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Novembre-Dicembre 2015 - Centro Studi Cinematografici · Anno XXI (nuova serie) - Poste Italiane...

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Anno XXI (nuova serie) - Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento postale 70% - DCB - Roma Novembre-Dicembre 2015 138 FRANCOFONIA REVENANT - REDIVIVO LA CORRISPONDENZA IL FIGLIO DI SAUL THE HATEFUL EIGHT di Aleksandr Sokurov di Alejandro Gonzáles Iñárritu di Giuseppe Tornatore di László Nemes di Quentin Tarantino
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Novembre-Dicembre 2015 138

FRANCOFONIA

REVENANT - REDIVIVO

LA CORRISPONDENZA

IL FIGLIODI SAUL

THE HATEFUL EIGHT

di Aleksandr Sokurov

di Alejandro Gonzáles Iñárritu

di Giuseppe Tornatore

di László Nemes

di Quentin Tarantino

SPECTRE - di Sam Mendes

Euro 5,00

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DADDY’S HOME - Sean Anders

CAROL - di Todd Haynes

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Nella seguente filmografia vengono considerati tutti i film usciti a Roma e Milano, ad eccezione delle riedizioni.Le date tra parentesi si riferiscono alle “prime” nelle città considerate.

SOMMARIO n. 138

Assolo ......................................................................................................... 27

Big Game - Caccia al Presidente ............................................................... 24

Black Sea ................................................................................................... 18

Carol ........................................................................................................... 29

Corrispondenza (La) .................................................................................... 38

Daddy’s Home ............................................................................................. 34

Dio esiste e vive a Bruxelles ....................................................................... 25

Everest ....................................................................................................... 8

Figlio di Saul (Il) .......................................................................................... 37

Francofonia ................................................................................................ 31

Hateful Eight (The) ..................................................................................... 14

Hitman: Agent 47 ......................................................................................... 21

Irrational Man ............................................................................................. 22

Macbeth ....................................................................................................... 42

Mr. Holmes .................................................................................................. 13

Natale col il Boss ......................................................................................... 35

Piccolo Principe (Il) ..................................................................................... 33

Point Break .................................................................................................. 19

Professor Cenerentolo (Il) ........................................................................... 43

Quo vado? .................................................................................................. 5

Ragazzo della porta accanto (Il) ................................................................. 4

Regola del gioco (La) ................................................................................. 12

Revenant – Reditivo ................................................................................... 2

Snoopy & Friends – Il film dei Peanuts ...................................................... 30

Spectre ....................................................................................................... 10

Straight Outta Compton .............................................................................. 7

Taken 3 – L’ora della verità ........................................................................ 9

Transporter Legacy (The) ........................................................................... 28

11 donne a Parigi ....................................................................................... 41

Una volta nella vita ..................................................................................... 20

Uno per tutti ................................................................................................ 3

Viaggio di Arlo (Il) ....................................................................................... 26

Walk (The) ................................................................................................... 39

Woman in Gold ........................................................................................... 16

Tutto Festival – Torino 2015 .................................................................... 45

Anno XXI (nuova serie)n. 138 novembre-dicembre 2015

Bimestrale di cultura cinematografica

Editodal Centro Studi Cinematografici

00165 ROMA - Via Gregorio VII, 6tel. (06) 63.82.605

Sito Internet: www.cscinema.orgE-mail: [email protected]

Aut. Tribunale di Roma n. 271/93

Abbonamento annuale: euro 26,00 (estero $50)

Versamenti sul c.c.p. n. 26862003intestato a Centro Studi Cinematografici

Spedizione in abb. post.(comma 20, lettera C,

Legge 23 dicembre 96, N. 662Filiale di Roma)

Si collabora solo dietroinvito della redazione

Direttore Responsabile: Flavio VergerioDirettore Editoriale: Baldo Vallero

Segreteria: Cesare Frioni

Redazione: Alessandro Paesano

Carlo TagliabueGiancarlo Zappoli

Hanno collaborato a questo numero: Giulia AngelucciVeronica Barteri

Elena BartoniDavide Di GiorgioFabrizio MorescoFlavio Vergerio

Stampa: Joelle s.r.l.Via Biturgense, n. 104Città di Castello (PG)

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Film Tutti i film della stagione

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Film Tutti i film della stagione

Stati Uniti, 2016

REVENANT - REDITIVO(The Revenant)

Regia: Alejandro Gonzáles IñárrituProduzione: Arnon Milchan, Steve Golin, Alejandro Gonzáles

Iñárritu, Mary Parent, James W. Skotchdopole, Keith Red-mond, per Anonymous Content, New Recency Pictures, Ratpac Entertainment

Distribuzione: 20th Century FoxPrima: (Roma 16-1-2016; Milano 16-1-2016)Soggetto: dal romanzo “Revenant – La storia di Hugh Glass e

della sua vendetta” di Michael PunkeSceneggiatura: Mark L. Smith, Alejandro Gonzáles IñárrituDirettore della fotografia: Emmanuel LubezkiMontaggio: Stephen MirrioneMusiche: Ryûichi Sakamoto, Alva NotoScenografia: Jack FiskCostumi: Jacqueline West

Effetti: The Secret Lab, Soho VFX, The Moving Picture Com-pany, Image Engine Design, Cinesite, Industrial Light & Ma-gic

Interpreti: Leonardo DiCaprio (Hugh Glass), Tom Hardy (John Fitzgerald), Domhnall Gleeson (Capitano Andrew Henry), Will Poulter (Jim Bridger), Forrest Goodluck (Hawk), Paul Anderson (Anderson), Kristoffer Joner (Murphy), Joshua Burge (Stubby Bill), Lukas Haas (Jones), Brendan Fletcher (Fryman), Duane Howard (Elk Dog), Arthur RedCloud (Hikuc), Grace Dove (Powaqa), Fabrice Adde (Toussaint), Robert Moloney (Dave Chapman), Christopher Rosamond (Boone),Tyson Wood (Weston), McCaleb Burnett (Beckett), Timothy Lyle (Gordon), Scott Olynek (Johnnie), Melaw Nakehk’o (Powaqa)

Durata: 156’

1 823, Nord Dakota. Hugh Glass, assunto come guida per una battuta di un gruppo di cacciatori di pelli,

sfugge a un attacco di indiani Arikara. In-sieme a Glass si salvano pochi uomini, tra cui anche il figlio adolescente Hawk, avuto dalla moglie indiana Pawnee, uccisa anni prima durante un attacco di americani al loro villaggio. In fuga dagli indiani, gli uomini abbandonano la barca su cui stanno discendendo il fiume e decidono di tornare al loro villaggio a piedi, preferendo giorni e giorni di cammino al freddo piuttosto che rischiare di venire accerchiati lungo il fiume.

Ma Glass viene attaccato e gravemen-te ferito da una femmina di orso grizzly, particolarmente aggressiva in difesa dei cuccioli. Nonostante le ferite subite, Glass riesce ad abbattere l’animale. Il Capitano

Henry, comandante della missione, lo crede in punto di morte. Anche i compagni credono che l’uomo possa sopravvivere solo pochi giorni. Non essendo trasporta-bile, gli uomini della spedizione lo lasciano in compagnia del figlio Hawk, del giovane Bridger e del cacciatore Fitzgerald, ordi-nando ai tre di vegliarlo sino all’ultimo, per poi dargli una degna sepoltura.

Ma Fitzgerald è rimasto unicamente per la ricompensa in denaro promessa dal capitano. Approfittando dell’assenza dei due ragazzi, Fitzgerald prima istiga al suicidio Glass, poi cerca di soffocarlo per poter tornare all’accampamento e poter prendere il compenso di 300 dollari. Ma viene scoperto da Hawk, che prima tenta di fermarlo e poi è pugnalato a morte. Fitzge-rald nasconde il cadavere del ragazzo e

inganna Bridger, dicendogli di aver perso di vista Hawk e di aver visto una ventina di indiani a poca distanza, convincendolo ad abbandonare l’inerme Glass in una fossa.

Dopo essere uscito con immane fatica dalla fossa dove era quasi sepolto vivo e aver giurato vendetta sul corpo del figlio, Glass si trascina tra i boschi, cercando di sopravvivere. Incrocia più volte gli indiani, sfuggendo per miracolo. Dopo giorni tra-scorsi al gelo, Glass viene sfamato e curato da un solitario indiano Pawnee, che vuole ricongiungersi con la sua tribù. I due pro-seguono insieme il loro viaggio ma vengono sorpresi da una tormenta di neve. Glass, debilitato, viene curato dall’indiano e messo al riparo sotto una capanna improvvisata.

Rimasto solo, Glass si imbatte in un gruppo di cacciatori francesi che hanno appena impiccato il suo compagno indiano e rapito la figlia di un capo indiano Ree. Glass cerca di rubare un cavallo ma viene scoper-to; durante la fuga uccide alcuni francesi, riuscendo anche a far fuggire la donna, che prima di scappare evira il capo-spedizione francese che l’ha violentata. Dopo poco, Glass, mentre tenta di sfuggire a un nuovo agguato degli indiani Arikara, precipita con il suo cavallo in un burrone: viene salvato da un albero e dalla neve fresca. Ripresosi, Glass sopravvive al gelo notturno trovando riparo nel ventre del suo cavallo morto.

Nel frattempo, uno dei francesi soprav-vissuti all’attacco raggiunge il forte dove si trovano i compagni di Glass. Bridger nota per caso la borraccia di Glass, caduta all’uomo durante l’agguato al loro campo. Il capitano decide di mandare un gruppo di uomini alla sua ricerca. Il gruppo si imbatte in Glass che viene portato al forte ormai al limite della sopravvivenza. Dopo

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Film Tutti i film della stagioneFilm Tutti i film della stagione

avere scagionato Bridger dalle accuse di tradimento e abbandono, Glass parte insieme al capitano Henry alla ricerca di Fitzgerald, che nel frattempo ha svaligiato la cassaforte del capitano ed è fuggito. I due si separano e Henry viene ucciso da Fitzgerald. Trovato il cadavere del com-pagno, Glass carica il corpo sul secondo cavallo e continua l’inseguimento.

Glass riesce a ingannare Fitzgerald, facendolo avvicinare e costringendolo a un corpo a corpo. Nonostante sia ferito, Glass riesce ad avere la meglio, rinunciando poi alla sua vendetta e affidando il compito a un gruppo di indiani Arikara. Fitzgerald viene scalpato e sgozzato secondo le usanze indiane, prima di essere lasciato in balia delle correnti del fiume. Ottenuta giustizia, Glass sembra finalmente aver abbandonato la rabbia e la sete di vendetta. Esausto e sofferente, Glass è disteso sulla neve, consolato dalla visione della moglie.

L a lotta per la vita di un uomo solo, la lotta per la vita (artistica) di un attore e di un regista chiamati a

una prova difficilissima.Revenant – Redivivo è un film em-

blematico nella sua ferocia, simbolico nella sua crudezza, sorprendente nella sua perfezione formale.

I l regista messicano Alejandro González Iñárritu, fresco dei 4 Oscar vinti con Birdman, questa volta fa di più, spinge il pedale all’estremo divenendo, per sua stessa ammissione, “burattinaio d’un teatro colossale”, un teatro per il quale ha quasi rischiato la pelle, insieme alla sua troupe.

Revenant fa patire (e molto) il suo protagonista (e insieme a lui lo spettatore).

Un’odissea immane, epica e leggen-daria. Quella di Hugh Glass (incarnato da un Di Caprio quasi del tutto silenzioso per la maggior parte del film), è una lotta contro la natura, contro la natura umana, contro se stesso.

Tra la foresta impervia di un Nord Ame-rica gelido e funestato da lotte e genocidi, va in scena una tragedia moderna che ha la statura di una grande tragedia classica.

Neve e fuoco, sangue e dolore, tradimento e vendetta, Revenant è una tragedia che parla dell’essenza dell’uo-mo: il bene e il male sono rappresentati in modo manicheo da Glass da un lato e da Fitzgerald (un campione di avidità e egoismo per cui Dio è uno scoiattolo che compare quando ne hai più bisogno e va divorato in fretta) dall’altro.

Le sofferenze di Glass sono fisiche e spirituali, alla sua carne dilaniata lette-ralmente da un orso grizzly corrisponde un’anima straziata da un dolore immenso. La performance di un Di Caprio aspirante alla statuetta dell’Oscar rispetta questo equilibrio, questo duplice patire, dosando alla perfezione dolore fisico e spirituale, i rantoli, gli spasmi e le urla con sguardi ca-richi di muta e atroce sofferenza. A parlare allo stesso tempo sono la carne e l’anima di un uomo, la carne e l’anima di un divo, mai così maturo.

Revenant è un film primitivo come l’am-biente in cui è totalmente immerso, una storia di sentimenti “basici” immersa nel gelido inverno di una foresta fatta di mon-tagne impervie e corsi d’acqua travolgenti. La forza della natura investe l’uomo sfidan-dolo a risollevarsi. Resistenza, rinascita, vendetta, sono i tre temi forti su cui punta Iñárritu nella lotta del protagonista contro uomini, animali e asperità della natura.

Liberamente ispirato all’omonimo libro di Michael Punke (che Iñárritu e Mark L. Smith hanno romanzato, aggiungendo personaggi ed episodi assenti nel libro), Revenant è un film pieno di sofferenza, dolore e di sangue, ma anche ricco di quesiti basilari: cosa c’è oltre l’istinto di vendetta? La vendetta restituisce ciò che hai perduto?

L’opera di Iñárritu cattura per due ore e mezza abbondanti anche grazie al suo linguaggio visuale fatto di suggestive im-

magini pittoriche (il regista ha confessato di aver avuto in mente Caravaggio per tutte le riprese) e un suono avvolgente e potente. La fotografia naturale con cui è stato gira-to (opera del mago della luce già premio Oscar per Birdman Emmanuel Lubezki), non senza grandi difficoltà, l’intero film, fa si che Revenant sia un vero “affresco so-nico”, come ha sottolineato il regista. Una pellicola dalla difficile lavorazione (il budget iniziale di 60 milioni di dollari è poi lievitato a 135) realizzata tra il Canada, il Montana e la Patagonia, in cui ogni inquadratura ha la perfezione di un quadro.

Un film ambientato in un passato che ha molte corrispondenze nel nostro presente: la prima metà dell’Ottocento nelle terre del Nord America funestate da un immane geno-cidio che, in nome del profitto, estinse razze umane e animali. “L’avidità fece impazzire quella gente – ha sottolineato Iñárritu – men-tre si delineavano quei problemi razziali che si sarebbero trascinati fino al presente”.

Antico e moderno insieme, Revenant è un film bellissimo pur nella sua brutalità, un’opera che mostra senza filtri la crudeltà dell’essere umano, tra teste trafitte da frec-ce e carni dilaniate. E un Di Caprio sbra-nato da un grande orso in una delle scene più crude e potenti del cinema degli ultimi anni, un piano sequenza magistralmente girato (effetti digitali da applauso). Un Di Caprio, ancora, costretto a prove estreme come mangiare il fegato di un bisonte per sopravvivere e dormire nudo dentro la carcassa ancora calda di un cavallo morto.

E su tutto, la volontà di Dio che tiene le redini della vita dell’uomo.

Un film travolgente, essenziale eppure grandioso, iperrealista (con tanto di cuci-tura di ferite al vivo, e carni crude divorate per sopravvivere), ma anche onirico (le più intimiste sequenze dei sogni del pro-tagonista). Un cinema che merita ancora la parola arte.

Elena Bartoni

Italia, 2015

Regia: Mimmo CaloprestiProduzione: Gianluca Curti per Minerva Pictures Group in

collaborazione con Rai CinemaDistribuzione: MicrocinemaPrima: (Roma 26-11-2015; Milano 26-11-2015)Soggetto: dall’omonimo romanzo di Gaetano Savatteri Sceneggiatura: Monica Zapelli, Mimo CaloprestiDirettore della fotografia: Stefano Falivene

Montaggio: Valerio Quintarelli, Marco Spoletini (supervisio-ne)

Scenografia: Virginia VianelloCostumi: Nicoletta ErcoleInterpreti: Fabrizio Ferracane (Gil), Giorgio Panariello (Vinz),

Thomas Trabacchi (Saro), Isabella Ferrari (Eloisa), Lorenzo Barone (Teo), Irene Casagrande (Greta)

Durata: 85’

UNO PER TUTTI

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Film Tutti i film della stagione

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Film Tutti i film della stagione

T rieste. Teo, figlio di Eloisa e di Gil, sta per compiere diciotto anni e da tempo è innamorato di una ragazza

di nome Greta. Una sera Teo e l’amico Luca, per difendere Greta durante una rissa tra giovani, pugnalano un altro ragazzo. Teo viene arrestato e perquisito da Vinz, amico d’infanzia di Gil. Quest’ultimo è un uomo senza scrupoli, che trascura moglie e figlio, ha un’amante e tanti appalti illeciti alle spalle. Quando il ragazzo ferito viene rico-verato in ospedale, la madre Eloisa chiama un altro amico d’infanzia, Saro. Questo è un medico ormai trasferito nel profondo Sud della Calabria che sta per sposarsi e che viene ospitato quei giorni in casa loro. Tra Eloisa e Saro da tempo esiste una passione latente. Intanto Gil, coinvolgendo gli amici Saro e Vinz, cerca in tutti i modi di non far scontare il carcere al figlio così come aveva dovuto fare lui, in particolare cercando di corrompere Vinz, poliziotto separato dalla moglie e con difficoltà economiche. I tre quando erano bambini avevano stretto un patto di sangue e condiviso una tragica avventura: per una bravata era rimasto ucciso un loro amico ma a scontare la pena era stato solo Gil. Alla fine, dopo che Vinz ha buttato via il coltello insanguinato usato da Teo e Luca, Gil chiede a Saro di accom-pagnare il figlio al traghetto; ma quasi arrivati a destinazione Teo scappa e dopo aver visitato il ragazzo morto all’obitorio viene preso dalla polizia.

I spirato all’omonimo romanzo di Gae-tano Savetteri del 2008, Uno per tutti è un noir italiano che ruota attorno al

tema dell’ereditarietà della colpa. Il titolo rievoca quell’unità letteraria che esisteva tra i tre moschettieri e che qua sta per un’a-micizia di sangue tra tre ragazzi diventati uomini. È la storia di quattro giovanotti, tutti appartenenti a famiglie immigrate al nord negli anni ‘70, che nella banda di quartiere trovavano la loro realtà aggregante. Il senso però dell’unità viene qui interpre-tato in chiave negativa perché dopo aver commesso l’errore in tre, ha pagato solo uno, Gil. Il regista Mimmo Calopresti quindi lavora in maniera parallela anche sul tema della corruzione che si insinua negli ambienti alto borghesi, dove vi è il tentativo di rimanerne indenni, così come aveva fatto Paolo Virzì nel suo Capitale umano. Ancora una volta una denuncia forte contro la società tutta ma anche e soprattutto rivolta al modello genitoriale. La madre di Teo interpretata da Isabel-la Ferrari è morbosa nei confronti del figlio e pratica lo yoga per combattere la noia borghese; ad esempio, parlando con Saro afferma “Almeno in Calabria si delinque per qualcosa – qui c’è solo noia!”. Il marito fedifrago non ammette nessuna colpa del figlio e cerca, attra-verso ogni tentativo di corruzione, di evitargli ogni tipo di condanna e di farlo uscire dal carcere. Il progetto alla base del film (considerando che si ispira a un romanzo) è interessante, la regia è ad un buon livello, ma con una sceneggiatura a volte improbabile anche se i problema più grandi sono l’interpretazione di alcuni attori, come ad esempio Isabella Ferrari con il suo accento triestino, e la scelta

musicale. Il personaggio di Saro inter-pretato da Thomas Trabacchi è poco ap-profondito all’interno della storia mentre, pur essendo partita prevenuta, mi sono dovuta ricredere sulle doti drammatiche di Giorgio Panariello. Tra le citazioni cinematografiche troviamo Arancia Mec-canica e il Cacciatore e nasce spontaneo il confronto con Anime nere di Francesco Munzi: in comune hanno uno dei protago-nisti, Fabrizio Ferracane e il forte legame fra tre uomini, qui non amici ma fratelli di sangue. In Uno per tutti c’è una colpa (quella di Teo) che vuole essere cancel-lata e una volontà (quella del padre Gil) che pur appoggiandosi all’omertà parzia-le e all’aiuto sincero dei suoi due amici, non si può avvallare. Anche Teo, come il padre Gil, si trova per caso in mezzo a un affare più grande di lui, ma alla fine non vuole, a differenza del padre, far finta di nulla. Nell’amaro finale di una pellicola che punta i fari sull’ineluttabilità del destino e sulla sua crudezza e dove un padre dai trascorsi burrascosi è con-vinto di aver messo in salvo il figlio. Un ennesimo tentativo di rappresentare una società in cui la corruzione è ovunque, dove non ci si accorge neanche di quanto sia diventata diffusa e familiare nel nostro Paese, tanto da far dire al personaggio di Gil, interpretato da un magistrale Fabrizio Ferracane, “Perché deve esistere solo per mio figlio la legge?”. Un interroga-tivo aperto dove la risposta è solo nella coscienza del singolo.

