA, 1820), patriota mazziniano in esilio, cadde nel
1860 partecipando alla spedizione garibaldina.
sulla via Tortorici Cremona, lu ringu di ncapu. Da quel lato confinava
con l’abitazione della famiglia di Antonino Pagliaro, sposato con la
Signora Maria Matanza. Lu massaru Ninu coltivava le sue terre
assieme al figlio minore Giuseppe; Santo, il figlio maggiore, si
occupava di edilizia, campo in cui era diventato un esperto
capomastro; Maria Anna, Mariannina, la figlia femmina, faceva la
maestra. Attraverso la parete nord, che divideva la nostra casa da
quella dei Pagliaro, sentivamo ogni parlottare e ogni minimo
movimento provenienti dalla loro casa. Spesso, bambini curiosi,
appoggiavamo l’orecchio al muro per indovinare dal rumorino che
avevamo udito a chi della famiglia poteva attribuirsi. Mariannina
sposò Salvatore Marotta, lu Cacucciularu, allora, e per molti anni,
custode del cimitero. Da tutti, in paese, era chiamato “Sarvaturi” e
nominarlo evocava la sua funzione. Alto e di bell’aspetto, baffi e pizzo
pronunciato ben curati, una certa ricercatezza nell’abbigliamento
(cappello nero a larghe tese ed eleganti abiti scuri di sartoria), il
portamento serio e distinto erano tutti elementi che abbinavamo al
suo ufficio e che ce lo facevano percepire come personaggio dotato
di particolari poteri e guardare con una certa apprensione.
Il crocevia con la discesa Rosolino Pilo ovvero i quattro canti-
Di fronte alla nostra, la casa abitata dalla vedova sig.ra Ada Callari
costituiva l’angolo sud/ovest dell’incrocio. L’angolo opposto, la
cantunera a sud-est, era formato dalla casa dell’antica famiglia
Nicoletti, abitata da donna Caterina, ultima discendente del casato,
signorina avanti negli anni, che vi viveva da sola. Alla porta della
casa di donna Catarina si arrivava dopo aver salito i gradini di un alto
ballatoio, protetto da una ringhiera di ferro, e superata quella, situata
sullo stesso ballatoio, della casa della famiglia di Vincenzo Di Romana
sposato con Vincenzina Lo Presti, genitori di Masinu, Tommaso, e
Lina, di qualche anno più piccoli di noi, che portavano il nome dei
nonni paterni. L’angolo nord-est, di fronte a donna Caterina Nicoletti,
era costituito dalla casa di don Filippo Rabita, don Filippu Pruni, noto
maestro falegname, che vi abitava con la moglie, sig.ra Giuseppina
Aiesi, e con i tre figli, tra i dodici-quindici anni di età all’epoca della
nostra nascita: Vincenzo, Giuseppe e Piera, Pitrina. Accanto alla casa
della signora Callari, abitava la famiglia di Paulu Vavaluciu e Mariuzza
la Buttafoca, Paolo Corvo e signora Maria Buttafuoco, famiglia che
nel corso degli anni raggiunse i dieci componenti: genitori e otto figli
di cui i maggiori, all’incirca della nostra stessa età, furono i primi
nostri compagni di gioco e di litigate. Tre maschi, Salvatore, Pino,
Pasqualino; tre femmine, Costanza, Filippina e Agatina, a cui si
aggiunsero i gemelli Michele e Vincenzo.
Gli abitanti delle case di quell’incrocio furono i nostri vicini più
prossimi, quelli che, per la vicinanza, vedevamo quotidianamente e
con i quali più frequenti erano le occasioni di incontro. Nel numero
rientrano pure i componenti della famiglia del dott. Vincenzo Vitale,
la cui abitazione confinava con la nostra dal lato ovest: sulla via 4
Novembre si affacciavano i due balconi della casa ma l’ingresso si
apriva sulla via Tortrici Cremona.
Tanti ricordi della nostra vita di allora sono legati a quella via, alle
strade vicine, alle persone che vi incontrammo e conoscemmo. Di
quell’incrocio sentiamo i rumori, gli odori, le voci. Lo scalpitio dei muli
dei contadini che di buonora transitavano per la discesa Rosolino Pilo
per recarsi in campagna; il crocevia disseminato di una infinità di neri
confettini e il lezzo penetrante che, poco più tardi, impregnava l’aria
dopo il passaggio del capraio che tutte le mattine portava il latte alle
clienti. Esse lo aspettavano sulla porta ccu la cicara mmanu, ed egli
la restituiva piena del bianco e nutriente liquido ancora fumante,
munto direttamente dalle capre che si portava appresso; il vociare
dei ragazzi che passavano da un gioco all’altro tra innocenti litigi; il
gridare delle madri che si affacciavano e continuavano, non udite, a
chiamarli quasi a squarciagola; lo starnazzare delle galline
disturbate, nel loro pacifico razzolare, da qualche improvviso rumore;
il richiamo degli ambulanti venditori di merce varia; il grido del
banditore, Micheli l’urbu, che, fermo al centro dell’incrocio, lanciava
il suo avviso o annunciava la novità (e tutti zitti ad ascoltare):
o figliuli,
ad-ha arrivatu lu pisci friscu,
trigli mirluzzu picaredda, sardi…
va iti a la piscarija…. ;
o figliuli …
cu- ha ttruvatu na mula
ca jè di…
va purtaticcilla ca c’è lu viviraggiu; …
e mamma a ripeterci quel curioso annuncio che le era rimasto in
mente da quando glielo avevano raccontato:
O populu di Summatinu,
cu ha ttruvatu un papì masculu
ca jiera di li Chinnici
ca havi tri ghiorna ca la criat’è sutta
“O popolo di Sommatino, chi ha trovato un tacchino, (sappia) che era
di proprietà della famiglia Chinnici; ora son tre giorni che la serva
(accusata del furto) è in prigione”.
La posizione della nostra casa ci offriva anche la possibilità di un altro
tipo di spettacolo: dalla finestra che dava sulla discesa Rosolino Pilo,
dopo fortissimi temporali vedevamo scendere, sbalorditi, grossissime
piene di acqua sporca accompagnate da un rumore assordante. La
piena che, partita da via Ville, si ingrossava man mano che scendeva
verso il basso, ricevendo altra acqua e altra sporcizia dalle strade
laterali come un fiume dai suoi affluenti, copriva, all’altezza del
nostro incrocio, tutta la larghezza della discesa e proseguiva,
ingrossandosi ancora, sino a lu Vadduni dove, in questi casi, alcune
abitazioni venivano allagate. La grossa fiumara nella sua furia
trascinava a valle non solo lo sporco delle strade ma anche cufinati
di ogni genere di immondizia che la gente, lungo il percorso, affidava
alla piena: era abitudine diffusa, infatti, in quelle occasioni, ripulire
stalle e paglialori. Di temporali se ne scatenavano di molto violenti,
con lampi e tuoni da scuotere le ossa e da essere motivo di serie
preoccupazioni, specie se nei periodi di raccolto. Allora vedevamo la
mamma prendere la corona del rosario e recitare, con molta
partecipazione, tra le altre, la preghiera che chiamava “Lu Verbu”:
Lu Verbu sacciu e lu Verbu haju a ddiri
lu Verbu ca nni lassà nostru Signuri
quannu acchjanà la cruci ppi muriri
ppi sarvari a nuantri piccatura.
O piccatura, o peccatrici
viditi quant’è ranni chista cruci
ca teni un vrazzu ‘n cilu e nantru ‘n terra
sinu a la vadda di Giosafat
picciddi e ranni amma essiri ddà.
Scinni la Matri SSanta ccu lu libbru a li manu e chi dirà?
«Figliu li pirdunasti li Jiudija
accussi ha ppirdunari li figliuli mija».
«Matri ji nu li puzzu pirdunari
ca sunu tutti piccatura assai,
sanu lu Verbu e nu lu vunu diri
ntre li vampi e la pici han ‘a –ccadiri».
Cu nu lu sapi si lu fa’ nsignari.
.
Cu lu dici tri- bboti ‘n capizzu
Je scanzatu di trimulizzu;
cu lu dici tri-bboti la notti
Je scanzatu di mala morti;
cu lu dici tri-bboti a la via
l’accuppagna la Vergini Maria;
cu lu dici tri-bboti ‘n campu
je scanzatu di trona e di lampu
Ma era bello, dopo la calata di la chjina, vedere l’acciottolato lucido
della discesa brillare sotto il sole improvvisamente comparso. Per
alcuni giorni la strada appariva pulita, ma rametti, paglie, stracci si
trovavano attaccati alle grate dei dammusa e ai muri delle case.
Via 4 Novembre e dintorni . Caratteri e tipi. (2)
di Salvatore e Maria Giordano
Lu Signuri di li fasci
Il crocevia Rosolino Pilo/via 4 Novembre era però compreso
nell’itinerario della via di li Santi, e questo fatto secondo la nostra
percezione, gli conferiva una certa importanza. Da qui passavano
tutte le processioni delle feste religiose, qui sostava, per alcuni
minuti, lu Signuri di li fasci, la processione del Venerdì Santo, la più
suggestiva, sentita ed emozionante del nostro paese, dopo che,
svoltata da via Garibaldi, aveva percorso quel centinaio di metri di
discesa sdrucciolevole prima di raggiungere il Corso Umberto17. A la
Strataranni il percorso diventava pianeggiante e lineare, allora
l’imponente corteo si snodava in tutta la sua lunghezza e si potevano
contemplare in un’unica visione i tre simulacri: il colle imbiancato del
calvario, lu Cravaniu, sormontato dal Crocefisso sul globo policromo,
Cristo morto nell’urna e la Madonna Addolorata piangente, avvolta
nel suo manto nero, portata a spalle dalle donne cattoliche, ciascuno
preceduto dai devoti incappucciati delle confraternite, seguiti da
bande musicali e da una moltitudine di persone in preghiera,
comprese quelle delle famiglie di recente lutto.
17 Cf. Filippo Marotta, La Settimana Santa e la Pasqua a Pietraperzia, p. 94: nella fotografia, “lu Signori di li fasci” in
processione nella discesa Rosolino Pilo, di epoca successiva ai nostri ricordi, il corteo ha raggiunto proprio il nostro
incrocio. I balconi che si vedono sulla sinistra appartengono alla casa, ristrutturata, che era stata della signora Ada Callari;
sulla destra i muri prospicienti il corso Umberto della casa che fu di donna Caterina Nicoletti.
Per il passaggio di Lu Signuri di li fasci si rendeva necessario
rimuovere li curdini, quei fili tesi da un balcone all’altro delle case di
fronte, utilizzati per stendere il bucato. Era incombenza di papà
slegare, qualche giorno prima del venerdì, il filo che univa
trasversalmente il nostro balcone a quello di casa Nicoletti, situati ai
due angoli opposti dell’incrocio; arrotolato a mo’ di grosso bracciale
restava attaccato al balcone di donna Caterina per circa quindici
giorni. La curdina veniva ripristinata dopo il passaggio della
processione della festa di San Vincenzo Ferreri, che veniva celebrata
una settimana dopo Pasqua,
La giornata del Venerdì santo, fulcro della settimana santa, veniva
vissuta a Pietraperzia secondo le tradizioni tramandateci dai nostri
avi, che prevedevano il divieto di usare forbici e attrezzi taglienti,
martelli e di piantare chiodi, e caratterizzata da pratiche di penitenza
e mortificazione. Era consuetudine della nostra famiglia, e ad essa
fummo abituati fin da bambini, osservare quel giorno il digiuno come
quella di compiere, la sera del giovedì santo, il giro delle cinque
chiese per la visita a li Sapurca, accompagnati da mamma e da papà.
Ma i comportamenti di tutta la settimana erano ispirati da parte dei
credenti pietrini ad una profonda mestizia, come sottolineavano le
stesse preghiere di la Simana santa, che invitavano a meditare sul
mistero della Passione di Cristo; preghiere che la mamma ci intonava
invitandoci ad ascoltare e a ripetere con lei:
Accuminzammu di lu Santu Luni,
na jurnatedda benigna e murtali.
L’armuzzi santi stanu a nghinucchiuni
prigannu nostru Ddì celestiali.
Nu’ lu prigammu ccu perfettu amuri
nun nni spagnammu di nessunu mali.
Si vu’ lu Paradisu o piccaturi,
ti cci’ ha addurari li so cincu chiaghi.
…. …. ….
Di venniri murì nostru Signuri
ntre un trunculu di crucci assai pinnenti
tri chiova furu li primi dulura
e la cruna di spini trapungenti.
Di fili e acitu nnappi tri bbuccuna ,
ppi ddaricci cchbiù peni e cchiù turmenti18
Via 4 Novembre: ambiente umano. 1
In quel rettangolo di terra di qualche centinaio di metri ad est e ad
ovest dell’incrocio della via con la discesa Rosolino Pilo si svolsero i
nostri primi giochi e si svilupparono le nostre prime amicizie. Quel
contesto fisico e umano rappresentò il primo ambiente della nostra
crescita individuale e sociale.
«La mia vita in Via 4 Novembre fu per me molto gradevole», dice
Maria, «e tali sono tutti i miei ricordi, prima di bambina poi di
adolescente, che si riferiscono a quel periodo: furono anni splendidi.
Col vicinato regnò sempre buona armonia; non ricordo si sia mai
verificato un benché minimo alterco con qualche vicino o vicina,
neanche a causa di noi bambini». Era infatti una strada allietata da
un gran numero di bambini e bambine. Quel tratto di strada, allora
in terra battuta, tra l’incrocio con via Rosolino Pilo e Discesa S.Orsola,
18 Quelle preghiere troviamo ora in La Settimana Santa cit., p. 131
molti ne raccoglieva di tutto il vicinato, perché ben si prestava ai
giochi di femmine e di maschi: a li cchiè, a li rrummula, a li castedda,
a la stacca, a li petri, a la fussetta. Era un cinguettio continuo, che
poteva anche dar fastidio a persone anziane meno tolleranti nei
confronti dei bambini, specie in certe ore della giornata. E mentre tra
le bambine l’idillio era quasi perfetto, tra i maschietti piccole baruffe
avvenivano per questioni legate al gioco, fino a sfociare, qualche
volta, in vere e proprie liti. E tuttavia mai tra le mamme ci furono
discussioni, dal momento che nessuna di esse fu mai indulgente nei
confronti del proprio figlio, né intervenne a prenderne le difese.
Capitava che si affacciassero alle finestre all’udire il clamore della lite
o al pianto, ma le loro parole erano: «Cosi di carusi su, vinu l’anni e
mintinu li sinzii, cresceranno, capiranno». E ciascuna richiamava il
proprio figlio. Del resto, passata la buriana, i ragazzi erano di nuovo
insieme a giocare, dimentichi di tutto.
Fu molto triste vedere quelle strade deserte e silenziose; solo noi con
i nostri pensieri le attraversavamo quel pomeriggio di fine agosto del
2005! Pavimentazioni rifatte con pietra di Catania, pulite ma ciuffi di
erba vi crescevano ai bordi e tra gli interstizi dell’acciottolato ;
moderni lampioncini ad applique ai muri delle case di Via Garibaldi,
della discesa Rosolino Pilo ; case ristrutturate fornite di nuovi
portoncini, anche eleganti, accanto ad altre coi muri scrostati, le
serrande abbassate e i segni della loro vetustà. Ma tutte porte chiuse,
non una finestra aperta, non una donna al balcone a stendere panni,
non un bambino per la strada. La casa della nostra infanzia aveva già
subito un primo intervento di cui presentava le tracce nelle porte
esterne sostituite, nei muri ritinteggiati e soprattutto nel balcone con
ringhiera di ferro che la circondava per tutta la sua estensione sino a
dopo l’angolo con la discesa Sant’Elia. Una tenda da sole vi era stata
montata sopra la porta finestra. Ma nessun segno di vita come in
tutte le altre. Vi avessi scorto una presenza umana avrei chiesto di
entrare: mi sarebbe piaciuto verificare quali modifiche vi erano state
apportate all’interno.
La famiglia Rabita
Tra tutti i nostri vicini di casa ai quali si è accennato, la persona
con cui la mamma si trovò più in sintonia fu la signora Giuseppina
Aiesi, moglie di don Filippo Rabita. Tra lei e la signora Giuseppina fu
subito simpatia reciproca; nel tempo si stabilì tra di loro, una perfetta
intesa che si consolidò in rapporto di stretta e duratura amicizia. Nella
sig.ra Aiesi Rabita, di lei più anziana, la mamma trovò una consigliera
e un’interlocutrice ideale. Non erano necessarie fra le due molte
parole per intendersi, si comprendevano con lo sguardo. Persone
entrambe schiette, genuine e disponibili alla collaborazione, davano
ai rapporti e alle cose peso e valore appropriati; dotate di una certa
giovialità e senso dell’umorismo, sapevano cogliere l’aspetto comico
delle situazioni. «La sig.ra Rabita fu la prima ad apprendere della mia
nascita», racconta Maria, «la mattina della domenica di quel 29
giugno, quando alla signora Aiesi, affacciatasi alla sua finestra di via
Rosolino Pilo per chiamare mamma - si erano intese il giorno prima
per andare insieme a messa - la nonna Maria Cava comunicò che,
nella notte, ero nata io». Don Filippo Rabita aveva il suo laboratorio
dietro la chiesa del Rosario, in via Fenice (poi Don Minzoni); vi
esercitava l’arte assieme al fratello Liborio e ai propri due figli.
Appena svoltato l’angolo, da piazza Matteotti, già si sentiva il rumore
degli attrezzi in funzione e si avvertiva l’odore della polvere del legno,
sempre più penetrante man mano che ci si avvicinava. All’interno del
locale, si notavano, appoggiate alla parete di fronte all’entrata, assi
di legno di vario tipo e di diverso spessore che toccavano quasi il
soffitto; rastrelliere piene di attrezzi, righe e squadre pendevano
dalla parete di destra, per lo più occupata da pezzi di mobili in
costruzione. Addossate alla parete di sinistra e sostenute, su tre
piani, da robusti spuntoni sporgenti, si intravedevano, benché
fossero coperte da un telone grigio, casse dalla forma inquietante.
Tra le casse e l’angolo sinistro di fondo stava il tornio. Due solidi
banconi, con ampi incavi sui piani da lavoro e terminanti con grosse
morse, erano sistemati perpendicolarmente alla parete di fondo. I
Rabita costruivano ogni genere di mobile; seri e puntuali, godevano
di un vasto numero di clienti. «Io però mi ci recavo», dice Salvatore,
«soprattutto per farmi costruire li rrummula: appena venivo in
possesso del tronchetto di ulivo, correvo da don Filippo, sicuro e
fiducioso, e lo osservavo mentre, sistemato al tornio il pezzo di legno,
lo sgrossava da una parte e dall’altra e lo rifiniva per dare all’oggetto
la grandezza e la forma desiderata. Grazie a lui si potevano infatti
ottenere, passione di tutti noi ragazzi, trottole personalizzate, della
fattura che si voleva, tornite ed eleganti, dei veri prodotti artistici,
ben diverse dalla rozze e grossolane trottole, tutte uguali, che si
compravano alle bancarelle del mercato o al negozio di Magliocca.
Peccato non averne conservata neppure una. Alla sua bravura nel
lavorare il legno», prosegue Salvatore, «don Filippo univa molta
bontà e pazienza; parlava sempre in modo calmo e pacato; mi
spiegava, rispondendo a certe domande che, incoraggiato dalla
conoscenza, osavo rivolgergli, che il bancone da lavoro del suo
laboratorio era costruito con un legno americano, «forti cumu lu firru,
lu piscipagnu» (pick-pine), che il rumore lacerante che si sentiva
mentre veniva segato era il lamento del legno, perché «anchi lu lignu
soffri, cumu li cristiani».
« Impossibile per me», dice Maria, «dimenticare la figura di don
Filippo Rabita. Me la ricorda costantemente un piccolo mobile che,
posto in bella vista, adorna tra gli altri l’entrata della mia casa a
Torino. Si tratta di un comò in miniatura stile ‘800, che don Filippo
mi regalò quando ero ancora bambina. È un modellino alto 45 cm per
cm 38 di larghezza, con i piedini a cipolla, le colonnine laterali tornite
a bottiglietta, cinque cassettini estraibili, due piccoli superiori e tre
grandi inferiori. Lu cantaraniddu,posto in un angolo del laboratorio
e coperto di polvere, aveva attirato la mia attenzione una volta che,
per caso, avevo accompagnato papà alla falegnameria Rabita, e me
ne ero innamorata. A lungo lo avevo ammirato e desiderato! Quando
mi capitava di transitare dalle parti di Piazza Matteotti, mi avvicinavo
al laboratorio, entravo, mi accostavo al mobiletto, lo spolveravo, lo
fissavo, uscivo col piccolo comò che mi ballava davanti agli occhi.
Don Filippo intuiva il mio desiderio, ma restava apparentemente
indifferente: mi fece patire un po’, forse il mobiletto gli ricordava suo
padre, l’artefice, e non voleva separarsene. Ma “il miracolo” avvenne.
Il giorno in cui si compì, don Filippo mi disse: “Maria, eccolo, è tuo,
ma, mi raccomando, tienilo bene”! In quel momento il cuore mi
batteva forte dalla gioia! A casa lo tenni sempre vicino a me. Un
giorno a scuola ne decantai i pregi e le bellezze in un componimento
che la maestra ci aveva assegnato:”Parla di un oggetto a te caro”.
Quando mi sposai e dovetti trasferirmi a Torino lo lasciai in paese
sicura che sarebbe stato ben custodito, ma col pensiero di fargli
attraversare lo stretto il prima possibile. A qualche aspirante la
mamma ripeteva “è di Maria, non si tocca!”. Dovevano passare
diversi anni prima di avere il mobiletto di nuovo con me. Accadde
quando mia sorella Michela, venduta la bella casa di via Principessa
Deliella, portò su i mobili che costituivano per noi oggetti di maggior
pregio, soprattutto dal punto di vista affettivo, alcuni dei quali
portavano i segni di nostri interventi impropri. Tra essi,
accuratamente impacchettato, il mio “giocattolo” finalmente partì da
Pietraperzia per la sua nuova dimora. Giunto a Torino fu portato da
un restauratore che, con una modesta spesa, ridiede al mobiletto il
suo originale splendore. Ora il piccolo comò, posto in bella vista,
adorna tra gli altri mobili l’entrata della mia casa; lo sposto secondo
l’inclinazione del momento, ma sempre negli angoli più in vista. Passa
il tempo e inesorabile lascia su tutti noi le sue tracce, ma lui, lu
cantaraniddu, non registra il fenomeno: sempre più bello, lui sì è
sempre come fosse appena nato».