Giulia Angelucci

Stati Uniti, 2015

IL RAGAZZO DELLA PORTA ACCANTO(The Boy Next Door)

Regia: Rob CohenProduzione: Jason Blum, Elaine Goldsmith-Thomas, John

Jacobs, Jenifer Lopez per Blumhouse Productions, Nuyo-rican Productions, The Medina Company, Smart Enter-tainment

Distribuzione: Universal Pictures InternationalPrima: (Roma 23-7-2015; Milano 23-7-2015)Soggetto e Sceneggiatura: Barbara CurryDirettore della fotografia: Dave McFarlandMontaggio: Michel AllerMusiche: Randy Edelman, Nathan BarrScenografia: Charles Varga

Costumi: Courtney HoffmanInterpreti: Jennifer Lopez (Claire Peterson), Ryan Guzman

(Noah Sandborn), Ian Nelson (Kevin Peterson), John Corbett (Garrett Peterson), Kristin Chenoweth (Vicky Lansing), Lexi Atkins (Allie Cambridge), Hill Harper (Preside Edward Warren), Jack Wallace (Sig. Sandborn), Adam Hicks (Jason Zimmer), François Chau (Detective Johnny Chou), Bailey Chase (Benny), Kent Avenido (Sig. Avenido), Travis Schuldt (Ethan), Brian Mahoney (Couper), Raquel Gardner (Barbara), Kari Perdue (Rachel), Chad Bullard (Chad il Bullo), Forrest Hoffman (Forrest il Bullo)

Durata: 91’

C laire è separata da Garrett e vive con il figlio adolescente Kevin, preso di mira dai bulli della scuola

e affetto da un’allergia che ne ostacola la vita sociale. Insegnante di lettere e amante dei

classici, Claire sta cercando di recuperare la crisi con l’ex marito che nove mesi prima l’ha ferita tradendola durante i suoi viaggi di lavoro a San Francisco. Un giorno, arriva un nuovo vicino di casa Noah, un diciannovenne

di bell’aspetto, senza genitori, che si prende cura dello zio invalido in attesa del trapianto. Il giovane aiuta Claire nei lavori domestici e diventa amico e mentore di Kevin. Tra Claire e Noah si instaura un’intesa particolare,

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Film Tutti i film della stagioneFilm Tutti i film della stagione

anche per via della loro passione comune per l’Iliade. Il ragazzo si infatua della professo-ressa, la seduce e una notte in cui Garrett e Kevin sono fuori in gita, si approfitta della sua debolezza carnale e passano insieme la notte. Da quel momento in poi, comincia il vero incubo di Claire. La donna vorrebbe cancellare quello sbaglio di una notte e archiviare la loro relazione, mentre Noah non si dà pace per questo suo rifiuto. Nel frattempo il ragazzo nutre profondo odio per quell’uomo che ha tradito mesi prima la sua amata Claire. Così gioca a fare l’eroe difendendola in ogni circostanza ed entrando in stretta amicizia con il figlio Kevin. Questo, innamorato della coetanea Allie Callahan, chiede consiglio a Noah per conquistarla e ottiene di essere il suo cavaliere per il ballo della scuola. A sua insaputa però l’amico va a letto con la ragazza e dalla finestra di fronte si fa vedere da Claire per tentare di farla ingelosire. Dopo essere entrato senza permesso con il suo account nella posta elettronica, il giovane studente ottiene di essere trasferito nel corso della bella profes-soressa, diventando così presenza costante e invadente in casa sua (almeno per Claire), fino a ricattarla con foto e video, insomma un vero stalker. Nel frattempo, Noah manovra Kevin mettendolo contro il padre. Un giorno Garrett va a prendere il figlio a scuola e, tornando a casa, scoprono che i freni non funzionano bene; hanno un piccolo incidente da cui riescono miracolosamente a salvarsi. Claire l’indomani trova la classe tappezzata di sue fotografie compromettenti, di cui riesce a liberarsi prima che i suoi alunni entrino in classe e una scritta in bagno viene confessato il suo segreto. La professoressa va quindi dal ragazzo in palestra per chiedergli di smetterla e viene vista da un bidello. Anche il preside nota qualcosa di strano nel suo comportamento. L’amica Vicky, vicepreside della scuola, vuole aiutarla con Noah che nel frattempo è stato espulso per aver pic-

chiato dei bulli che davano fastidio a Kevin. Così, l’amica le dà una mano, prende la sua macchina e si fa seguire dal giovane stalker che presto scopre l’inganno. Intanto Claire si intrufola clandestinamente a casa di Noah e oltre ad una telecamera nascosta, scopre uno stanzino in cui ci sono tutte sue foto e video. Riesce a trovare il materiale compromettente e a cancellare tutto. Le si gela il sangue poi quando, sempre sul pc, scopre dei file dove è spiegata la manomissione dei freni e sospetta che sia stato lui ad aver tentato alla vita del figlio e dell’ex marito. Intanto il ragazzo va a casa della vicepreside, la imbavaglia e, con un inganno (facendole credere che sia lei a chiamare), riesce a far raggiungere la casa di Vicky a Claire dove troverà il cada-vere dell’amica; la donna prova a scappare ma fuori l’abitazione trova il giovane che le confessa di aver ucciso lui anni prima il padre e la sua compagna manomettendo i freni poiché la loro relazione aveva portato al suicidio della madre. Così trascina la sua vittima nel fienile dove trova il marito e il figlio imbavagliati. Alla fine, dopo vari tentativi di liberare i due ostaggi e scappare, per difendersi Claire uccide Noah. Il figlio Kevin è salvo mentre il marito viene portato via in ambulanza.

E ra il 1987 quando uscì il must Attrazione fatale, dando avvio a quello che sarebbe poi stato

chiamato il genere del thriller erotico. Così Rob Cohen, il regista di Fast e furious e La mummia- La tomba dell’imperatore, dopo un adattamento da James Patterson, Alex Cross – La memoria del killer, decide di riproporre il modello del coniuge persegui-tato da un folle amante rovesciando le parti: qui a essere molestato non è più Michael Douglas, ma la bellissima Jennifer Lopez. Tra i vari flashback riassuntivi, su una regia un po’ didascalica (come a poco distanza la proposta di due inquadrature verso il basso

che finiscono per oscurarsi) che sostiene un buon ritmo da thriller, si instaura una sceneggiatura un po’ banale a cura della debuttante Barbara Curry. Basti pensare alle battute un po’ improbabili come quando dopo la tempesta, ma facendo un basso riferimento alla notte di passione, “Qui si è bagnato tutto!” o come anche “L’educazione fisica è una materia che conosci bene”, en-trambe pronunciate da Noah. Prodotto dal nuovo re dell’horror low budget Jason Blum che ricordiamo per Paranormal activity e Insidious, il film dalle non grandi pretese complessivamente funziona a eccezione delle scene conclusive. Viene spesso ricercato, ma inutilmente, il jumpscare e lo scontro conclusivo è la parte peggiore, poco credibile e inutilmente pseudo splatter, mentre il finale è letteralmente ‘tranciato’. Altro elemento che disturba è che Claire co-mincia, a comprendere lo sbaglio del marito e a perdonarlo una volta che anche lei ha sbagliato e si è lasciata travolgere dalla pas-sione. Ryan Guzman (la cui notorietà è rap-presentata finora da due episodi della saga di Step Up) convince nel bipolare ruolo del “good boy gone bad”. Il giovane conquista la professoressa citando l’Iliade e sulle corde di un mitomane perfetto pensa di incarnare l’Achille moderno. In questa vicenda, l’unica persona che aiuta Claire è l’amica Vicky che perde la vita per lei. Un film che, oltre all’ostentare la bellezza dei protagonisti, è costruito su una corporeità che precede la sostanza della trama (basti pensare che la prima cosa che si vede del personaggio di Noah è il suo bicipite), riflette poco sulla psicologia dei personaggi e lascia qua e là qualche falla narrativa. Quando l’amore è solo possesso questo sentimento diventa un gioco pericoloso, in cui non è possibile tornare indietro, come dice Noah “Niente regole e niente pregiudizi”.

Giulia Angelucci

Italia, 2015

Regia: Gennaro NunzianteProduzione: Pietro Valsecchi per Taodue FilmDistribuzione: MedusaPrima: (Roma 1-1-2016; Milano 1-1-2016)Soggetto e Sceneggiatura: Luca Medici (Checco Zalone),

Gennaro NunzianteDirettore della fotografia: Vittorio Omodei ZoriniMontaggio: Pietro MoranaMusiche: Luca Medici (Checco Zalone)Scenografia: Luca Medici (Checco Zalone), Gennaro Nunziante

Costumi: Francesca CascielloInterpreti: Checco Zalone (Checco), Eleonora Giovanardi

(Valeria), Sonia Bergamasco (Dottoressa Sironi), Maurizio Micheli (Peppino, padre di Checco), Ludovica Modugno (Caterina, madre di Checco), Ninni Bruschetta (Ministro Magno), Paolo Pierobon (Ricercatore scientifico), Azzurra Martino (Fidanzata di Checco), Lino Banfi (Senatore Binetto), Massimiliano Montgomery, Angelica Napa, Adam Nour Marino, Fabio Casale

Durata: 86’

QUO VADO?

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Film Tutti i film della stagione

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C hecco è un bravo ragazzo del meridione che ha realizzato gli obiettivi principali che gli

permettono di vivere una vita tranquilla, riposante e senza strappi: ha il cosiddet-to posto fisso nell’ufficio caccia e pesca presso la Provincia di Bari; vive a casa con i genitori dove è trattato come un pascià e viziato dai manicaretti preparati dalla madre; ha una fidanzata storica con cui parla, da tempo, di un possibile, futuro matrimonio e per questo è adulato e incensato dalla famiglia di lei proprio in virtù del suo posto fisso.

La Storia però va avanti e un brutto giorno il governo vara la riforma della pubblica amministrazione che prevede l’abolizione delle provincie e la ricollo-cazione in altri settori amministrativi dei relativi impiegati, o meglio, le loro spon-tanee dimissioni.

Checco è costretto ad affrontare subito la situazione in un colloquio con la terribile Dottoressa Sironi, la dirigente addetta allo sfoltimento del personale, che propone al giovane impiegato le dimissioni con un ritocco della liquidazione che sono subito respinte e poi il trasferimento in altri luo-ghi: Checco resiste e pur di non abbando-nare il posto fisso non si fa abbattere dalle difficoltà della sua nuova vita.

Un giorno però la Sironi non riuscendo ad avere ragione della testardaggine di Checco lo trasferisce al Polo Nord con l’incarico di vigilanza presso un gruppo di ricercatori italiani: lì conosce Valeria, una scienziata che studia il comportamento e le malattie degli orsi polari e ben presto se ne innamora, partecipando con lei a un tipo di vita impensabile fino a quel momento. Valeria infatti ha base a Bergen, cittadina sui fiordi norvegesi ed è abituata a un

senso di responsabilità civile nel condurre la sua quotidianità, dalla gestione della spazzatura al comportamento nel traffico ai rapporti con gli altri, da cui Checco è lontano mille miglia; in più Valeria ha tre figli avuti da tre partners diversi a seconda dei luoghi dove ha lavorato.

La piccola esistenza di Checco risulta così stravolta nelle abitudini e negli at-teggiamenti codificati fin dalla notte dei tempi, ma l’amore è una grande spinta e lo aiuterà negli episodi successivi della sua vita: prima in Calabria si dedica con Valeria a una cooperativa che cura e studia gli animali feroci e poi, addirittura, in Africa completerà la sua scuola di vita al servizio degli altri: il supplemento di liquidazione (questa volta Checco se ne va davvero) è utilizzato per acquistare le medicine necessarie a un villaggio pove-rissimo della giungla.

La nascita di una bellissima bambina corona la nuova esistenza di Checco e Valeria.

G ià con i suoi precedenti film Zalone aveva ottenuto numeri da sballo: nel 2011 Che bella

giornata incassò nel totale della program-mazione quasi 44 milioni di euro; nel 2013 Sole a catinelle toccò alla fine 52 milioni.

Dove potrà arrivare Quo Vado? che nel primo week-end di proiezioni ha superato i 22 milioni conquistando la prima posizione ai botteghini italiani?

I numeri ci interessano fino a un certo punto anche se siamo contenti quando un film incassa (un film italiano soprattutto), ma vogliamo chiederci perchè.

Abbiamo pensato a una serie di agget-tivi e di termini che potevano adattarsi a Zalone (non dimentichiamo il suo regista

Gennaro Nunziante) a spiegare, o alme-no a suggerire le motivazioni di un così grande seguito di pubblico; ne abbiamo trovate due, semplici semplici: educazione e intelligenza.

Non ci sono parolacce né oscenità in questo film dopo tanti anni in cui ci han-no insegnato, voluto insegnare e voluto convincere che il pubblico italiano poteva divertirsi solo con le volgarità: il lavoro di Zalone è quindi per prima cosa l’espres-sione di un rispetto, soprattutto per chi è seduto in sala.

Seconda cosa l’intelligenza.Zalone ha capito perfettamente l’Italia,

cosa è stata (fantastica la canzone “La pri-ma repubblica”, quella che “non si scorda mai”) quello zoccolo duro edulcorato e riscaldato da mammismo, assistenza so-ciale (anche a chi non la meritava), posto fisso nei ministeri e nelle aziende statali e parastatali dalle sigle più incredibili, pensioni di ogni genere (anche a chi non lo meritava); il tutto condito da una buona dose di furbizia, di patetismo, di viziosità culturale, opportunismo, superficialità, di colpo stigmatizzate in questi anni e che increduli e incattiviti ci stiamo pian piano scrollando di dosso in manzoniana velocità (“adelante Pedro, cum juicio...”).

Questo è quello che Zalone ha capi-to perfettamente e in modo diretto lo fa vedere al suo pubblico che ugualmente lo capisce, ci si identifica, lo accetta e fa a meno di qualsiasi forma di mediazione critica per aderire all’idea che tutti abbia-mo su come sia fatto il nostro Bel Paese e noi stessi.

Non abbiamo ancora chiaro se tutto questo vuol dire la costituzione di una nuova “Commedia all’italiana” che affondi il suo obiettivo principale nella satira di costume, in una vera polemica comica e amara con i vizi dell’italiano; soprattutto perchè Zalone ci sembra solo, per ora, senza avere vicino alcun compagno di strada con cui condividere un’idea cine-matografica ben precisa (forse possiamo individuare una sua vicinanza ai toni surreali di Antonio Albanese ma niente di più).

D’altra parte quella “Commedia” era rappresentativa di una situazione socio-economica in salita, positiva del nostro Paese e che si spense man mano che la realtà assumeva uno sguardo sempre più duro e feroce nei confronti di una evoluzione/involuzione societaria dagli aspetti sempre più drammatici. Ora non abbiamo ancora un quadro completo e globale dove possano essere inseriti tutti gli elementi in grado di connotare l’Italia del terzo millennio; Checco Zalone ci ricorda

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chi siamo stati e chi in fondo, in maniera più occulta continuiamo a essere, in attesa di definirci in un nuovo e più chiaro spirito italico. Le sue battute sono fulminanti, la sua faccia tronfia, patetica, paternalistica, maliziosa e furba si deforma e si riaggiusta plasticamente a rappresentare, a livello

antropologico, una situazione di passaggio che ci chiede chi siamo per potere meglio prenderci in giro.

Ci accompagnerà ancora a lungo Checco Zalone, grande comico e grande conoscitore dei nostri anni che inesorabil-mente ci vorrà raccontare, ma senza farci

troppo male; fermi un momento: anche se il finale di Quo Vado? sembra prefigurare un futuro nel rinnovamento italico, sarà vero che non ci vuole, non ci vorrà fare troppo male?

Fabrizio Moresco

Stati Uniti, 2015

Regia: F. Gary GrayProduzione: Ice Club, Dr. Dre, Tomica Woods-Wright, Matt

Alvarez, F. Gary Gray, Scott Bernstein per Circle of Confu-sion, Cube Vision, Legendary Pictures

Distribuzione: Universal Pictures InternationalPrima: (Roma 1-10-2015; Milano 1-10-2015)Soggetto: S.Leigh Savidge, Alan Wenkus, Andrea Berloff Sceneggiatura: Jonathan Herman, Andrea BerloffDirettore della fotografia: Matthew LibatiqueMontaggio: Billy FoxMusiche: Joseph TrapaneseScenografia: Shane ValentinoCostumi: Kelli JonesEffetti: Image Engine DesignInterpreti: O’Shea Jackson Jr. (Ice Cube), Corey Hawkins

(Dr. Dre), Jason Mitchell (Eazy-E), Neil Brown Jr. (DJ Yella), Aldis Hodge (MC Ren), Paul Giamatti (Jerry Heller),

Alexandra Shipp (Kim Jackson), Carra Patterson (Tomica Woods-Wright), Elena Goode (Nicole Young), Keith Powers (Tyree Crayton), Lakeith Lee Stanfield (Snoop Dogg), Tate Ellington (Bryan Turner), Corey Reynolds (Lonzo Williams), R. Marcus Taylor (Suge Knight), Marlon Yates Jr. (The D.O.C), Sheldon A. Smith (Warren G.), Joshua Brockington (Warren G. ragazzino), Cleavon McClendon (Jinx), Aeriél Miranda (Lavetta), Lisa Renee Pitts (Verna), Angela Gibbs (Doris Jackson), Bruce Beatty (Hosie Jackson), Rogelio Douglas Jr. (Chuck D), F. Gary Gray (Greg Mack), Allen Maldonado (Tone), Demetrius Grosse (Rock), Og Blood (Michael ‘Compton Menace’ Taylor), Zee James (Tasha), Natascha Hopkins (Keisha), David L. Cox (Blood), Rickey Chaney (J-Dee), Jody Burke (Big Dude), Inny Clemons (Rauch), Asia’h Epperson (Felicia), Mark Sherman (Jimmy Lovine), Derrick L. McMillon (Ron Sweeney)

Durata: 150’

STRAIGHT OUTTA COMPTON(Straight Outta Compton)