L’amicizia tra le due famiglie si consolidò col tempo e continuò, senza
mai uno screzio o una semplice incomprensione, anche quando i
Rabita lasciarono la casa di via 4 Novembre e si trasferirono in Via
San Giuseppe. Scomparsi don Filippo e donna Giuseppina, l’amicizia
è proseguita soprattutto con Giuseppe Rabita, che ci aveva visto
nascere e fatto giocare nei nostri primi anni di vita. «Nel mio album
delle fotografie», dice Maria, «una ne conservo, scattata
nell’occasione del passaggio di un fotografo ambulante dalla via 4
Novembre: sono seduta su un tavolo ricoperto da un tappeto di
ciniglia; accanto al tavolo, sul cavallino a dondolo, mio fratello con il
boccolo ben ordinato. Tutte le volte che ci incontriamo, Peppino non
manca di ricordarmi quell’episodio: egli, nascosto dietro il tappeto,
mi sostenne con una mano per paura che cadessi all’indietro. Non
avevo ancora un anno, mio fratello ne aveva circa tre». Peppino ha
continuato ad esercitare l’arte del padre, con le stesse competenza e
abilità, sino alla pensione. Era una sua specialità la costruzione delle
persiane con le gelosie movibili, cosa che richiede precisione e
pazienza. Il nostro rapporto è stato, ed è, caratterizzato dagli stessi
sentimenti di sincerità, schiettezza e di stima reciproca oltre che da
vicendevole aiuto in momenti di difficoltà, come capita a tutti nella
vita. Per noi è rimasto “cumpari Pippinu”, come erano soliti chiamarsi
con papà e mamma, così come “Cummari Maria” mamma chiamò
sempre la sua signora (Maria Marotta) quando Peppino si sposò. Fu
lui che ci accolse per primo in Piazza Vittorio Emanuele, il 18 agosto
del 2005, quando tornammo in Sicilia dopo venticinque anni di
assenza, con la stessa premura con cui accoglieva mamma e Michela,
quando, quasi ogni anno, d’estate, tornavano al paese. Assieme a lui
facemmo il giro del cimitero, fermandoci, dopo la visita ai nostri cari,
a ricordare, davanti alle loro tombe, parenti, conoscenti e amici
scomparsi. Per tutta la mattinata visitammo i luoghi del paese,
ricordandoci vicendevolmente gli eventi e i momenti che avevano
visto vicine le nostre famiglie.
Alla sua abilità di artigiano del legno, Peppino Rabita associava una
grande passione per il ballo, una passione incontenibile: dotato di
grande sensibilità musicale e di una naturale attitudine, non c’era
musica che non sapesse immediatamente, e senza alcuna difficoltà,
ispirargli i passi da compiere e le figurazioni da assumere. Ballare lo
appagava, niente gli dava maggiore soddisfazione. Di sentimenti
romantici ed animo di poeta, esprimeva nel ballo l’autenticità della
sua natura. Amava ballare il valzer, il tango, la polka e tutti i balli
classici della tradizione, ma ballava anche, con la massima
disinvoltura, i nuovi balli, latino-americani, afro-cubani, man mano
che venivano importati nel nostro paese; il ritmo del bughi-bughi
(Boogie-Woogie), del samba, del charleston gli mettevano addosso
una forte carica di entusiasmo. Il periodo dell’anno che preferiva era
quello del carnevale, durante il quale poteva dare sfogo alla sua
passione dominante. Assieme alla sorella Piera, anch’essa abile
ballerina, giravano per le vie del paese, vestiti in maschera,
chiedendo un ballo nelle case dove si tenevano serate danzanti.
Vederli ballare faceva pensare a Fred Astaire e Ginger Rogers, la
celebre coppia di ballerini americani. Erano subito riconosciuti perché
era nota in paese questa loro predilezione; sempre applauditi e
invitati a restare, accettavano di fare un altro ballo, ma raramente si
fermavano. Era come se avessero una missione da compiere: essere
i testimonial della danza. Anche il fratello Vincenzo era portato per la
musica, suonava ottimamente la fisarmonica ed era un bravo
ballerino: quando si sposò con Anita Cutaia, figlia di don Arfonziju
Cutaija, impiegato comunale, le coppie diventarono due. Fu questa
attitudine che portò i due fratelli ad unirsi ad un gruppo di altri valenti
suonatori e a fondare un complesso, il “Gempen”, in cui Peppino fu
apprezzato batterista. L’orchestrina riscosse grande successo tra i
pietrini e per molti anni allietò trattenimenti matrimoniali, feste di
battesimo, serate danzanti. Quanto alla intitolazione del complesso,
”Gempen”, il significato resta un mistero, noto forse solo a qualcuno
dei componenti del gruppo.
Lunga vita, compare Peppino, e grazie di questa amicizia !
Via 4 Novembre e dintorni : ambiente umano 3
Salvatore e Maria Giordano
«Della figura di donna Ada Callari, nostra dirimpettaia, ho ricordi
molto vaghi e sbiaditi», racconta Maria. «Ho davanti agli occhi (o
forse me la immagino?). una gentildonna elegantemente vestita Era
vedova e viveva insieme ad una dama di compagnia di cui mi è
rimasto in mente solo il nome: Giorlandina». Abitava in una casa
grande e signorile, alla quale si accedeva, dopo una scalinata di
quattro o cinque gradini, attraverso un ingresso ad arco di pietra
munito di un portoncino a due ante.
Potemmo visitare quella casa quando, dopo un paio di passaggi, fu
acquistata dai Di Marca, li Pumittara, famiglia di agiati coltivatori
diretti provenienti dalla zona canali, composta da sette persone:
genitori, lu massaru Vicinzu e la gnura Filippa e cinque figli, quattro
maschi, Calogero, Paolo, Pino e Francesco, e una femmina, Piera,
Pitrina, coi quali si ebbe un buon rapporto di vicinanza e di amicizia.
La casa era composta dall’entrata dalla quale, a destra, si andava in
cucina attraverso una porta e, a sinistra, di fronte alla cucina, in una
saletta. Una porta in fondo all’entrata portava in un grande salone a
cui seguivano due ampie camere da letto. Da ciascuna di esse si
apriva una porta finestra su una grande terrazza che si affacciava sul
corso Umberto. Una finestra e un balcone si aprivano sopra dei
magazzini lungo la discesa Rosolino Pilo. Per rendere la casa adatta
alle loro esigenze i Di Marca affidarono i lavori di ristrutturazione che
prevedeva anche l’edificazione di un altro piano, al capo mastro don
Giovanni Falzone, don Giuanninu Scarciuni uno, allora, dei più noti
maestri muratori del paese. I lavori richiesero parecchio tempo
durante il quale buona parte di quel pezzo di via 4 Novembre fu
occupato da attrezzature, materiale vario e dal via vai della squadra
degli operai muratori e da artigiani, fabbri e falegnami, chiamati
secondo le esigenze del procedere della costruzione. La polvere si
depositava dappertutto, la confusione e il rumore continuo
mettevano alla prova la pazienza dei diretti interessati e dei vicini. I
Di Marca appartenevano alla categoria dei “bburgisi”, così venivano
chiamati i contadini agiati che coltivavano terre di loro proprietà
(diversamente dai mezzadri, li mitatera, che invece lavoravano
terreni di proprietà di altri) e per lavorare i loro poderi, che
comprendevano pure appezzamenti di un fratello di lu massaru
Vicinzu, emigrato negli USA, i Di Marca si meccanizzarono
acquistando trattori, altri tipi di macchine agricole e relativi accessori.
A tale scopo, all’inizio, ingaggiarono un meccanico trattorista di nome
Orazio, un uomo molto spiritoso e sempre pronto al sorriso, che
anche noi imparammo a chiamare, donn’Arà’ donn’Arazio. Don
Orazio era di Gela e il suo modo di nominare le cose e la sua cadenza
in un siciliano così diverso del nostro parlare pietrino ci incuriosiva.
Conoscemmo tutti i componenti della famiglia Di Marca e, in parte,
anche le loro vicende come succede in un piccolo paese specie tra
vicini di casa Insieme a loro viveva anche un’anziana signora che tutti
della famiglia chiamavano la zi’ Cristina. La zi’ Cristina, come anche
noi imparammo a chiamarla, in verità era la mamma adottiva di la
gnura Filippa la quale era vissuta nella sua casa e cresciuta sotto le
sue cure fin da quando era bambina. La zi’ Cristina e suo marito,
coppia agiata e senza figli, avevano deciso di prenderla a casa loro
quando aveva appena sei anni ed era rimasta orfana della madre
morta prematuramente. Con i nuovi genitori la piccola trascorse
molto serenamente la sua fanciullezza e la sua giovinezza ed anche
dopo il matrimonio con Vincenzo Di Marca, lu massaru Vicinzu lu
pumittaru, Filippa continuò a vivere con colei che le era stata mamma
e che ora faceva la nonna felice ai bambini della nuova coppia. In via
Quattro Novembre la zi’ Cristina, vedova ormai da molti anni,
divideva la camera da letto con Piera. «Ne ricordo ancora gli arredi
vecchio stile che, nella mia fantasia, dice Maria, immaginavo essere
i mobili di la zi Cristina: i due lettini in ferro battuto, i comodini alti e
scuri, il grande comò dello stesso stile. La camera era ampia e
luminosa, si affacciava sulla terrazza di corso Umberto e sulla discesa
Rosolino Pilo; gli spazi della stanza erano tali che non era di alcun
intralcio la postazione del lungo telaio dove Piera si accostava per
ricamare. Spesso andavo a trovarla perché mi divertivano le favole
che la zi’ Cristina raccontava e gli indovinelli assai divertenti che
proponeva. La trovavo sempre intenta alla sua attività consueta:
raccogliere della lana in gomitolo che, appena formato,ella
raggomitolava ricominciando dalla parte opposta come aveva fatto la
mitica Penelope con la sua tela. Sempre lieta e sorridente, immagino
che fosse felice perché bene accudita e tanto amata da tutti. Dei Di
Marca figli, i primi, di noi maggiori di età di parecchi anni. Paolo
divenuto, in seguito al matrimonio con Nina Bellavia, nostro compare
di battesimo fu l’unico dei fratelli a rimanere in paese anche dopo
l’esodo generalizzato dei contadini seguito al crollo dell’agricoltura
abbandonata perché non più sufficientemente redditizia e, lasciato il
lavoro delle terre si dedicò ad altre attività. Pino partito per il servizio
militare tornò fornito di patente B e, trasferitosi a Torino negli anni
del grande esodo, avrebbe esercitato l’attività di autotrasportatore.
Francesco, il più piccolo dei fratelli pressappoco della nostra stessa
età presto si inserì nel numero dei ragazzi della strada, giocava con
Salvatore con cui pure bisticciava per i soliti banali motivi da ragazzi.
«Legato ai giochi di quel periodo, ricordo un episodio,.dice Salvatore,
che coinvolse Francesco in maniera pesante. Si stava facendo un
gioco che prevedeva una pegno per chi fosse arrivato ultimo in una
gara. Si trattava di uno scherzo ai danni di un negoziante della zona
che avevamo conosciuto come persona nervosa e molto suscettibile:
don Agostino Bivona. Donn’Austinu gestiva un negozio di merceria in
largo Capitano Bivona, due strade a nord della via IV Novembre, dove
le nostre mamme ci mandavano spesso a comprare. La penalità
consisteva in una prova di abilità e di coraggio: aprire la bussola del
negozio, dire al merciaio “ donn’Austì’ nn’avi cavuli’ e scappare prima
che egli si alzasse dalla sedia dietro il bancone su cui stava
abitualmente seduto. Francesco, a cui toccò eseguire la prova, non
si tirò indietro e corse ad eseguire la penalità, se non che… Se non
che spinta la bussola e iniziato a pronunciare la fatidica frase,
Francesco si trovò subito davanti il negoziante il quale riuscì ad
afferrarlo e a trascinarlo all’interno del negozio dove sfogò su di lui
tutta la sua rabbia picchiandolo selvaggiamente. Quando, dopo un
po’ vedemmo ricomparire Francesco piangente e dolorante che quasi
non riusciva a camminare, non fu necessario chiedergli cosa era
successo perché subito immaginammo la scena che, comunque, era
lontana dalle nostre sia pure non gradevoli previsioni nel caso che la
prova non fosse riuscita. Ma la cosa rischiò di avere ulteriori
conseguenze perché il padre di Francesco, lu massaru Vicinzu, visto
il figlio in quelle condizioni, si infuriò a tal punto che minacciava di
andare a prendere per il collo donn’Agustinu e, se gli altri genitori
non fossero riusciti a calmarlo e fermarlo la vicenda poteva avere
sviluppi spiacevoli. Fu quella un’esperienza che mai potrò
dimenticare assieme ai rimproveri solenni dei genitori e alla
punizione da cui nessuno potè salvarci. Quello fu comunque uno degli
ultimi nostri giochi di quel genere. Terminato il periodo della scuola
elementare la compagnia già aveva incominciato a divedersi e a
prendere direzioni diverse. Anche Francesco avrebbe seguito, tempo
dopo, le orme del fratello trasferendosi a Torino ed essere accolto
dalle braccia di mamma FIAT e trovare molti pietrini come colleghi di
lavoro. Ancora ci vediamo assieme alla moglie Piera, nelle occasioni
tristi o liete che toccano la comunità pietrina a Torino»
Di Pitrina Di Marca, ricordiamo la sua abilità nell’arte del ricamo.
Servendosi di un telaio rotondo, seguendo disegni che aveva preso
dalla rivista “Mani di fata”, eseguiva alla perfezione direttamente sul
tessuto, secondo la tecnica di ricamo prescelta, punto croce, punto a
giorno, punto pieno…, artistiche composizioni floreali o con tipi di
frutta. Adoperava invece un lungo telaio rettangolare di legno per
eseguire ricami da applicare a capi di più ampia dimensione. Non era
un lavoro che Piera svolgeva per conto di clienti, ella ricamava per
sé, impreziosiva con la sua arte tovaglie e tovaglioli, federe e
lenzuola, asciugamani…, pezzi del suo corredo da sposa. Piera era
una ragazza bella ed attraente, le piaceva ridere e scherzare ed
ispirava simpatia. Ella oltre a possedere queste qualità costituiva un
“buon partito” per cui i pretendenti non mancarono: a lei erano
dedicate le serenate di musica e canti appassionati che risuonavano
nella notte sotto le finestre delle case di quel crocevia via 4
Novembre/ discesa Rosolino Pilo, opera di innamorati, giovani che
probabilmente avevano cercato di farsi intendere con qualche
segnale e chiarivano in questo modo le loro intenzioni nella speranza
che lei capisse la provenienza. All’epoca era consuetudine fare la
“notturna” alla ragazza amata; era una specie corteggiamento, un
mezzo per un giovane innamorato per far capire alla ragazza del
cuore con un gesto romantico e delicato quei sentimenti che non
riusciva ad esprimere pienamente e in modo diretto. Quelle serenate
erano, al mattino, da parte nostra, oggetto di discorsi e di curiose
indagini assieme alla stessa Piera: si facevano allusioni esplicite sulla
probabile destinataria, ipotesi su nomi di responsabili, giovani che si
erano visti passare durante il giorno o che avevano frequentato la
casa dei Di Marca per qualche motivo o scusa, specie in quel periodo
dei lavori di rifacimento della casa. Piera prendeva la cosa con molta
spontaneità e serenità, non si adombrava anzi era lusingata da
queste supposizioni, sorrideva compiaciuta, non le dispiaceva essere
al centro di tante attenzioni. Alla fine l’uomo che la portò all’altare fu
Calogero Di Cataldo, «Liddu lu lampariu», più anziano di lei di diversi
anni, penultimo dei quattro fratelli della famiglia di coltivatori diretti
benestanti come i Di Marca.« La trattativa tra le famiglie, dice Maria,
avvenne nel periodo della festa di san Giuseppe e in rapporto a tale
circostanza si parlò di una scherzosa poesia in dialetto fatta pervenire
da parte di un innamorato deluso forse allo stesso Calogero Di
Cataldo che ne aveva fatto partecipe la fidanzata. «Fatto sta,
continua Maria, che si rise con la stessa Pitrina, di quel verso che
alludeva al prescelto e che diceva più o meno”….. e pu’ vinni San
Giseppi ca ppi ttia fu na furtuna e ppi mmi’ fu na rruvina ca
m’arrubbasti a Pitrina”
Un’affettuosa amicizia si stabilì tra noi, cummari Filippa la Spizziala
e Nina, la cui abitazione seguiva subito dopo quella dei Corvo,
rispettivamente moglie e giovane figlia di lu Massaru Turiddu
Pignatuni, Salvatore Bellavia, coltivatore diretto, grande lavoratore,
proprietario di buone terre in zone note per l’alta produttività: le loro
terre erano “oru macinatu” usava dire cummari Filippa parlando della
dote destinata alla figlia Nina. Fin da ragazza Nina la Spizziala
frequentava la nostra casa, era attirata dallo spirito giovanile di
mamma, con la quale si confidava più che la stessa madre, e dalla
presenza di noi bambini che amava intrattenere. Con mamma
parlava di biancheria, di ricami e di corredo. Sposatasi con Paulu Lu
Pumittaru, Paolo Di Marca, fu suo desiderio, condiviso che noi due,
ormai cresciuti, facessimo da padrino e madrina di battesimo alla
figlia Filippina. La ragazza, oggi felicemente sposata con Lorenzo
Barrile, è mamma di due splendide ragazze, Caterina e Antonella,
che abbiamo conosciuto nel 2005, durante il nostro soggiorno a
Pietraperzia. Cariche importanti negli anni 2000 avrebbero ricoperto
nell’ambito delle istituzioni locali, il figlio della coppia dei nostri amici
Paolo e Nina , dott. Vincenzo Di Marca, e il nipote, avvocato Paolo Di
Marca.
Dopo i Bellavia abitava la famiglia di don Giuseppe Barrile, don
Pippinu Varliri, e donna Marietta La Monica, genitori e quattro figli,
che avevano già superato l’età dell’adolescenza: Filippo, Michele,
Giovanni e Sarina passavano sempre davanti alla nostra casa quando
andavano a lavorare o quando si recavano in piazza. Sarina si fidanzò
e si sposò con il geometra Salvatore Di Lavore, nostro concittadino
da tempo trasferito a Milano. Ricordiamo che scandalizzò le persone
più anziane e suscitò qualche commento tra i vicini il fatto che,
contrariamente alle tradizionali consuetudini dei nostri paesi, Sara
usciva da sola col fidanzato. Filippo e Michele Barrile sposarono, a
loro volta, “le americane”, due sorelle di una famiglia pietrina
emigrata negli USA, e le seguirono in America. Con Giovanni Barrile,
maestro, persona allegra e spassosa, avemmo maggiori occasioni di
incontro e di amichevoli rapporti. Giuanninu Varliri sposò la figlia di
don Agostino Bivona. Mamma ci raccontò come egli, passando dal
negozio di via La Masa, una mattina le aveva annunciato la nascita
del figlio: «Pippì, Giuseppina, - le aveva detto - guarda di non farmi
supirchiarija pirchì ora haiu a-mma figliu Pè (Giuseppe) ca m’
addifenni».
Nella casa all’angolo con Discesa S. Orsola abitò donna Giuannina
la Tanoria, Giovanna Tortorici, con le sue figlie Pina e Angela,
‘Ngilina, dove esercitò la sua attività di sarta. Nella stessa casa abitò
successivamente donna Angiulamaria la Vecchiavilasi, Angela Maria
Di Gregorio, con i suoi figli Sara e Rocco, vedova, sarta anche lei.
Assieme a loro vivevano il fratello di lei, Salvatore Di Gregorio,
scapolo, applicato avventizio di segreteria presso il Comune, e le
sorelle Peppina e Rosalia, che aiutavano la sorella nella stiratura e
messa a punto degli abiti per la consegna alle clienti e nel tenere in
ordine il laboratorio e la casa.
«Dei componenti della famiglia dei Siciliano, madre, la gnura
Pippina la duranedda, due figli e due figlie, che abitavano di fronte ai
Bellavia, non ho dimenticato», dice Maria, «queste due ultime,
Mariuzza e Carmela. Mentre i fratelli Siciliano, regolarmente sposati,
non costituivano motivo di preoccupazione per l’anziana madre, le
due figlie, invece, erano per lei causa di cruccio perché le avrebbe
volute “sistemate”, mentre quelle non volevano saperne di sposarsi,
o almeno così dicevano. Di questo suo tormento la donna parlava
spesso da sola, mentre faceva la calza seduta davanti la porta, e con
i conoscenti che passavano dalla strada e si fermavano a scambiare
due parole con lei. Non so se per gelosia o perché erano talmente
legate da non potersi distaccare l’una dall’altra, le due sorelle
permanevano ferme nel loro atteggiamento tanto che l’una impediva
il fidanzamento dell’altra, e viceversa, con comportamenti che
rasentavano il grottesco. A confermare questa loro bizzarria fu un
evento spassoso: un buffo colpo di scena, messo in atto da una delle
due sorelle una sera, mentre si stava trattando la richiesta di
matrimonio che riguardava la più giovane di esse, Carmela. Nel
momento culminante della discussione, Mariuzza, temendo che
l’impegno si facesse veramente serio e vincolante, prese una
decisione sorprendente che lasciò i presenti di stucco: si impadronì
dell’unico lume che dava luce alla stanza in cui si svolgeva il
conciliabolo e si trasferì in soffitta, lasciando tutti al buio. Gli ospiti,
parenti del pretendente, convinti che il gesto non fosse altro che un
pretesto per impedire la positiva conclusione della trattativa,
abbandonarono la seduta e il fidanzamento andò a monte. Nessuno
dei vicini si stupì più di tanto quando si apprese lo svolgimento della
sceneggiata».
Formava l’angolo nord con la Discesa S. Orsola l’astricu, il ballatoio,
che portava al primo piano della casa abitata da Filippo Emma,
Vincenza, Vicinzina, sua moglie, e i figli, Angela, Filippo (morto
ancora bambino investito da un camion) e Pina, Pinuzza. Abitavano
assieme alla suocera, la gnura Pippina la Meccia, Giuseppina Virruso,
sarta per uomo. Era il nome di lei che veniva evidenziato quando ci
si riferiva a quella casa e a quella famiglia. La Meccia era nota in tutta
la strada e, a sua volta, sapeva tutto di tutti. Conosceva ogni persona
che più frequentemente passava per la via e che ella non tralasciava
di intrattenere per informarsi su cosa si diceva in piazza. Percorreva
continuamente quel tratto della via 4 Novembre e si spingeva anche
oltre; andava avanti e indietro parlando ad alta voce del più e del
meno e commentando, senza peli sulla lingua, notizie di fatti lieti e
tristi che capitavano in paese. «Molti momenti di gioco trascorsi con
‘Ngilina», dice Maria; «con lei ci divertivamo a costruire bambole di
pezza, a cucire vestitini con stoffette multicolori e ad allestire feste
di battesimo con bambine invitate alle quali offrivamo pezzettini di
pane con marmellata di mele cotogne che mamma preparava tutti
gli anni
A poche decine di metri dall’incrocio di via 4 Novembre con la
Discesa S. Orsola s’incontrava l’officina di li Marani, fabbri
maniscalchi, attività artigianale di una certa importanza in un sistema
ad economia agricola. Oltre a battere zappe, falci, vomeri o a
costruirne di nuovi, quello della ferratura delle bestie era l’impegno
predominante di lu firraru. In un paese come il nostro, il mulo, bestia
da soma adatta a tutta una serie di attività connesse con i lavori della
campagna, era l’animale maggiormente utilizzato dai nostri
contadini; la stalla non era un ambiente secondario delle loro case.
L’attenzione rivolta alla salute e all’efficienza della bestia era pari a
quella rivolta alla salute personale; pertanto non trascuravano di
ricorrere all’intervento del maniscalco tutte le volte che era
necessario per il pareggio e la ferratura degli zoccoli dell’animale.
Diverse erano le botteghe di firrara di vistii sparse nelle varie zone
del paese, tutti artigiani competenti e abilissimi nel loro mestiere
tanto che venivano consultati anche riguardo alla cura di ferite e di
malattie tipiche degli animali19. A metà della discesa Rosolino Pilo,
poco sopra lo slargo Capitano Bivona, di fronte alla casa di li
Subbanni, i Ribaudo, avevano la loro bottega i fratelli Falzone,
mastru Pè e mastru Cosimu Farzuni; la bottega della famiglia di li
mastri Lillì, gli Zito, si trovava in via Sabotino; quella di li Ribelli, i
Guarneri a la Costa. Non erano i soli. «Più di una volta», dice
Salvatore, «mi capitò di vedere al lavoro, all’esterno della loro
firraria, i fratelli Di Gregorio, li Marani, Salvatore, Filippo e Francesco,
quando avveniva che uno degli zii portasse le mule a ferrare. Mi
piaceva osservare come, sul momento, da un’asta di metallo nasceva
un ferro da cavallo: estratta incandescente dalla forgia, un pezzetto
della misura giusta veniva tagliato dalla bacchetta; battuto con la
mazza, più volte rimesso nel fuoco, bucato con uno scalpello a punta,
piegato, modellato con lavoro di incudine e martello il ferro prendeva
forma, mentre suoni metallici risuonavano, come allegri rintocchi di
campana; e quando, ancora infuocato, il ferro veniva provato sullo
zoccolo dell’animale e l’odore acre e pestifero dell’unghia che
bruciava mi pungeva le narici. E poi, finito, il ferro veniva applicato
allo zoccolo con dei chiodi lunghissimi e acuminati che la bestia
sopportava tranquilla, cosa che mi sembrava impossibile»20.».
19 Cf. Giovanni Culmone, Pietraperzia anni ’40. Reminiscenze, Pietraperzia, 1997, p. 131: Firraru. 20 Cf. G. Culmone & F. Marotta, Vocabolario siciliano della parlata di Pietraperzia, 2002, p. 208: la fotografia ivi
riportata si riferisce proprio ai fratelli Di Gregorio all’opera di fronte alla loro officina.
VIA 4 NOVEMBRE E DINTORNI: AMBIENTE UMANO 4
Salvatore e Maria Giordano
Nella direzione di via La Masa, lato nord di via 4 Novembre,
dopo la casa di don Filippo Rabita e quella di Santo Bellavia
(Santu Pignatuni), della quale dava sulla strada il balcone e
si apriva la porta della stalla, abitava la sig.ra Maria Calogera
Pergola. La signora Pergola era la nonna paterna di Maria,
Eleonora ed Elvira, “le americane”, tre belle e simpaticissime
ragazze, due delle quali sarebbero andate in spose ai fratelli
Barrile, i quali, in seguito a questo matrimonio, lasciarono
anch’essi l’Italia. Quando i Pergola, alcuni anni prima della
II Guerra Mondiale, erano emigrati in America, la nonna,
donna di una certa età, non aveva voluto seguirli, ma aveva
preferito restare al suo paese. Nella stessa casa viveva con
lei, Agatina, Ituzza, che, dama di compagnia e badante ante
litteram, la accudiva e mai l’abbandonò finché visse.
Conoscemmo la famiglia Pergola durante il periodo bellico. I
Pergola, tornati in Italia per rivedere la nonna, erano rimasti
bloccati a causa dello scoppio della guerra e costretti a
rimanervi sino alla fine del conflitto. Ma essi non si persero
d’animo ed affrontarono il disagio con determinazione,
adattandosi alla situazione. Presero in affitto una casa in
Corso Umberto, all’angolo con la Discesa Rosolino Pilo,
proprio di fronte ai balconi della casa di donna Caterina
Nicoletti. La casa si ergeva in altezza ed era composta da un
locale a piano terra, delle piccole camere al primo piano, che
utilizzarono come camere da letto, ed altrettante al secondo,
dove c’era anche la cucina. Nel locale a piano terra aprirono
un laboratorio di falegnameria, che era l’attività del padre, il
quale vi lavorava aiutato dai due figli maschi, Franchino e
Michelino. Dall’uscio di casa nostra noi vedevamo la porta
d’ingresso del laboratorio. Salvatore conserva ancora un
ricordo dei fratelli Pergola: la cornice di legno dell’immagine
di Gesù, ricordo della sua prima comunione. Maria Pergola,
la maggiore delle sorelle, che era insegnante elementare,
dava il suo contributo alla famiglia impartendo lezioni
private. Eleonora ed Elvira aiutavano la mamma nelle
faccende. Tutti i componenti della famiglia erano persone
aperte, gentili e cordiali e noi avemmo modo di
sperimentarlo. La via Rosolino Pilo era la strada obbligata
per recarsi dalla nonna, pertanto i nostri incontri con uno o
l’altro di loro erano frequentissimi. «Tutte e tre le sorelle
erano nei nostri confronti, di me e Salvatore», dice Maria,
«molto affettuose e ci vezzeggiarono parecchio. Durante il
loro lungo obbligato soggiorno pietrino riuscirono a
conquistare tutti quelli che le conobbero, grazie alla loro
signorile disponibilità. Quando, alla fine della guerra,
ripartirono per gli Stati Uniti, lasciarono bei ricordi e una scia
di simpatia». Durante i rimpatri che seguirono furono accolti
con piacere da tutti. Fu appunto in uno di tali viaggi in Italia
che Maria Pergola e Filippo Barrile si fidanzarono e si
sposarono. Qualche anno più tardi, tornati di nuovo in Italia,
si formò la seconda coppia, quella di Michele Barrile ed
Eleonora Pergola, a cui seguì il matrimonio di Michelino
Pergola con una cugina dei Barrile, Venezia La Monica.
Da quel lato della strada, dopo la casa della signora
Pergola, un centinaio di metri prima di raggiungere la
Discesa Corrao, proprio di fronte al pastificio, funzionò il
forno di Peppi Dinariddu, Giuseppe Dinarello. Vi lavoravano
li Stipu, i fratelli della famiglia Stipo che, per il brio e
l’entusiasmo con cui svolgevano il loro lavoro, rendevano
lieto l’ambiente circostante. Passando davanti al laboratorio,
la cui porta era generalmente aperta, colpiva la vivace
animazione all’interno. Si potevano notare, secondo il
momento, i fornai, in canottiera o a dorso nudo, impastare,
tagliare pezzi dell’impasto, preparare con sveltezza le forme,
infornarle, sfornarle, sistemarle sulle griglie ad asciugare o
riempirne cestoni, pronti per la consegna: un’operosità
allegra e chiassosa in cui il rumore delle attrezzature usate
si confondeva con le allegre risate dei panettieri. Sempre,
comunque, transitando davanti al forno, oltre che dal
gradevole odore del pane appena sfornato, il passante si
sentiva investito dalle note di qualche canzone in voga:
Maruzzella Maruzzè
t’he miso dint’allocchie ‘o mare
e m’he miso ‘n pietto a me nu’ dispiacere…
Stu core me fai sbattere
chiù forte ell’onna
quanno o cielo è scuro
primma me dice sì
poi doce doce mi fai murì
Maruzzella, Maruzzè.
Tra una cosa e l’altra, ogni tanto, i giovani lavoranti si
affacciavano alla porta e non mancavano di rivolgere
qualche galanteria alle ragazze che passavano; inventato sul
momento su note improvvisate, intonavano il complimento
in modo garbato:
ha- ppassatu na signurinella
ca sempri cchiù bella, cchiù bella si fa.
Dopo l’ingresso del forno Dinarello, sino alla via La Masa, sul
lato nord di via 4 Novembre, si aprivano solo porte di stalle
e di dammusa relative ad abitazioni le cui entrate principali
davano sulla via Tortorici Cremona. Da quella parte la via
terminava con il palazzo Mendola, uno tra i palazzi signorili
del paese.
I Di Romana, famiglia di piccoli proprietari terrieri, che
abitavano nello stesso ballatoio, lato sud della strada, della
casa di donna Caterina, erano noti in paese come li Vinci.
Vincenzo Di Romana viveva nella stessa casa dei suoi
genitori, lu massaru Masi Vinci e la gnura Calidda, ma in
piani diversi: il primo piano, quello del ballatoio, era
destinato alla giovane famiglia di Vincenzo; al secondo
piano, dopo la morte di lu Massaru Masi, dimoravano la
gnura Calidda, già anziana, e Michelina, sua figlia; in
comune le due famiglie avevano la cucina. Tra esse regnò
sempre buona armonia.
Lina di la gnura Calidda, figlia maggiore di Vincenzo e
Vincenzina Lo Presti, di qualche anno più giovane di noi, era
molto amica di nostra sorella Ninetta, quasi sua coetanea.
Per via di questa amicizia, Lina frequentava spesso la nostra
casa e noi la sua. Favorito dalla vicinanza e dalla buona
disposizione, un buon rapporto si costruì tra le nostre due
famiglie. La “zi’ Michilina ”, come tutti la chiamavamo, ci
viziava e trattava alla stessa maniera dei suoi nipoti. Esile di
corporatura e buona di carattere, era la colonna portante di
quelle famiglie per ciò che riguardava la vita domestica e
risparmiava lavoro alla cognata, che aveva due figli a cui
badare. La si vedeva perennemente affaccendata, lavava e
stirava di continuo e le loro case brillavano in ogni angolo.
Al piano terra della casa c’erano i magazzini e la stalla;
accanto, nel sottoscala del ballatoio, il pollaio. Ma i polli vi
trascorrevano solo la notte; di giorno razzolavano per la
strada guardati a vista dalla “gelosissima” gnura Calidda,
attenta a proteggerli da ogni passaggio rischioso: un cane
randagio, un carro rumoroso, che potesse spaventarli e
stravijarili con conseguente calo della deposizione delle
uova. Il sopraggiungere di un’auto diventava un dramma:
l’auto doveva fermarsi e aspettare che ogni pollo fosse al
sicuro prima di rimettere in moto e ripartire. Ma era
inevitabile che qualche gallina restasse sotto le ruote di
qualche automobilista distratto; ed era evento usuale che
dei ragazzini, giocando con la palla o facendo girare un
cerchione di bicicletta, provocassero il fuggi fuggi delle
galline tra lo sgomento della padrona incollerita e il
divertimento dei ragazzi. La figlia e la nuora avrebbero fatto
a meno di quei polli pur di evitare quei momenti risibili e
imbarazzanti. Ma come fare a meno del piacere dell’uovo
fresco da dare ai bambini, alla gustosa frittata, al pan di
Spagna a Natale e a Pasqua? La gnura Calidda la Vinci non
intendeva rinunciare al sacrosanto diritto di tenere le sue
galline e a vigilare su di esse; così continuò finché le forze
glielo permisero. Per non contrariare la madre e mantenere
le sane abitudini, Michelina si sobbarcava quotidianamente
di un essenziale impegno: pulire l’area attorno al ballatoio
dello sterco delle galline; pulizia che eseguiva con molto
scrupolo, com’era nel suo stile: munita di scopa, paletta e di
un vecchio cucchiaio raschiava, spazzava e lavava il basolato
della strada fino a farlo brillare. A questo lavoro Michelina
dedicava le ore che, per molti, erano quelle riservate alla
siesta pomeridiana. Nel silenzio dell’ora era facile sentire il
cra cra cra del cucchiaio col quale ella, incurante del gran
caldo, raschiava le pietre, una per una. La sera,
all’imbrunire, scendeva per verificare che i pennuti fossero
tutti entrati nel pollaio, si fossero appollaiati sulle stanghe
collocate da parete a parete, e chiudere col solito sasso il
foro d’entrata. Questo era il sistema solitamente adottato
per i pollai, ma non era molto sicuro. Si sentiva dire, infatti,
che qualcuno aveva subito il furto dei polli. La cosa veniva
attribuita ad un tizio specializzato in quel genere di ruberia.
Spingeva la pietra che ostruiva il buco, allungava il braccio
sino alle stanghe e, con un movimento rapido, afferrava il
pollo addormentato senza neanche farlo gridare. Se il colpo
riusciva, ripeteva la mossa una seconda volta. Molte furono
le famiglie vittime del mariuolo. Si vociferava in paese che il
tipo, abitando in una casa piccola ed avendo una moglie
troppo grassa, patisse il caldo e che, per evitare, soprattutto
d’estate, tale sofferenza, preferisse abbandonare il letto
coniugale, uscire di casa e dedicarsi al suo hobby notturno
preferito.
All’astricu di accesso alle case Di Romana e Nicoletti
seguivano due piccoli ballatoi, du’ tucchineddi, a breve
distanza l’uno dall’altro, alti poco più di un metro, con
quattro-cinque gradini e privi di ringhiera: appartenevano
alle abitazioni delle famiglie di Rocco Zappulla, Roccu
Zzappudda, e di Giuseppe Emma, Pippinu Palazzu. Il primo
era sposato con la signora Giovanna Di Gregorio, la zi’
Giuannina, della numerosa famiglia di li Mazzariddi (o li
Cilij), sorella di nostra zia Damiana madre di Pasqualino; il
secondo con la signora Concetta Barrile, Cuncittina la
Padedda. Appresso veniva il portoncino della casa della
famiglia di Nunzio Pace. Tra i quattro Zappulla, Totò, Nino,
Paolo, Antonietta, altrettanti dei Pace, Vincenzo, Pino, Anna,
Rocco, e due della famiglia Emma, Filippina e Sebastiano,
erano altri dieci bambini che gravitavano attorno a quelle
centinaia di metri quadrati di terra vicino al nostro incrocio.
«Fu soprattutto con Totò Zappulla,Vincenzo e Pino Pace e
spesso anche Rino Mendola (nipote del dott. Vitale) ed altri
ragazzi della zona», dice Salvatore, «che mi trovavo a
giocare tra gli altri a li castedda, e a scinni scinni rininedda21,
giochi che ricordo come divertenti e impegnativi, in cui
21 Vd. la voce rininedda sul Vocabolario Siciliano cit.
mettevamo tutta la nostra anima per eseguirli nel rispetto
delle regole e dei ruoli che definivamo dopo una serie di
discussioni. Come tra gli adulti, gli inevitabili diverbi
sorgevano quando c’era da attribuire la responsabilità della
sconfitta della squadra, ma venivano presto risolti per
riprendere subito il gioco». «Con Anna Pace», dice Maria,
«non ricordo di aver diviso tanti momenti di gioco ma tra noi
c’era una sincera amicizia; frequentavamo l’Azione cattolica
e spesso facevamo assieme la strada per raggiungere la
Parrocchia così come anche la domenica per recarci a Messa.
Eravamo due donnine e spesso aiutavamo in casa. Le nostre
mamme si stimavano a vicenda, si chiamavano cugine e lo
erano realmente: la madre di Anna, zia Maria Balestrieri, era
nipote di nonno Pasquale; suo padre era figlio di Giuseppina
Costa che, vedova Balestrieri, aveva sposato in seconde
nozze Calogero Messina, nostro bisnonno materno».
Accanto alla casa dei Pace, abitavano i Calì, li
Chiarapachjè, la famiglia dei cugini di papà del ramo
materno, unici suoi parenti a Pietraperzia, dal momento che
il padre, nonno Salvatore, proveniva da Caltanissetta.
Gaspare Calì, il capo famiglia, era fratello di nostra bisnonna
Francesca; noi non lo conoscemmo. Conoscemmo invece la
moglie, la zia Maria Calogera, la zì’ Maracalò, madre dei
cugini, e di essa conserviamo un ricordo nitido. Nella nostra
memoria rivive come figura autorevole nell’ambito della
famiglia e della parentela; a lei ci si rivolgeva con rispetto,
le si chiedevano consigli e le sue parole erano tenute in
grande considerazione. Passavamo spesso a salutarla e per
le feste mamma ci mandava a farle gli auguri. Tanto lei
quanto le zie Rosina ed Anna, le sue due figlie femmine, ci
accoglievano affettuosamente e ci trattavano come nipotini
diretti; da loro ci sentivamo come a casa della nonna. La
casa dei Calì distava dalla nostra circa cento metri ed era
una casa grande, bella ed arredata con signorilità. Si ergeva
su due piani e aveva un grande terrazzo sopra;
comprendeva molte stanze con balconi sulla via 4 Novembre
e sul corso Umberto, dove si aprivano anche dei magazzini.
I rapporti tra i cugini furono stretti e continui; si tennero
sempre vicini nei momenti lieti come, ancor di più, nei
momenti tristi. Si consultavano e si aiutavano a vicenda
riguardo a tutte le questioni che avessero per le mani, di
natura familiare e sociale. «Consideravo i fratelli Calì,
Giuseppe, Vincenzo, Michele, Calogero e Gaspare, che fu
padrino di Cresima di Salvatore», dice Maria, «come fossero
fratelli di papà, più che cugini. Più di una volta, ci trovammo
nella loro campagna di Ggibbijnu attorno ad un grande
tavolato su cui lo zio Vincenzo e lo zio Biagio fratello di papà
svuotavano cufinati di mandorle appena bacchiate che le
donne delle nostre famiglie continuavano a scricchjulari. Di
mandorle, come di pistacchi, i Calì erano infatti grandi
produttori. Né posso dimenticare», continua Maria, «le belle
serate trascorse in casa Calì durante il periodo natalizio,
seduti attorno a un grande tavolo a giocare tutti, grandi e
piccoli, a sette e mezzo; e le allegre feste da ballo durante il
carnevale, aperte ai gruppi mascherati. Serate, le une e le
altre, spesso interrotte per dare spazio ad un ricco buffet
fatto di dolci tipici, armisanti, sfingiuna, pagnuccata,
abbondantemente conditi con miele e pistacchi sbriciolati e
di altri dolci fatti arrivare apposta dalla rinomata pasticceria
Gruttadauria di Caltanissetta». Fu sotto la presidenza di
Giuseppe Calì, il maggiore dei fratelli, che la Società Militari
in Congedo acquistò la casa dei Cocilovo, in Corso Vittorio
Emanuele, distrutta durante i bombardamenti del luglio
1943, ed edificò la sua attuale e definitiva sede sociale22. In
quella occasione papà, già promotore assieme al cugino
dell’iniziativa, fu il suo più grande sostenitore nell’ambito del
Consiglio di amministrazione della società e nell’opera di
convincimento presso i soci (che cosa ne pensa l’attuale
Amministrazione della Militari in Congedo di apporre una
targa commemorativa all’interno del sodalizio? O c’è già?).
22 La precedente sede della Società Militari in Congedo fu il locale di Casa Fulco, accanto al Caffè di don Ciccinu Lalomia,
in Corso Vittorio Emanuele, lo stesso dove successivamente funzionò il Circolo di Cultura “V. Guarnaccia”.
Quando si intensificò la meccanizzazione dell’agricoltura, i
fratelli Calì si munirono dei macchinari necessari, trattori e
trebbiatrici, sia per la lavorazione delle loro terre sia per
metterli a sevizio di terzi. Nella stagione del raccolto era lo
zio Biagio che collaborava maggiormente con loro. A lui era
affidato il compito di occuparsi della mensa degli operai della
squadra ingaggiata per la trebbiatura e seguire la
trebbiatrice in tutte le postazioni in cui veniva chiamata dai
vari proprietari. Ma una terribile disgrazia doveva colpire la
famiglia Calì ed essere anche per noi motivo di immenso
dolore. Fu papà che, con intensa commozione, ci comunicò
la notizia, quel tragico 28 giugno 1973, del tremendo
incidente automobilistico avvenuto nei pressi di
Marcatobianco, in cui Giuseppe Calì e due dei suoi figli,
Gaspare e Pino, avevano perso la vita. «Mentre piangeva la
morte del cugino, papà ci implorava di non scendere in Sicilia
con l’automobile, come era nostra abitudine ogni anno per
le ferie», dice Maria. Nel parlare tra noi dell’evento
disastroso, ad entrambi venne subito in mente che, qualche
anno prima, in occasione di un suo viaggio a Torino, Gaspare
era venuto a trovarci nelle rispettive case e ci aveva portato
dei pistacchi.
Nella casa di via 4 Novembre vivono ora la zia Anna e la
famiglia di Franca Calì, figlia di Michele e Franca Cilano,
sposata con Michele di Paolo Riccobene: fu molto bello
incontrarli quando andammo a trovarli nell’agosto del 2005.
Lasciata la zia Anna, Franca e Michele, nostro pensiero
unanime fu di andare a salutare la zia Maria Paternicola,
vedova di Giuseppe Calì, in quel periodo ospite presso la
figlia Maria Bertini, in via san Giuseppe. Ed anche lì
l’emozione ci colse ancora. «Spesso telefono a Pietraperzia»,
dice Maria «e, dopo una piacevole chiacchierata con Franca,
parlo con la zia Anna che al mio “ciao zia” inizia subito con i
ricordi che numerosi affiorano alla mente al cuore e alle
labbra di entrambe».
Seguiva l’abitazione dei Dinarello, li Dinariddi, famiglia di
provetti pastai. La porta della loro casa si apriva su un
ballatoio con ringhiera: porta e ringhiera erano verniciati di
verde come pure, di fronte al forno, l’ingresso del pastificio
che precedeva l’astricu. Era frequente vedere, nello spazio
esterno prospiciente il laboratorio, la pasta lunga e corta nei
diversi formati, messa ad asciugare su una numerosa serie
di canne o dentro capienti ceste.
A qualche metro dal ballatoio Dinarello abitava la famiglia
di Giuseppe Cucchiaro, barbiere, sposato con la signora
Agata Russano, genitori di due bambini, Enzo e Gino, di
alcuni anni di età inferiore alla nostra, il primo dei quali
avrebbe sposato Angela Spagnolo, nostra amica di famiglia.