C ompton 1986. Lo spacciatore del quartiere Eazy-e irrompe in una casa per vendere della

droga. Dr. Dre decide di lasciare casa e famiglia perché il suo desiderio è fare il dj mentre la madre vorrebbe che cercasse qualche impiego più remunerativo. Ice Cube è bravissimo a scrivere dei testi in rima mentre Eazy-e spesso rischia di essere arrestato per strada; Dr. Dre fa serate nei locali come il Doo-To’s Club, ma una sera viene messo in carcere (per una notte) e su cauzione dello spacciatore e amico Eazy-e viene rilasciato. Quest’ultimo continua a spacciare droga e propone a Dr. Dre di vendere dischi insieme perché in fondo, secondo loro, si tratta sempre di marketing. Una volta che i cinque ragazzacci ovvero Eazy-e, Dr. Dre, Ice Cube, Dj Yella e Mc Ren mettono in piedi un gruppo musicale e cominciano a produrre insieme dei brani, i loro testi vengono censurati. Un giorno Dr. Dre chiama dei rapper a registrare ma questi si rifiutano di cantare su alcuni brani perché non si sentono liberi di esprimersi; così viene chiesto a Eazy-e di provare a cantare e scoprono che il ragazzo ha un vero talento. Presto Eazy-e, nel magazzino dove stanno producendo i loro dischi, viene contattato da un manager. Jerry, questo il suo nome, ha già lavorato con altri gruppi

e si prenderà il 20% del gruppo se verrà ingaggiato; sarà lui a cercare la distribu-zione più adatta al gruppo e ad organizzare il tour. I cinque rapper fondano così i NWA, si fanno chiamare negri belli tosti (Niggaz With Attitude). Ci troviamo a Skateland nel 1986 e i NWA fanno in un locale un concerto, riscuotendo un grande succes-so. Inoltre viene offerto loro un contratto da un certo Bryan Turner per l’etichetta Priority Records; il loro prossimo passo è incidere una serie di brani per fare un cd, per questo passano tantissimo tempo in sala registrazione. Un giorno, arriva la moglie di Dr.Dre con la figlia piccola che si arrabbia con lui per avere un compor-tamento poco corretto nei loro confronti. Poco dopo arriva la polizia che cerca di arrestare i cinque giovani senza alcun motivo. A Los Angeles, nel 1989 parte il loro tour ma presto arriva loro una lettera di richiamo da parte dell’FBI per aver scritto una canzone contro le forze dell’or-dine. Intanto i contratti dei cinque artisti stentano ad arrivare e viene ucciso Tyree, il fratello di Dr. Dre. Al mega concerto, anche dopo essere stati minacciati dalle forze dell’ordine, cantano comunque il brano f*** the police. In seguito, Ice cube discute con Jerry perché non ha intenzione di stipulare un contratto senza una garan-

zia legale, non vuole firmare il “becoming legit”, atto di affrancarsi e ufficializzarsi e se ne va dal gruppo. Il manager però tenta di spiegargli che i contratti non potevano arrivare subito perché la società non era sua. In effetti Jerry li ha ingannati ma solo Eazy-e prende le distanze da lui e da tutto il gruppo. Poco tempo dopo, anche Dr. Dre si separa dal manager ingannatore e si sposta alla Death Row Records fondata insieme a Suge Knight (un poco di buono). Tra i vari talenti alla nuova casa discografica si presenta anche Snoop Dogg. Suge chia-ma Eazy-e per minacciarlo chiedendogli di svincolare il contratto che Dr. Dre ha con lui. Eazy-e viene picchiato da Suge e per questo vuole vendicarsi invece Jerry vorrebbe agire per via legale. Ad Ice Cube fanno un’intervista nella sua villa mentre in tv dilaga lo scandalo di alcuni poliziotti filmati mentre viene testimoniato il loro abuso di potere con il pestaggio di Rodney King. È il 1993 e la Ruthless Records non ha più finanziamenti da quando Dr. Dre è andato via: ormai nel gruppo sono rimasti in 3, Mc Ren, Eazy E e Dj Yella. Così men-tre Ice Cube prova a scrivere un romanzo, Eazy-e tenta di fare un accordo con la Sony. Dr. Dre si invaghisce di una ragazza conosciuta a una festa mondana, ma que-sta non se la sente di intraprendere una

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storia con lui per via delle sue accuse di aggressione e dei diversi guai con la Death Row Records. Un giorno, mentre in studio Dr. Dre sta facendo registrare Tupac, si sente del chiasso nella stanza adiacente; così il dj discute con gli altri della casa discografica, che si dimostra non essere seria e va via correndo con la macchina. Qualche giorno dopo Eazy-e va in un loca-le a parlare con Ice Cube che è d’accordo a rimettere in piedi il gruppo; aggiunge però che Eazy-e deve scegliere tra lui e Jerry. Grazie alla moglie contabile, il cantante degli NWA ha nuovamente la conferma che Jerry li ha ingannati; il manager sostiene di essersi preso cura di loro anche se, allo stesso tempo, ammette di aver guardato ai propri interessi. Così Eazy-e licenzia Jerry dalla Ruthless Records e poco dopo ha un malore, viene ricoverato e il medico lo avverte che ha contratto l’hiv. In ospedale gli danno sei mesi di vita, così il cantante passa gli ultimi tempi in terapia intensiva per poi morire. Poco dopo Dr. Dre lascia la Death Row Records, ritenendo che non si possa dare un prezzo alla creatività e si mette in proprio creando la Aftermath Entertainment.

C orreva l’anno 2002 quando uscì il film diretto da Curtis Hanson, 8 mile, ispirato alla storia vera del

rapper Eminem. Ecco, nel 2015 un nuovo film biografico sul mondo del gangsta-rap, che questa volta vede come protagonista Dr.Dre. I protagonisti delle due pellicole, ol-tre al condividere l’appartenenza al mondo hip hop, si sono realmente conosciuti: era il 1999 quando Dr.Dre scoprì Eminem. Se

in 8 mile ci si muoveva tra le strade buie di Detroit, nel film di F. Gary Gray (già regista di “The Italian Job”, “Be Cool” e “Giustizia privata”) è Compton, città-ghetto della Contea di Los Angeles, a essere prota-gonista. Un film ben girato e con un buon ritmo, nonostante la durata impegnativa della pellicola. Straight outta compton potrà concedersi il lusso di piacere anche a chi non è appassionato del genere rap, perché in fondo si tratta di una storia di vita, i cui protagonisti sono cinque ragazzi di un ghetto. Sarà invece un divertimento assoluto per i cultori del genere che ve-dranno comparire, tra un brano musicale e l’altro famoso nella storia del rap (Ain’t Nuthin’ But a G Thang, California Love, Boyz-N-the-Hood, etc.) anche delle icone del mondo hip hop, da Snoop Dog a 2pac, oltre ai cinque noti componenti dei NWA. Un biopic ben studiato che corre sulla sce-neggiatura di Jonathan Herman e Andrea Berloff e che si basa sugli studi e sulle interviste del documentarista musicale S. Leigh Savage; in questo sta il merito del regista, quello di aver voluto presentare, oltre al talento artistico dei cinque giovani, uno spaccato di vita interessante da un punto di vista sociologico. Straight outta compton, è il titolo dell’album di esordio del gruppo, ed è un film con una sua poesia, dalle immagini lente e da un bell’intreccio narrativo. Una bella fotografia tra cui rima-ne indelebile l’immagine dei due foulard di colore diverso intrecciati per mettere fine ai conflitti. Ciò che penalizza e banalizza la storia sono le incursioni della polizia un po’ esasperate e degli sbalzi temporali che, dal punto di vista del montaggio, fanno

perdere ogni riferimento allo spettatore. Molto coinvolgente la colonna sonora di Joseph Trapanese e bravissimi gli attori, da Jason Mitchell nei panni di Eazy-e a Paul Giamatti, nei panni del manager. Il figlio di Cube recita nei panni del padre e gli altri attori sono stati scelti attentamente per la loro somiglianza fisica ai componenti dei NWA. Determinante è stata certamente la partecipazione di Ice Cube, Dr. Dre e della vedova di Eazy-E, Tomica Woods Right, come produttori e MC Ren e Dj Yella come consulenti. Interessante la scelta di accom-pagnare i titoli di coda con le immagini dei personaggi reali della storia e delle future collaborazioni di Dr. Dre, come anche l’incipit, con il rumore di elicotteri e sirene della polizia che ci cala immediatamente nella storia. Una vicenda, quella dei NWA, che non può rimanere ghettizzata ma che racconta uno dei tanti episodi dell’umanità intera, in cui la stampa afferma che i can-tanti sono responsabili con i loro brani di esaltare la violenza, mentre questi contro-battono, dicendo di rispecchiare una realtà difficile da comprendere, in un mondo in cui per i cinque rapper “Dì una piccola verità e la gente perde la testa”. Il vissuto di questi rapper è una narrazione che parla a due frequenze: quelle di una musicalità piena di energia e di sensazioni, specialmente per i giovani, ma anche quella di chi vuole denunciare cosa succede nel proprio quar-tiere tra droga, delinquenza e abusi della polizia, insomma nella propria vita. Si tratta di quei “cattivi” ragazzi che non riescono a non starci simpatici.

Giulia Angelucci

Gran Bretagna,Stati Uniti, 2015

EVEREST(Everest)

Regia: Baltasar KormákurProduzione: Tim Bevan, Eric Fellner, Baltasar Kormákur, Nicky

Kentish Barnes, Brian Oliver, Tyler Thompson per Working Tittle in collaborazione con RVK Studios, Free State Pictres

Distribuzione: Universal Pictures InternationalPrima: (Roma 24-9-2015; Milano 24-9-2015)Soggetto: dal romanzo “Aria sottile” di Jon KrakauerSceneggiatura: William Nicholson, Simon BeaufoyDirettore della fotografia: Salvatore TotinoMontaggio: Mick AudsleyMusiche: Dario MarianelliScenografia: Gary FreemanCostumi: Guy SperanzaEffetti: Framestore, One Of UsInterpreti: Jason Clarke (Rob Hall), Josh Brolin (Beck

Weathers), John Hawkes (Doug Hansen), Robin Wright

(Peach Weathers), Michael Kelly (Jon Krakauer), Sam Worthington (Guy Cotter), Keira Knightley (Jan Arnold), Emily Watson (Helen Wilton), Jake Gyllenhaal (Scott Fischer), Clive Standen (Ed Viesturs), Elizabeth Debicki (Dott.ssa Caroline Mackenzie), Vanessa Kirby (Sandy Hill Pittman), Mia Goth (Meg), Martin Henderson (Andy Harris), Tom Goodman-Hill (Neal Beidleman), Naoko Mori (Yasuko Namba), Thomas M. Wright (Mike Groom), Mark Derwin (Lou Kasischke), Micah A. Hauptman (David Breashears), Ingvar E. Sigurðsson (Anatoli Boukreev), Demetri Goritsas (Stuart Hutchison), Todd Boyce (Frank Fischbeck), Chris Reilly (Klev Schoening), Charlotte Bøving (Lene Gammelgaard), Chike Chan (Makalu Gau), George Taylor (David Schensted), Amy Shindler (Charlotte Fox), Vijay Lama (Colonnello Madan), Simon Harrison (Tim Madsen)

Durata: 121’

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L ’ Adventure Consultants orga-nizza periodicamente spedizioni sull’Everest. Questa volta a

intraprendere l’impresa sono circa 15 persone di varia estrazione e provenienza e a guidarli è l’alpinista neozelandese Rob Hall, che lascia a casa la moglie Jan, incin-ta di una bambina. La spedizione prende il via in maniera difficoltosa dopo che Rob si è accordato con Scott Fischer, capo delle spedizioni della Mountain madness, su uno stile di scalata assai diverso. Dopo un piccolo scontro iniziale, Rob confessa e si scusa con il collega di aver preso con sé per la spedizione il giornalista Jon Krakauer. I due tentano di organizzarsi e di mettersi d’accordo per le spedizioni, ma è compli-cato perché il campo base è diventato una affollatissima meta commerciale, fatto che porterà a dei ritardi nella marcia. Alcuni scalatori della Adventure Consultants vanno con Rob, altri con Scott. Qualcuno accusa dei malori durante il tragitto e viene trasportato da un elicottero e, alla fine, la maggior parte dei partecipanti riesce, dopo giorni di grande fatica, a toccare la vetta. Nella discesa si rendono conto che le bombole ad ossigeno non sono piene, uno dei clienti, Beck, non vede più bene e aspetta che scenda la guida Rob. Intanto Doug arriva in ritardo, è vicino alla meta e Hall lo riaccompagna in cima per coronare il suo sogno. Ma una bufera è in arrivo. Quattro scalatori tornano alla base. Doug è esausto e si addormenta con Rob; durante la notte, mentre la guida va a cercare le bombole, questo si sgancia e si butta di sotto. Intanto torna su da Rob anche un altro scalatore che cadrà poco dopo. Nel frattempo il resto della squadra si è perso e morirà nel tragitto. Hall viene messo in contatto telefonico con la moglie, ma sta perdendo le forze. Fatale sarà il destino delle due guide Scott e di Rob. A salvarsi per un miracolo è Beck che perde l’uso delle mani e del naso.

“L ’esperienza è puro dolo-re”; questa la frase cult della vicenda che vede protagonisti alcuni sca-

latori dell’Adventure Consultants, prota-gonisti di Everest di Baltasar Kormákur. Film d’apertura alla 72esima Mostra del Cinema di Venezia, Everest parla di una storia vera, ambientata sulle pendici dell’Himalaya nel 1996, costata la vita a otto persone e raccontata dal giornalista Jon Krakauer nel 1997 nel saggio Aria sottile (Into Thin Air). Come ogni disaster movie che si rispetti, anche qui a farla da padrone sono le inquadrature mozzafiato e la magniloquenza scenografica, che impreziosiscono la drammatica vicenda. Nato in Islanda, dove la natura è dilagante e potente, Kormákur mostra anche in questa pellicola la sua disinvoltura con ghiacci e bufere, una familiarità che gli ha permesso di muoversi con agio anche in set posti ad alta quota (le riprese sono state fatte in Nepal, negli Studios di Cine-città, sulle Alpi e nei Pinewood Studios). I personaggi protagonisti della vicenda sono tantissimi e forse sarebbe stato meglio dare più spessore e personalità almeno ad alcuni, soprattutto a quelli fem-minili. Un film girato in maniera classica, senza fronzoli e che lascia trasparire la maestosità e la pericolosità della natura dove, in particolare nella famosa zona della morte, a una temperatura rigida si unisce la mancanza di ossigeno. In que-sta pellicola dalla crescente suspence e dalla mancata retorica, si staglia la figura cristica della guida Rob Hall (interpretato da Jason Clarke) che si contrappone a quella stravagante e trasgressiva di Jake Gyllenhaal, nei panni di Scott Fischer. Ottima la fotografia e il montaggio in Eve-rest, che oltre al rappresentare una natura maestosa, evidenzia quell’agire dell’uomo in una società in cui non sembrano esserci limiti (It’s not the altitude but the attitude

dice la guida Scott Fischer). Nessun limite per i numerosi accampamenti commerciali alle pendici del monte più alto del mondo come anche per chi, mosso dalle diverse frustrazioni lasciate a casa, viene per sfidare se stesso oltre alla montagna. Gli scalatori che stanno per intraprendere questa avventura sono poi accomunati da una domanda a cui non sanno dare risposta: perché farlo?. Una riflessione va in particolare al personaggio di Drug che ha voluto a tutti i costi salire in cima senza avere i tempi adatti a farlo, sempre per amor proprio, mettendo a repentaglio anche la vita della sua guida. Così è nella lotta per la sopravvivenza si riscoprono i valori veri, l’amicizia, l’amore per la famiglia, ma, soprattutto, per il prossimo. Dinanzi all’accettazione di una natura a volte matrigna, come direbbe Leopardi, si affianca però la stoltezza umana; il regista, infatti, sembra suggerire una critica contro la commercializzazione turi-stica dell’Everest, a cui possono accedere anche coloro che non sono preparati fisi-camente e psicologicamente alla scalata. Le spedizioni sono aperte a tutti (se puoi pagare 65 mila dollari) e, dopo 40 giorni di allenamento ai piedi della montagna, sei pronto a salire in cima. Ma è sufficiente questo per affrontare un’esperienza così impegnativa? E poi come accade spesso nella vita, il momento peggiore arriva ina-spettatamente: non è tanto nella faticosa salita che gli scalatori perdono la vita, ma nel tornare indietro, una volta che la meta è stata raggiunta. E anche qui colui che inizia la sua avventura con arroganza, ovvero il texano Beck e che ammette di aver paura, è l’unico che sopravvive. Così riflettiamo sul potere a volte salvifico di questo istinto atavico e di come, paradossalmente, sia la nostra debolezza e la umanità a farci vincere le sfide.

Giulia Angelucci

Francia, 2015Regia: Olivier MegatonProduzione: Luc Besson, Michael Mandaville per Canal+,

Europacorp, M6 FilmsDistribuzione: 20th Century FoxPrima: (Roma 11-2-2015; Milano 11-2-2015)Soggetto e Sceneggiatura: Robert Mark Kamen, Luc BessonDirettore della fotografia: Eric KressMusiche: Nathaniel MéchalyScenografia: Sébastien InizanCostumi: Olivier Bériot

Interpreti: Liam Neeson (Bryan Mills), Maggie Grace (Kim), Famke Janssen (Lenore), Forest Whitaker (Franck Dotzler), Dougray Scott (Stuart St John), Jon Gries (Casey), Leland Orser (Sam), Sam Spruell (Oleg Malankov), Jonny Weston (Jimy), Andrew Howard (Maxim), Dylan Bruno (Smith), Judi Beecher (Claire), Al Sapienza (Detective Johnson), Don Harvey (Garcia), Alexander Wraith (Agente Goodman), Philip J Silvera (Agente Ramsey), Andrew Borba (Clarence), John Manison (Bart), Derrick Worsley (Agente Edwards), Dale Liner (Agente Bernard)

Durata: 109’

TAKEN 3 – L’ORA DELLA VERITÀ(Taken 3)

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O leg Malakov una sera manda i suoi scagnozzi, guidati da Maxim, a prelevare a casa

Clarence, il contabile di una grande azienda il cui direttore ha dei debiti con il capo russo. Trovando la cassaforte vuota, Maxim uccide Clarence. Intanto la figlia dell’ex agente Bryan Mills è cresciuta e aspetta dal fidanzato Jimy un bimbo. Bryan è ancora attratto da Lenore, la ex moglie anche lei di nuovo sentimentalmente coinvolta, che si trova in piena crisi coniugale con l’attuale marito Stuart. Quest’ultimo sta per andare a Las Vegas per lavoro e, il giorno prima, va da Bryan chiedendogli di non vedere più la moglie, perché questo influirebbe sul re-cupero del loro rapporto. Il giorno dopo, Lenore scrive all’ex marito per vedersi da lui. Bryan, dopo averle comprato delle ciambelle, torna a casa e la trova morta. Irrompe la polizia e l’ex agente si ritrova a essere il primo sospettato. Così si dà alla fuga. Intanto il commissario Franck Dotzler, che sta conducendo le indagini sulla morte della donna, considera fino all’ultimo, Mills in cima ai sospetti. A dare la caccia all’ex agente Cia sono anche gli uomini di Malakov e Stuart. Dopo vari inseguimenti Bryan mette in salvo la figlia Kim e fa confessare Stuart. Questo aveva contratto dei debiti con Malakov che non riusciva a estinguere e, nell’accordo che aveva stabilito, c’era la messa in gioco di Lenore. Così Bryan chiede a Stuart di portarlo da Malakov. Dopo essere entrati nell’attico del capo russo, Mills lo uccide una volta che questo gli confessa di essere

stati ingannati dallo stesso uomo: Stuart infatti sapeva che Mills si sarebbe vendi-cato e così, una volta che Bryan è lontano dalla figlia, uccide Sam, il fido informatico dell’ex agente, rapisce la figlia e la porta sopra un aereo privato. È Kim a scoprire che il traditore è Stuart perché si accorge che i messaggi mandati alla madre Lenore sono partiti dal cellulare del padre ma non li ha inviati lui. Mills riesce così ad arrivare in tempo per salvare la figlia e darle di santa ragione al traditore. Con-tinuerà a prendersi cura dell’amata Kim, del fidanzato e del bambino in arrivo.