L’indirizzo di casa Cucchiaro fu molto noto alle donne
pietrine: trasformata e arredata allo scopo, l’entrata della
casa fu uno dei primi saloni di parrucchiera per signora che
si aprì a Pietraperzia dopo la guerra. La nuova tendenza
liberava le donne dal ricorso al fastidioso “ferro a forbice”
che, a lungo andare, indeboliva i capelli, o al sistema dei
bigodini, che dovevano essere tenuti a lungo e non essere
mossi. Il piacere della permanente, della messimpiega, del
taglio alla moda, presto conquistò anche le signore meno
giovani che avevano considerato la cosa frivola o mondana.
Antesignana in questa attività a Pietraperzia, assieme alla
signora Agata Cucchiaro, fu la signora Maria Violante
Falzone, Maria la Pataterna. Entrambe le due stiliste dei
capelli, donne aperte e briose, univano al buon gusto e
all’abilità nell’arte modi gentili e accattivanti. Le clienti
arrivavano ai loro laboratori anche da altri quartieri, specie i
giorni precedenti le feste, sobbarcandosi il tedio di lunghe
attese, per usufruire del loro intervento. A loro si deve il
merito di aver diffuso la nuova moda e di avere favorito il
processo di modernizzazione del costume nel nostro paese.
Da esse molte ragazze appresero l’arte che consentì loro di
esercitare un lavoro e aprire nuove sale. Fra tutte Giovanna
Falzone, figlia della Signora Maria, Giannina la Pateterna, poi
sposa di Lillu Maddalena e madre di Giuseppe (che porta il
nome del nonno, noto storico delle cose pietrine), attuale
Governatore della Confraternita Maria SS del Soccorso, cui
compete la cura della chiesa del Carmine e l’organizzazione
della processione di Lu Signuri di li Fasci.
All’abitazione dei Cucchiaro seguiva la casa degli Ideo. Il
capo famiglia, don Luigi, alto, asciutto e con un certo stile
nel portamento, era il postino del nostro quartiere. Non era
molto, allora, il volume della corrispondenza tanto che per
lunghi tratti egli poteva tenere in mano tutta la posta da
consegnare; raramente lo vedemmo con la tipica sacca di
cuoio sulla spalla. L’altro postino del paese era il sig.
Giuseppe Nicoletti, Balacatajimmi. Entrambi i portalettere
erano rapidissimi nell’espletamento del loro lavoro; non
c’era rischio che la lettera non fosse consegnata al vero
destinatario, anche in caso di errato indirizzo. Conoscevano
bene tutti i residenti della loro zona e da essi, con i quali
stabilivano un rapporto di familiarità, ricevevano confidenze,
ringraziamenti e benedizioni. Era don Luiginu Ide’ che
recapitava alla nonna le lettere dei suoi fratelli e gli avvisi
dei pacchi che le spedivano dall’America. Dopo di loro
l’attività passò ai rispettivi figli. Con don Sariddu Ideo
avemmo un rapporto amichevole e confidenziale.
C’era poi la casa di Salvatore Taibi, rappresentante di
commercio, sposato con Nina Satariano e, subito dopo,
quella di don Rosario Ragusa, che era stato sindaco del
paese durante gli ultimi anni della Grande Guerra e
successivamente ad essa, tra il 1917 e il 191923. «Don
Sariddu Ragusa», dice Salvatore, «era il padre del mio
maestro di terza e quarta elementare, Luigi, uomo buono e
paziente; più severo, invece, e facile ad innervosirsi, era
stato don Tatò Ballati, maestro di prima e seconda. Conobbi
bene anche il prof. Umberto Ragusa, persona gentilissima,
fratello minore di Luigi, con il quale papà aveva un rapporto
di buona amicizia». Don Sariddu era, tra l’altro, socio della
ditta “SARP-Parla”, la società di trasporto passeggeri che
gestiva la linea che da Riesi, passando per Pietraperzia,
Barrafranca, Piazza Armerina, portava quotidianamente a
Catania e ritornava il pomeriggio dello stesso giorno. Era la
linea della storica corriera degli studenti che si recavano a
Piazza Armerina, affollatissima specie nei giorni che
precedevano e seguivano i periodi di vacanza. Vi lavorava
come bigliettaio Luigi Cipolla, ritornato dalla prigionia come
lo zio Calogero, e Liddu lu Puntinaru. Lu zi’ Luigi Cipudda,
come lo chiamavano tutti gli studenti, era un punto di
riferimento per famiglie e studenti. Molte volte, negli anni
degli studi di Salvatore, fece da tramite tra noi e lui.
23 Cfr. Giovanni Culmone, Pietraperzia- Primi Cittadini del XX secolo, p. 32, Pietraperzia, ottobre 2003.
VIA 4 NOVEMBRE E DINTORNI CARATTERI E TIPI 5.
Salvatore e Maria Giordano
GIOVANNI CORRAO, CHI ERA COSTUI ?
La perpendicolare alla via 4 Novembre che si incontra dopo Casa
Ragusa è intitolata a Giovanni Corrao.
Fino a non molto tempo fa, di fronte a questo nome ci siamo trovati
come don Abbondio davanti a quello di Carneade: una personalità
celebre del nostro paese? Un personaggio storico? Ma chi? Quando?
Perché? Di lui non parlano i libri di storia comunemente in
circolazione, né il suo nome compare nei repertori storici correnti. Ad
uno stesso, unico Giovanni Corrao dedicano poche note l’EGM
(Enciclopedia Generale Mondadori), la Nuova Enciclopedia Universale
Rizzoli La Rousse e l’enciclopedia libera Wikipedia la quale cita come
fonte una scheda che l’Archivio Biografico di Palermo ha dedicato allo
stesso personaggio: G.C., Palermo 1822-1863, patriota e uomo
politico, esiliato dai Borboni ed attivo nei moti siciliani, generale di
Garibaldi, assassinato per motivi politici. Ma il nome di G. Corrao
raramente compare nello stradario delle nostre città; pochissime
quelle che gli hanno intitolato una strada (Pietraperzia sarebbe fra le
poche), benché in tutte compaiano vie e piazze dedicate (oltre che
G.Garibaldi) a luoghi e personaggi connessi agli stessi eventi storici:
Calatafimi, Marsala, Nino Bixio, Giuseppe La Masa, Rosolino Pilo…A
tale riguardo chiarificatrice ci è stata, recentemente, la lettura del
romanzo dello scrittore agrigentino Matteo Collura, Qualcuno ha
ucciso il generale, romanzo del quale è protagonista Giovanni Corrao,
patriota siciliano tra i più audaci e valorosi del nostro Risorgimento,
la cui vicenda è passata nell’oblio per ragioni oscure legate agli ultimi
anni della sua vita e alla sua fine misteriosa24.
Palermitano, quasi coetaneo (Palermo, 1822) dei due più noti
corregionali, Rosolino Pilo (Palermo, 1820) e Giuseppe La Masa
(Palermo, 1819), G.Corrao fu, come quelli, ostile ai Borboni contro i
quali diresse diversi tentativi di cospirazione, subendo prigione ed
esilio. Assieme a Rosolino Pilo organizzò gruppi di volontari a capo
dei quali preparò l’arrivo e lo sbarco dei Mille in Sicilia. Combatté, per
l’intera durata della campagna, a fianco di Garibaldi distinguendosi
per spirito di iniziativa, capacità militari, ardimento, tanto da essere,
dallo stesso, nominato generale sul campo. Successivamente
all’Unità d’Italia venne integrato nell’esercito regio col grado di
colonnello. Non condivise, però, ed avversò, la politica del nuovo
governo in Sicilia, che si aspettava diversa, e si dimise per coerenza.
Partecipò anche all’impresa di Aspromonte. Non è improbabile che G.
Corrao accompagnasse Garibaldi durante il suo passaggio da
Pietraperzia, nel 1862. Specie di “antigattopardo siciliano”, Corrao
non aveva combattuto perché tutto restasse come prima: estremista
del Partito d’Azione, fu ideatore di un vago disegno politico
imperniato su una sorta di dittatura popolare. Ritenuto sovversivo e
pericoloso agitatore, inviso e spiato dalla polizia, rimase invischiato
in ambigue trame ordite tra notabili, mafia e autonomisti palermitani
e, il 3 agosto 1863, fu ucciso proditoriamente da due colpi di lupara
sparati da sicari rimasti sconosciuti, presentatisi, sembra, vestiti da
carabinieri. Delitto di mafia o politico-mafioso? L’assassinio di
Giovanni Corrao è sempre rimasto avvolto nel mistero, essendo
24 Matteo Collura, Qualcuno ha ucciso il generale, Longanesi, Milano, 2006.
andati distrutti, o fatti sparire, i documenti che lo riguardavano, come
se si volesse che di lui non restasse neanche la memoria.25 Lo
scrittore siciliano, col suo romanzo, ne ha voluto riportare alla luce
la vicenda. 26. Gli stessi misteri avrebbero avvolto l’evento della fine
di Salvatore Giuliano agli inizi degli anni ‘5027
Sulla base di tali elementi, appare evidente che il Giovanni Corrao a
cui è dedicata, a Pietraperzia, la discesa perpendicolare alle vie
Garibaldi e 4 Novembre, in mezzo e parallela alle vie Rosolino Pilo e
Giuseppe La Masa, sia il terzo dei tre patrioti siciliani, il “generale dei
picciotti”in camicia rossa, eroe dimenticato dell’epopea garibaldina in
Sicilia, il medesimo personaggio a cui si riferiscono le note riportate
dall’Archivio biografico del comune di Palermo e dalle enciclopedie
sopra citate. Riteniamo dunque che gli amministratori del nostro
paese i quali deliberarono in merito alla dedicazione delle strade, a
conoscenza di eventi e protagonisti, abbiano voluto, attraverso la
loro scelta, onorare i tre valorosi garibaldini che tanta parte avevano
avuto nell’impresa dei Mille. Siamo convinti tuttavia che, nonostante
l’alto grado di probabilità riguardo all’identità del personaggio a cui
la via è stata dedicata, solo la delibera di approvazione del Consiglio
comunale conferirebbe alla nostra ipotesi il crisma della
inconfutabilità. Non sembra, però, che lo stato degli archivi comunali,
a causa di danneggiamenti e manomissioni subiti in periodi diversi,
25 In una nota in appendice del romanzo, l’autore fa notare la coincidenza tra l’assassinio di Giovanni Corrao e l’uso della
parola mafia comparsa per la prima volta nella commedia del 1863 I mafiusi di la Vicaria di Giuseppe Rizzotto e Gaspare
Mosca. Il termine mafia viene ufficialmente usato negli atti di indagine relativi al delitto Corrao. 26 Di Giovanni Corrao parla l’articolo Morte di un garibaldino scomodo di Rosa Faragi, Assessore alla cultura del comune
di Prizzi, pubblicato su Dialogus dell’ARCI- Libera di Corleone, del 9/7/2010. 27 Analogie, per certi aspetti, è possibile riscontrare tra la vicenda di G. Corrao e quella di Salvatore Giuliano. Vedi, tra
l’altro, la ricostruzione che del colonnello dell’Evis fa Gaetano Savatteri in I Siciliani, Editori Laterza, 2005, pp.44-53.
sia tale da garantire un esito positivo circa il reperimento di un atto
di cui si ignorano data ed epoca.
LEDA E IL CIGNO ed altro
Dopo la Discesa Corrao, seguiva un tratto di strada in cui si
susseguivano una serie di abitazioni di famiglie di possidenti, che
cedevano le loro terre a mezzadria, o di impiegati pubblici, tutte
persone molto conosciute in paese. La prima era quella di Don Nittu
Minnula, don Benedetto Mendola, sposato con donna Rosina della
famiglia dei Nicoletti, sorella di donna Caterina, nostra dirimpettaia
all’incrocio di via Rosolino Pilo. La casa occupava tutta la cantunera,
aveva delle finestre lungo la discesa e dei balconi ad angolo che
davano sul corso Umberto, dove si aprivano locali dati in affitto adibiti
a negozi. Era una casa signorile, alla quale si accedeva tramite una
bella entrata posta sopra una piccola scalinata di alcuni gradini
disposti a semicerchio attorno ad essa; sull’ultimo, molto più ampio,
si apriva il portoncino. «Diverse volte vi accompagnai donna Caterina
che andava a trovare la sorella», dice Maria. «Entrando in quella casa
subito si avvertiva il profumo della buona cucina, odore di vaniglia e
di pasticceria. Un pomeriggio arrivammo in un momento in cui
l’aroma del caffè sovrastava su tutto: donna Rosina, che l’aveva
appena preparato, ne porgeva, con bei modi, una tazzina sul piattino
al marito don Nitto, mentre lui, con giacca da camera e ciabatte,
leggeva seduto in poltrona. A noi, donna Rosina offrì dei dolci fatti in
casa. Mi fu subito chiaro il diverso modo di vivere di donna Caterina,
parsimoniosa all’eccesso, rispetto a quello della famiglia della sorella.
Di quella casa mi colpì, una volta», prosegue Maria, «la visione di
alcuni abiti da donna con gonne svasate delicatamente adagiati sui
divani che arredavano il grande salone, pronti ad essere indossati o,
come si possono vedere in un atelier di sartoria, pronti per la
consegna».
«Sono delle mie nipoti», disse donna Rosina, «li tengono qua perché
la madre non vuole disordine a casa sua e loro invece dicono che
negli armadi si stropicciano… e la nonna non sa dire di no». Quattro
erano le nipoti di donna Rosina: Leda, Rosetta, Maria e Aurora, la più
piccola, più o meno della nostra età, figlie di donna Francesca
Mendola, (donna Ciccina) e di Luigi Potenza della famiglia di
numerosa parentela tra le più in vista del paese; Stefano, l’ultimo
nato, era il loro quinto figlio. Frequentazioni e rapporti di amicizia
delle sorelle si svolgevano nell’ambito dell’aristocrazia pietrina. Erano
ragazze molto belle, le sorelle Potenza, destinate a contrarre ricchi
matrimoni; non di una bellezza giunonica, come vediamo in certi
dipinti di artisti rinascimentali che hanno illustrato il mito di Leda e il
Cigno28, a cui il nome della maggiore delle sorelle subito rimanda,
ma di lineamenti più sottili e di un’ avvenenza più delicata.
La casa dei Potenza confinava ad ovest con quella dei Palascino, i
nonni di Luigi Palascino, «mio compagno di scuola alle elementari»,
dice Salvatore, «poi divenuto avvocato e, dagli anni ‘80, per più
mandati, sindaco di Pietraperzia». Seguivano la casa dei Vincifora,
che i fratelli Vincenzo e Salvatore, poi trasferitisi dal paese, furono
gli ultimi ad abitare, e la casa dei genitori di Francesco Potenza,
Ciccinu Potenza, cugino delle giovani Potenza, che sposò la signorina
28 Nelle Metamorfosi, il poeta Ovidio narra che Leda, giovane e bellissima regina di Sparta, aveva attirato le attenzioni di
Giove e che il re degli dei, con il proposito di sedurla, fingendo di essere inseguito da un’aquila, si era avvicinato a lei e
cercato la sua protezione, nelle sembianze di uno splendido cigno,. Sul mito di Leda e il Cigno si sono esercitati fantasia
ed estro artistico di scultori e pittori di tutti i tempi.
Maria Nocera, figlia del sig. Cosimo Nocera, ragioniere capo del
comune di Pietraperzia. Assieme al dott. Francesco Mulè, segretario,
costituirono per molti anni la celebre coppia dei funzionari del
Comune. «Maria Nocera era sorella di Letizia, mia compagna di
scuola», dice Maria, «quando frequentavamo la classe seconda
elementare della maestra Pennino Chiaramonte, moglie di donn’
Anillu la napulitanu, Aniello Pennino, che aveva un negozio di tessuti
vicino alla Piazza Matteotti, all’inizio di via Sottotenente Giarrizzo. A
volte, a scuola, il mattino, Letizia ed io decidevamo di trovarci
assieme a casa sua il pomeriggio per eseguire i compiti. Allora
incontravo il ragioniere, il quale mi incaricava di portare i saluti a
papà: “portami tanti saluti a tuo padre, il presidente”, mi diceva.
Sapevo che si conoscevano e che avevano grande stima l’uno
dell’altro».
C’erano poi la casa della famiglia di Michele Adamo, Chjichjiuliddu,
impiegato presso l’ufficio del dazio; la casa del maestro don Michele
Farinelli e quella di Angelo Ideo, ‘Ngilinu Ideu, fratello del portalettere
Luigi. Dopo un’ultima porta relativa ad una casa di abitazione di più
piani con un balcone che dava sulla via La Masa, la strada terminava
con il basso locale dove sarebbe stato successivamente impiantato il
forno elettrico del rag. Pasquale Nicoletti.
Quest’ultimo pezzo della via 4 Novembre era, anche allora, piuttosto
tranquillo: non si sentivano rumori di giochi o di pianti di bambini.
Percorrendolo poteva capitare di incontrare insieme le nipoti di donna
Rosina, o solo qualcuna di esse, che andavano a trovare i nonni; la
signorina Adelina Palascino che si recava in chiesa; Ciccinu Potenza
che bussava alla porta di casa della madre o Angelo Ideo, con la sua
cartellina sotto l’ascella, che usciva o tornava a casa.
Angelo Ideo svolgeva in paese il lavoro di messo giudiziario ed era
molto noto ai cittadini pietrini: facilmente lo si vedeva in piazza, o in
giro per le strade, mentre consegnava avvisi di sfratto, di
pignoramenti, citazioni di pagamenti e notifiche del genere: non era
l’attività più idonea ad accattivarsi la simpatia della gente, benché
tutti cercassero di farselo amico e lo chiamassero zi’ ‘Ngilì’ (zio
Angelino). La sua figura, nella percezione generale, era accostata a
quella dell’agente delle tasse o del carabiniere che portava gli avvisi
di comparizione. «CCi mannu jintra ‘Ngilinu Ide’!», minacciava
l’esercente che voleva recuperare un debito da un cliente insolvente;
e a lui guardava con una certa ansia chi si trovava in tale situazione.
Il piglio sicuro e il tono serio e deciso, coerenti con i termini perentori
delle sue ingiunzioni, mettevano soggezione. ‘Ngilinu Idè’ manteneva
ed alimentava l’alone di cui era circondato e se ne compiaceva. La
battuta si usava anche con accento scherzoso in caso di un
occasionale debito di modestissima entità: «Te’ li cincu liri di lu
debbitu d’airi prima ca mi manni jintra ‘Ngilinu Idè’»; oppure: «Nu n
c’era bisugnu di tutta sta primura, cchi ffà, ti scantasti ca ti mannava
jintra ‘Ngilinu Idè’. …). (“Prendi le cinque lire del debito di ieri prima
che mi mandi a casa ‘Ngilinu Ideo”; … “Non era necessaria tutta
questa premura (di pagare il debito); avevi forse paura che ti
mandassi a casa…”
VIA 4 NOVEMBRE E DINTORNI CARATTERI E TIPI 6.
Salvatore e Maria Giordano
UN CENTRO COMMERCIALE E LUOGO DI RAPPORTI UMANI
Quel tratto di via La Masa, che collega la via 4 Novembre al corso
Umberto, era invece sempre animato dalla presenza di molte
persone. In una superficie non più estesa di un attuale ipermercato
erano infatti concentrati parecchi esercizi commerciali e poche case
di abitazione. Quando, dopo la chiusura della merceria di lu Citriri,
all’angolo di via La Masa/corso Umberto, venne aperta una pescheria,
in quello spazio i pietrini potevano trovare ogni tipo di negozio in cui
rifornirsi di tutti i generi di alimenti in cui consisteva ordinariamente
la spesa quotidiana, ed anche di più. Quelle poche centinaia di metri
quadrati costituivano quindi un autentico centro commerciale come
oggi se ne trovano (e di nuovi continuamente se ne aprono) in ogni
città e paese. Ma, a differenza dei moderni centri commerciali,
anonimi ed artificiosamente organizzati esclusivamente a fini
consumistici, il nostro centro commerciale aveva più la fisionomia di
un reale “centro sociale”, genuino luogo di incontri e di rapporti
umani: all’opportunità di esaurire la lista della spesa senza fare altri
giri per i negozi del paese, si univa il piacere di incontrare e
intrattenersi con conoscenti e amici coi quali scambiare notizie e
commentare i fatti del giorno, concludere affari.
Già prima di raggiungere la via La Masa si vedeva, di fronte, il
negozio del cugino di mamma, lu zi’ Turiddu Pirtusiddu, Salvatore
Messina, che da piccola putija di salsamenteria del tempo di guerra
si era allargato in grosso negozio di generi alimentari, fornito di ogni
tipo di prodotto in commercio. L’esercizio era gestito da Pino, Pinu
Pirtusiddu, figlio maggiore dello zio Salvatore e della zia Concettina
Lo Presti, il quale non trascurava di rifornirsi di ogni novità nel campo
dei commestibili che venisse immessa nel mercato. Sopra il negozio
sorgeva, su due piani, la casa di abitazione della famiglia. A nord,
subito dopo la porta d’ingresso della casa, in un magazzino con due
locali, lo zio Salvatore esercitava il commercio di granaglie e ntrita.
«I due figli minori della famiglia Messina, i gemelli Filippo e Salvatore,
di qualche anno più anziani di me», dice Salvatore, «si dedicarono
agli studi. Dopo la scuola elementare frequentarono la scuola media
parificata a lu Statutu e successivamente l’Istituto Magistrale “F.
Crispi” di Piazza Armerina. Le stesse scuole che frequentai a mia
volta. Ad essi fui legato da assidua e affettuosa amicizia, che si
intensificò soprattutto negli anni post-diploma, per condivisione di
interessi e di orientamenti, fino a quando le esigenze lavorative non
si conciliarono più con la nostra permanenza a Pietraperzia. Dopo le
prime esperienze che ci videro impegnati come insegnanti presso
scuole sussidiarie e popolari rurali, i fratelli Messina furono, entrambi,
tra i primi del gruppo dei colleghi-amici, a superare, ancora studenti
universitari, il concorso magistrale, in seguito al quale si trasferirono
in Sardegna dove si stabilirono definitivamente, e proseguirono la
loro carriera di insegnamento e direttiva. Di poi soltanto qualche
annuale gradito incontro per le vacanze estive».ed ora più o meno
frequenti ed attese telefonate tra Filippo e me, lunghe da fare le ore
piccole.»