Q uello che pare sia l’ultimo episo-dio della trilogia Taken prodotta da Luc Besson e interpretata

dall’attore inglese Liam Neeson convince parzialmente, meno convincente del primo della trilogia, targato Pierre Morel e più del secondo episodio sempre di Olivier Megaton. Ambientato a Los Angeles, il film mantiene costanti e sempre validi gli stereotipi dei film d’azione rinunciando a rapimenti e intimidazioni telefoniche, ma adottando il villain sovietico, come anche nel recente John Wick, e conservando gli elementi base dei primi due episodi; ad esempio, come nel resto della trilogia, c’è il 90% dei combattimenti che Bryan fa a mani nude anche non essendo più giovanissimo. Il nuovo action thriller, tra i numerosi e interminabili inseguimenti, riesce comunque a intrattenere e a tenere alta l’attenzione del pubblico. Un ritmo però a volte esagerato e che crea confusione quello creato dalla camera adrenalinica di

Megaton e al montaggio frenetico di Au-drey Simonaud e Nicolas Trembasiewicz, pensato da Megaton, ne scandisce il ritmo: infatti è interessante il numero di tagli per scena che va a scomporre in vari punti di vista le azioni più comuni. Forse dal punto di vista del montaggio si potevano mettere più collegamenti con la scena iniziale e non lasciar passare così tempo per svelare gli intrecci, rischiando di far perdere memoria di quella scena. Alcuni doppiatori sono pessimi, sarebbe da verificare se funziona di più la versione in lingua originale. Diver-tente Forest Whitaker, ossessionato dagli elastici (carina la sua battuta-intuizione sulle ciambelle), nei panni del sergente Dotzler che indaga sulla vicenda; l’attore ha ancora quell’espressione simpatica già apprezzata quasi trent’anni fa in Good morning Vietnam accanto a Robin Wil-liams. L’intero cast funziona abbastanza, ma Liam Neeson si riconferma il mattatore della scena. Fuori dalle righe e originale la scena nel bagno dell’università in cui Kim confessa al padre di essere incinta, mentre la polizia gli sta alle calcagna. Padre e figlia vogliono far luce sulla verità cercando di vendicare la memoria di Lenore. Il loro rapporto è molto forte e intenso, cosa che dalla pellicola traspare molto bene. Questo terzo episodio scritto da Kamen e Besson è caratterizzato da una doppia caccia all’uomo e in una graduale scoperta dal sapore giallo. Una formula più sentimenta-le rispetto ai precedenti che però si perde banalmente sul finale.

Giulia Angelucci

Stati Uniti, Gran Bretagna, 2015

SPECTRE(Spectre)

Regia: Sam MendesProduzione: Eon Productions, MGM, Columbia Pictures,

Danjaq, Wielka BrytaniaDistribuzione: Universal Pictures InternationalPrima: (Roma 5-11-2015; Milano 5-11-2015)Soggetto: dai personaggi creati da Ian Fleming, John Logan,

Neal Purvis, Robert WadeSceneggiatura: John Logan, Neal Purvis, Robert Wade, Jez

ButterworthDirettore della fotografia: Hoyte Van HoytemaMontaggio: Lee SmithMusiche: Thomas Newman, la canzone “Writing’s on the Wall”

è cantata da Sam SmithScenografia: Dennis Gassner

Costumi: Jany TemimeEffetti: Chris Corbould, Steven Begg, Jonathan Knight, Dou-

ble NegativeInterpreti: Daniel Craig (James Bond), Christoph Waltz

(Oberhauser), Léa Seydoux (Madeleine Swann), Ben Whishaw (Q), Naomie Harris (Moneypenny), Ralph Fiennes (M), Dave Bautista (Hinx), Monica Bellucci (Lucia), Andrew Scott (Max Denbeigh/C), Rory Kinnear (Tanner), Jesper Christensen (Mr. White), Stephanie Sigman (Estrella), Alessandro Cremona (Marco Sciarra), Domenico Fortunato (Gallo), Marc Zinga (Moreau), Brigitte Millar (Vogel), Adel Bencherif (Abrika), Peppe Lanzetta (Lorenzo), Francesco Arca (Francesco), Matteo Taranto (Marco)

Durata: 148’

C ittà del Messico. Seguendo le indicazioni contenute in un messaggio postumo del prece-

dente M, James Bond si trova nella capitale messicana dove, durante la processione per il Giorno dei Morti, uccide Marco

Sciarra, membro di un’ignota organizza-zione criminale che stava pianificando un attentato. Bond prende l’anello dell’uomo

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e torna a Londra, dove il nuovo M, Gareth Mallory, lo sospende per aver agito senza autorizzazione, causando un incidente diplomatico. Subito dopo, M incontra il nuovo capo dei servizi segreti congiunti, Max Debingh (nome in codice C), che lo informa di voler unire i servizi segreti di tutto il mondo e le loro conoscenze per sospendere l’ormai obsoleto programma ‘doppio zero’. Debingh vorrebbe far appro-vare il programma Nove Occhi, che però non riesce mai a raggiungere l’unanimità dei voti; M è scettico su questo progetto. Sempre seguendo le ultime volontà dell’ex-M, Bond si reca segretamente a Roma al funerale di Sciarra, dove conosce la vedova dell’uomo, Lucia. Dopo averla sedotta, riesce a infiltrarsi nella riunione dell’orga-nizzazione di cui il marito faceva parte, ma viene scoperto dal capo di questa, Franz Oberhauser, una figura legata al passato di Bond. 007 scopre che l’organizzazione gestisce molti traffici illegali ed è collegata a diversi attentati; poi fugge.

Bond si mette alla ricerca di un uomo che l’organizzazione di Oberhauser vuole eliminare e scopre che si tratta del suo vecchio nemico Mr. White. L’agente lo rintraccia in un isolato chalet sulle Alpi austriache, dove White, ormai morente per un avvelenamento da tallio, si sta nascondendo. Prima di suicidarsi, l’uomo fa promettere dall’agente che proteggerà sua figlia, Madeleine Swann: in cambio la donna condurrà Bond a ‘L’Americain’, che potrebbe condurre James a Oberhauser.

007 si reca nella clinica sulle Alpi dove Madeleine lavora come psicologa: lì viene raggiunto anche da Q, a cui con-segna l’anello dell’organizzazione. Dopo aver salvato Madeleine dagli uomini di Oberhauser, Bond viene aggiornato da Q: all’organizzazione, chiamata Spectre, erano in qualche modo collegate anche vecchie nemesi dell’agente 007 come Le Chiffre, Dominic Greene, Mr. White e Ra-oul Silva, tutti collegati tra loro da Franz Oberhauser, che ufficialmente risulta morto vent’anni prima in una valanga insieme al padre. Dopo un attentato della Spectre a Città del Capo, anche il governo sudafri-cano decide di aderire al programma Nove Occhi, che viene approvato all’unanimità. Intanto Madeleine e James si recano a Tan-geri, in Marocco, e, in una vecchia stanza di un albergo (chiamato L’Americain) che in passato White affittava per la sua fami-glia, trovano una mappa che li conduce in mezzo al deserto. Lì vengono raggiunti da un autista che li conduce alla base della Spectre. Qui, si scopre che Oberhauser agi-sce con C e che ha organizzato gli attentati ai danni degli stati contrari ad approvare

il programma Nove Occhi, finanziato e progettato da Oberhauser stesso, perché questo potesse essere approvato.

Oberhauser imprigiona Bond e Ma-deleine e rivela la sua identità: è il figlio dell’uomo che aveva cresciuto Bond dopo che era rimasto orfano. Invidioso delle attenzioni del padre per il giovane James, uccise il genitore e si finse morto, entrando nel mondo del crimine come Ernst Blofeld. L’uomo si prefisse lo scopo di diventare “l’artefice delle sofferenze” di Bond: molti dei lutti che l’agente segreto ha dovuto patire sono stati orchestrati da Blofeld e dalla Spectre. Blofeld tenta di praticare una lobotomia a Bond (per comprometter-gli la capacità di riconoscere le persone a cui tiene), ma 007 si libera e apparente-mente lo uccide con un orologio-bomba, fuggendo con Madeleine dalla base, che subito dopo esplode. Tornato a Londra, Bond, assieme a M e Moneypenny, cerca di fermare Debingh e il lancio dei Nove Occhi, che darebbe potere illimitato alla Spectre. Mentre il gruppo di M si introduce nella sede di C, Bond viene catturato e condotto nella ex sede del MI6 davanti a Blofeld, sfigurato ma vivo. Blofeld propone a Bond una scelta: morire per salvare Ma-deleine, intrappolata nell’edificio che verrà distrutto dall’esplosivo piazzato dalla Spectre, o fuggire e sopravvivere, vivendo con il rimorso di non aver salvato la donna.

Intanto Q riesce a fermare l’attivazione del programma Nove Occhi dal computer centrale, mentre Debingh muore dopo una colluttazione con M. James riesce a salva-re Madeline e insegue con un motoscafo Blofeld che sta fuggendo su un elicottero. Bond riesce ad abbattere l’elicottero. Poi, preferisce non uccidere il criminale e consegnarlo a M.

Tempo dopo, James si presenta da Q per ritirare la sua storica Aston Martin DB5 coupé, e con questa parte da Londra insieme a Madeleine.

“I morti sono vivi”. Su questa fulminante affermazione si apre Spectre, capitolo nume-ro ventiquattro dell’immortale

saga dedicata all’agente segreto ‘doppio zero’ più famoso del mondo.

La morte aleggia per tutta la bellissima sequenza iniziale del film, girata nel pieno di un corteo per il Giorno dei Morti a Città del Messico. E quella frase iniziale acqui-sta un senso sempre più ampio durante tutta la pellicola.

Dopo l’incipit nella metropoli messi-cana, come ormai d’abitudine, ecco la sequenza dei titoli di testa accompagnati dal bel brano “Writing’s on the Wall” di Sam Smith. Immagini liquide e sinuose, fotografia dai toni del giallo e dell’oro, ri-chiami al mondo dell’aldilà, ai morti che… sono vivi, appunto.

Già nel precedente Skyfall Sam Men-des aveva mostrato morte e resurrezione di un mito, fino a far scendere Bond nei meandri oscuri dei ricordi della sua in-fanzia. Questa volta il regista da di più, rispolverando il passato del suo agente, fin dal titolo, Spectre. Ed ecco le Aston Martin, il Vodka Martini, lo smoking bianco, i viaggi su treni dall’atmosfera retrò.

Nello spettacolare incipit, indossando una maschera da teschio e con uno sche-letro disegnato sul retro del suo elegante abito scuro, Bond sfila per le strade della capitale messicana per poi salire su un tetto e uccidere un terrorista italiano legato alla Specre, misteriosa organizzazione criminale. Ma questa azzardata iniziativa

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mette 007 in cattiva luce agli occhi del nuo-vo M, Gareth Mallory ma soprattutto di Max Denbigh, membro del governo britannico che vuole innovare l’MI6 eliminando i vec-chi agenti ‘doppio zero’ per usare nuove tecnologie “multi-occhi” per controllare il globo. Sollevato dai suoi incarichi ufficiali, Bond continua la sua indagine da solo. E così 007 capisce che dietro alla nuova strategia mondiale del terrore c’è proprio la Spectre e suo capo, il sadico Franz Oberhauser.

È proprio qui, nel villain di turno, la chiave di lettura del nuovo James Bond e insieme il legame col precedente Skyfall. Questo nuovo capitolo, Spectre, continua infatti lo scavo nel passato dell’agente 007: un uomo (prima che un agente) sempre più pensoso, malinconico, sofferente di un forte disagio interiore. Ed ecco ancora i misteri del passato di eredità paterne tutte da stanare, ecco un eroe dalla psicologia ancora da sondare. E ancora, ecco la lotta tra ‘antico’ e ‘moderno’, tra vecchi e nuovi metodi, tra gli agenti ‘sul campo’ e nuovi occhi ipertecnologici, in tempi di eccessi da voyeurismi informatici.

E tra passato e presente, (soprav)vive il moderno James Bond del sempre più convincente Daniel Craig (alla sua quarta volta nei panni di 007), un uomo capace di fronteggiare i fantasmi del passato, il dolore delle perdite (la Vesper Lynd di Casino Royale prima di tutto) e di maturare anche nel suo rapporto con le donne, non più mero oggetto di piacere, ma presenza decisiva che spinge a compiere scelte controcorrente (ancora vita e morte).

Il nuovo 007 di Mendes è (anche) un’analisi psicoanalitica di un personaggio dalla grande interiorità e dall’irrisolto pas-sato. Spectre è quindi un film complesso, stratificato, ricco di simboli, ma anche un blockbuster rutilante, divertente, senza un attimo di tregua. Solo un maestro come Sam Mendes poteva riuscire ancora una volta a tenere il timone della nave, unendo ‘alto’ e ‘basso’, citazioni cinefile e sequenze adrenaliniche, introspezione ed evasione, riflessione e spettacolo.

Merito anche e soprattutto di Daniel Craig, attore capace di unire sex appeal e umana sofferenza, questa volta senza mostrare mai i suoi famosi bicipiti ma

indossando elegantemente tanto uno smoking quanto un piumino da neve. Convincenti gli interpreti dei personaggi di contorno, dai già noti Ralph Fiennes (M), Ben Whisahw (Q) e Naomie Harris (Moneypenny), fino al nuovo ‘cattivo’ cui Christoph Waltz offre il volto.

Perfetta la scelta delle due presenze femminili, emblemi di due generazioni e di due tipi di bellezza, la bruna e mediter-ranea ‘Bond Lady’ Monica Bellucci e la bionda francese ‘Bond Girl’ Léa Seydoux.

Il nuovo 007 di Spectre riesce a essere un omaggio a un pezzo di storia del cinema (oggetti vintage compresi) e allo stesso tempo a guardare avanti (si, anche se al posto del classico Vodka Martini por-tano a Bond un centrifugato di verdure), a un futuro incerto, chiudendo un’ideale quadrilogia (quella interpretata da Craig) incentrata sullo ‘spettro’ della morte e su un eroe più umano alle prese coi fantasmi della sua vita.

Cosa chiedere di più alla rifondazione di un mito?

Elena Bartoni

Stati Uniti, 2014

LA REGOLA DEL GIOCO(Kill the Messenger)

Regia: Michael CuestaProduzione: Scott Stuber, Naomi Despres, Jeremy Renner

per Bluegrass Films, The CombineDistribuzione: BimPrima: (Roma 18-6-2015; Milano 18-6-2015)Soggetto: dai libri “Dark Alliance: The CIA, the Contras,

and the Crack Cocaine Explosion” di Gary Webb e “Kill the Messenger: How the CIA’s Crack-Cocaine Centroversy Destroyed Journalist Gary Webb” di Nick Scou

Sceneggiatura: Peter LandesmanDirettore della fotografia: Sean BobbittMontaggio: Brian A. KatesMusiche: Nathan JohnsonScenografia: John PainoCostumi: Kimberly Adams-Galligan

Effetti: Wayne Beauchamp, Dan Seddon, Method StudiosInterpreti: Jeremy Renner (Gary Webb), Rosemarie DeWitt

(Sue Webb), Ray Liotta (John Cullen),Tim Blake Nelson (Alan Fenster), Barry Pepper (Russell Dodson), Oliver Platt (Jerry Ceppos), Michael Sheen (Fred Weil), Paz Vega (Coral Baca), Michael Kenneth Williams (Ricky Ross), Mary Elizabeth Winstead (Anna Simons), Lucas Hedges (Ian Webb),Andy Garcia (Norwin Meneses), Robert Patrick (Ronald J. Quail), Ted Huckabee (Bob), Matthew Lintz (Eric Webb), Parker Douglas (Christine Webb), Josh Close (Rich Kline), Aaron Farb (Rafael Cornejo), Yul Vázquez (Danilo Blandon), Brett Rice (Hansjorg Baier), Kenny Alfonso (Marc Mansfield), Dan Futterman (Leo Wolinsky), Richard Schiff (Richard Zuckerman), David Lee Garver (Doug Farah), Michael H. Cole (Pete)

Durata: 111’

C alifornia 1996. Gary Webb è un giornalista del San Jose Mercury News. Ha una moglie, tre figli

Christine, Eric e Ian e si sta occupando della confisca dei beni agli imputati di nar-cotraffico. Un giorno, per caso, si imbatte in Coral Baca, l’avvenente compagna di Rafael Cornejo, un boss del narcotraffico, che lo contatta per una storia di droga: si parla di quattro tonnellate di cocaina venduta al governo americano. La donna inoltre è in possesso di una trascrizione del Gran Giurì che rivela un collegamento tra

i servizi segreti statunitensi e il traffico di cocaina proveniente dal Sudamerica. Con questa documentazione in mano il gior-nalista parla con Alan Fenster, l’avvocato del detenuto, il re del crack di Los Angeles Ricky Ross, con il quale va ad ispezionare la periferia. Dopo aver parlato in bagno con il procuratore Russell Dodson, facen-dogli presente di essere informato sullo scandalo che coinvolge la CIA, Cornejo viene liberato. Un altro imputato Danilo Blandon durante il processo dichiara che la Cia aveva preso questo tipo di loschi

accordi per finanziare i ribelli contras in Nicaragua. A Webb viene fatto il nome di Norwin Menes, un ex narcotrafficante ora detenuto in carcere in Nicaragua. Così il giornalista decide di intraprendere questo pericoloso viaggio per ottenere delle infor-mazioni chiave da Menes. In sintesi, Webb scopre che per contrastare l’avanzata co-munista del Centro America, la Cia voleva combattere una guerra che il Congresso non voleva. Anna Simons, la sua capo re-dattrice è entusiasta di questo importante lavoro d’inchiesta e insieme decidono di

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far uscire il pezzo. Ma, poco dopo, il gior-nalista viene chiamato dalle altre grandi testate prima interessate allo scoop e poi intenzionate a screditarlo. In questo pro-cesso di diffamazione Gary Webb finisce con l’essere considerato un giornalista poco attendibile e disinformato. Poco tem-po prima l’aveva messo in guardia anche Fred Weil ai vertici della CIA durante un loro colloquio. Dopo qualche attentato alla sua serenità familiare, il giornalista decide di andare da solo a vivere tempo-raneamente in un residence. Nella notte, viene a fargli visita John Cullen, anche lui implicato nello scandalo Cia, che apprezza il suo lavoro di investigazione. Intanto le cose cominciano a farsi complicate in re-dazione e Webb è costretto a lasciare il suo giornale; un mese dopo, il capo della Cia è costretto a dimettersi. Questo caso ha fatto sì che iniziasse un dialogo tra gli americani e i cittadini del Nicaragua. Venne scritto un report di 400 pagine che non venne mai a galla perché uscì in coincidenza con lo scandalo Clinton-Lewinsky. Gary Webb, sette anni dopo le sue dimissioni dal San Jose Mercury News, fu trovato morto.

L a regola del gioco fa parte di quel cinema di denuncia della New Hol-lywood, basato su una storia vera

e che si muove tra Dark Alliance, resoconto dello stesso Gary Webb e Kill the Messenger, biografia di Gary, scritto da Nick Shou. Con un taglio tra il giornalistico e il televisivo, il regista Michael Cuesta (Six Feet Under, Homeland) gira questo biopic ambientandolo negli anni Ottanta quando il regime sandinista nica-raguense era sotto la presidenza Reagan. Jeremy Renner è coproduttore e protagoni-sta del film con una intensa interpretazione, anche se sarebbe stata migliore con una scelta di doppiaggio diversa. Il suo personag-gio è molto credibile sia nel ruolo di marito e padre di famiglia, sia nell’ambito professio-nale ed è caratterizzato allo stesso tempo da scaltrezza e candore. Il protagonista non è presentato come un eroe tant’è vero che la moglie Sue (Rosemarie DeWitt) è preoccu-pata che il marito torni a tradirla nuovamente. Insieme a lui nel cast dei grandi Andy Garcia, Oliver Platt, Paz Vega e Ray Liotta. L’ uso dei video tratti dalla storia reale a inizio e alla fine del film arricchisce il racconto portato avanti con grande professionalità e che si fa

seguire con interesse. Tra indagine di inchie-sta e dramma privato ricorda molto Insider di Michael Mann, come anche il classico Tutti gli uomini del Presidente e i film di denuncia americani anni ‘70. Non mancano momenti di tensione genuina. Ma è nella sobrietà della narrazione che sta la sua forza, con una colonna sonora buona e una bella fotografia. La regola del gioco nel giornalismo, sembra suggerire il regista, è il dire la verità ma fino a quando gli scandali non coinvolgono i piani alti. Tra il reportage/spy movie/poliziesco Cuesta decide in maniera intelligente di non modificare il racconto alla base della pellico-la. Non ci sono pacchiane scene d’azione o di sesso e il tutto è reso molto realistica-mente. L’unico elemento a non convinvere è il finale, sul quale viene il dubbio che sia stato intenzionalmente lasciato incompleto. È vero che si tratta di una storia buia ma sarebbe anche importante raccontare, sia pure a livello di fiction, uno scandalo così importante per la politica estera. Un uomo che indaga su un affare più grande di lui, una Dark alliance. Questo è sicuro.

Giulia Angelucci

Stati Uniti,Gran Bretagna, 2015

Regia: Bill CondonProduzione: Archer Film, See-Saw Films, Ai Film, BBC Films,

in associazione con Filmnation EntertainmentDistribuzione: VideaPrima: (Roma 19-11-2015; Milano 19-11-2015)Soggetto: dai personaggi di Arthur Conan Doyle e dal roman-

zo “Un impercettibile trucco della mente” di Mitch Cullin Sceneggiatura: Jeffrey HatcherDirettore della fotografia: Tobias A. SchliesslerMontaggio: Virginia KatzMusiche: Carter BurwellScenografia: Martin ChildsCostumi: Keith Madden

Effetti: Neal Champion, John BairInterpreti: Ian McKellen (Sherlock Holmes), Laura Linney

(Sig.ra Munro), Hiroyuki Sanada (Tamiki Umezaki), Hattie Morahan (Ann Kelmot), Patrick Kennedy (Thomas Kelmot), Roger Allam (Dott. Barrie), Frances de la Tour (Madame Schirmer), Philip Davis (Ispettore Gilbert), Milo Parker (Roger), Nicholas Rowe (Giovane Sherlock Holmes), Spike White (Joe Gilbert), Siobhan McSweeney (Una Gilbert), John Sessions (Mycroft Holmes), Charles Maddox (Oswald), Colin Starkey (Dott. John Watson), Sarah Crowden (Sig.ra Hudson), Takako Akashi (Maya), Zak Shukor (Matsuda Umezaki)

Durata: 104’

MR. HOLMES – IL MISTERO DEL CASO IRRISOLTO(Mr. Holmes)

M r. Holmes è di ritorno dal Giappone e, ormai novanten-ne, torna per ritirarsi nella

sua abitazione nel Sussex. Lì la signora Munro, sua governante, e il figlio Roger si prendono cura dell’anziano detective. Dedito all’attività di apicoltore, Holmes ha un altro affare a cui dedicarsi durante il giorno: terminare il suo ultimo caso lasciato incompiuto dopo che Watson si è sposato. Questo ormai è morto e il suo romanzo sembra finire in maniera poco realistica; qualcosa non torna all’anziano detective, ma il suo vero problema è che,

per demenza senile, sta perdendo la memo-ria. Anni addietro un uomo, tale Thomas Kelmot, aveva chiesto l’aiuto di Holmes per investigare sulla moglie Ann Kelmot: questa aveva perso durante il parto i suoi due figli e da allora era impazzita. Il marito sospettava per una cattiva influenza su Ann della misteriosa figura dell’insegnante di musica della moglie, Madame Schirmer. Così il detective aveva cominciato a se-guire la donna e tutti gli indizi sembravano condurre a un tentato omicidio del marito. Nel frattempo Tamiki Umezaki, un cliente di Holmes, dal Giappone gli aveva chiesto

di far chiarezza sul suo passato e sul suo rapporto con il padre. Intanto tra Holmes e Roger si instaura una bella amicizia, l’an-ziano apprezza la curiosità e l’intelligenza del ragazzo che, oltre a leggere tutti i suoi scritti, lo aiuta con le arnie. Così, grazie al ragazzo e all’aiuto del pepe nero, sostanza utile per la memoria, Holmes riesce in un secondo momento a ricordare di aver avuto un colloquio con la signora Kelmot che gli aveva confessato di volersi togliere la vita. La donna aveva cercato la sua compren-sione e di contro aveva ricevuto un rifiuto dal detective che l’aveva consigliata di

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tornare dal marito. La donna quindi si era suicidata e per questo Holmes si era ritirato dal caso. Intanto la signora Munro vorrebbe condurre una nuova vita e accetta di lavorare in un hotel a Portsmouth; ma questa scelta non viene approvata dal ragazzo che comincia ad avere tensioni con la madre. Un giorno, Roger rischia la vita perché viene punto dalle vespe ma poi viene ricoverato in ospedale e si ri-prende. Holmes chiede alla governante di non lasciare la sua magione che andrà in eredità a lei e a suo figlio una volta che lui non ci sarà più. Alla fine Holmes realizza che gli espedienti romanzati del suo ultimo caso erano un modo di tutelare Mr.Kelmot; scrive quindi anche al signor Umezaki, confessandogli che suo padre aveva scel-to di lavorare segretamente per l’impero britannico. Holmes decide così di emulare una tradizione vista a Hiroshima di creare un cerchio di pietre dove poter ricordare le persone amate che non ci sono più.

D al romanzo A slight trick of the mind di Mitch Cullin, il regista di The Twilight Saga: Breaking

Dawn - Parte 1 e 2 e Il quinto potere, tenta di offrire al pubblico uno Sherlock Holmes diverso rispetto a quello di Guy Ritchie. Un Holmes ormai anziano che si trova al dover fare un bilancio della sua vita e che si confronta con il suo personaggio letterario. Così un fenomenale Ian McKellen colla-bora per la seconda volta dopo Demoni e dei (1998) con Bill Condon. Un grande protagonista contornato da volti noti: da Laura Linney (Il diario di una tata) a Milo

Parker (Love actually-l’amore davvero) o a Frances de la tour (Harry Potter e il calice di fuoco-Harry Potter e i doni della morte-parte 1). Ineccepibile da un punto di vista stilistico, troviamo in Mr.Holmes un bello spaccato della civiltà inglese di inizio ‘900, mostrata attraverso una attenta e delicata fotografia. La pellicola, accompagnata dal-le belle musiche curate da Carter Burwell, risulta un po’ lenta, a volte ci si perde nei meandri delle storie parallele, forse per i numerosi flashback. Anche se vengono offerti spunti interessanti su un mito che diventa uomo manca però qualcosa alla pellicola. Condon opta per una regia intimistica più da giallo, omaggiando il pubblico con un’immagine di Sherlock Holmes diversa. Ormai anziano Holmes non sopporta vedere se stesso nelle molte versioni per il cinema, piene di bugie: egli non ha mai portato il famoso berretto che conosciamo, non fuma la pipa ma preferisce il sigaro. Per questo vuole scrivere una propria versione dell’ultimo caso: per combattere l’immaginazione di Watson che scrisse il racconto cambiando il finale. La sua immagine reale e quella che percepisce di lui famoso cominciano a cozzare in particolare quando il prota-gonista scopre che per poter cambiare è necessario riscavare nel passato. Così il famoso detective deve tornare con la memoria a trenta anni prima per compren-dere che non tutto può essere risolto con la logica e che il caso era irrisolto da un punto di vista umano, non professionale. “Il vero mistero” dice Holmes “è la natura umana” ed è questa la più grande sco-

perta della sua vita che porta alla catarsi il suo personaggio. Dopo aver scelto a lungo la solitudine, Holmes scopre una nuova famiglia, quella della governante e di suo figlio Roger e si dedica al ricordo dei suoi cari (la scena con le pietre che rievoca l’u-sanza di Hiroshima è commovente). Quel caso per il quale si era dovuto ritirare dalla scene per via dei risvolti fatali lo fa quindi riflettere sugli sbagli commessi e sull’aver sempre seguito la razionalità piuttosto che il cuore. Per questo decide di non lasciare nulla in sospeso e, nonostante la demenza senile, riesce a ricostruire quanto di più importante esista ovvero l’amore umano; quel sentimento che in passato lo aveva portato a raccontare delle pietose bugie e che per la prima volta il caso della signora Kelmot lo aveva messo dinanzi al fatto che la realtà non è interpretabile in maniera così netta, una verità su cui il detective aveva costruito la sua esistenza, portandolo a dover rimettere in discussione tutta la sua vita. Con difficoltà e con l’aiuto del giovane Roger, il detective apprende (e cerca di far capire anche a chi sta con lui) che non bisogna basarsi sull’apparenza, anche se logicamente schiacciante, ma essere compresi, così come accade nell’episodio di Roger con le api in cui il vero colpevole, contro ogni deduzione, sono le vespe. Mr. Holmes oltre ad essere un film sull’anzia-nità, è soprattutto una pellicola che, con la sua poesia, parla delle fragilità dell’essere umano.

Giulia Angelucci

Stati Uniti, 2015

THE HATEFUL EIGHT(The Hateful Eight)

Regia: Quentin TarantinoProduzione: The Weinstein CompanyDistribuzione: 01 DistributionPrima: (Roma 4-2-2016; Milano 4-2-2016)Soggetto e Sceneggiatura: Quentin TarantinoDirettore della fotografia: Robert RichardsonMontaggio: Fred RaskinMusiche: Ennio MorriconeScenografia: Yohei TanedaCostumi: Courtney Hoffman

Effetti: Gregory Nicotero (trucco), Howard Berger (trucco), John Dykstra

Interpreti: Samuel L. Jackson (Maggiore Marquis Warren), Kurt Russell (John Ruth “Il Boia”), Jennifer Jason Leigh (Daisy Domergue), Walton Goggins (Sceriffo Chris Mannix), Demián Bichir (Bob “Il Messicano”), Tim Roth (Oswaldo Mobray), Michael Madsen (Joe Gage), Bruce Dern (Generale Sanford Smithers), James Parks (O.B.), Dana Gourrier (Minnie), Zoë Bell (Judy), Lee Horsley (Ed), Gene Jones (Sweet Dave), Keith Jefferson (Charlie), Craig Stark (Chester Charles Smithers), Belinda Owino (Gemma), Channing Tatum (Jody)

Durata: 167’

S tati Uniti: la guerra civile è appe-na finita da qualche anno.

Una diligenza avanza nel cuore del Wyoming facendosi strada su una pista sovraccarica di neve e battuta da

raffiche di vento gelido. A bordo c’è, oltre il conducente, John Ruth, detto “il boia”, un cacciatore di taglie che porta incatenata una fuorilegge, Daisy Domergue, destinata alla forca di Red Rock che frutterà a John

la taglia di diecimila dollari prevista per la sua cattura.

Lungo la strada l’equipaggio si trova a caricare altri due personaggi in difficoltà per i loro cavalli abbattuti per il freddo e

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impossibilitati dunque a proseguire per la violenza della neve: il Maggiore Marquis Warren, un nero che indossa la divisa blu dell’esercito yankee e Chris Mannix, diretto a prestare servizio come sceriffo a Red Rock.

La tempesta però infuria e la diligenza con i suoi assortiti viaggiatori è costretta a fermarsi e cercare rifugio presso l’emporio di Minnie e Sweet Dave, luogo conosciuto da tutti quelli che battono le piste del ter-ritorio. I due proprietari però non ci sono in quanto partiti improvvisamente il giorno prima e, a mantenere l’esercizio, è rimasto Bob “il messicano”, un omaccione loro servitore che accoglie i viaggiatori in cerca di ricovero e di un pasto caldo.

Nel largo ambiente dell’emporio sono già presenti altri tre personaggi: Osvaldo Mobray, boia di professione che va a svolgere il suo ufficio proprio a Red Rock, il vecchio Generale Sanford Smithers che indossa ancora la divisa grigia dell’eser-cito confederato e John Cage, un cow-boy silenzioso intento a scribacchiare su un libretto di appunti.

Naturalmente gli otto personaggi, costretti a convivere in uno spazio limitato fino a quando il tempo non diventerà più clemente, mostrano presto delle logiche difficoltà di rapporti: intanto, essendo tutta gente di frontiera e abituata con il peggio che la vita di frontiera, appunto, presenta, nessuno si fida di nessuno; ognuno ha paura di non potere raggiungere i propri scopi e di essere defraudato di qualcosa e, soprattutto, ognuno pensa che l’altro qualcosa lo nasconda. La verità è molto più dura: nessuno è quello che dice di essere ed è pronto a commettere le azioni più atroci per liberarsi di chiunque possa rappresentare un ostacolo al raggiungi-mento dei propri fini.

Il messicano, il boia di Red Rock e il cow-boy sono infatti una parte della banda di fuorilegge e assassini a cui appartiene Daisy Domergue che ha or-ganizzato un agguato a John Ruth per liberare la prigioniera e fuggirsene via; hanno quindi eliminato i poveri Minnie e Sweet Dave e i loro aiutanti e avventori (gettati poi nel pozzo) qualche ora prima e atteso l’arrivo della diligenza per mettere in atto il loro piano. L’arrivo di altri due ospiti, Warren e Mannix ha creato solo un po’ di disagio, spinto tutti ad attendere il momento favorevole e prodotto, anche, più di un diversivo.

La rivelazione di Warren di avere ucciso il figlio del generale per vendicare vecchi affronti razziali che infuocarono la guerra di secessione sfocia subito nell’uc-cisione del generale stesso.

Subito dopo del veleno messo nel caffè dal cow-boy Cage elimina dalla scena John Ruth e il conducente della diligenza negli spasmi più atroci.

Warren, a questo punto, capisce chi siano i suoi interlocutori e il piano da essi architettato e dà inizio al bagno di sangue in cui anche lui ha la peggio perchè Jody, il fratello di Daisy, nascosto nel seminter-rato, aveva dato da subito un contributo alla sparatoria restando presto sul terreno.

L’emporio di Minnie è così un luogo di morte, di sangue, di pezzetti di carne umana sparsi sulle pareti: Warren e Mannix, pur alla fine, impiccano Daisy e danno corso alle ultime elucubrazioni sulla fortuità dell’esistenza umana.

D ifficile davvero fare il riassunto della trama di un film di Tarantino perché non ci si trova davanti a

una serie di azioni che possono essere raccontate e descritte, ma di fronte a un vulcano di menzogne, di stadi di claustrofo-bia, di disprezzo, di derisione, di oltraggio e di violenza incatenati l’uno all’altro per dare vita al più classico del “wodunit”: l’enigma centrale che spiazza la soluzione della ra-gione per aprire scenari impensabili all’in-terno di una ristretta cerchia di personaggi nel contesto di un ambiente, per i motivi più vari, isolato. Così è difficile anche dare ordine alla materia che, prepotente nella sua mole e nel suo spessore, Tarantino ha gestito per darci il suo film, il suo cinema.

Intanto la straordinarietà della scelta tecnica di girare in Ultra Panavision 70, massima esaltazione dello spazio orizzon-tale (anche se non più usato dal 1966...) ma non eliminato del tutto visto che ci si è affidato per alcune parti dei suoi film anche l’esigentissimo Terrence Malik: se l’uso di tale sistema sembrerebbe qui giustificato dal grande abbraccio delle distese inne-vate del Wyoming nel cui centro avanza la pennellata scura della diligenza col suo carico infernale, bene, ci ha lasciato inizial-mente interdetti il suo utilizzo nell’ambiente interno della locanda.

Invece tale sistema è risultato subito perfetto perchè ha permesso l’utilizzo degli attori (perfetti anche loro), sia in primo piano, sia sulle varie dimensioni dello sfondo trascinando noi spettatori lì con loro nel seguirli man mano che montava la tensione psicologica e anda-vano composte le tessere che avrebbero portato allo scioglimento del finale bagno di sangue.

In questa composizione di partita a scacchi, in cui non si perde di vista nes-suno dei pezzi, Tarantino mette tutto il suo amore per il passato (come ha raccontato

in tutte le sue interviste) e la sua fama di collezionista vintage, di oggetti, immagini e...archetipi.

Non manca nulla: le armi da fuoco, pistole che superano il significato di utiliz-zo oggettistico per diventare un elemento tematico, quasi un personaggio che dilata la sua importanza nell’incarnare la sete di sangue; banditi e fuorilegge che, privi di eroismo, non rappresentano nessuno se non la propria anarchia e la propria violenza; l’isolamento della locanda e i confini ben definiti, dove i protagonisti pos-sono esprimere al meglio la loro bassezza morale e tradurla in un incubo; la varietà degli oggetti da general store, whisky, caffè, caramelle, sigari e il relativo focolare, coperte indiane, lampade a petrolio, ciotole di stufato bollente, senza dimenticare la regina di tutto, la diligenza, e potremmo continuare ancora.

Così i personaggi: il nero che indossa con visibile superbia l’uniforme blu dei vincitori mentre il vecchio generale è seduto, sempre, a portare il suo grigio slabbrato vinto e battuto; non manca naturalmente il boia, ma qui siamo in pieno clima tarantiniano perchè ce ne sono due, chi il vero chi il falso, così la stranezza dello sceriffo senza stella, così il “messicano” etc.

In questo modo, Tarantino mette tutto sul piatto, non ha lasciato indietro niente, come se avesse chiesto “banco” al suo pubblico nello squadernare tutto il suo collezionismo da frontiera.

Cosa ne fa di tutto questo?Sono state scovate relazioni, indivi-

duate citazioni e riferimenti a tanti autori e pezzi di cinema: Carpenter, Leone e Sergio Corbucci, Elmore Leonard, “Dieci piccoli indiani” e anche il teatro inglese di Pinter e Aycbourne... noi pensiamo si tratti solo di Tarantino.

I personaggi sono davanti a noi con tutto il loro armamentario da frontiera, parlano, parlano molto perchè con la parola nascondono i fatti e sviano la con-sapevolezza dell’orrore, in cui non potrà non sfociare il loro trovarsi lì; usano quello che dicono per dire altro e per capire quello che l’altro può essere, ma questo peggiora la situazione che si ingarbuglia e rimanda immagini deformate a specchio; il dialogo si appesantisce e si lacera sempre di più ipnotizzando lo spettatore in una melassa da cui non capisce come potrà uscire. In realtà, le parole sono propedeutiche ai proiettili che diventano presto padroni del campo ma hanno bisogno di un detonatore per fare il loro dovere in una serie di acce-lerazioni improvvise: è la Daisy di Jennifer Jason Leigh l’incarnazione della svolta

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Film Tutti i film della stagione

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Film Tutti i film della stagione

(straordinaria, meritatissima la candidatura all’Oscar), è questa “femmina bastarda” malmenata, pestata, offesa e ferita per tutto il film, capace di mantenere dritta la barra del suo piano folle e perdente e contemporaneamente capace di trarre atmosfere struggenti quando accompagna alla chitarra una canzone country che sa

di vecchio west a diventare figura centrale a dispetto del suo entourage di uomini: si accorge del veleno messo nel caffè, provoca il suo carceriere ormai intossicato a morte, gli spara, gli taglia un braccio col machete per liberarsi delle manette, getta in faccia a tutti il suo disgusto con il volto lordo di sangue e finisce impiccata,

ballonzolante a una corda che i due ultimi superstiti (ancora per poco) riescono con fatica a issare.

È un vortice di personaggi, imbrogli, oscenità, rabbia, risolutezza che diven-tano ambizione di raccontare una storia, la Storia, senza pietà per nessuno, una storia fatta di archetipi perchè l’archetipo (di cui, come dicevamo, Tarantino è colle-zionista) è proprio questo: è un’immagine di base universale che tutti riconosciamo nel nostro inconscio collettivo e a cui ci rapportiamo sempre.

Tarantino ce li dà tutti insieme nel suo film con una grande capacità sedut-tiva sorprendendoci fino alla fine, perchè dentro ogni elemento, ogni immagine del suo film ci può essere il suo contrario e il suo inganno o la verità riflessa di qualche altro tema.

Alla fine del film, Tarantino ha raggiun-to il suo scopo: non sappiamo se ci abbia oltre che imbrigliato anche “imbrogliato”; sappiamo che restiamo con quelle imma-gini perchè solo quelle possono essere perchè sono quelle che abbiamo sempre amato, sono le nostre.