Dallo stesso lato del magazzino di Pirtusiddu, poco più sopra di esso,
verso la via Tortorici Cremona, c’era il negozio di Totò Pizzucu,
Salvatore Nicoletti, anch’esso di salsamenteria, preesistente a quello
e altrettanto fornito. Il negozio era appartenuto a don Pasquali
Pizzucu, suo padre; Totò lo aveva ereditato da lui. Attaccata
all’esterno dell’esercizio si vedeva sempre una gabbietta con un
canarino: dalla mattina alla sera l’uccellino, interrompendo soltanto
per dare qualche beccata ad una fogliolina di lattuga sul fondo della
gabbietta, rallegrava i passanti con i suoi gorgheggi e costituiva nello
stesso tempo motivo di richiamo. Varcando la soglia del negozio, una
mescolanza di odori ti investiva, di unto, di olio e di pecorino, di
spezie; ambiente e arredi ne erano impregnati. A sinistra, in un locale
attiguo al primo, da cui proveniva odore di vino, erano disposti dei
tavoli con sopra dei bicchieri di vetro capovolti su un vassoio, e delle
sedie attorno. Nella gestione del negozio Totò Nicoletti aveva nella
madre, donna Mattuzza, donna Mattia Dinarello, una provetta
aiutante. Oltre a conoscere bene il mestiere per averlo esercitato
assieme al marito, donna Mattuzza ne aveva le attitudini e la
passione. Il mattino, racconta la signora Gemma Siciliano, sua figlia,
ad orario di apertura dei negozi, lasciava a lei l’incombenza del
disbrigo delle faccende di casa per correre ad aiutare il figlio.
Da quello stesso lato, verso Corso Umberto, altri negozi, che nel
tempo cambiarono genere, furono: la macelleria di Michele
Femminile, trasferitosi dal Corso Umberto, successivamente
trasformata in panificio da Salvatore Parlato e da lui poi ceduto a
Tano Ferruggia; la casa di lu zi’ Caloriju Piccicutu dal balcone della
quale l’uomo si sedeva a prendere il fresco e a guardare l’animazione
sottostante ; l’abitazione e il negozio di ferramenta di Antonino La
Tona; la sartoria di Calogero Bonaffini, Liddu Frappaponiju, nel locale
all’angolo con via Riva, poi ristrutturato e diventato macelleria di
Filippo Femminile, il più piccolo di li Fimminiddi, sei fratelli, tutti
macellai: oltre a Filippo, Salvatore, Giovanni, Giuseppe, Michele,
Umberto.
Da via 4 Novembre, svoltando a destra in via La Masa c’era, invece,
un unico negozio, quello di frutta e verdura dei nostri genitori ,
trasferitovisi dopo il trasloco dal corso Umberto I e che il locale era
stato lasciato libero da Vincenzo Tortorici ,Vicinzu Purpetta, che lo
utilizzava come magazzino deposito dei mobili di cui era
commerciante. Favoriti dalla contiguità dei due esercizi oltre che dal
tipo della relativa mercanzia: pane e pizza l’uno, frutta e verdura
l’altro, base essenziale dell’alimentazione, i rapporti amichevoli
intercorsi tra i nostri genitori e Pasqualino Nicoloetti, avevano
quotidianamente occasione di manifestarsi concretamente. Non
mancavano a mamma tra i prodotti del suo negozio e quelli dei
negozi intorno gli ingredienti per preparare abbondanti “daganate”
di melanzane, peperoni, patate, cipolle condite e aromatizzate ed
arricchite di carne (in particolare di pollo, da quando per un certo
periodo funzionò , nell’ex negozio di ferramenta di La Tona, la polleria
di Aurelio La Monica) che il ragioniere, a volte sollecitava e che
premurosamente faceva introdurre nel suo forno assieme alle grosse
teglie di pizza e “fuati a facci di vecchia” : pietanze destinate a finire
sulle tavole di quanti avevano collaborato alle operazioni e, spesso,
anche di amici più assidui frequentatori ben informati di certe
abitudini di quell’angolo di strada.
UNA CARA AMICIZIA
Tra gli esercenti del “Centro Commerciale La Masa” vigevano
relazioni amichevoli. Quasi tutti, del resto, trattavano prodotti di
genere diverso l’uno dall’altro per dare luogo a discussioni per “
gelosia di mestiere” e per problemi di concorrenza. Prevalse sempre
spirito di civile reciproca tolleranza, anche di fronte a qualche
momentaneo ed occasionale intralcio che il commercio di uno poteva
arrecare all’altro.
Fu in questa atmosfera di rapporti che caratterizzò il clima sociale di
quell’ambiente che maturò un simpatico fatto che coinvolse noi ed
una nostra carissima amica: il Battesimo di Salvatore , figlio di Filippo
Femminile, il macellaio del “Centro Commerciale”. «Le cose andarono
così», racconta Maria. «Già prima che il bambino nascesse, mamma
che aveva intuito le intenzioni dei genitori da certe risatine e frasi
allusive di Cristina, moglie di Filippo, ci aveva comunicato le sue
impressioni»: «vedrete che appena a Filippu Fimminedda cci nasci
ssu figliu, v’arriva l’ambasciata» disse «rivolta a me e a Salvatore».
«Ed ecco che un giorno, continua Maria, mamma rientrò a casa dal
negozio con la notizia:« è nato Salvatore, il sesto figlio di Filippu
Fimminedda ». E, come da lei previsto, non era trascorsa una
settimana dal lieto evento che un giorno Filippo ci venne a trovare a
casa. Era l’ora di pranzo, aveva appena chiuso il negozio.
«Scusate per l’ora», disse sfoderando il suo sorriso accattivante di
quando non era nervoso, «sono venuto per esprimervi un desiderio
mio e di mia moglie, e tolgo il disturbo: saremmo felici, io e Cristina,
se il piccolo Salvatore lo battezzassero lu professuri e la signurina»:
sue testuali parole. Subito dopo Filippo aggiunse il nome della
madrina, la terza, alla quale sarebbe spettato il compito di lavare la
cuffietta. Si trattava di Graziella Monica, confidenzialmente chiamata
Graziedda la Catrinara quando si parlava di lei in terza persona; per
noi era semplicemente Graziedda, nostra amica da sempre, cosa
nota a Filippo. Sapere di condividere con Graziella l’onore e il
complimento ci fece piacere (È tradizionale credenza a Pietraperzia
che “ li carusi si nni piglianu setti rami di li parrini” nel senso che i
figliocci tendono ad assomigliare ai padrini in qualità e carattere). Il
lavaggio della cuffietta faceva parte del cerimoniale del Battesimo e
delle tradizioni del paese. La cuffietta bianca di filo serviva per
asciugare il capo del bambino bagnato dall’acqua benedetta versata
dal sacerdote durante il rito. La madrina dopo averla lavata e stirata,
avvolta in una velina bianca la restituiva alla mamma del bambino
che la conservava come ricordo. Nelle famiglie numerose la stessa
cuffietta serviva, o era servita, per più battesimi.
Fu un susseguirsi di accordi, di visite al bambino, di preparativi vari
fino alla data della celebrazione del Sacramento . La cerimonia ebbe
luogo nella parrocchia Santa Maria di Gesù; la festa proseguì in casa
di Filippo e Cristina, in Via Mosca, con la partecipazione della
numerosa famiglia, della anziana madre di Filippo, donna Lucia, e di
altri amici invitati. Benché fosse il sesto figlio, Filippo non badò a
spese: tra musica, balli e assaggi continui di dolci e bevande il
trattenimento si protrasse fino a tardi».
Quello del Battesimo del piccolo Salvatore Femminile, che ancor più
rafforzava la nostra amicizia, non fu che uno dei tanti episodi della
nostra vita che ci vide assieme a Graziella: la sua accanto a noi fu
una presenza costante che ci accompagnò fin dalla nascita, per tutta
l’infanzia e la giovinezza. L’appellativo “ la Catrinara” le derivava
dall’essere figlia di lu zi’ Caloriju lu Catrinaru e da la zi’Michilina, amici
di mamma e papà fin dai tempi precedenti al matrimonio delle due
coppie, e padrini di Battesimo di Salvatore, quindi cumpari Caloriju e
cummari Michilina . Da questa amicizia tra le due famiglie nacque la
reciproca conoscenza e si sviluppò in maniera naturale e spontanea,
il rapporto tra noi e Graziella, alimentato nel corso degli anni, da
tante occasioni di incontri e di cose fatte insieme..
Nei periodi di Natale e di Pasqua, lunghe serate trascorrevamo a
casa sua o a casa nostra, giocando a carte o a tombola o cercando
di aiutare le nostre mamme che preparavano pietanze e dolci in
previsione della cena quando fossero arrivati i nostri papà dalla
Società “Militari in Congedo” e da portare via per il giorno dopo. «Oh
le gran padellate di baccalà fritto, di broccolo in pastella, di carduna
dorati e croccanti,- dice Maria- o di sfirrijulati di salsiccia grassa e
profumata! Al solo pensarci già sento lo sfrigolio dell’olio e l’odore di
fritto, acre ma così buono, mi pizzica le narici». Né potevano mancare
l’armisanti e li sfingi , gli unici tipi di dolci che piacevano a papà, lui
così restio alle cose dolci.
Frequentavamo anche la famiglia dei nonni materni della nostra
amica : non erano per noi degli estranei, lu papà Gisè (nonno
Giuseppe) , uomo buono e paziente come il suo santo omonimo, la
mamma Annù (nonna Anna), sempre di buonumore, e la pipina Filì
( la padrina Filippa), la figlia buona e affettuosa come il padre,
sempre allegra come la madre.
Anche il fratello della nonna Anna, Paolo, da giovane emigrato a
Torino, divenne per noi lo “zio Totino” perché così lei lo chiamava
(da “Tota”, ragazza, termine torinese come il nostro “carusa,)” che
ricordiamo essere ritornato in paese a trascorrere la sua vecchiaia.
In primavera andavamo a piedi a trovarli a lu Magazzinazzu, località
a poche centinaia di metri dopo li tri pponti nella direzione di lu
Funnachiddu, dove essi trascorrevano lunghi periodi. Sotto lo
sguardo compiaciuto dei due vecchietti prendevamo d’assalto le
piante dei gelsi bianchi e facevamo scorpacciate dei dolci frutti che ci
piacevano più dei gelsi neri.
I Monica ci venivano a trovare a li Minniti e quelle erano le volte delle
nostre gite a Caltanissetta. Ad uno di tali viaggi si riferisce un
episodio, risalente alla nostra prima infanzia, che con Graziella
amiamo ricordarci a vicenda. In quelle occasioni, prima di ritornare
a li Minniti, eravamo soliti andare a salutare i parenti di papà, la zia
Rosina, lo zio Tatà (Gaetano) Nastasi e la zia Concettina Russo. Gli
zii abitavano nella stessa casa, al primo piano di uno stabile situato
in una piazzetta dietro la chiesa di San Michele. Nella stessa piazzetta
aveva lo studio il dott. Cucugliata che, da quando gli zii ce ne
avevano decantato la bravura, era diventato il nostro occasionale
pediatra. Una volta, mentre a casa degli zii gli adulti si scambiavano
convenevoli furono richiamati da un frastuono di voci e di latta
battuta proveniente dall’esterno. Guardandosi attorno e notando la
nostra assenza, spontaneamente si erano affacciati al balcone :
Graziella e Salvatore, seduti sui gradini dello studio del dott.
Cucugliata, cantavano, con tutta la voce che si ritrovavano in corpo,
le lodi di Sant’Antonio, e intanto battevano a tutto spiano come piatti
d’orchestra, i coperchi delle pentole che erano state acquistate
durante la mattinata.
“ Oh Sant’Antonio profumo di gigli
tutto il mondo t’invoca fedel:
deh benedici pietoso i tuoi figli
spargi grazie e favori dal ciel…”
« Sebbene siano trascorse alcune decine di anni da quel giorno, una
piacevole sensazione mista a commozione, mi procura – dice
Salvatore- il rivedere l’immagine rimasta stampata nella mia mente,
della mia madrina che, nel sole abbagliante di mezzogiorno che
invade la piazzetta e mi costringe a tenere gli occhi socchiusi, dal
balcone di casa Nastasi, si scioglie in una delle sue aperte risate e
con la mano ci indica a mamma che le si trovava accanto».
Con Graziella condividemmo anche lo scompiglio dell’emigrazione
con lo sradicamento dalla terra d’origine, dagli ambienti fisici e umani
, col cambiamento delle prospettive, con la perdita dei panorami che
ci erano cari. Graziella vive a Milano, noi a Torino. Protagonisti delle
nostre telefonate sono ora i figli e i nipoti: quei tempi possiamo solo
farli rivivere con la memoria, ricordandoceli a Natale a Pasqua ai
compleanni…, contarci gli anni che passano, inesorabili. Da tempo
ormai, ma per noi sempre spiritualmente presentii, i genitori di
Graziella e il nostro papà riposano accanto nel cimitero del paese ,
nei nuovi loculi che il Comune fece costruire nel 1997, in prossimità
della tomba della Società “Militari in Congedo”. Assieme ad altri
sodali della stessa Società che li avevano preceduti e seguiti; hanno
vicini i coniugi Corvo, Paolo e Maria Buttafuoco, loro buoni amici che
ci furono dirimpettai in via 4 Novembre. Il sodalizio continua ora nel
mondo della verità. Graziella, infallibilmente, va a trovarli ogni anno
nei suoi ritorni estivi a Pietraperzia ( anche più di una volta nel corso
dell’anno, in questo molto più assidua di noi) e fa anche le nostre
veci. Grazie cara amica!
VIA 4 NOVEMBRE E DINTORNI- CARATTERI E TIPI.7
Salvatore e Maria Giordano
IL COMMEDIOGRAFO COMMENDATORE GIOVANNI GIARRIZZO.
All’incrocio di via 4 Novembre con via La Masa, lato destro verso il
corso Umberto, al negozio di prodotti ortofrutticoli e terraglie dei
nostri genitori, seguiva un’unica abitazione, quella del
Commendatore don Giovanni Giarrizzo, nota personalità del paese.
Il Commendatore oltre al fatto di avere ricoperto, e di ricoprire,
incarichi politici, doveva la sua notorietà all’essere autore di opere
teatrali, commedie e drammi, alcune delle quali erano state
rappresentate più volte al Teatro Comunale di Pietraperzia e in altri
teatri della Sicilia. La casa in cui abitava era costituita da una parte
del grosso caseggiato appartenente alla famiglia di nobile
discendenza dei Signori Giarrizzo, con ingresso principale da Corso
Umberto. Tale entrata era utilizzata da don Ciccio, fratello del
Commendatore, che abitualmente viveva in una sua dimora di
campagna, e dalla sorella, donna Gnazzidda, donna Ignazia Giarrizzo
sposata Piazza, madre di Gino, Luigi Piazza, maestro di professione
presso le scuole elementari del paese, ma avvocato di studi, titolo al
quale la madre teneva molto. Il commediografo conduceva vita
piuttosto ritirata, guardava alle cose con aristocratico distacco, di
uomo che conosce il mondo. Usciva per fare ritorno, poco dopo, con
il giornale sotto il braccio. Delle cose di casa sua si occupava una
donna spiritosa e cordiale, Arfunzina, (=Alfonsina) poi divenuta la
signora Giarrizzo. Frequentando il negozio avemmo diverse occasioni
di incontrarlo e di parlare con lui. Era un uomo di raffinata gentilezza
e signorilità, i sui discorsi avevano un intento pedagogico, erano
sempre discorsi edificanti ispirati ai valori della verità, della giustizia,
dell’onestà oltre che all’amore per la patria, per la Sicilia, per la sua
terra natia, valori a cui si ispirano i suoi drammi e le sue commedie.
«Ricordo, dice Salvatore, di aver tenuto a lungo attaccato ad una
parete della mia cameretta il cartoncino con il disegno della lumiera
ad olio e la scritta di dedica ai giovani, invito a tenere vivi i valori di
una volta, soppiantati dall’unico criterio ormai imperante fondato
sull’egoismo: “ campu iju e ccu mori mori”. Il drammaturgo l’aveva
fatto stampare con riferimento alla sua omonima opera, “Lumiera
ad olio”. Una cosa che lo indignava molto era leggere casi di
malversazione e di corruzione soprattutto degli amministratori
pubblici che, in questo caso, considerava profittatori e imperdonabili
traditori della fiducia dei cittadini, essi, che dovevano per primi dare
l’esempio. «L’uomo onesto, usava dire, deve essere come la tastiera
del pianoforte: unni la toccanu toccanu, sona» (= qualsiasi tasto si
rocchi, suona). Così li avrebbe voluti: chiari nelle parole, irreprensibili
nei comportamenti. Il Commendatore aveva rapporti con personalità
politiche e delle istituzioni, riceveva frequenti visite da parte di don
Felice Lo Giudice cappellano e poi parroco della Chiesa Madre, ed
accoglieva a casa sua, con disponibilità, persone che bussavano alla
sua porta per chiedere il suo tramite, una sua lettera per la soluzione
di qualche problema che ostacolava l’iter di una loro pratica. «Molte
altre occasioni ebbi di parlare con il commediografo, e di apprezzare
la sua personalità, aggiunge Maria, durante le serate televisive a casa
della signorina Potenza, donna Rosina, sorella di don Liborio Potenza
del quale avevamo comprato la casa in Via Principessa Deliella,
porzione del palazzo della famiglia signorile dei Potenza, lo stesso in
cui l’eroe dei due mondi aveva pernottato quando, nel 1862, era
passato per Pietraperzia. L’evento è ricordato da un mosaico in
piastrelle di ceramica raffigurante Garibaldi a cavallo, collocato sulla
parete del palazzo in occasione della celebrazione dei 150 anni
dell’Unità d’Italia. Donna Rosina, che viveva sola al secondo piano
dello stabile, era stata tra le prime ad acquistare la televisione ed
invitava i suoi amici ad assistere alle trasmissioni. Don Giuanninu
veniva assieme alla signora Alfonsina, a donna Gnazzidda e
all’avvocato Piazza. Io, che avevo instaurato con la signorina Potenza
un rapporto di grande familiarità, ero sempre presente. Per nessuna
ragione il nostro drammaturgo si sarebbe persa la rappresentazione
di una commedia di Pirandello o avrebbe rinunciato alle puntate degli
sceneggiati, adattamenti dei romanzi storici che la televisione allora
trasmetteva: le seguiva con attenzione ed esprimeva le sue
considerazioni sulle opere e sulla recitazione attraverso commenti e
confronti di intenditore. Io lo ascoltavo e facevo tesoro delle sue
parole. Restavo lusingata le volte che, avendo indovinato lo sviluppo
di qualche situazione o espresso timidamente qualche giudizio : «hai
tanto intuito, Maria, e senso artistico», mi diceva.
Spesso partecipava alle serate anche donna Angela Vitale, la
poetessa, figlia del dott. Vitale, che era sempre accompagnata dalla
figlia Giovanna. Madre e figlia arrivavano con molto anticipo rispetto
all’orario delle trasmissioni perché a Giovanna piaceva fermarsi un
po’ con me: al mio invito ad entrare, ella non si toglieva il cappotto,
né si sedeva; senza mai interrompere di giocherellare con la sua
borsetta girava per la casa, guardava i mobili e i ritratti alle pareti,
mi rivolgeva qualche ingenua domanda. La sua spontanea semplicità
suscitava in me tanta simpatia>>.
«Nel periodo in cui all’angolo di quel tratto di strada funzionò il nostro
negozio, più di una volta», aggiunge ancora Salvatore, «vidi arrivare
alla porta della casa del commendatore, un signore robusto, guance
piene, due folti baffi, sguardo malinconico; si trattava dell’attore
Giovanni Grasso, interprete delle sue commedie, con il quale il
commediografo era legato da amicizia oltre che da motivi
professionali. Una volta vi arrivò anche l’avv. Antonio Romano, di
Enna, senatore della DC (Democrazia Cristiana), che in paese molti
soprannominavano “Cordiali saluti”, per via dell’immancabile formula
con la quale chiudeva ogni sua lettera di risposta, unica conclusione,
dicevano, a richieste di interessamento rispetto a pratiche dei suoi
elettori».29
LA STRATARANNI.30
DON ROCCO RINDONE
Il corso Umberto, arteria principale del settore sud-ovest del
territorio urbano di Pietraperzia, ed una delle più importanti vie del
paese, la stratranni (la strada grande) per i pietrini, fu tra le prime,
dopo la guerra, alla quale vennero sistemati i marciapiedi e rifatta la
pavimentazione con mattonelle nere bituminose. «Era stata
piastrellata da poco», dice Salvatore, «quando, spingendolo sino
all’incrocio con Via Rosolino Pilo, vi feci scorrere sulle sue rotelline
29Vd. : PIETRAPERZIA, anno IV N. 2 - Aprile-Giugno 2007, p. 14, Vita ed opere di Giovanni Giarrizzo. La scheda
biografica del commediografo, corredata di fotografie, è seguita dalla pubblicazione del dramma “Tutto, meno
l’amore”.
Vd anche: PIETRAPERZIA, Anno VIII, N. 1-Gennaio- Marzo 2011, Sac. Filippo Marotta, La poetessa Maria
Antonietta Giarrizzo, Baronessa di Rincione- Il ramo nobiliare della famiglia Giarrizzo e altre personalità Giarrizzo
di Pietraperzia, p.26. 30 La Strataranni è intitolata a Umberto I (1844- 1900) figlio di Vittorio Emanuele II. Salito al trono nel 1878 in seguito
alla morte del padre, fu soprannominato il Re Buono per la pronta presenza, assieme alla Regina Margherita (prima regina
d’Italia), sui luoghi di collettive calamità Sotto il suo regno, tuttavia, l’impostazione politica ebbe un’impronta autoritaria
che diede origine ad aspri conflitti sociali repressi duramente. Nel corso dei moti di Milano del maggio 1898 le truppe
comandate dal Gen. Bava Beccaris, (poi decorato di alta onorificenza) sparavano sulla folla uccidendo un centinaio di
persone inermi. Umberto I morì a Monza il 29/07/1900 assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci.
gommate il carrello con sopra la radio Siemens con giradischi
incorporato, che papà, dietro nostra insistenza, aveva comprato nel
negozio di Gasparuzzu, Gaspare Tortorici, in via La Masa». « Così
riassestata la via divenne il posto preferito per le nostre corse e le
partite a palla. Allacciate strette le scarpe, non avevo altro pensiero
il pomeriggio, subito dopo le lezioni da Maria l’”americana”, che
tornare a la strataranni assieme a Pasqualino dove trovavamo altri
ragazzi con cui, posti due sassi a fungere da pali, esercitarci a fare
tiri in porta. Rocco scendeva subito vedendoci arrivare. Il quasi
inesistente traffico di automobili ci consentiva allora di continuare per
tempi lunghi i nostri giochi». Rruccuzzu Muscugliuni (= Rocco
Rindone) nostro coetaneo, abitava alla metà di quel tratto di strada,
sul lato nord, tra via Rosolino Pilo e Discesa S. Orsola. «Suo padre
era lu zì’Vastianu Badamu (così era soprannominato, secondo
l’usanza del nostro paese, Sebastiano Rindone) cugino in primo
grado di lu zì’ Caloriju Badamu (Calogero Rindone) padre di Vincenzo
mio futuro marito», dice Maria. «Di li Muscugliuna era la madre, la
zì’ Pippina Missina, Giuseppina Messina, omonima, non parente ma
molto amica di mamma. Insieme frequentavano la Chiesa di Santa
Maria di Gesù in Piazza V. Emanuele, vi si recavano a messa la
domenica e molti pomeriggi anche alla Benedizione. La comune
passione per il lavoro a maglia le faceva incontrare spesso. La
mamma di Rocco veniva a casa nostra per provare insieme alla
nostra nuovi punti o per completare le parti più complicate della
maglia». «I momenti di incontro con Rocco che ricordo si riferiscono
agli anni della frequenza della scuola elementare ma non eravamo
compagni di classe. Rocco, di un anno più giovane di me, continua
Salvatore, avrebbe potuto esserlo di Pasqualino, nato solo due giorni
dopo di lui, ma il cuginetto, col quale eravamo inseparabili, aveva
voluto incominciare la scuola assieme a me. Pasqualino si era
dimostrato molto bravo imparando subito a leggere e scrivere con la
soddisfazione del maestro, don Totò Ballati, che aveva accettato di
accoglierlo nel numero dei suoi alunni. Con Rocco ci trovavamo il
pomeriggio in casa di Maria Pergola, a pochi passi dalle nostre
rispettive abitazioni, la maestra “americana”che ci dava ripetizione.