Fabrizio Moresco

Stati Uniti, Gran Bretagna, 2015

WOMAN IN GOLD(Woman in Gold)

Regia: Simon CurtisProduzione: Origin Pictures, BBC FilmsDistribuzione: Eagle PicturesPrima: (Roma 15-10-2015; Milano 15-10-2015)Soggetto: tratto dalle memorie di E. Randol Schoenberg e

Maria AltmannSceneggiatura: Alexi Kaye CampbellDirettore della fotografia: Ross EmeryMontaggio: Peter LambertMusiche: Martin Phipps, Hans ZimmerScenografia: Jim ClayCostumi: Beatrix Aruna PasztorEffetti: Mark Holt, Angela BarsonInterpreti: Helen Mirren (Maria Altmann), Ryan Reynolds

(Randol Schoenberg), Daniel Brühl (Hubertus Czernin),

Katie Holmes (Pam Schoenberg), Tatiana Maslany (Maria Altmann giovane), Max Irons (Fritz), Charles Dance (Sherman), Antje Traue (Adele Bloch-Bauer), Elizabeth McGovern (Richterin Florence Cooper), Jonathan Pryce (Giudice Richter Rehnquist), Frances Fisher (Barbara Schoenberg), Moritz Bleibtreu (Klimt), Tom Schilling (Heinrich), Henry Goodman (Ferdinand), Olivia Silhavy (Elisabeth Gehrer), Patti Love (Lizbet), Lisa Gornick (Sig.ra Neumann), Nellie Schilling (Maria Altmann bambina), John Moraitis (Brown), Josh Becker (Sig. Neumann), Joseph Mydell (Giudice Clarence), Stephen Greif (Bergen), Rolf Saxon (Stan Gould), Ludger Pistor (Wran), Justus von Dohnànyi (Dreimann), Asli Bayram (Anna), Nina Kunzendorf (Therese), Allan Corduner (Gustav)

Durata: 110’

L a vicenda della signora Maria Altmann comincia a Los Ange-les nel 1998. In occasione del

funerale della sorella parla del ritrova-mento di alcune lettere di famiglia a una sua amica, Barbara Schoenberg, che ha un figlio avvocato, nipote del celebre compositore Arnold Schoenberg. Randy, questo il suo nome, ha fallito con il pro-

prio studio legale a Pasadina e decide di fare un colloquio in uno studio legale im-portante, lo Sherman, dove verrà assun-to. Maria Altmann chiede così l’aiuto al giovane e promettente avvocato, insieme al quale scopre, dalla lettura di alcune lettere di famiglia, di cinque dipinti di famiglia rubati dai nazisti. Tra i dipinti in questione c’è anche un famoso quadro

esposto al museo Belvedere di Vienna, in cui viene raffigurata la zia di Maria, Adele, ritratta da Gustav klimt e diventa-ta simbolo nazionale dell’Austria. Randy inizialmente ha però qualche difficoltà dal momento che, come professionista, non si è mai occupato di restituzione di opere d’arte. Ben presto Maria consegna a Randy dei documenti in cui c’è scritto

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che nessuno conosce i contenuti del testamento. Secondo l’idea del suo avvo-cato, l’anziana donna dovrebbe recarsi a Vienna per richiedere il testamento e fare domanda per una commissione, ma lei non vuole tornare nella sua madre-patria e nella dimora di famiglia perché legata a tristi ricordi. L’amico avvocato ottiene un permesso di una settimana dallo studio per accompagnarla e lascia la moglie Pam e la figlia piccola a casa. Partiti dalla California, una volta giunti nella capitale austriaca, conoscono un giornalista investigativo di nome Hu-bertus. Una volta lì, alla mente di Maria riaffiorano ricordi del suo passato: di quando viveva con la madre, il padre, la sorella e gli zii nella stessa casa fino al giorno in cui, con l’ascesa del nazismo, vennero messi agli arresti domiciliari. Nessun austriaco poteva lasciare il Paese e fortunatamente lei riuscì a fuggire con il suo sposo Fritz in America, grazie a una loro conoscenza. Intanto a Vienna tutti i beni della famiglia Bloch-Bauer furono sequestrati e usati dalla èlite nazista. Questa era parte del suo dolo-roso passato, così nei giorni trascorsi a Vienna Maria e Randy continuano a documentarsi sulla vicenda. Qualche giorno dopo, nell’archivio del museo, trovano un documento firmato dalla zia Adele, in cui dichiarava di lasciare, una volta deceduta, i quadri al museo. Solo più tardi si scopre che in realtà i dipinti in questione appartenevano allo zio Fer-dinand, deceduto successivamente alla moglie; inoltre il documento firmato da Adele non era né un testamento né qual-cosa di ufficiale. Lo zio morì nel 1945 mentre il quadro con il ritratto della zia di Maria arrivò al museo nel 1941 quindi non era stato lui a decidere quella deter-minata collocazione. Così, insieme, i due fermano il sig. Rudolph Wran, membro della commissione austriaca per la resti-tuzione dei beni, che li liquida poco dopo. Per tutto il tempo che il quadro era stato esposto nel museo con il titolo “Woman in gold” era stata celata l’identità del soggetto ritratto, un dipinto appartenente alla loro famiglia ebrea austriaca della quale in questo modo ne veniva rubata la dignità. Maria e Randy nella loro ricerca diventano affiatati anche perché accumunati dalle stesse origini: al museo dell’Olocausto Randy si commuove nel ricordare di aver perso dei suoi cari, i bisnonni, durante il nazismo. Sconfortati i due tornano in California e passano nove mesi. In questo arco di tempo deci-

dono di far causa al governo austriaco per non aver tutelato la memoria della famiglia della signora Altmann. Intanto Randy si licenzia dal lavoro per seguire questa mission mentre la moglie Pam è incinta del secondo figlio, Nathan. Così per il processo viene coinvolto uno studio legale ebreo esperto nei casi di restitu-zione d’opere che sospetta che l’azione legale di Maria e Randy non valga per-ché non retroattiva. Al contrario, Randy vince dimostrando in realtà che la loro è applicabile a prima del 1976. Decidono così di portare avanti la loro causa in America perché i tribunali in Austria costano troppo e la difesa li minaccia di portarli in Corte Suprema. Passano 6 mesi e a Maria viene proposto di essere affiancata dal miliardario imprenditore Ronald Lauder e dal suo esperto legale, ma lei rifiuta. La sua avventura è iniziata con Randy ed è con lui che intende por-tarla a termine. Così i due si scontrano in Corte Suprema contro Stan Gould del museo Belvedere di Vienna. Passano altri quattro mesi e Maria e Randy tornano ad essere oggetto di un processo ancora più difficile, quello dell’arbitrato a Vienna; il giovane avvocato non ha ancora perso le speranze ma Maria non vuole più andare avanti con la causa. Alla fine, incredibil-mente, vincono, Maria ottiene i dipinti di famiglia e il direttore del museo gli richiede un compromesso ma lei glielo nega ancora una volta. Nonostante la vittoria legale, il suo malessere continua. (Ci sono ancora 100.000 opere trafugate dai nazisti attualmente in attesa di torna-re ai legittimi proprietari. 68 anni dopo i dipinti presi dai nazisti, il ritratto di Klimt è alla galleria Neue a New York, acquistato da Lauder. Con il ricavato Randy si è aperto uno studio specifico per i casi di restituzione di opere d’arte e ha finanziato il museo dell’olocausto a New York. Maria ha donato nel suo testamento i quadri a parenti e opere di carità).

W oman in gold di Simon Curtis, già regista di Marilyn, ripropo-ne in chiave originale alcune

ripercussioni della dittatura nazista in Europa. Una nuova pellicola, in cui il ge-nocidio degli ebrei è l’argomento conteni-tore dove al centro della vicenda c’è una famiglia ebrea austriaca e benestante. Nucleo fondamentale è l’arte, quella di Gustav Klimt, dopo che già The monu-ments Men e Francofonia affrontavano il tema di beni artistici perduti durante i totalitarismi. Tratto da una storia vera,

(interessanti i dati che vengono dati alla fine insieme alle immagini dei per-sonaggi reali della vicenda) e partendo dal toccante romanzo autobiografico dell’avvocato Schoenberg, il film nasce da un documentario dal titolo ‘Stealing Klit’ e trasmesso sulla BBC. Il distributore di Philomena Harvey Weinstein ha fiutato anche in questo caso una occasione d’oro con la sceneggiatura di Woman in Gold. Una pellicola sulla memoria e sulla giustizia in cui la protagonista lamenta che “le persone dimenticano, soprattutto i giovani”. Sul filone dei buddy movie, Maria e Randy scoprono il loro legame attraverso questa storia di dipinti da legal thriller. Ottima l interpretazione dei due protagonisti, soprattutto Helen Mirren con la sua ironia, la sua tenacia ma anche la sua sofferenza di fronte ai ricordi del passato presentati attraverso l’alternanza con le sequenze della sua giovinezza. La storia corre quindi su due filoni temporali diversi, forse a tratti non ben amalgamati. Un film classico per struttura, regia e fotografia, connotato dalle belle ambientazioni e dai colori intensi. La rivalsa di giustizia della donna è in primo piano nella pellicola ma ac-canto a questa sono altri gli interrogativi posti su questo aspetto, come quando il giudice si domanda quanto sia giusto applicare la giurisdizione per uno scopo così particolare, o come, oltre al dramma personale, emerga il passato doloroso di una nazione. Il regista sembra con la sua opera condannare fermamente la nazione austriaca e appoggiare quella americana. Discorso intenso quello di Randy sulle due tipologie austriache: quelli che vogliono rinnegare il passato al seguito dei nazisti e coloro i quali riconoscono vecchi sbagli. A incarnare questo dualismo, è, ad esempio, Huber-tus, austriaco alla ricerca della verità, ma al contempo figlio di un seguace del Terzo Reich come anche lo stes-so Simon Curtis , britannico di origine ebreo-polacca. Importante oltre agli altri elementi chiave il discorso sull’identità. Aldilà della sottrazione dei quadri, non ne è stata riconosciuta per anni la potestà a questa famiglia tra le tante ingiustamente e volontariamente cancellate dalla storia. La restituzione del bene non è importante perché fine a se stessa, bensì perché vive in funzione del ricordo, per man-tenere viva la memoria di qualcosa che purtroppo è andato perso per sempre.

Giulia Angelucci

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Gran Bretagna, 2014

BLACK SEA(Black Sea)

Regia: Kevin MacDonaldProduzione: Charles Steel, Kevin MacDonald, Jane Robert-

son, Alasdair Flind per Coeboy Films, Etalon FilmDistribuzione: Universal Pictures InternationalPrima: (Roma 16-4-2015; Milano 16-4-2015)Soggetto e Sceneggiatura: Dennis KellyDirettore della fotografia: Christopher RossMontaggio: Justine WrightMusiche: Llan EshkeryScenografia: Nick PalmerCostumi: Natalie Ward

Effetti: Union Visual Effects, Colin Gorry EffectsInterpreti: Jude Law (Capitano Robinson), Scoot McNairy

(Daniels), Tobias Menzies (Lewis), Grigoriy Dobrygin (Morozov), Ben Mendelsohn (Fraser), Jodie Whittaker (Chrissy), David Threlfall (Peters), Konstantin Khabenskiy (Blackie), Sergei Puskepalis (Zaytsev), Michael Smiley (Reynolds), Sergey Veksler (Baba), Sergey Kolesnikov (Levchenko), Bobby Schofield (Tobin), Branwell Donaghey (Gittens), Karl Davies (Liam), Daniel Ryan (Kurston)

Durata: 115’

I l capitano Robinson ha lavorato per undici anni per la compagnia di recupero relitti Agorà e sono 30

anni che è pilota di sottomarini. Prima dell’ultimo impiego, aveva lavorato in Marina ma non andava d’accordo con al-cuni colleghi; per questo venne licenziato perdendo così anche sua moglie Chrissy (dalla quale è separato) e suo figlio. Così l’ex pilota si incontra con due suoi amici: Blackie e Kurston. Quest’ultimo, anche lui senza più un lavoro, consiglia a Robinson un modo per far soldi. Nel Mar Nero è inabissato un sottomarino nazista con all’interno un tesoro in lin-gotti d’oro. Nel 1941 la Germania nazista stava attraversando un crollo finanziario e la Russia temeva di essere invasa. Così Hitler sfruttò questa paura per chiedere alla Russia un prestito di 80 milioni di marchi. L’Unione Sovietica accettò di pagare, ma la Germania procedette comunque all’invasione perché il sotto-marino con i lingotti d’oro non arrivò mai. Attualmente il sottomarino si trova al confine tra Russia e Georgia, si tratta di un U-Boot sulle dorsali georgiane a pochi metri dalla superficie. I Russi non sanno dove sia, mentre i Georgiani non ne conoscono la posizione. La Agorà da un punto di vista burocratico non può fare nulla per recuperare questo relitto, devono occuparsene loro clandestina-mente. Così Daniels porta Robinson e Blackie da un imprenditore; per questa spedizione a loro serve un sottomarino da circa 180 mila dollari e un equipaggio di uomini britannici e sovietici. Se l’incasso sarà di 40.000 dollari l’imprenditore vuole il 40% mentre se è maggiore richie-de il 20% in più. Robinson così pensa a un equipaggio di 12 uomini, metà inglesi e metà russi e pensa di poter scendere in profondità con dei sommozzatori. Intanto

Kurston, l’amico che gli aveva proposto l’affare, si è tolto la vita. Al suo posto verrà coinvolto un giovane ragazzo inesperto di nome Tobin. Il sottomarino inizia il suo viaggio a Sebastopoli in Cri-mea. Dopo aver messo a punto qualche problema tecnico del mezzo, il capitano tiene a ribadire che ogni uomo a fine missione avrà la sua parte. Il macchi-nista inglese Fraser è un attaccabrighe, non intende mangiare quello che viene preparato dai russi e per difendere Tobin accoltella Blackie, interprete a bordo e amico di Robinson. Così il sottomarino comincia ad avere delle avarie, ha un impatto abbastanza forte in seguito al quale i sopravvissuti, grazie alle preziose auscultazioni di Baba, cercano di capire dove si trovano. Robinson scopre che anche Morosov capisce l’inglese e può fare da nuovo interprete. Per fortuna si ritrovano dalla parte giusta della dor-sale, mandano Fraser, Tobin e Peters come sommozzatori. Questi trovano il sottomarino nazista con all’interno l’o-ro. Dal relitto prendono anche l’albero di trasmissione per sostituirlo al loro, danneggiato poco prima e al cui interno mettono l’oro; così il pezzo da sostituire per il sottomarino diventa pesantissimo e nel trascinarlo Peters finisce in uno sprofondo e muore. Al sottomarino non è rimasta tanta carica nella batteria e se risalgono subito in superficie verranno catturati: Daniels infatti confessa al capitano che in realtà l’imprenditore era un attore, si tratta di una truffa e l’oro se lo prenderà l’Agorà. Così il capitano decide di rischiare per portare l’equi-paggio e l’oro al sicuro. Gli altri uomini dicono che il bottino abbia dato in testa a Robinson che decide di attraversare uno stretto canyon.Al contrario Daniels vuole che il sottomarino risalga in su-

perficie all’istante per paura di morire e così istiga Fraser a uccidere Zaytsev, l’uomo ai motori. Così il macchinista inglese esegue e per un guasto prima al motore e poi in altri parti del sottomari-no, questo va a picco. Il mezzo comincia a imbarcare acqua, Tobin viene messo in salvo da Robinson. Alla fine rimangono in vita solo Robinson, Tobin e Morosov.

Il capitano confessa solo in quel mo-mento che ci sono delle tute di salvataggio, Morosov si arrabbia con Robison chieden-dogli perché non lo abbia detto mai prima all’equipaggio di averle. La motivazione è che sono solo tre. Così alla fine si salvano solo Tobin e Morosov aiutati dal capitano che decide di morire nel sottomarino e riempire la terza tuta, la sua, con l’oro.

S ono passati quasi 10 anni dal 1997, quando James Cameron fece uscire nelle sale il colossal

Titanic. Si trattava di una storia d’amore e del triste epilogo di una nave da crociera per il suo fatale impatto con un iceberg. È così che, nel rivedere per questo Black Sea il sottomarino in missione che imbar-ca acqua, si riprova lo stesso senso di angoscia provata con il Titanic. Si tratta di due film completamente differenti, ma con tratti comuni. Jack e Rose nell’amarsi hanno vissuto e condiviso lo stesso dram-ma a bordo della nave, mentre qui alla mente del capitano Robinson affiorano bei ricordi della moglie e del figlio ormai distanti. Anche nel Titanic il capitano aveva osato accelerare l’andatura del mezzo per arrivare prima. Robinson, nel buio totale degli abissi e dell’anima uma-na, sfida il destino su vari fronti: il mezzo all’inizio non è in ottimo stato e mette insieme un equipaggio misto, sperando in una loro collaborazione. Il suo scopo è quello di regalare un futuro migliore a tutti

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quegli uomini, ma in maniera piuttosto rischiosa. In fondo tre sono i cardini che muovono il vecchio sottomarino russo: l’istinto incarnato da Fraser, la lucida macchinosità di Daniels e la speranza incarnata da Robinson. Stupisce la te-nacia del personaggio interpretato da Jude Law ed è tenera la sua relazione con Tobin, verso il quale nutre un senso di protezione quasi paterna. Un bel film d’avventura con inquadrature mozzafiato che, insieme all’assenza di suoni e a un crescente pathos, tiene con il fiato

sospeso. Sempre in agguato è il senti-mento di avidità e di lotta per la soprav-vivenza dove mors tua vita mea e il fine giustifica i mezzi. Con uno sceneggiatore proveniente dalle serie televisive (Dennis Kelly, autore di Utopia) e un regista come Kevin Macdonald, che mantiene sempre evidente la sua vena documentaristica, Black Sea ha vinto con pieno merito l’ultimo festival di Courmayeur, muoven-dosi tra thriller marinaro e claustrofobico kammerspiel. Ottima anche la scelta del doppiaggio, una fotografia magistrale

con un uso della luce che accompagna la graduale drammaticità della vicenda, in un’ambientazione claustrofobica che aiuta a tenere ritmo e azione altissimi. Il capitano Robinson mette insieme i migliori in campo tecnico per quel che riguarda la guida di un sottomarino ma non riesce a tenere a freno la disperazione di questi uomini, per i quali ha deciso di intrapren-dere questa avventura, ma che segnerà, allo stesso tempo, il loro fatale destino.

Giulia Angelucci

Stati Uniti, 2015

Regia: Ericson CoreProduzione: Andrew A. Kosove, Broderick Johnson, John

Baldecchi, David Valdes, Christopher Taylor, Kurt Wimmer per Alcon Entertainment, Studio Babelsberg, DGM Entertain-ment, Ehman Productions, Warner Bros.

Distribuzione: Eagle PicturesPrima: (Roma 27-1-2016; Milano 27-1-2016)Soggetto: Rick King, W. Peter Iliff, Kurt WimmerSceneggiatura: Kurt WimmerDirettore della fotografia: Ericson CoreMontaggio: Thom Noble, Jerry Greenberg, John DuffyMusiche: Tom Holkenborg

Scenografia: Udo KramerCostumi: Lisy ChristlEffetti: Spin VFX, Spectrum Effects Inc., Image Engine DesignInterpreti: Édgar Ramírez (Bodhi), Luke Bracey (Johnny

Utah), Teresa Palmer (Samsara), Delroy Lindo (Istruttore Hall), Ray Winstone (Pappas), Matias Varela (Grommet), Clemens Schick (Roach), Tobias Santelmann (Chowder), Laird John Hamilton (Surfista vagabond), Nikolai Kinski (Pascal Al Fariq), Judah Lewis (Johnny Utah ragazzo), Frank Richartz (Ono Osaki), Bojesse Christopher (Chapman, Direttore FBI)

Durata: 114’

POINT BREAK(Point Break)

J ohnny Utah è un appassionato di sport estremi, dalle sfide sul surf, alle scalate a mani nude,

al parapendio etc; un giorno, dopo aver perso un carissimo amico durante un lungo percorso di motocross nei deserti dell’Ari-zona, Johnny si ritira e passa lunghi anni a studiare e prepararsi un futuro. Entra così nell’FBI e viene subito scelto per una difficile impresa grazie al suo passato di primatista sportivo.

Un gruppo di atleti estremi capeggiati da Bodhi è infatti ritenuto responsabile di alcune spettacolari rapine avvenute nell’ultimo periodo come avere sparso al vento un’enorme quantità di denaro contante trasportato da un aereo, o resti-tuire a un villaggio africano i diamanti grezzi portati via da una multinazionale dei preziosi.

Il piano dei ladri Robin Hood comincia ad apparire sempre più chiaro: riuscire a compiere tutte le “Otto prove di Ozaki” (termine di fantasia utilizzato per definire le prove più difficili create da Ozaki, at-leta ambientalista) che costituiscono un terribile percorso atletico sportivo teso all’illuminazione spirituale.

Johnny riesce a entrare nel gruppo degli spericolati che, nonostante cono-scano la sua provenienza dall’ FBI, pure lo accettano, rispettosi delle sue capacità e della sua aspirazione di tendere verso l’infinito. Sarà proprio questa ossessione a distruggere le vite di tutti che soccombono nel portare a termine le prove di Ozaki. Sopravvive Johnny, accettato in pieno nelle file dell’FBI, ma non felice per la mancanza di avversari di livello con cui misurarsi per conquistare traguardi al limite delle possibilità umane.

N o, effettivamente non si sentiva la mancanza del remake dell’omo-nimo film diretto da Kate Bigelow

nel 1991: quello era davvero un film di culto che univa lo spunto e l’interesse del thriller sopra le righe (i rapinatori usavano nelle loro azioni le maschere degli ex presidenti USA) con la bellezza d’incanto delle onde oceaniche cavalcate da splendidi attori allora nascenti nella loro carriera (Swayze e Keanu Reeves), il tutto condito da una spruzzata di suggestione filosofica.

Qui invece il thriller praticamente non c’è, è solo un pretesto per dare il via alla

narrazione che si perde poi nel corso del film per riaffiorare distrattamente alla fine.

Così, mentre la storia non incide, i personaggi superficialmente delineati non contano, gli attori si rivelano debolissimi, grande spazio è affidato a uno spropositato approfondimento filosofico che comprende la difesa ecologica, la lotta alle multi-nazionali del consumo, il controllo della meditazione per tendere alla illuminazione improvvisa e definitiva.

Su tutto domina l’impresa fisica dell’uo-mo a disposizione delle leggi di natura: dal-la scalata a mani nude delle Angels Falls venezuelane, allo sfrecciare delle tavole da surf sulle onde del Maui hawaiano, al wing suit (volo con tute da lancio alare) a duecento all’ora tra le gole di una catena montuosa, allo skyboard tra ghiacciai e picchi innevati.

Tutto questo, pur costituendo una sequenza di bellezza da mozzare il fiato, non ci regala un film peraltro reso vano dalla inutilità dei dialoghi e dalla pochezza degli attori.

Fabrizio Moresco

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Francia, 2014

UNA VOLTA NELLA VITA(Les héritiers)

Regia: Marie-Castille Mention-SchaarProduzione: Marie-Castille Mention-Schaar, Pierre Kubel per

Loma Nasha Films, Vendredi Film, TF1 Droits Audiovisuels, UGC Images, France2 Cinéma, Orange Studio

Distribuzione: Lucky RedPrima: (Roma 27-1-2016; Milano 27-1-2016)Soggetto e Sceneggiatura: Ahmed Dramé, Marie-Castille

Mention-SchaarDirettore della fotografia: Myriam VinocourMontaggio: Benoît QuinonMusiche: Ludovico Einaudi

Scenografia: Anne-Charlotte VimontCostumi: Isabelle MathieuInterpreti: Ariane Ascaride (Anne Gueguen), Ahmed Dramé

(Malik), Noémie Merlant (Mélanie), Geneviève Mnich (Yvette), Stéphane Bak (Max), Wendy Nieto (Jamila), Aïmen Derriachi (Said), Mohamed Seddiki (Olivier/Brahim), Naomi Amarger (Julie), Alicia Dadoun (Camélia), Adrien Hurdubae (Théo), Raky Sall (Koudjiji), Amine Lansari (Rudy), Koro Dramé (Léa), Xavier Maly (Preside)

Durata: 105’

N ella periferia sud-est di Parigi c’è il liceo Léon Blum, crogiolo di numerose etnie che apparten-

gono a differenti confessioni religiose. Al liceo, in particolare, c’è una seconda clas-se multiculturale litigiosa e indisciplinata che crea problemi al preside e al corpo docente. Solo la professoressa di storia e geografia Anne Gueguen pare essere in grado di farsi ascoltare dai ragazzi. La classe è ritenuta senza speranza: agitata, rissosa, piena di ragazzi arroganti quanto insicuri e va alla deriva nell’indifferenza di tutti. Finché Anne, tornata a scuola dopo il lutto della madre, non propone ai ragazzi di partecipare al Concorso nazionale della Resistenza e della Deportazione. Per modi-ficare lo stato di passività la docente sce-glie proprio la seconda esplosiva, anziché la classe gemella più disciplinata e diligen-te, per partecipare al concorso. L’adesione è volontaria e il tema non è semplice: “I

bambini e gli adolescenti ebrei nel sistema concentrazionario nazista”. Gli allievi sulle prime lo rifiutano come si trattasse di qualcosa di troppo ostico e lontano da loro. Poi, però, accettano la sfida la cui posta, più che il premio ufficiale, è l’autostima. L’insegnante, contrariamente al preside e agli altri insegnanti, decide di dare fi-ducia ai suoi alunni, tentando di vincere l’apatia, il disinteresse, la conflittualità e l’individualismo che li contraddistinguono. Quello che essi dovranno fare è esprimere con i loro mezzi e a modo loro i fatti tragici della Shoah, mettendo sotto osservazione la terribile realtà vissuta dai bambini e dagli adolescenti deportati. Dopo le prime ritrosie, tutti i componenti della classe ini-ziano a provare un reale e acceso interesse per l’argomento, rimanendone ovviamente anche molto colpiti. C’è chi sceglie di par-tire dai libri scritti sulla Shoah, chi dai film e dai documentari, chi dagli archivi delle

foto o dai fumetti. Nonostante i contrasti e le diversità, cominciano tutti a poco a poco a collaborare gli uni con gli altri per l’adempimento del progetto, riuscendo a costruire un’opera fatta di immagini, di testi e testimonianze varie. Fondamentale ed emozionante per i ragazzi risulta oltre che la visita nei memoriali, l’incontro con un sopravvissuto al campo di Auschwitz. L’esperienza ha un impatto indelebile: gli alunni divisi in gruppi riescono a coin-volgere anche i più difficili ed emarginati. Il bel lavoro fatto li porta all’insperata e meritata finale a Parigi. Qui risulteranno i vincitori del Concorso, ma, soprattutto, saranno finalmente motivati e coesi dal punto di vista umano.

U na volta nella vita, che in france-se si intitola, in modo forse più accurato, Les héritiérs, gli eredi,

è un film basato su un episodio reale, che dovrebbe entrare di diritto nei programmi scolastici. Certo la forma cinematografica non è innovativa, ma c’è un momento pre-ciso che decreta la vittoria della pellicola sul rischio di scivolare nel cliché, ed è il momento in cui l’ex deportato Léon Ziguel parla al gruppo di attori e comparse, tutti studenti. In quel momento, girato in un’unica ripresa, la finzione che struttura il film e la realtà storica che lo sostanzia raggiungono la simbiosi e la classe si apre ad annettere il pubblico tutto. È proprio uno dei protagonisti della vicenda, Ahmed Dramé (che nel film interpreta Malik), ad aver portato in giro la storia che aveva letteralmente cambiato la vita a lui e ai suoi compagni, in cerca di un regista in grado di capirla, finché è arrivato a Marie-Castille Mention-Schaar, che ha risposto all’appello sceneggiando con lui il film. La scuola, origine e destinatario ideale di questo lavoro, è ritratta, con ottimismo

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e speranza, come il luogo possibile della trasmissione, non solo del sapere, ma an-cor più del saper imparare. Perché è que-sto che sono i giovani, musulmani, ebrei o cattolici che siano: eredi della memoria, che nel film raccolgono e fanno proprio il giuramento dei prigionieri sopravvissuti nel campo di Buchenwald, pronunciato nel 1945. Impegnarsi a testimoniare e a non permettere la cancellazione del ricordo di quello che è stato e che oggi tendiamo troppo spesso a dimenticare. Il film fornisce anche il prezioso spunto per innescare una riflessione non banale sull’immagine, laddove si segnala che nes-suna immagine è innocente. L’esistenza di classi problematiche è purtroppo una real-tà, in particolare quando ci si trova nelle pe-riferie degradate delle grandi città. Ci sono insegnanti che non ce la fanno e gettano la spugna. Ancor prima di parlare di date e fatti storici bisogna entrare nelle ruvide realtà di quei ragazzi, toccarle con mano. E l’insegnamento delle varie materie do-vrebbe vertere più che su sterili nozioni su un apprendimento basato sul dialogo e sulla discussione, atti a far riflettere e conseguentemente maturare gli studenti. Non tutti gli insegnanti mettono lo stesso impegno e dedizione della professoressa Gueguen; purtroppo nella maggioranza

dei casi una scuola di questo tipo risulta un’utopia e non tutti i docenti sono dotati di così larghe vedute e, soprattutto, buona volontà e amore per il proprio lavoro. Qui la professoressa insegna a opporre alle paro-le irrispettose e inaccettabili un silenzioso rispetto. Quando, nel museo dell’Olocau-sto, sono le ragazze stesse a dire con un fil di voce che hanno deciso di trattenersi, che l’altro impegno è rimandabile, si capisce che lo scopo è stato raggiunto. Spiegare a una classe di adolescenti francesi la più grande tragedia della Storia non è un’impresa semplice, soprattutto quando si cerca di stimolarli invitandoli a farsi testimoni, attraverso un percorso di rivisitazione della memoria. La sfida nasce allora dalla raccolta e ricostruzione dei fatti in questione; ma ciò che provoca una forte commozione nei giovani ascoltatori sono le parole dell’ex deportato che, con sem-plicità, arrivano dritte ai loro cuori. E poi, torna la questione, molto spesso affrontata dal cinema francese contemporaneo, della convivenza delle diversità culturali che abbondano nel tessuto sociale. Il concorso diviene proprio il collante per tenere insieme armoniosamente quelle differenze, che tanto spesso degenerano in conflitto. Come testimonia il prologo iniziale che tristemente mette in scena

l’incompatibilità tra la legge francese e l’identità culturale in materia di velo sul capo delle donne. Una ragazza si è recata al Liceo per l’attestato di maturità, ma non le viene concesso di entrare perché non ha tolto il velo. Le viene chiesto di rispettare la legge e il principio di laicità, ma lei vorrebbe seguire ciò che sente non essendo più studentessa di quell’istituto. La regista non prende le parti, riporta la vicenda come un occhio esterno che riprende il tutto. Sono interessanti anche gli scorci realistici della vita di studenti e le dinamiche intransigenti e a volte violente di ragazzi sbandati, che crescono soli, o non sufficientemente considerati. Peccato siano solo accennati e non approfonditi troppo. Una volta nella vita è un film che colpisce per la forza pedagogica e umana che emana, senza scadere nella falsa retorica. Ma soprattutto il film trasmette efficacemente il messaggio, citando anche Primo Levi, che la memoria è una ricchezza da tramandare e per la cui perpetuazione è necessario coinvolgere i giovani. Ariane Ascaride, nei panni della professoressa Gueguen, supera la finzio-ne e dà vita a un’interpretazione intensa e credibile.

Veronica Barteri

Stati Uniti, 2015

Regia: Aleksander BachProduzione: Dune Entertainment, 20th Century Fox Film Cor-

porationDistribuzione: 20th Century FoxPrima: (Roma 29-10-2015; Milano 29-10-2015)Soggetto: Skip Woods Sceneggiatura: Skip Woods, Michael FinchDirettore della fotografia: Ottar GudnasonMontaggio: Nicolas de TothMusiche: Marco BeltramiScenografia: Sebastian T. Krawinkel

Costumi: Bina DaigelerEffetti: Infinite Studios, Industrial Light & Magic, Mokko

StdioInterpreti: Rupert Friend (Agente 47), Zachary Quinto

(John Smith), Hannah Ware (Katia van Dees), Ciarán Hinds (Litvenko), Thomas Kretschmann (Le Clerq), Dan Bakkedahl (Sanders), Rolf Kanies (Dott. Delriego), Jerry Hoffmann (Franco), Mona Pirzad (Moglie di Litvenko), Helena Pieske (Katia piccola), Johannes Suhm (Litvenko giovane), Emilio Rivera (Fabian)

Durata: 85’

HITMAN: AGENT 47(Hitman: Agent 47)

K atia è la figlia di Piotr Litvenko, uno scienziato genetista in-ventore di esseri con fattezze

umane ma senza sentimenti, progettati per essere dei perfetti assassini. Questi soggetti, denominati “Agenti” vengono presi in custodia dalla ICA (International Contracts Agency) quando il Programma Agenti viene chiuso; questo progetto spe-rimentale infatti, una volta avviato, fu in-terrotto per il pentimento di Litvenko e la sua conseguente scomparsa. Tra gli agenti

assassini creati, uno va controcorrente, è contro il programma che sta ripartendo per creare nuovi agenti e il suo nome è 47, le ultime due cifre del marchio che porta sulla sua nuca fin dalla nascita. Il suo fisi-co è capace di resistere a sforzi immani, è instancabile, veloce, resistente ed è dotato di acuta intelligenza. Katia invece vive a Berlino, scopre di avere il potere di fare premonizioni future su chi le sta intorno ed è alla ricerca di qualcuno che poi scoprirà essere il padre. Inizialmente 47 le dà la

caccia perché gli è stato commissionato di ucciderla. Un uomo di nome John Smith protegge la ragazza sin dall’inizio e viene ucciso (apparentemente) da 47. Questo da piccolo ha assistito al tentato omicidio del padre di Katia, conquistando così la sua fiducia per trovare insieme lo scienziato Litvenko. Così 47, durante le loro fughe, consiglia alla ragazza di evitare di essere ripresi dalle telecamere. Anche Katia con i suoi poteri paranormali scopre di essere un agente e di chiamarsi

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90. Quello che prima era il protettore di Katia, John Smith, ora si rivela un nemico in cerca del padre. Katia e 47, per cercare l’inventore, si recano, per una intuizione della ragazza, a Singapore. 47 comunica ad altro agente, Diana, l’informazione che Litvenko si trova a Singapore. Una volta raggiunta la meta, Katia parla con il padre che dice di averla abbandonata per lasciarla libera (inoltre lei gli chiede perché da bambina l’abbia modificata trasformandola in un agente). Durante il loro colloquio, si scopre che il padre ha un cancro ai polmoni e che Hitman e Katia sono fratelli. Intanto Antoine Le Clerq, direttore dell’organizzazione Syndicate, l’azienda promotrice del nuovo progetto agenti, vorrebbe creare un esercito di sol-dati perfetti geneticamente modificati. Lui è il capo dei cattivi, al cui seguito ritrovia-mo il traditore Smith. Anche quest’ultimo è stato creato da Litvenko, ma appartiene a una razza bastarda, invidiosa di 47. Per proteggere Katia e 47, lo scienziato viene ferito e chiede ai due figli di essere lasciato alle torture di Le Clerq il quale vuole conoscere la formula per creare gli agenti. 47 propone un accordo a Le Clerq: in cambio del padre gli consegnerà Katia che ha il suo stesso DNA. L’aereo con a bordo Le Clerq e Litvenko esplode e la ra-gazza si sente tradita, ma il fratello agente le spiega che è stata usata come diversivo per uccidere Le Clerq, rendendola libera. Così in un colpo di scena finale, si scopre

che 47 ha un suo sosia alleato con Diana, la malvagia agente giapponese.

S e mi fate passare questo “bisticcio di parole” dirigere dei film tratti da videogiochi non è un “gioco da

ragazzi”. A parte qualche caso sporadico, questo curioso genere cinematografico non ha mai goduto di particolare fortuna. Già nel 2007 il regista Xavier Gens aveva portato sul grande schermo il personaggio di Hit-man con Hitman –L’assassino e nel cast una star come Olga Kurylenko. Stavolta, in una coproduzione tra Germania e Stati Uniti, la sceneggiatura è di nuovo affidata a Skip Woods ma il risultato è nettamente peggiore. Forse per via della prima regia cinematografica del regista Aleksander Bach, dai trascorsi nell’ambito pubblicitario che lasciano segni evidenti nel film, o forse per un Rupert Friend poco convincente nei panni dell’assassino senza emozioni, que-sto reboot di Hitman si presenta come un B movie che ricorda un po’ alla lontana Matrix e Terminator, ma con una forte componente stealth, facendo omaggio allo spirito del videogioco. La bellissima e carismatica femme fatale Hannah Ware non basta a tenere alto il livello del cast, soprattutto dei villain la cui espressività è pari a zero. L’ot-timo score di Marco Beltrami e la fotografia di Óttar Guðnason (la scena più bella da un punto di vista estetico è quella della scala bianca) non riescono a salvare la predomi-nante componente action, già vista e rivista,

con qualche sprazzo di inspiegabile splat-ter. Questo survival action movie poteva sfruttare di più l’ambientazione tedesca a Berlino e Potsdam e quella di Singapore e non riscuoterà successo neanche tra i fan del videogioco perché non ne conserva gli elementi chiave. La sceneggiatura è troppo macchinosa e poco ben studiata per ren-dere la trama un minimo intrigante (Katia dal nulla, a un tratto, intuisce che il padre si trova a Singapore, oppure 47 si ostina a sparare a John se ha già sperimentato che così non muore), alcune trovate imbaraz-zanti come quella dell’inalatore lasciato da 47 a un padre malato di cancro, in un film carico di dialoghi che vorrebbero risuonare come filosofici ma finiscono col diventare ridicoli; ci si interroga sulla natura umana (“Non puoi combattere ciò che sei”, “Le nostre azioni determinano ciò che siamo” ripetono con poca originalità entrambi i protagonisti), sui sentimenti (come quando Katia chiede a 47 se sia umano o no), sul futuro dell’umanità (con Le Clerq che vuole un esercito, ma non di pace, in cui bisogna scegliere tra il sentimento e il dovere). I due colpi di scena presenti nella pellicola non funzionano a sufficienza perché non sono ben preparati. Non che uno si aspetti con questo Hitman un filmone da Oscar però, ecco, costruiamo un action più convincente, ma, soprattutto, le riflessioni filosofiche ed esistenziali lasciamole a qualcun altro.

Giulia Angelucci

Stati Uniti, 2015

IRRATIONAL MAN(Irrational Man)

Regia: Woody AllenProduzione: Gravier Productions, in associazione con Perdi-

do ProductionsDistribuzione: Warner Bros. PicturesPrima: (Roma 16-12-2015; Milano 16-12-2015)Soggetto e Sceneggiatura: Woody AllenDirettore della fotografia: Darius KhondjiMontaggio: Alisa LepselterScenografia: Santo LoquastoCostumi: Suzy BenzingerEffetti: Alex Miller

Interpreti: Joaquin Phoenix (Abe Lucas), Emma Stone (Jill Pollard), Parker Posey (Rita), Jamie Blackley (Roy), Etsy Aidem (Madre di Jill), Ethan Phillips (Padre di Jill), Geoff Schuppert (Nat), Nancy Villone (Eve), Ben Rosenfield (Danny), Gary Wilmes (Hal), Sophie von Haselberg (April), Susan Pourfar (Carol), Kate Flanagan (Becky), Alex Dunn (Mel), David Aaron Baker (Biff), Michael Goldsmith (Mark), Meredith Hagner (Sandy), Kate McGonigle (Elle), Brigette Lundy-Paine (Jane), Tamara Hickey (Ms. Leonard), Robert Petkoff (Paul)

Durata: 95’

A be Lucas, un professore di filosofia che si trova in un momento delicato, essendo

incapace ormai di dare un senso alla sua vita o di trovare alcuna gioia in essa, si trasferisce nel Rhode Island per insegnare nel college Brailyn. Appena arrivato, fa la conoscenza di Rita Richards, collega

sentimentalmente insoddisfatta con cui inizia una relazione e di Jill Pollard, una studentessa che con cui allaccia subito un’amicizia che diviene sempre più com-plicità. Anche se Jill è già fidanzata con Roy, col passare dei giorni è sempre più coinvolta nel cinismo del suo professore. Jill ama il suo fidanzato, ma è attratta

anche dalla tormentata personalità e dal fascino maudit di Abe.

Dopo qualche tempo, comincia però a notare qualcosa di più leggero in lui. Un giorno, mentre sono in un bar, Abe e Jill ascoltano per caso la storia di una donna che è sul punto di perdere l’affidamento dei figli per colpa di un giudice, Thomas Spangler.