Durante queste lezioni avevamo notato che Rocco trovava qualche
difficoltà a leggere correttamente le parole con la “esse impura” (s
preconsonantica). Diceva, per es., bbaglio, invece di sbaglio e ciò
suscitava qualche nostra risatina. Ma Rocco non si offendeva di
questa punta di cattiveria, anzi si metteva a ridere assieme a noi.
Maria Pergola, però, trovava il modo di ristabilire l’equilibrio:
sottolineava, sorridendo, i nostri sbagli e mentre faceva esercitare
Rocco nella corretta pronuncia, ci faceva ripetutamente coniugare il
verbo in tutte le persone, io sbaglio, tu sbagli, egli sbaglia….
Uscendo, Rocco stesso: “Scinniti ddoppu ca jucammu” (=Scendete
dopo che giochiamo), ci diceva. Dopo gli anni della scuola elementare
cessarono le occasioni di incontrarlo. Le uniche immagini che
conservo di Rocco di quel periodo sono quelle che si riferiscono alla
sua frequenza dell’Istituto Salesiano Don Bosco di Catania dove si
era iscritto sin dalla scuola media. Lo vedevo quando, per le vacanze,
tornava al paese. Più volte ci incontrammo durante quelle estati e ci
rivolgemmo lo sguardo, il sorriso e il saluto. Egli, sempre con la
tonaca nera addosso, gli occhiali spessi, il labbro pronunciato, serio
e meditabondo, quasi certamente tornava dalla chiesa di Santa Maria
di Gesù. Avendo scelto la direzione da dare alla sua vita fin da allora
andava riflettendo sulla sua vocazione. Diversi erano infatti i ragazzi
che, terminata la scuola elementare, si iscrivevano al Seminario di
Piazza Armerina o alla scuola dei Cappuccini di Caltanissetta, ma
pochi quelli che vi proseguivano gli studi con l’intenzione di diventare
sacerdoti. Dopo la licenza media molti abbandonavano la tonaca; così
non fu per Rocco che, fedele alla strada intrapresa ne continuò il
corso e conseguì l’ordine sacerdotale. Era tutto quello che sapevo di
Lui né il suo nome capitava con frequenza nei nostri discorsi. Doveva
passare molto tempo prima che sentissi parlare di Rocco e fu quasi
una sorpresa, come se egli stesso fosse venuto a cercarmi: era il
1992, quando il nostro sacerdote salesiano non c’era già più da alcuni
anni. Avvenne nel corso di un convegno, a Punta Ala in provincia di
Grosseto a cui partecipavo, che un collega proveniente da Palermo,
saputomi pietrino, mi chiese se avevo conosciuto don Rocco Rindone.
Ai mio immediati interesse e curiosità di sapere di lui, il collega
sintetizzò la sua risposta in una parola sola ma pesante come un
macigno, e impegnativa anche per un sacerdote: « Don Rocco?... un
santo!». Mi parlò del loro casuale primo incontro e di come la sua
morte, avvenuta nel 1988, aveva lasciato disorientati i suoi amici.
Aggiunse che di don Rocco avrei saputo di più leggendo le
testimonianze di alcuni di coloro che l’avevano conosciuto, che erano
state raccolte e pubblicate in un libro. Durante il viaggio di ritorno
ripensando a quella strana coincidenza, mentre mi passavano
davanti agli occhi ,visioni di Rocco bambino, Rocco seminarista,
cercavo di dare forma e contenuto alla sua santità. A Torino, tramite
Saro Siciliano che lo chiese a don Pino suo fratello, nel giro di qualche
settimana ebbi tra le mani il volumetto31. Ogni nostra famiglia ne
volle una copia.
Dalle parole di confratelli, collaboratori, amici e di quanti lo
avvicinarono emerge il racconto di una operosità svolta soprattutto
a favore dei poveri, degli ultimi, degli emarginati, degli esclusi di
qualsiasi categoria. Mandato come direttore al Centro salesiano
“Santa Chiara” all’Albergheria, una delle aree più degradate di
Palermo, dove ancora i bambini giocavano tra le macerie e i ruderi
delle case distrutte dalla guerra, don Rocco svolse il suo servizio
sacerdotale condividendo i problemi dei residenti facendosi
animatore e portavoce delle loro rivendicazioni presso le autorità e
le istituzioni. Libero da ogni condizionamento umano, indifferente al
senso comune di dignità, guidato esclusivamente dai principi del
Vangelo, accoglieva nel Centro, e ancora prima nel suo cuore,
barboni, alcolizzati, prostitute, tossicodipendenti, mentecatti usciti
dal manicomio che sarebbero rimasti abbandonati a se stessi. Non
solo spartì con essi tetto, cibo, indumenti ma si pose al loro servizio,
accudendo quelli che non erano in grado di farlo, riguardo alle loro
più elementari ed umili operazioni della quotidianità. Nella sua vita
non mancò neppure la sofferenza fisica che egli accettò come forma
di partecipazione ai dolori di Cristo. Non a sproposito il collega aveva
usato la parola “santo”: spiccano nell’agire di Rocco, quei tratti di
non ordinarietà che siamo soliti attribuire ai santi; né la santità fu
per lui un ideale astratto o una semplice aspirazione. “Farsi santo”
era nei suoi propositi, anzi il suo principale obiettivo, la ragione con
cui egli faceva coincidere la sua esistenza: «Se non mi faccio santo
31 Don Rocco Rindone. Ricordi e testimonianze. Scuola Grafica Salesiana- Palermo, 1989, pp. 124 (Supplemento al
n.42 di «Sicilia Salesiana Missionaria»
ho sbagliato la mia vita!» 32, scriveva nel suo diario il 9.5. 1969.
Questa riflessione scritta, proposito quotidiano con cui iniziava la
giornata, non era che la conferma di una decisione e di un impegno
presi parecchio tempo prima, il 23.5.1956 quando, seminarista
presso l’Istituto Salesiano “San Giuseppe” di Pedara (CT), chiedeva
ai suoi superiori di “essere ammesso al Noviziato come Chierico”:
«Dopo aver deciso di farmi santo, ho scelto dopo molta riflessione
la via del Sacerdozio…»33, e ribaditi al Direttore del Pontificio Ateneo
Salesiano di Torino al momento, il 7/3/65, di chiedere la Tonsura per
conseguire gli Ordini Sacri ed «essere un santo sacerdote»34. È
riuscito Rocco nel suo intento? Tutti coloro che parlano di lui
considerano il fatto stesso di averlo incontrato una particolare grazia
del Signore; per il coraggio di vivere ritrovato, per la pace interiore
riacquistata dopo situazioni dolorose, tragedie e fallimenti, molti si
ritengono miracolati da lui; manca solo la narrazione dell’evento
straordinario che fa scalpore, alcuni l’hanno chiesto per sua
intercessione.
A don Rocco Rindone, la Rivista PIETRAPERZIA dedica il n. 1 -
Gennaio–Marzo 2007 . Sulla copertina spicca, a tutta pagina, la
fotografia del sacerdote: stempiato con barba alla maniera dei
cappuccini, nerissima, gli occhi pensosi e penetranti. All’interno della
rivista la rubrica “Gli Uomini e la Storia” ci propone integralmente le
testimonianze e i ricordi contenuti nel libro delle edizioni salesiane.
◊◊◊ ◊◊◊
32 Op.cit., p.15.(Cf. PIETRAPERZIA, Anno IV N.1 Gennaio/Marzo 2007, p.20) 33 Op.cit., p.13 (Cf. PIETRAPERZIA, ibidem, p.19) 34 Op.cit., p.15 (Cf. PIETRAPERZIA, ibidem)
Percorrevamo di frequente la strataranni per recarci in piazza, perché
via più larga, aperta, piena di luce e molto più frequentata della via
4 Novembre. Pochi negozi si incontravano nella prima parte del
percorso. Dopo la casa e la falegnameria di Salvatore Pergola, (papà
della maestra Maria), che funzionò proprio all’angolo sud per qualche
anno durante e dopo la guerra, si incontrava, qualche metro più
avanti, la putija (= la bottega) di generi alimentari di Micheli Paciuzzu
(Michele Pace). Vendeva pane, pasta, sarde salate, formaggi,
mortadelle e prosciutti. Da un filo metallico, steso da una parte
all’altra del negozio circa un metro sopra il banco di vendita,
pendevano delle strisce attaccaticce attorcigliate; servivano per
acchiappare mosche che, attirate dagli odori di unto e di rancido,
numerose vi restavano appiccicate. Seguiva poi una fila ininterrotta
di case di abitazione per lo più precedute da astrichi, tra le quali
quelle dei nostri parenti Angelo Paternò e Giuseppe Calì; quelle di lu
zì’ Micheli Tularu e di la zi’ Cuncittina Paci (anche noi li chiamavamo
così perché zii dei cugini Calì), di Liborio lu Manichiri e quella della
famiglia paterna di Anna Buttafuoco: «Annuzza la Buttafoca, sposata
Sardo, di cui conobbi, dice Maria, la carica di simpatia (che seppe
trasmettere ai suoi figli Genoveffa, Luigi e Graziella), nel periodo in
cui entrambe frequentammo il corso di ricamo organizzato dalla
Necchi, macchine per cucire, e si stabilì l’amicizia tra le nostre
famiglie». Poco più avanti, di fronte alla casa della signora Filippa
Paternicola, madre di Borina e di Nino Zarba, e a quella di Turiddu
Mezzacucchia (Salvatore Miccichè), intimo amico e cognato di nostro
Compare Peppino, e delle sue due sorelle, le religiosissime signorine
Miccichè, si incontrava il negozio di legname e materiale per l’edilizia
di Paolo Riccobene. L’ultima abitazione del lato destro prima
dell’incrocio del corso con la discesa Corrao, era quella di lu
marasciallu Nirbuzzu,, Salvatore Siciliano, persona molto nota e
stimata in paese, padre di Angelo, ‘Ngilinu Sicilianu, diplomato
maestro elementare ma passato ad un impiego alle Poste.Italiane.
Salvatore Siciliano, in pensione con il grado di Maresciallo Maggiore,
aveva fatto carriera nell’arma dei Carabinieri a cavallo e aveva svolto
il suo servizio, fin dal grado di Brigadiere, nelle zone calde del
palermitano e del nisseno. Noi ce lo ricordiamo soprattutto come
attivo collaboratore del notaio Emanuele, nell’istruire le pratiche di
compravendita terreni e case che prevedono indagini catastali e
ipotecarie, presso l’ufficio a piano terra in Piazzetta La Masa all’inizio
del corso Barone Tortorici.
Dalla discesa Corrao sino a li bagli di li Vrichini era, sul lato sud, un
succedersi di ampie terrazze al primo piano di case di abitazione,
anche di più piani, appartenenti a famiglie di agiati contadini e di
commercianti. La prima era quella della famiglia dei
Buttafuoco,«stretti parenti, dice Maria, della mia amica Annuzza»;
ad essa seguivano quelle di Salvatore Napoli, commerciante, quella
della famiglia Giusto e quella di Francesco Calafato che, al mercato
di la sirbija, esercitava l’attività di mediatore di frutta e ortaggi.
«Con Salvatore Buttafuoco, che si trasferì a Torino nello stesso nostro
periodo, prosegue Maria, condividemmo i problemi del primo
adattamento alla nuova realtà cittadina e si consolidò quel rapporto
di amicizia e collaborazione, che c’è tra noi, rafforzato dalla
parentela, (Salvatore Buttafuoco aveva sposato Vincenzina Rindone
prima cugina di mio marito) Successivamente anche Vincenzo e Anna
Buttafuoco, con le loro famiglie, raggiunsero il fratello a Torino».
Più numerosi si contavano i negozi e le botteghe, da ambo i lati, man
mano che dall’incrocio con la discesa Corrao ci si avvicinava alla via
La Masa. Nel primo locale ad angolo della casa di don Nittu Munnula,
di fronte a quella dei Buttafuoco, era posto l’ufficio delle Guardie
Campestri, li guardij bbarraggiddara, di cui era comandante il
Maresciallo don Rocco Siciliano, fratello di Salvatore e padre dei
maestri Calogero e Liborio, del rag. Salvatore, di don Pino e di Saro
maestro anche lui ma destinato a far carriera nelle Ferrovie dello
Stato. Il Comandante, seguito da altri graduati, alcuni giorni la
settimana lasciava l’ufficio e faceva un giro di perlustrazione nelle
campagne della sua giurisdizione. Le guardie campestri operavano in
stretta collaborazione con i Carabinieri; la loro attività si intensificava
durante i periodi del raccolto del grano, delle mandorle, delle olive,
durante i quali si verificava qualche furtarello. Al posto dell’ufficio,
che era seguito dalla tabaccheria di Micheli Minarchiu, subentrò la
falegnameria di Filippu lu Varauni; seguivano la merceria dei
Tumminelli, li Gaddiniddu, poi passata a Pinu Mastrazzizzu,Pino
Messina; il bar di Cicciu Spagnulu, Francesco Spagnolo, in
precedenza negozio di frutta e verdura di lu zì’ Cosimu Mastrazzizzu,
Cosimo Messina. Sul lato opposto, l’officina di fabbro di don
Giacuminu Gulizia, amico di papà e della sua stessa leva, presso la
quale, allora apprendista, imparò il mestiere e lavorò per diversi anni
Roccu lu Villiri, Rocco Romano; la bottega del bastaio, lu vardunaru,
Filippu Dadatu (Filippo Bongiovanni). Su questo lato, nel magazzino
confinante col laboratorio del bastaio, a pochi metri dall’angolo con
via La Masa, ai primi degli anni ’50, la nostra famiglia decise di aprire
il negozio di frutta verdura e terrecotte della cui licenza era in
possesso da qualche anno. Nella casa sopra il negozio, con entrata
dall’astricu in gesso quasi all’angolo con via La Masa, abitò la famiglia
dei maestri Vincenzo Marotta e Lina Viola. Di fronte al nostro, nei
locali terranei di Casa Giarrizzo (la famiglia stessa del nostro
commediografo) altri negozi si aprivano tra cui quello di generi
alimentari di Pippinu Zappudda (Giuseppe Zappulla), la macelleria di
Micheli Fimminedda, dove subentrarono il negozio di tessuti di lu
Capaciuttu, il signor Vassallo, così nominato perché proveniente da
Capaci (PA) e, successivamente la barbieria di Giuseppe Di Gloria,
Peppi lu Baju. Presso il “Salone Di Gloria” fece da ragazzo di barbiere,
per alcune estati, quando frequentava la scuola, il nostro cuginetto
Totò, figlio dello zio Biagio. In fondo al corso, all’angolo nord con via
La Masa, funzionò per molti anni, la merceria di lu Citriri, dei coniugi
Calogero e signora ‘Ngilina la Pissa.
Poco prima di raggiungere il laboratorio di don Giucuminu, tra il
garage di don Liboriu Farzuni (Liborio Falzone), taxista, e la casa
paterna di Michilinu e Attiliu Giunta, si incontravano le case di li
Vrichini, i fratelli Salvatore e Giuseppe Buccheri, famiglie di artigiani
falegnami, i cui membri costituivano il gruppo storico portante della
banda musicale del paese. Da quelle case capitava di sentire,
soprattutto nel periodo che precedeva il ferragosto, il risuonare delle
note di qualche opera lirica, assieme ai richiami del Maestro Salvatore
Buccheri, che dirigeva le prove della sua banda per le esecuzioni sul
palco per le feste dei santi patroni. «Un giorno però», dice Salvatore,
«mentre passavo lì davanti, avvertii una insolita eccitazione, un
parlottare accorato tra le donne della casa e udii dei pianti. Fu la volta
che i Buccheri, già rassegnati, ricevettero la notizia definitiva che
Giuliano, figlio di Giuseppe, già dato per disperso, era da considerare
caduto in Russia». Da uno dei bbagli (= cortili), vicini alle abitazioni
dei Buccheri, poteva capitare di vedere uscire la gnura Cuncittina la
sbirra, o di incontrarla in questo ultimo tratto del Corso Umberto
prima di raggiungere via La Masa. Donna all’antica, usava indossare
una veste lunga nera con un grande grembiule davanti; sulla testa
portava un fazzolettone nero, le cui cocche non annodava sotto il
mento ma ripiegava sul capo stesso. Sempre seria in volto, quasi
crucciata come se qualcosa l’angustiasse, andava avanti e indietro
per il corso simile a un gendarme, notando tutti i movimenti e i
passanti abituali o capitatevi occasionalmente. Era personaggio noto
tra i negozianti della zona, con i quali, spesso, si fermava a parlare;
dai modi energici e spicci, nessuno cercava di contrariarla, anzi tutti
se la tenevano buona. Capitava ogni tanto che qualche persona la
cercasse e allora partiva con le sue tre quattro bestiole dentro un
barattolo di vetro, avvisando: «Vaju a mmintiri tri ssangisuchi a lu
massaru Pe’, si mi cercanu dicittici ca a mmumentu vignu», (vado ad
applicare tre sanguisughe al massaru - così venivano chiamati i
contadini con riferimento alle case di campagna,- massarija - signor
Giuseppe, se mi cercano dite loro che a momenti torno) gratificata
dal fatto che qualcuno avesse bisogno di lei.
Ma il giorno dell’anno in cui in corso Umberto si verificava il maggiore
movimento di persone era il 2 novembre. La Strataranni era, infatti,
il percorso obbligato per recarsi al cimitero e nessuno quel giorno si
sentiva esentato dal dovere di andare a far visita ai propri morti. Il
viavai di persone iniziava già il giorno di Tutti Santi e proseguiva fino
al pomeriggio inoltrato di quello dedicato alla commemorazione dei
defunti, quando i passaggi di uomini, donne, bambini, con mazzi di
fiori in mano e grandi fotografie sotto il braccio, si susseguivano
ininterrottamente. In un’atmosfera quasi festiva molti ragazzi
indossavano le scarpe o le maglie nuove, ngignavanu, che, assieme
alle castagne, le noci e i dolci, li murticiddi avevano deposto dentro
le loro scarpe ai piedi dei loro letti durante la notte. All’andirivieni di
singoli e di gruppi familiari, si univano i cortei organizzati dei sodalizi.
I componenti delle società “Combattenti e Reduci”, “Militari in
Congedo”, “Operaia Regina Margherita”,… in ordine dietro la propria
bandiera e il proprio presidente, partivano dalle rispettive sedi di
piazza Vittorio Emanuele per andare a rendere omaggio ai membri
defunti dell’associazione, espressione del senso di comunione e
continuità tra i vivi e i morti della società. La cura e l’attenzione
riservate alle tombe sociali era un punto d’onore delle
amministrazioni che si succedevano nella gestione del sodalizio.
«Io,- dice Salvatore- facevo la mia visita ai nostri defunti la mattina
del giorno due e seguivo ancora papà anche il pomeriggio, quando
partecipava al corteo della società Militari in Congedo; ma lo facevo
con uno stato d’animo di sconforto e di pena che derivava da una
forte sensazione di paura che il pensiero dei morti mi procurava. Mi
recavo soprattutto a visitare la tomba della Confraternita di Santa
Maria, non lontana dalla porta d’entrata del cimitero, dove erano
sepolti la bisnonna, i nonni paterni e lo zio Michele. La tomba era un
luogo angusto con pareti alte e diversi piani di loculi, troppo stretta
per la quantità di parenti venuti a visitare i propri defunti. Entrarvi,
respirare l’odore di marcio e di stantio di li xùri di murti e della cera
dei lumini che si consumava; vedere quella serie di volti di vecchi di
giovani di bambini, in bianco e nero, ingranditi, fissi, circondati da
nere cornici attaccate alle lapidi, era come ricevere una botta allo
stomaco, un forte senso di nausea si concentrava in gola e non mi
abbandonava neanche quando, uscito all’aria aperta, vedevo alcuni
ragazzi correre disinvolti tra i vialetti del cimitero e le tombe a terra».
VIA 4 NOVEMBRE E DINTORNI 8
Salvatore e Maria Giordano
VIA TORTORICI CREMONA
La via Tortorici Cremona era la prima a nord di via 4 Novembre. La
strada era stata intitolata al noto poeta dialettale pietrino dopo la
caduta del fascismo. Sino a tale evento si chiamava Via XXVIII
Ottobre, data della marcia su Roma (1922). Ad un breve tratto di
essa ci legava un rapporto particolare: ad una ventina di metri ad est
dall’incrocio con la discesa Rosolino Pilo, dopo l’astricu di gesso
dell’abitazione dei coniugi Maimone, c’era la casa di lu Massaru
Turiddu Racchianedda (Salvatore Giusto), dove gli zii Calogero e
Damiana, presala in affitto, erano andati ad abitare dopo il loro
matrimonio. In quella casa era nato Pasqualino, da lì lo zio,
richiamato alle armi, era partito per l’Africa Settentrionale prima che
il figlio nascesse; solo tre mesi dopo egli aveva potuto vederlo grazie
ad un breve permesso, il giorno del battesimo. Ma Pasqualino non
poteva avere ricordo di quel giorno; egli conosceva suo padre dalle
fotografie che gli mostrava la madre e dai racconti quotidiani che gli
faceva. In quella casa la zia e il suo bambino lo avevano atteso
durante i sette anni di prigionia ed accolto al suo ritorno. Con loro e
con i nonni, coi quali trascorrevano lunghi periodi a Marcatobianco,
noi condividemmo i timori e le speranze, sotto l’ala protettrice del
nonno che aveva sempre parole di saggezza e di fiducioso ottimismo.
Quella situazione e quell’attesa ci facevano sentire ancora più uniti;
quegli anni fissarono in ciascuno di noi l’ imprinting che segnò
indelebilmente lo sviluppo dei nostri futuri rapporti. Durante tutta la
nostra infanzia, nei periodi in cui eravamo in paese, tra via 4
Novembre e via Tortorici Cremona era un andirivieni che si ripeteva
per diverse volte nel corso della giornata. Giochi, gelosie, dispetti,
piccole baruffe, si alternavano, come avviene tra fratelli all’interno
della stessa famiglia, sotto gli occhi ora della mamma ora della zia
che coglievano l’occasione per orientare la nostra crescita. «Ripetute
volte, dice Maria, la zia Damiana mi portava a dormire con loro ed
era per me una festa; tutti e tre nel lettone, prima di addormentarci,
la zia ci faceva ripetere le preghiere della sera. Pregavamo anche per
i soldati in guerra, per i prigionieri perché tornassero alle loro
famiglie, per la pace. Spesso nel silenzio della notte venivamo
svegliati da acuti squittii e da inquietanti rumori sul tetto; erano i topi
che passeggiavano tra le tegole. In quel momento avevamo paura
che ci potessero cadere addosso ma la zia ci rassicurava: non c’era
pericolo, il soffitto in legno era spesso e robusto». «Quando arrivò il
momento, Pasqualino, benché fosse più piccolo di un anno, volle
iniziare la scuola elementare con me, dice Salvatore. Venne inserito
nella stessa classe e assieme rimanemmo per tutti gli anni che
frequentammo la scuola elementare di Santa Maria. Pasqualino si era
dimostrato molto bravo imparando subito a leggere e scrivere con la
soddisfazione del maestro, don Totò Ballati, che lo aveva accettato
nel numero dei suoi alunni. L’esecuzione dei compiti di scuola fu
un’altra attività che condividemmo sia sotto l’assistenza delle nostre
mamme sia di Maria “l’americana”. La zia Damiana all’inizio di ogni
anno scolastico ci rilegava i libri: mescolando farina con un’ altra
sostanza preparava un impasto vischioso con cui incollava due
cartoncini alle copertine che, una volta asciutte, risultavano rigide e
resistenti. Avevamo terminato la seconda quando lo zio Calogero
tornò dalla prigionia, Pasqualino aveva sette anni.35 Superato lo
shock e gli emozionanti momenti del primo incontro, e tornata la
calma nella casa di quella famiglia finalmente ricomposta, dopo la
confusione creata dalla folla dei vicini e dei curiosi venuti per il ritorno
del prigioniero, lo zio che si voleva informare dei successi scolastici
del figlio volle sentirlo leggere . «Very, very, wuell!, molto, molto
bene » esclamò dopo che Pasqualino ebbe terminata la lettura di una
paginetta del suo libro. Pasqualino racconta che l’episodio della
lettura fu, tra le altre prime manifestazioni del padre, quello che
maggiormente lo colpì e che gli è rimasto impresso nella memoria. Il
padre, egli dice, entusiasta per l’abilità da lui dimostrata, o forse
perché cercava il modo più efficace di instaurare i più rassicuranti
rapporti col figlio settenne che lo vedeva per la prima volta, tirato
fuori il portafoglio prese e gli diede dei soldi perché si andasse a
comprare altri libri. Il ritorno a casa aveva ridato allegria allo zio; le
sofferenze fisiche e la lontananza; i timori e le incertezze le ansie
delle lunghe attese, sembravano appartenere ad un tempo ormai
lontano. Non potevamo sapere quanto avessero inciso nel suo cuore
e nella sua mente. Raccontandoci episodi della sua vita intercalava
parole nella lingua della sua prigionia; così continuò a fare spesso nei
suoi discorsi con noi e la prima cosa che ci insegnò fu a contare in
inglese. Intonava pure qualche canzone di prima della guerra o di
quelle in voga in quel periodo che sicuramente aveva ascoltato in
Inghilterra:
Besame, besame mucho
Come si fuera esta la noche la ultima vez…
35 Vd in “PIETRAPERZIA” Anno V, N.3, Luglio/Settembre 2008, p.15 Noi tra pace e guerra
Besame mucho
Nella via Tortorici Cremona, ad ovest della discesa Rosolino Pilo, di
fronte a quello della famiglia Pagliaro, c’era invece l’astricu della casa
di donna Bettina Assennato Guarnaccia; l’altra entrata, la principale,
si apriva in Largo Capitano Bivona. Ogni tanto, salendo dalla via 4
Novembre o dal Corso Umberto, si vedeva arrivare il fratello di donna
Bettina,Vincenzo, ma noi, allora, niente sapevamo della sua storia.
VIA GARIBALDI, VIA DEGLI ARTIGIANI.
Un’altra strada che percorrevamo con una certa frequenza era la via
Garibaldi; ci era comoda per andare a la Matrici, alla scuola del
Carmine, in Piazza Matteotti, al Comune, a la piscarija. Tra le vie del
paese, Via Garibaldi era una delle più ricche di negozi e laboratori,
magazzini delle case di abitazione della via S. Nicolò, lu ringu di
ncapu, che si aprivano, quasi tutti, sul lato nord della strada. Si
trattava, in prevalenza, di botteghe artigiane di calzolai, di falegnami,
di sarti, intervallati, nel corso del tempo, a negozi di tessuti e a
mercerie. All’inizio della strada, all’angolo con la Discesa Rosolino
Pilo, c’era, nel locale sottostante l’abitazione, il laboratorio di lu
stagnataru, lo stagnino Filippo Romano che esercitava l’attività con i
suoi due figli, spesso per conto del Comune. Il giorno successivo a
qualche funerale si vedeva il maggiore dei fratelli Romano con gli
strumenti del mestiere contenuti in un recipiente di latta, partire alla
volta del cimitero. All’incrocio con la Discesa Corrao, c’era anche una
tipografia, quella di Nunzio Messina. Mancavano solo fabbri e
barbieri.
«Da diversi anni ormai trascorriamo d’estate alcuni giorni al mare
assieme a Pasqualino che raggiungiamo a Varazze, dove lui possiede
una casa. Seduti al bar dei Bagni Mafalda-Royal con Vincenzo Ligotti
anch’egli proveniente da Milano - dice Salvatore- «abbiamo cercato
di ricostruire, sul filo della memoria, la distribuzione dei laboratori
artigiani di via Garibaldi. In una strada che misura circa la metà del
corso Umberto, abbiamo contato una quindicina di botteghe,
associandole ai nomi degli artigiani ai quali erano appartenute»:
Liddu Busacca (Calogero Maddalena); Pitrinu Virrusu (Pietro
Virruso); Peppi di Stella (Giuseppe Ligotti); Timpuni (Calogero Di
Fede), tra i calzolai. Turiddu lu Pisciatu (Salvatore Vitale); Vicinzu
Purpetta (Vincenzo Tortorici); Li Ciudda (i fratelli Salvatore e
Vincenzo Ciulla), tra i falegnami. Vicinzu Stillina (Vincenzo Colonna);
Roccu lu Birrittaru (Rocco Di Gregorio); Pidi Papari, Vincenzo Paci
(poi trasferitosi negli USA assieme alla moglie Margherita Di Romano,
la Virginedda); Tanu la Pigra (Gaetano Russano), tra i sarti. C’erano
poi il negozio-merceria di don Vicinzu Farulla e la tabaccheria di lu
Generali (Timpanelli), che davano già sulla Piazza Matteotti.
Vincenzo ci ricordava come, spesso, mentre lavoravano ciascuno
all’interno del proprio laboratorio, frivole conversazioni, tenute ad
alta voce, si intrecciavano tra artigiani confinanti. Capitava così che,
ogni tanto, frasi o battute scherzose mal comprese suscitassero
equivoci. Cessava allora il rumore degli attrezzi e, al chiarimento,
seguivano momenti di grande ilarità. Se poi accadeva che il calzolaio,
che continuava il suo lavoro fuori dal laboratorio dove aveva posto il
suo deschetto, annunciasse, alzando un po’ la voce, «..Fa ffirmari li
rraloggia!...», (fa fermare gli orologi!) era un precipitarsi generale
all’esterno per non perdere la visione del passaggio di una bella
ragazza cui tenevano dietro i commenti e le curiosità di prammatica:
« cu je… a ccu si piglià?» ( Chi è, a quale famigli a.
◊◊◊
Il negozio di scarpe di Peppi di Stella (Giuseppe Ligotti, padre di
Vincenzo) si trovava all’incrocio di Via Garibaldi con la discesa La
Masa, «proprio di fronte alla casa dove abitava la signora Carolina
Miccichè in Vetri, dice Maria, mia indimenticabile maestra di quarta
elementare; lei e Lina Viola, mia prima maestra, restano figure
indelebili della mia esperienza di scolara». Presso quel negozio si
forniva tutta la nostra famiglia, dal momento che vi si trovavano,
risparmiando anche, gli stessi tipi di scarpe per uomo e per donna,
per qualità di pellame e per varietà di modelli, di quelle che si
compravano a Caltanissetta da Spadafora o al Calzaturificio di
Varese. Da quando papà aveva smesso di usare le scarpe alte a
tronchetti di cuoio scamosciato, che si faceva confezionare su misura
da Peppi di Danieli, solo le scarpe di Peppi di Stella lo soddisfacevano.
Il Signor Ligotti, uomo pacato, tranquillo e di modi gentili, non
impiegava tante parole per decantare al sua merce. Lo trovavi
sempre con addosso un grembiulone di cuoio, seduto al suo
banchetto da lavoro mentre, con gli occhiali tirati giù sul naso, cuciva
nuove calzature o ne riparava di vecchie. Nella vendita era spesso
aiutato dalla moglie, la signora Giuseppina Candolfi, donna, come la
nostra mamma, tanto spiritosa e allegra quanto lui era calmo e
pacato. Quando le due s’incontravano, arrivava sempre, da una parte
o dall’altra, qualche spiritosa facezia. Lina, la figlia dei Ligotti, e
nostra sorella Ninetta, che fu sua compagna di scuola alle medie,
ebbero, a volte, come insegnante di matematica Vincenzo Ligotti,
fratello maggiore di Lina, allora all’inizio della sua carriera. «Fu nella
calzoleria Ligotti», dice Maria, «che comprai il mio primo paio di
scarpe col tacco alto. Anzi, fu a mia sorella Ninetta che piacquero
appena le vide nel negozio e le comprò per me: erano di un
marroncino sfumato con dei delicati disegni semilucidi in punta ed
avevano il tacco quasi a spillo, una “conquista”! Le calzavo e gioivo,
guardandomi allo specchio, dei centimetri che mi regalavano. Decisi,
da allora, che non avrei più portato scarpe basse. Mi complimentai
per la scelta e ringraziai mia sorella. Ha sempre avuto gusti fini e
originali Ninetta! Lina Ligotti, assieme ad altre amiche di Ninetta,
partecipò anche al mio matrimonio; ne conservo una foto ricordo».
L’ondata di emigrazione doveva portarci tutti lontani dal nostro paese
e dividerci, ma l’amicizia che si era stabilita tra le due compagne di
scuola dura ancora. Lina fa la maestra a Milano, dove in precedenza
si erano trasferiti i fratelli, e vive con la sua mamma, ora anziana;
Ninetta, maestra anch’essa, ci raggiunse a Torino all’inizio degli anni
’70, per venirvi ad insegnare. Quando le due amiche e colleghe si
sentono per telefono, mamma Ligotti gradisce intervenire nei loro
dialoghi, o viene chiamata in causa e, con lo stesso spirito di una
volta, introduce nel discorso le sue allegre e ironiche battute.
VIA 4 NOVEMBRE E DINTORNI - CARATTERI E TIPI 9
Salvatore e Maria Giordano
IL DOTTORE VITALE
Per i primi dieci anni della nostra vita, e gli ultimi della sua, avemmo il privilegio
di abitare accanto ad un personaggio a cui spetta un posto di primo piano tra le
personalità più note e stimate del nostro paese, e di godere del suo professionale
intervento e interessamento. Per la maggior parte dei nostri concittadini il nome
del dott. Vincenzo Vitale è legato alla professione medica che egli esercitò con
somma competenza tra la fine dell’ ‘800 e la prima metà del ‘900. Relativamente
noti sono invece i suoi studi nel campo della matematica e in quello della fisica,
ambiti ai quali egli pure si dedicò con grande interesse e passione contribuendo,
con apporti teorici di altissimo livello, alla maggiore comprensione di aspetti
significativi di tali settori scientifici. Questo dato anche per noi ha costituito una
scoperta postuma. Riguardo a tali argomenti la rivista PIETRAPERZIA, mentre
per la prima volta riporta notizie biografiche sulla figura dell’illustre personaggio,
ci offre la possibilità di leggere due articoli del dott. Vincenzo Vitale pubblicati
integralmente36. La medicina resta comunque il settore che assorbì
maggiormente la sua attività e quello su cui si fondano la sua popolarità e
notorietà tanto da essere considerato un’autorità nel campo della scienza medica
anche fuori dai confini del territorio pietrino. A suo vanto si riferivano in paese
certe osservazioni che dei pietrini, poco fiduciosi nella bravura dei medici locali,
si sentivano avanzare dai medici specialisti che andavano a consultare in città:
«Al vostro paese, a Pietraperzia, voi avete il dott. Vitale, cosa venite a fare da
noi!? ».
Don Filippo Marotta, direttore editoriale della rivista trimestrale PIETRAPERZIA,
lo annovera tra le «personalità che hanno dato lustro al nostro abitato». Al suo
illustre concittadino il Comune di Pietraperzia ha dedicato una strada.
36 Per gli articoli citati in questa pagina e la poesia A mio padre di Angela Vitale, cfr. PIETRAPERZIA, Anno VIII N. 4,
Ottobre/Dicembre 2011, la Rubrica Gli uomini e la scienza, pp. 17-43.
Un punto di riferimento e fonte per la conoscenza del dott. Vitale, resta la poesia
A Mio padre, in cui la figlia Angela, celebrata poetessa, ne ricostruisce la figura,
in una sintesi biografica in versi liberi, contemplando l’aspetto fisico e morale
dell’uomo, padre e maestro, educatore rigoroso scevro da vezzeggiamenti e
sdolcinature; ispiratore di alti ideali e sani costumi, nello spirito dei mores
maiorum e dell’humanitas che gli derivavano dalla lettura costante dei classici
greci e latini; spregiatore di agiatezze, ricchezze e onori, amante del “bello,
grande, potente, sublime”.
…“Spartanamente m’educasti
senza baci e carezze, senza vezzi,
e in me trasfondesti l’amore per l’opere grandi…”
… …
…avevi d’antichi filosofi greci somiglianza strana,
il disprezzo di agi e ricchezze,
il disdegno e il rifiuto d’una vita vana!...
Nella sua composizione appassionata la poetessa considera anche gli anni della
formazione universitaria del padre alla scuola dei più insigni cattedratici di
medicina dell’epoca dell’Università di Roma (in particolare Guido Baccelli e
Francesco Durante)37, nel corso dei quali il suo amore per la conoscenza e la sua
passione per la ricerca gli valsero l’assegnazione, per ben tre volte, del “Premio
Rolli” 38, sino alla partecipazione al gruppo degli studiosi collaboratori del prof.
Virchow39 dell’Università di Berlino che, con le sue intuizioni e ricerche sulla
formazione della cellula e sulle alterazioni delle normali funzioni di essa
(patologia cellulare), stava rivoluzionando le conoscenze e la pratica medica del
tempo. Tale collaborazione, con uno degli scienziati medici più celebri del
momento, apriva a Vincenzo Vitale la strada verso i più alti successi scientifici
37 Guido Baccelli (1830-1916), romano, professore di medicina e chirurgia operatoria, nonché uomo politico, più volte
ministro della P.I. A lui si devono, tra l’altro, i Programmi didattici della Scuola elementare del 1894 e la promozione
della costruzione del Policlinico Umberto I della capitale. Fu medico di casa reale ed archiatra.
Francesco Durante (1844-1934), di Letojanni (ME), professore di patologia speciale chirurgica e senatore del regno,
cofondatore con Baccelli del Policlinico Umberto I. 38 Il “Premio Rolli” era istituito dall’Università La Sapienza” di Roma sulla base di un lascito testamentario del medico e
botanico romano Ettore Rolli (1818-1876) per premiare studenti particolarmente meritevoli, contribuire a far raggiungere
i loro obiettivi e incentivarli all’ottenimento di risultati eccellenti. 39 Rudolf Virchow (polacco di nascita, 1821 - Berlino, 1902), professore di anatomia patologica dell’Università di Berlino,
scienziato e uomo politico antibismarchiano. Noto per la sua teoria della “patologia cellulare”, punto di svolta nella storia
della medicina. Candidato al Premio Nobel del 1902.
che venne interrotta dopo breve tempo, a causa della morte del padre poco più
che cinquantenne, per trasformarsi in opera di “missionario” in un servizio e in
una sede più umili, accettati con generosità e sacrificio di sé. A questo impegno
meritorio, svolto sia nello studio medico della sua stessa casa, nella via non
ancora intitolata al nostro poeta Francesco Tortorici Cremona, sia andando a
trovare i suoi poveri assistiti, molti dei quali curati gratuitamente, nelle stesse
modeste abitazioni, fa più volte cenno la figlia nella biografia poetica:
“…e penetrando ancora nei miseri tuguri
della povera gente. per lenire gli affanni...”,
E mentre soccorreva i suoi pazienti e alleviava le loro sofferenze, il dottore non
tralasciava la lettura degli antichi autori greci e latini, da cui traeva alimento e
appagamento spirituali, né abbandonava la speculazione scientifica, continuando
le sue collaborazioni con riviste specializzate sino a tarda età (i due articoli
pubblicati in PIETRAPERZIA sono del 1942, scritti a più di ottant’anni di età).
Anche il professore Salvatore Sillitto, per lunghi anni direttore didattico delle
scuole elementari di Pietraperzia, ed insigne matematico anche lui, in un articolo
del 1982, ora riproposto nella stessa rubrica della Rivista “Pietraperzia”, oltre
alla genialità del dott. Vitale sottolinea la sua opera di «apostolo e benefattore
dei poveri». Tale era l’uomo tale l’icona che di lui ci è stata tramandata. Questa
constatazione sfaterebbe il dissidio tra la cultura scientifica e la cultura
umanistica denunciato dallo studioso inglese Charles Snow nel suo saggio Le due
culture del 195940. Secondo lo scienziato una grave frattura è in atto da tempo
tra cultura scientifica e cultura umanistica. Questi due tronconi del sapere si
troverebbero come su due poli opposti in cui gli scienziati, che prediligono una
visione più oggettiva del mondo e della natura, tendono a snobbare i letterati.
Tendenza non meno ostile verso la cultura scientifica caratterizza i cultori delle
discipline umanistiche, nei quali tale atteggiamento tende a farsi a-scientifico se
non antiscientifico. L’esperienza e la vita del dott. Vitale smentiscono tale
40 Sir Charles Percy. Snow (Leicester, 1905- Londra, 1980), professore di fisica a Cambridge, scienziato e scrittore di
romanzi, nel suo saggio Le due culture rileva una forma astiosa di incomunicabilità tra la scienza e le discipline
umanistiche e attribuisce a tale scissione tra i due tronconi del sapere la mancata soluzione di molti problemi che
affliggono il mondo.
contrasto: nella sua figura troviamo, infatti, armonicamente fuse, componente
scientifica e componente umanistica; competenza scientifica espressa con
appassionata umanità.
Era opinione comune che il dott. Vitale non fosse credente, che tutto il bene
elargito verso gli altri lo fosse in termini esclusivamente umani e terreni. Nessun
cenno si riscontra su questo aspetto della sua vita negli articoli di coloro che
hanno scritto di lui; né ci sembra siano da considerare indizi significativi, tali da
fondare su di essi ipotesi circa la fede del dottore nel soprannaturale, quelli
contenuti nella poesia A mio padre della figlia Angela nel verso in cui ella dice
di vedere il padre “taciturno e pensoso” o l’altro, più avanti, dove riporta una
sua affermazione: “lo spirito vive”. Segnali forse di un dilemma interiore ma non
così chiarificatori circa il suo credo nel destino ultraterreno dell’ uomo. E tuttavia
pare che, verso gli ultimi anni della sua esistenza, Vincenzo Vitale si sia
avvicinato ad una fede che potremmo definire di tipo “pascaliano”, riassumibile,
in estrema sintesi, in questi termini: “se c’è e ci ho creduto mi sono guadagnato
la vita eterna; se non c’è che cosa ci ho perso?” Cioè credere nell’ esistenza di
Dio è una scommessa in cui niente c’è da perdere e tutto da guadagnare; per di
più se ne ha un guadagno incommensurabile, infinito41. A tale proposito abbiamo
ascoltato il racconto di un episodio riferibile agli anni subito dopo la II guerra
mondiale. È di don Filippo Rabita, il maestro falegname vicino di casa del dottore
e nostro. Raccontava don Filippo che, per diversi pomeriggi, verso l’ora della
Benedizione, aveva notato il dott. Vitale attraversare la Piazza Matteotti e
proseguire per via Barone Tortorici verso la matrice. Preso dal dubbio e spinto
dalla curiosità, un pomeriggio pensò di avvicinarlo e, forte della lunga
conoscenza, gli espresse, in modo velato, il suo sospetto.
« Filì, nzirtasti, rispose il dottore, vaiju a la Matrici ad assistiri a la Bbinidizzioni…
Pirchì, vidi,… l’ura s’abbicina… E si cc’è daveru?» (“Filippo, hai indovinato, vado
alla Chiesa Madre ad assistere alla Benedizione,… Perché, vedi,… l’ora si
avvicina… E se c’è davvero?”).
***
41 Cfr. Blaise Pascal, Pensieri. Gli organi della fede, «La scommessa», p. 123, Oscar Mondadori, 1968.
Solo la parete ovest della camera grande separava la nostra abitazione da quella
del dottore che aveva, però, l’ingresso in via Tortorici Cremona. Sulla via 4
Novembre si apriva soltanto la porta “allannata” di un “dammusu” che raramente
veniva aperto. Quando, diversi anni dopo la morte del dottore, comprammo la
sua casa, trovammo quel locale pieno di paglia e di polvere. Lo stabile di casa
Vitale comprendeva anche un secondo piano abitato, all’epoca dei nostri ricordi,
dalla famiglia di una delle figlie del dottore, Elena, che aveva sposato il
farmacista dottor Salvatore Mendola. I coniugi Mendola-Vitale avevano due figli,
Salvatore, chiamato Rino, e Cristina, per noi tutti, Cristinedda, dei quali noi
eravamo di uno-due anni più giovani. «Di essi, crescendo», dice Maria, «fummo
compagni di gioco: Rino partecipava al gruppo dei ragazzi della sua età che
gravitavano in quello spazio di fronte alle nostra casa e a quella del dottore, che
avevano eletto come luogo preferito per i loro giochi; con Cristina, che spesso
veniva a casa nostra, condivisi, ancora giovinette, molti allegri e sereni momenti
di amichevole trattenimento». «E parlando di loro, la prima immagine che mi
viene in mente», continua Maria, «è quella del farmacista Mendola che, all’ora
di pranzo o di cena, affacciato ad uno dei balconi della sua casa, chiama il figlio,
che ritarda a rientrare, “Rinoo!, Rinoo!”, ad alta voce, alla maniera delle massaie.
E quasi lo rivedo e l’eco mi sembra di sentire risuonare nelle mie orecchie». Rino
e Cristina dovevano restare, ancora giovani, orfani del padre e donna Elena,
conseguita la laurea in farmacia, proseguire l’attività del marito. La Farmacia
Mendola, situata in Piazza La Masa, passata successivamente dalla madre alla
dott.ssa Cristina, costituisce ancora una della farmacie storiche del nostro paese
assieme a quella, allora di un altro Mendola, Stefano, figlio di don Totò Mendola,
ubicata in Piazza Matteotti in un locale del Palazzo del Barone Tortorici.
***
Il dott. Vitale, esperto in medicina generale ed in chirurgia, era anche
specializzato in ginecologia, e, nel ruolo di ginecologo, egli aiutò a nascere molti
bambini del nostro paese. All’epoca i parti avvenivano generalmente in casa,
parti spontanei per cui tante volte era sufficiente l’assistenza della levatrice se
non l’aiuto di una persona della famiglia o di una vicina particolarmente esperta,
ma nei casi più difficili, quando neanche l’ostetrica era in grado di affrontare la
complicazione imprevista, si chiamava il dott. Vitale ed egli interveniva con
urgenza: «Currimmu ca masculu jè», diceva. Aveva sperimentato, infatti, che
erano i maschietti a presentare le maggiori difficoltà a venire al mondo. Altra
espressione tipica del dottore era la risposta al parente di una persona colpita
improvvisamente da qualche malore, che sollecitava il suo intervento: «Vossì
s’allibberta duttù ca ma matri sta mmurinnu.» E il dottore, sicuro del soccorso
che poteva dare la medicina ma anche consapevole dei limiti di essa di fronte
all’ineluttabilità, «Figliju mì - rispondeva- si nun gnè l’urtima arrivammu
‘ntimpu» (“Faccia presto dottore, mia madre sta morendo”. “Figlio mio, se non
è l’ultima, se non è il colpo definitivo, arriviamo in tempo”).
Per la nascita di nessuno di noi fu però necessario l’intervento del dottore Vitale,
a mamma bastò l’aiuto dell’ostetrica donna Antonietta (la signora Antonietta
Gulino sposata Attanasio) e il sostegno della nonna Maria Cava, perché noi
fummo tutti e quattro lesti e ansiosi di presentarci in società. Provvidenziale fu
invece la vicinanza del dottore i primi anni della nostra vita e nel corso della
nostra infanzia, specie riguardo alla diagnosi e la cura delle malattie dei bambini:
morbillo, varicella, orecchioni, rosolia che, sino a quando non vennero indebolite
dai vaccini, aggredivano in modo violento. In quei casi era motivo di sicurezza
per mamma, che subito lo interpellava, ed egli era pronto a tranquillizzarla
dicendo che eravamo abbastanza forti e robusti da superare senza conseguenze
quelle che erano le “tasse da pagare” da parte di tutti i bambini. Egli non solo si
informava e si adoperava per la nostra salute ma era anche prodigo di consigli
ed ammonimenti di carattere alimentare ed educativo alla mamma che lo
ascoltava con molta attenzione. “L’ha detto il dottore Vitale” era diventata la
frase risolutiva che mamma usava tutte le volte che rifiutavamo qualche farmaco
o alimento utile alla nostra crescita.
***
Ricordiamo il dott. Vitale già avanti negli anni. Ogni tanto compariva dietro i vetri
della porta finestra del balcone di via 4 Novembre, con gli occhiali sul naso,
intento a consultare qualche rivista o qualche libro da cui sollevava gli occhi per
osservare cosa succedeva in strada o, forse, per richiamare o rimproverare quel
gruppo di bambini chiassosi che avevano disturbato i suoi studi. Lo vedevamo
uscire mentre scendeva dalla via Rosolino Pilo ed imboccava la via 4 Novembre,
sempre vestito in modo elegante, generalmente di scuro, borsalino nero e canna
con il pomo arrotondato in avorio. Accessorio, quest’ultimo, del suo
abbigliamento ma da qualche tempo supporto a volte necessario. Non era molto
alto il dottore ma aveva un fisico ben modellato. Sul suo viso grazioso spiccava
lo sguardo vigile e attento, in cui si coglieva anche un che di severo. Non era
rapido nei movimenti ed impiegava del tempo per superare quel breve stretto
tratto di strada in lieve salita tra il ballatoio dei Rabita (di don Filippu Bruni) e
quello dei Vinci (di la gnura Calidda la Vinci). «Mi capitò infatti una mattina»,
dice Salvatore, «di stare in apprensione per lui quando, mentre affrontava
l’attraversamento della via, non rischiò di essere investito da un carro che
sopraggiungeva dalla direzione opposta. Il conducente, un gessaio, per quanto
tirasse le redini, non riusciva a frenare il cavallo spinto dal peso del carro e del
carico, e intanto, in preda all’agitazione, continuava con voce atterrita a gridare
“Dittù ‘ssi si sposta! Dittù ‘ssi si sposta!”. E fu per un pelo che il dottore riuscì
ad appoggiarsi al ballatoio dei Vinci puntando il bastone per terra, mentre il lu
issaru, rosso in faccia, si asciugava i sudori freddi per il pericolo corso e
fortunatamente scampato».
Meta della uscite del dottore, quando non erano visite ad ammalati, era la
“Società Operaia Regina Margherita” in Piazza Vittorio Emanuele, dove era atteso
per la consueta lettura del giornale quotidiano. Lì era ben conosciuto dai soci che
erano stati, ed erano, suoi pazienti da quando era stato scelto come medico
sociale dalla società che, come istituzione di mutuo soccorso, aveva tra i sui
scopi statutari l’assistenza medica ai soci e ai loro familiari. Come in un rito il
dottore, attorniato da un buon numero di soci, eseguiva la rassegna stampa
accompagnando la lettura delle notizie con spiegazioni e commenti e fornendo i
chiarimenti che gli venivano chiesti. Immaginiamo una “Prima Pagina” viva come
quella che va in onda ogni mattina su RAI 3, dove il giornalista di turno, dopo
aver letto le notizie più importanti riportate dai giornali quotidiani, risponde
telefonicamente alle domande degli ascoltatori. Quando i minuscoli caratteri di
stampa rappresentarono un problema per i suoi occhi, e il leggere ad alta voce
lo stancava, il dottore fu sostituito da Giuseppe Maddalena, lo storico di cose
pietrine, che leggeva in maniera spedita e corretta ed aveva una voce chiara e
tonante. Il dott. Vitale interveniva per spiegare qualche termine, correggere
qualche accento e interpretare le notizie stesse oltre ciò che appariva tra le righe.
Così il dottore metteva al servizio dei soci del sodalizio non solo la sua
competenza professionale ma la sua cultura nel senso più ampio: è indubbio,
infatti, che tale cerimonia quotidiana superasse l’aspetto puramente informativo
e avesse funzione pedagogica. Nei liberi discorsi tra loro e a casa con i familiari
gli ascoltatori riportavano le novità udite dove “l’ha ditto lu dutturi Vitali”
equivaleva a zittire ogni opposizione.
***
Il dottore amava i giovani e, riguardo ad essi, aveva idee molto chiare. I giovani
costituivano l’avvenire delle famiglie e del paese, attori dello sviluppo futuro, ma
niente debolezze e divagazioni per loro; le distrazioni toglievano ore allo studio,
che doveva essere serio, rigoroso e continuo. Questo era il criterio che ispirava
i suoi rapporti con i giovani: la stessa serietà, lo stesso rigore con i quali aveva
educato i figli. Forse non a tutti nota è, a questo proposito, la vicenda che
riguardò i figli Rocco e Ferdinando quando erano studenti universitari a Roma.
L’ episodio fu raccontato dallo stesso Ferdinando a Filippo Romano, nostro
parente che negli anni ’40 era stato mezzadro locatario a lu Lucu, la tenuta di
campagna dove, da un certo periodo, era andata a vivere donna Giuseppina
Anzalone (donna Pippina), moglie del dottore, e che, in tale ruolo, spesso si
recava in via Tortorici Cremona per conferire con il dottore. Il dottore, a cui
erano giunte voci di una condotta piuttosto disinvolta dei due fratelli, pensò di
fare loro una sorpresa. Si recò a Roma a loro insaputa. Non trovandoli a casa, in
un’ora in cui si sarebbe aspettato di vederli al tavolo di studio, li aspettò nella
casa che avevano preso in affitto. Quando, dopo alcune ore, arrivarono ignari
della visita alla quale non erano preparati, il padre, a cui l’irritazione era viepiù
montata a causa della lunga attesa, prese a colpirli ripetutamente alle gambe
mentre si cambiavano di abito, con un sottile ramo di ulivo che, evidentemente,
si era portato dietro, minacciando ripercussioni riguardo alla prosecuzione dei
loro studi.
«Anch’io ebbi un esempio della severità del dott. Vitale», dice Salvatore, «l’anno
in cui avevo incominciato frequentare la scuola media. Continue erano le partite
di pallone del nostro gruppo di ragazzi della zona che si svolgevano sotto i suoi
balconi; era naturale che il chiasso e le urla potessero disturbare il suo studio o
il suo riposo. In effetti, qualche volta, il dottore si era fatto vedere dietro i vetri
con il viso severo e ammonitore, ma non si era affacciato a richiamarci e noi
speravamo nella sua comprensione e pazienza. Quella volta eravamo soltanto in
due: Pasqualino Buttafuoco, compagno di scuola alle medie, ed io, in attesa di
organizzare la solita partita. Sistemate le due pietre che fungevano da pali,
avevano incominciato a fare qualche tiro in porta. Ma un calcio dato un po’ più
forte e non controllato mandò il pallone, ironia della sorte, dove mai avremmo
voluto che andasse a finire: sul balcone del dottore. Prima che decidessimo come
fare e a chi rivolgerci per farcelo mandare giù (contavamo sulla complicità della
figlia, la signorina Cecilia) ecco che il dottore aprì la porta finestra, si affacciò al
balcone con gli occhiali sul naso, vide la palla, rientrò e ricomparve con un paio
di forbici da chirurgo con le punte ricurve e, senza proferire parola, prese il
pallone e, sotto i nostri occhi sorpresi ed imploranti, con mosse lente e con mani
tremanti, forse non solo per l’età, lo ridusse in piccole strisce e ce lo buttò davanti
ai piedi. Noi, fermi, assistemmo mortificati, sino alla fine, all’operazione, senza
la forza né il coraggio di dire una parola o di chiedere scusa. Rientrammo a casa
pieni di vergogna, ma la lezione ci servì; del resto ci andavamo allontanando da
questi tipi di gioco per altre attività più serie e impegnative.
Pasqualino Buttafuoco
La scena della palla e di noi con la testa piegata davanti al dottore mi sarebbe
venuta in mente parecchi anni dopo mentre svolgevo il servizio militare a Roma
presso il Reparto Trasmissioni della “Caserma Ruffo” di via Tiburtina e dovetti
assistere alla cerimonia di un “rimprovero solenne” inflitto ad un caporale del
reparto manutenzione automezzi. Immobile davanti al dottore Vitale per tutto il
tempo che egli impiegò per l’operazione del taglio della palla, mi vidi come il
caporale che, sull’attenti, di fronte al Comandante della Caserma e alla presenza
dei reparti schierati, ascoltava con le lacrime agli occhi le motivazioni e le parole
di rito della severa punizione. Ancora più chiaramente rividi la scena, con la
tristezza nel cuore, quando appresi la notizia che Pasqualino Buttafuoco ci aveva
lasciati: era il 1993, inizio estate. Pasqualino si trovava a Pietraperzia come ogni
anno in quella stagione, assieme alla moglie Gabriella e ai figli Vittorina e
Vincenzo. Professore di lettere in un istituto superiore di Torino, chiedeva di
essere nominato commissario agli esami di maturità in una città della Sicilia per
poter stare, nei mesi estivi, vicino ai genitori. Il giorno della sua dipartita stava
partecipando, ad Enna, all’incontro preliminare della Commissione. Fu nel corso
della riunione che i colleghi commissari lo videro improvvisamente reclinare la
testa sul petto e cadere per terra. L’età, le circostanze, il modo del decesso
scossero la città e il paese. Gabriella mi raccontò successivamente
dell’imponente funerale che si celebrò al paese con la partecipazione dell’intera
cittadinanza, dei colleghi e delle autorità politiche e scolastiche della stessa
provincia. Mi vennero in mente i momenti trascorsi con lui, le interruzioni, le
riprese per motivi contingenti. Conseguita la licenza media, Pasqualino aveva
abbandonato gli studi per qualche anno per aiutare il padre nei lavori della
campagna. Quando riprese, però, bruciò le tappe. Diplomatosi presso l’Istituto
magistrale “F.Crispi” di Piazza Armerina, partì per il servizio militare che svolse
a Torino dove rimase per iniziare la carriera di maestro. Non ci eravamo persi
del tutto di vista ma incrementammo i nostri rapporti amichevoli quando anch’io
mi trasferii in quella città e andavo a trovarlo quasi tutti i sabati ad Alpignano, a
pochi chilometri dal capoluogo, dove lui insegnava presso le scuole elementari
del paese, senza aver conosciuto le fasi della scuola popolare e delle supplenze.
Parlavamo dei libri che stavamo leggendo, di problemi scolastici, dei nostri studi
all’università, di affari di cuore. Aveva sempre a disposizione due biciclette nella
casa-cascina dove abitava e, quando il tempo lo permetteva, facevamo qualche
escursione. A tali incontri partecipò qualche volta anche Totò Zappulla. Assieme
attraversammo le vicende sociopolitiche di quegli anni. Nel ’68, più vecchi di un
decennio circa dei giovani studenti, la contestazione globale ci interessò come
fenomeno sociologico del quale in parte condividemmo la critica all’autoritarismo
e alle forme oppressive delle istituzioni politiche, sociali ed economiche. Fummo
presenti all’affollatissima conferenza che il filosofo Herbert Marcuse, considerato
con il suo saggio L’uomo ad una dimensione l’ideologo di riferimento dei
movimenti studenteschi e giovanili di protesta (un simbolo dei giovani
contestatori erano le tre <M>: Marcuse, Marx e Mao), venne a tenere a Torino
nel 1969. Fummo maggiormente attratti, per motivi professionali, dalle proposte
dell’MCE (Movimento di Cooperazione Educativa), molto attiva a Torino, che
promuoveva il rinnovamento dei contenuti dei metodi e delle tecniche
d’insegnamento nella scuola elementare e iniziammo a sperimentare in classe il
lavoro di gruppo, la discussione guidata, la drammatizzazione, la ricerca e
l’elaborazione del Giornalino scolastico. Contrastammo invece i Decreti Delegati
del ‘74, che introdussero gli Organi Collegiali nella scuola (molte furono allora
tra i docenti le ore di sciopero), ma, quando la legge passò, collaborammo, dopo
le prime fasi di freddezza, con i genitori e ci attivammo per fare delle scuole e
delle classi delle comunità educative. Pasqualino intanto era passato ad
insegnare lettere alla scuola media e successivamente alle superiori e scriveva
articoli su argomenti pedagogici e psicologici per la rivista “La Tecnica della
Scuola” che gli pubblicò Problemi di psicologia dell’educazione e valutazione
scolastica della collana «Guide didattiche» dell’ANIAT(Associazione Nazionale
Insegnanti di Applicazioni Tecniche). Un buon rapporto si manteneva anche tra
le nostre famiglie con relative vicendevoli visite.
Il giorno che la sua salma arrivò a Torino, qualche giorno dopo le esequie a
Pietraperzia, fui vicino a Gabriella ad attendere il convoglio per delle ore davanti
al cimitero di Corso Novara. Il giorno dopo noi amici di Torino demmo a
Pasqualino l’estremo saluto presso la Parrocchia San Dalmazzo, ad alcune decine
di metri da Via Della Consolata dove egli aveva abitato con la sua famiglia. Uomo
buono, serio, onesto e generoso, da vent’anni Pasquale Buttafuoco riposa nel
Cimitero Monumentale della città, in corso Novara.
***
I fatti raccontati possono ascriversi alla componente seria, rigorosa ed
intransigente del dottore Vitale. Ma il suo carattere possedeva anche una
componente ironica, a cui si possono attribuire, invece, altri episodi di cui
avemmo esperienza o che ci furono raccontati, «come quello che riguarda certi
pacchetti a sorpresa che sapeva preparare», dice Maria. «Dunque, allora, ancora
negli anni ‘40, non tutte le abitazioni disponevano di allacciamento alla rete
fognaria, né erano fornite di fosse biologiche e di servizi igienici, nemmeno le
case signorili. Le abitazioni con la stalla servivano ottimamente per certi servizi
necessari ed urgenti e le famiglie dei contadini meno sentivano il disagio, sotto
questo riguardo. Tanti altri, per certe loro esigenze igieniche, adoperavano il
vaso da notte e, per più specifiche e consistenti funzioni, il cantaro. Tale
accessorio, elegante per certi aspetti e comodo, alla fine andava svuotato e
pulito. Per eseguire queste operazioni si aspettava la sera, quando tutti si fossero
chiusi in casa, e dei rumori e dei tonfi sospetti non si andava a verificare la
provenienza; le strade subivano quegli oltraggi e, solo al mattino, si scoprivano
certi misfatti. Anche il dottore Vitale possedeva il suo bel cantaro; lo scoprii il
giorno che comprammo la sua casa, in terracotta smaltato, posto in un angolo
di quella che era stata la sua camera da letto. Ebbene, per pulirlo ed eliminare
il prodotto, il dottore si era inventato un modo molto originale, un sistema da
brevetto. Sistemato il contenuto del cantaro in più fogli di giornale, completava
la confezione avvolgendo il tutto con la carta argentata o dorata dei regali che
riceveva e la legava con nastro e fiocchetto, ottenendone un pacchetto elegante
che avrebbe potuto ingannare chiunque. Dal balcone della sua casa poi riusciva,
con un energico lancio, a farlo arrivare fin quasi all’incrocio. Affacciati al balcone
poteva capitare di assistere a scenette di persone che, alla vista degli attraenti
pacchetti, si piegavano, li prendevano in mano, li soppesavano, li ributtavano a
terra o li portavano via. Successe un giorno - l’episodio era noto a tutti i vicini-
che la gnura Pippina la Meccia, mentre tesseva la strada da un incrocio all’altro,
come era solita, si era accorta che un suo parente, salito dal corso Umberto,
arrivato all’incrocio e notato l’elegante pacchetto, lo aveva raccolto e, tutto
contento, se lo teneva in mano, con l’evidente intenzione di portarlo a casa.
Incontratisi e salutatisi, tra i due parenti si svolse il colloquio seguente:
«Cuscì», disse a bassa voce la gnura Pippina, «ittatilu ssu paccu (“Cugino
buttatelo quel pacco”)».
Il cugino, senza nessun sospetto e non comprendendo le buone intenzioni della
cugina:
«Ma pirchì, cuscì la je ittari, na bbona vota ca mi capita di truvari quarchi cosa!»
(“Ma, cugina, perché lo devo buttare, una buona volta che mi capita di trovare
qualcosa!”).
«Ittatilu, sentiti a mmia» (“Buttatelo, ascoltate me”), continuava la gnura
Pippina, «lassitulu perdiri lu pirchì» (“lasciate perdere il perché”). Ma quello non
pareva voler rinunciare al pacchetto, anzi sembrava ansioso di arrivare a casa e
fare la sorpresa ai suoi figli.
«’Nu lu ittu, cuscì, anzi lassatatimi iri intra ca cci lu purtu a li carusi» (“Non lo
butto, cugina, anzi lasciatemi andare a casa che voglio portarlo ai bambini”).
«Ji pinsu ca jè mmigliu si lu jittati,… sintitimi!» (“Io penso che è meglio se lo
buttate, ascoltatemi!”), insisteva la cugina. L’uomo, immaginando forse che la
cugina volesse impossessarsi lei del pacco, preso da scrupolo, si offrì di dividerne
il contenuto.
«Si propriu vuliti, putimmu fari na mità l’unu» (“Se proprio volete, possiamo fare
metà ciascuno”), disse.
La gnura Pippina, spazientita, visti inutili i suoi inviti,
«Nanò cuscì, grazzii, tinitivillu tuttu ppi bu’, vi salutu» (“No, cugino, grazie,
tenetevelo tutto per voi, vi saluto”). E tornò verso casa sua, parlando tra sé e
sé.
***
«Era un ottobre ancora caldo quello del 1949 quando morì il dottore», racconta
Maria. «Quella mattina la signorina Cecilia ci bussò alla parete come eravamo
soliti quando avevamo bisogno gli uni degli altri per motivi urgenti. E, affacciatici
ai rispettivi balconi, ci diede la notizia. Era triste ma ce la comunicò con un tono
ed un’espressione di normalità: “Questa notte è morto papà”. Volli subito andare
a stare vicina a lei, anche se avevo otto anni e mai avevo visto un morto. Era
sola, la signorina Cecilia, e fu lei stessa che mi prese per mano e mi accompagnò
nella camera del padre.
Il dottore era composto sul suo lettino, vicino a quella scrivania di noce che non
avrebbe mai più usata, accanto alla quale tante volte, piena di soggezione
davanti a lui, l’avevo visto intento a scrivere o a studiare. Il dottore indossava il
vestito nero elegante come quando usciva per andare alla Società Regina
Margherita; aveva mantenuto la sua espressione severa, che ora mi parve più
addolcita. Mi sembrava impossibile che non l’avrei più rivisto né sentito le sue
parole rivolte a Cecilia, le volte che andavo a casa sua: “Mettile dei libri in mano”.
E mi aspettavo che, improvvisamente, aprisse la bocca e si mettesse a parlare
per ricordare ancora alla figlia: “Falla leggere, falla leggere quella bambina”».