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Abe ha un’illuminazione: deve fare qualcosa per aiutare quella donna. Il professore trova all’improvviso una nuo-va ragione di vita nell’impegnarsi a fare giustizia, decidendo di eliminare Spangler. Inizia così a seguirlo tutti i giorni mentre fa jogging e mette a punto il suo piano. Un giorno, si siede nella panchina accanto a lui mentre fa una pausa dalla sua corsa e scambia la sua bibita con una identica ma piena di cianuro. Il giudice muore. Tempo dopo, una serie di coincidenze e indizi vengono alla luce e Jill intuisce che dietro all’omicidio c’è proprio la mano di Abe. La ragazza arriva a farlo confessa-re. Sulle prime, Jill accetta per amore di coprirlo, ma quando si viene a sapere che un innocente è stato accusato del delitto, minaccia di denunciarlo se non si costitu-irà. Abe, che nel frattempo aveva accettato di partire per l’Europa con Rita, da sempre attratta da lui, capisce quindi che l’unico modo di uscire dalla sua grave situazione è eliminare anche Jill. Il professore segue quindi la ragazza nel palazzo dove prende lezioni di piano e manomette l’ascensore. Poi si presenta sul pianerottolo all’uscita della lezione e, fingendo di volersi scusare con lei, aggredisce Jill per farla cadere nel vuoto della cabina dell’ascensore. Ma, durante la colluttazione Abe scivola su una piccola torcia, vinta da Jill ad un gioco a premi durante una loro uscita al Luna Park e caduta dalla borsa della ragazza, e preci-pita nel vuoto. Il professore paga così per il suo crimine grazie alla punizione data dal caso e dalla fortuna della scelta ap-parentemente casuale di Jill (che avrebbe potuto scegliere altri premi al luna park).

W oody e il senso della vita, Woody tra la vita e la morte, la menzogna e la verità, il

caso e la giustizia, Woody e tutti i suoi temi più classici insomma, ancora una volta. Tra le tante sfumature di colore con cui questi temi sono stati declinati nei suoi numerosissimi film, questa è la volta del nero, anche se nascosto sotto la patina di commedia.

In questo caso a giocare con la sua partita con il beffardo destino è un pro-fessore di filosofia incarnato da Joaquin Phoenix che si trova in un momento deli-cato, incapace ormai di dare un qualsiasi senso alla sua vita.

Allen e la filosofia, un legame antico, sin dai tempi dei suoi primi film e dei suoi saggi (nel suo primo libro “Saperla lunga” il regista gli dedica un divertente capitolo dal titolo “La mia filosofia”, dove il regista passa ironicamente da Kierkegaard, a Cartesio, a Leibniz).

In Irrational Man (titolo altamente si-gnificativo) il grimaldello usato per scanda-gliare gli infiniti dubbi dell’uomo sul senso della vita è proprio la filosofia (e non è un caso che il film si apra con una citazione kantiana). La convinzione del protagonista Abe del fatto che la filosofia non risponda a nessuna delle domande della vita reale è frutto della presa di coscienza (squi-sitamente alleniana) del dolore e della bruttezza dell’esistenza e delle debolezze della gente. Persone intrappolate in vite in-soddisfacenti (come Rita, la professoressa di scienze) e che vivono tra poche luci e molte ombre.

Abe ha qualcosa di profondamente sbagliato (e la giovane studentessa Jill non tarda ad accorgersene), ma ecco la svolta decisiva, l’evento che può cambiare le cose: una conversazione ascoltata per caso, altro tema già trattato dal cinema alleniano (Un’altra donna per citarne uno).

La decisione di agire trasforma il pro-tagonista da persona depressa e senza scopi in un uomo esuberante ed energico. Ma l’azione che Abe sta per compiere è irrazionale, un atto morale e ‘giusto’ solo a suo modo di vedere.

Come in Sogni e delitti e Match Point ecco tornare il dualismo delitto-castigo, ma anche quelle scelte morali che si intrecciano con i quesiti sentimentali. La differenza è che questa volta si gioca sul terreno della black comedy ambientata in un campus universitario di una piccola città della East Coast.

È vero, i temi sono gli stessi di tanto cinema alleniano, ma è l’occhio nuovo con cui vengono visti a colpire, una leggerezza (di forma e di sostanza) che ricopre tutto:

questa volta il delitto ha il suo castigo, questa volta il destino riserva una giusta risposta, questa volta non sono pessimi-smo e cinismo a vincere.

Con Irrational Man Allen torna a com-piere un piccolo miracolo, avvolgendo tutto in una forma leggera e snella, facendo della casualità il tema forte attorno a cui ruota il film. Scrittura sempre di alto livello, riprese avvolgenti, attori in stato di grazia (un Joaquin Phoenix ingrassato e strepito-so e una Emma Stone eterea e ispirata), il film è una piccola perla, di quelle che Allen non sfornava da anni.

Una serie di fatti accidentali dettano le conseguenze della vita e della morte. Ma non è un mistero che Allen abbia con-fessato di credere molto “nella casualità senza senso dell’esistenza” e questa volta i fatti seguono un percorso che aveva già tracciato in Match Point (ma con uno scarto decisivo).

“Tutti noi viviamo soggetti a una fragile contingenza di vita. Sapete, serve soltanto una svolta sbagliata per strada…” una bat-tuta che è una vera dichiarazione di poetica a cui nulla c’è da aggiungere.

La storia dell’uomo irrazionale di Woody, professore di filosofia nichilista e disilluso, può insegnarci molto, può dirci che nella vita (che è commedia e tragedia insieme) è sempre l’ironia della sorte a condurre la mano del gioco. Ma proprio per questo, il mondo è davvero (in qual-che caso) in grado di prendere la strada più giusta, magari passando attraverso quelle “lezioni dolorose” che, come dice la protagonista femminile, non si possono imparare dai libri.

Elena Bartoni

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Finalandia, Germania, Gran Bretagna, 2014

BIG GAME – CACCIA AL PRESIDENTE(Big Game)

Regia: Jalmari HelanderProduzione: Subzero Film Entertainment, Altitude Film Enter-

tainment, Egoli Tossell Film, in associazione con Visionplus Fund I, Ketchup Entertainment, Waterstone Entertainment, Head Gear Films, Metrol Technology, Film House Germany, Bavaria Film Partners

Distribuzione: Eagle PicturesPrima: (Roma 25-6-2015; Milano 25-6-2015)Soggetto e Sceneggiatura: Jalmari HelanderDirettore della fotografia: Mika OrasmaaMontaggio: Likka Hesse

Musiche: Miska Seppä, Juri SeppäScenografia: Christian EiseleCostumi: Mo VorwerckEffetti: Scanline VFXInterpreti: Samuel L. Jackson (Il Presidente), Onni Tommila

(Oskari), Ray Stevenson (Morris), Victor Garber (Vice Presidente), Felicity Huffman (Direttore CIA), Jim Broadbent (Herbert), Mehmet Kurtulus (Hazar), Ted Levine (Generale Underwood), Erik Markus Schuetz (Stanley), Jean-Luc Julien (Clay), Jason Steffan (Dexter), Jaymes Butler (Otis), Jorma Tommila (Tapio)

Durata: 90’

F inlandia. Un giovane ragazzo di nome Oskari viene mandato da solo dal padre Tapio, uno dei più grandi

cacciatori del paese, nella foresta per superare il rito di iniziazione per diventare cacciatore. Intanto William Allan Moore, il Presidente degli Stati Uniti, sta viaggiando su un Air Force 1 verso Helsinki per partecipare ad una conferenza per il G8. La sua fedele guar-dia del corpo e capo della Sicurezza, Morris, si è guadagnato la fiducia del presidente rischiando la vita per lui in passato con una pallottola ancora incastrata nel suo petto. Intanto un gruppo di terroristi guidati da Ha-zar, dopo aver fatto atterrare con l’inganno un elicottero per il trasporto di cacciatori di fauna selvatica, raggiunge la vetta di un mon-te da dove poter sparare i propri missili con l’obiettivo di colpire l’aereo presidenziale. Di lì a breve l’Air Force 1 subisce quest’attacco e intanto dal Pentagono cercano di risolvere l’emergenza aerea chiamando come esperto di attentati il prof. Herbert; a ragionare sul da farsi ci sono anche il vicepresidente degli USA e la direttrice della CIA. Intanto Morris è riuscito a mettere in salvo il Presidente dentro una capsula di salvataggio lanciata dall’aereo, tutti i membri dell’equipaggio si lanciano con il paracadute ma solo Morris si salva. Questo perché è la guardia del corpo l’infiltrato che il Pentagono sta ricercando dopo aver ipotizzato essere il responsabile dell’ attentato. Il Presidente, durante la not-te, una volta atterrato con la sua capsula, conosce Oskari che lo aiuta a fuggire. Così Moore scopre chi è il traditore e che è alleato al gruppo di Hazar. In un primo momento, Morris e Moore si fronteggiano in vetta poi è la volta del terrorista che non uccide subito il presidente, ma lo chiude dentro una cella frigorifera che sarà legata all’elicottero dei terroristi. Sarà Roger, questo il nome dato dal presidente al bambino, a liberarlo. La cella finisce attraverso un fiume nell’oceano fino

a raggiungere l’Air Force precipitato. I due a nuoto, una volta liberatisi da dove erano stati rinchiusi, si nascondono nell’aereo ma vengono trovati da Hazar, che viene ucciso dal presidente. Il terrorista aveva preceden-temente attivato una bomba che esplode solo dopo che i fuggitivi hanno lasciato l’aereo attraverso dei sedili volanti collegati ad un paracadute. Intanto al Pentagono, il vice-presidente degli USA e il consigliere il prof. Herbert si consultano. Il pubblico scopre così inaspettatamente che fin dall’inizio i due sono in accordo con il gruppo dei ter-roristi; per paura di essere scoperti il prof. Herbert fa fuori il vicepresidente. L’esercito americano arriverà in tempo per arrestare tutti i finlandesi, ritenuti responsabili del rapimento di Moore, quando Tapio trova che il figlio coraggioso ha salvato il Presidente degli Stati Uniti d’America. A Oskari viene conferita la medaglia d’onore.

Q uesta co-produzione tra Finlandia, Gran Bretagna e Germania parte da un’idea di base piuttosto origi-

nale del regista finlandese Jalmari Helander. Inno agli anni ‘80 – ‘90 e al filone complottista e tratto dal romanzo omonimo di Dan Smith, Big Game è un film di poche pretese. A quattro anni dal fanta-horror Trasporto ecce-zionale - Un racconto di Natale (2010), la pel-licola riporta sugli schermi lo stesso ragazzo, nipote del regista, il protagonista tredicenne Onni Tommila. Nella nostra epoca, che ha acquisito nel linguaggio di uso quotidiano la dimensione dell’attentato, l’amicizia tra il Presidente e un giovane ragazzo si rivelerà molto preziosa. Oskari deve diventare per volere del padre un cacciatore, mentre la comunità ha dubbi sulla bravura del ragazzo e che sia in grado di dare la caccia; alla fine finisce col diventare insieme al sig. Moore oggetto di caccia. Così il giovanotto diventa la sua guardia del corpo, riscattandosi alla

fine con il resto della comunità. Sullo sfon-do di un doppio complotto, “Riteniamo sia l’attentato terroristico più grave dopo l’11 Settembre” e con un doppio effetto a sor-presa, la pellicola sembra avere la pretesa di voler comunicare che la vera minaccia può essere nascosta tra i nostri amici e alleati; per questo viene più volte ribadito durante il film che i terroristi non sono legati a nessu-na matrice né ideologica, né religiosa. Una scelta piuttosto originale per un attentato dai toni “leggeri” che pur in questa dimensione di irrealtà e di fiction funziona. Nel complesso Big game - caccia al presidente è un film discreto, non impegnativo, che si apre con grandi panoramiche iniziali e tratteggiato dallo humor ‘nero’ e da una scarsa caratteriz-zazione dei personaggi, lasciando perlopiù spazio all’azione. Le parti che funzionano meglio sono quelle caratterizzate dall’ironia, anche se, a volte infatti si scivola un po’ nella retorica. Aldilà di qualsiasi civiltà e cultura, in questa vicenda ci si trova a dover affrontare una sfida alla sopravvivenza in cui si incon-trano due individui dai mondi estranei. Tan-tissime le citazioni da E.T. a Indiana Jones, passando per The Karate Kid; ad esempio, i combattimenti sono molto più veritieri che in altri film. Bel cast tra cui il protagonista Samuel L. Jackson, Ray Stevenson, il bravo Onni Tommila, Victor Garber (Titanic) e Jim Broadbent. In questa pellicola non si riesce a capire quale sia l’intento del regista che mischia vari generi tra cui anche l’avventura per ragazzi. Un action un po’ trash e dalle sfumature da B-movie che, nonostante il budget limitato, risulta di buona qualità. La traduzione del titolo, il grande gioco, sembra suggerire allo spettatore un qualcosa che poteva andare oltre alle solite tematiche americane della natura e del patriottismo. Ma anche questo fa parte del gioco.

Giulia Angelucci

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Belgio, Francia, Lussemburgo, 2015

Regia: Jaco van DormaelProduzione: Jaco van Dormael, Olivier Rausin, Daniel Mar-

quet per Terra Incognita Films, Après le Déluge, Caviar Films, Climax Films, Juliette Films, in co-produzione con Juliette Films, Orange Studio, Vido et RTBF, BNP Paribas Fortis Film Finance, Belga Productions

Distribuzione: I Wonder PicturesPrima: (Roma 26-11-2015; Milano 26-11-2015)Soggetto e Sceneggiatura: Thomas Gunzig, Jaco van

DormaelDirettore della fotografia: Christophe BeaucarneMontaggio: Hervé de LuzeMusiche: An PierléScenografia: Sylvie Olivé

Costumi: Caroline KoenerEffetti: Digital GraphicsInterpreti: Pili Groynen (Éa), Benoît Poelvoorde (Dio),

Catherine Deneuve (Martine), François Damiens (François), Yolande Moreau (Moglie di Dio), Laura Verlinden (Aurélie), Serge Larivière (Marc), Didier de Neck (Jean-Claude), Romain Gelin (Willy), Marco Lorenzini (Victor), Anna Tenta (Xenia, la tedesca), Johan Heldenbergh (Il prete), David Murgia (Gesù Cristo), Gaspard Pauwells (Kevin), Bilal Aya (Philippe), Johan Leysen (Il marito di Martine), Domenique Abel (Adamo), Lola Pauwells (Eva), Sandrine Laroche (Catherine), Louis Durant (Marc a 9 anni), Jean Luc Piraux (Il papà di Willy), Anne-Pascale Clairembourg (La mamma di Wily)

Durata: 113’

DIO ESISTE E VIVE A BRUXELLES(Le tout nouveau testament)

D io esiste.Vive a Bruxelles, è una

persona come un’altra anzi peggio di altre, odioso, vigliacco, vendica-tivo, pessimo marito, ha una moglie obesa, casalinga allo stremo, che per difendersi da lui si è autotrasformata in un essere dallo stupore catalettico e zero interessi tranne la sua amatissima collezione di figurine.

Anche come padre Dio vale molto poco; il primo figlio se ne è andato presto lontano da lui per dedicarsi alla predica-zione e morire in modo atroce. Ora è la figlia Éa che si ribella e, per vendicarsi di questo padre padrone e dei suoi soprusi, mette a soqquadro i dati del conputer da cui dipendono i destini del mondo rive-lando a tutti la data della propria morte e quindi fugge da casa in cerca di conoscen-za ed esperienze.

Éa conosce subito Victor, barbone onesto e smaliziato nello scegliere i resti validi da mangiare nei cassonetti della spazzatura: con Victor, nominato scrivano ufficiale, Éa si prefigge di scrivere un nuovo “Nuovo Testamento” che tenga conto delle esigenze, delle aspirazioni e delle paure della gente di oggi.

Così, il disastro della conoscenza della propria morte si trasforma, per tutti i personaggi che Éa incontra nel rendere più concreto e più vero il restante pezzo di vita che manca, dandogli finalmente quel significato che fino a quel momento nessuno era stato in grado di dare.

Succede anche che la moglie di Dio, durante le faccende domestiche, stac-chi la corrente del computer per usare l’aspirapolvere e che la successiva ri-attivazione della linea web produca poi l’azzeramento di tutti i dati compreso

quello della morte di ognuno che morirà quando sarà il momento, per tutti scono-sciuto, ma non ora.

Contemporaneamente Dio che si era messo in caccia della figlia viene scambia-to per un extracomunitario e respinto nel suo Paese uzbeco a fabbricare lavatrici.

È proprio giusto il tocco pittorico di fiori e colori sul finale, avviato e gestito dalla mamma casalinga al massimo della propria fantasia.

F ondamentale, naturalmente, è il plot narrativo di base, cioè la conoscenza da parte di tutti della

data della propria morte. Il fatto permette, al regista Jaco Van Dormael di dare corso a una serie di conseguenze tragiche, co-miche ed esilaranti, condite da una forte dose di imprevedibilità che colora con forti pennellate la varietà di reazione degli esseri umani.

La gestione registica, a tratti spensie-rata, a tratti spassosa, talvolta con pretese di approfondimento psicologico e sociale che lascia perplessi, ma subito virato in burla e in nonsense si attesta quasi subito su un alto tasso di surreale da cui non scende più. Il tutto è poi inzeppato di vel-leità femministe, meditazioni dissacratorie e spruzzate pseudoculturali di notazioni intellettualistiche.

È mancato molto però a tutto questo: è mancata la capacità di trasformare il gran calderone di elementi e trovate in diverti-mento, mentre tutta la sua follia e la sua forza dissacratoria, in più di un momento inutile e incomprensibile, lascia perplessi, interdetti e impossibilitati a partecipare alla complicità del gioco, appesantito e stralunato dal tasso debordante dell’im-postazione surreale.

Fabrizio Moresco

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Stati Uniti, 2015

IL VIAGGIO DI ARLO(The Good Dinosaur)

Regia: Peter SohnProduzione: Pixar Animation Studios, Walt Dsney Pictu-

resDistribuzione: The Walt Disney CompanyPrima: (Roma 25-11-2015; Milano 25-11-2015)

Soggetto: Peter Sohn, Erik Benson, Meg LeFauve, Kelsey Mann, Bob Peterson

Sceneggiatura: Mag LeFauveMusiche: Mychael Danna, Jeff DannaDurata: 100’

6 5 milioni di anni fa un meteorite ha mancato il suo bersaglio e sulla Terra non si sono estinti i dinosau-

ri. Tra le tante specie ci sono i sedentari Apatosauri Papo Harry e Mami Ida che abitano vicino al monte Zanna di Lupo e si prendono cura della loro fattoria. Danno loro una mano i figli Buck, Libbi e Arlo. Ognuno ha un compito nella tenuta, l’in-sicuro Arlo dovrebbe dar da mangiare alla galline ma ha paura. Oltre alle mansioni quotidiane, l’intera famiglia di Apatosauri deve metter via le provviste per l’inverno. All’esterno della struttura dove c’è la ri-serva di cibo, il papà decide di far mettere le impronte di ciascuno solo quando viene portata a termine una grande impresa. Solo Arlo, per il suo carattere, non riesce a metterla mai. Un giorno papà Harry, vedendo il figlioletto in difficoltà nel com-piere una qualche impresa eroica, decide di affidargli un compito importante: scoprire e uccidere il ladruncolo di provviste. Con impegno Il piccolo dinosauro fa la guardia alla preziose riserve alimentari, quando un giorno scopre che il furfante di provviste è un piccolo umano. Prova a spaventarlo ma è Arlo ad aver paura e così la fa avere vinta ancora una volta al brigante. Ma il papà non accetta che il figlio sia stato così debole da non aver saputo dargli la caccia. Così lo porta aldilà del loro podere verso il monte, ma una tempesta improvvisa li coglie in cammino. C’è una forte alluvione che porta via tutto alberi, terra dove papà Harry morirà mettendo in salvo il suo cucciolo. Così Arlo si ritrova solo e lontano dalla casa, perso dopo essere stato trascinato dalla corrente; l’unica cosa che il papà gli aveva detto prima di morire era che, per tornare, avrebbe dovuto seguire il fiume. Nel tentativo di tornare a casa incontra nuova-mente il piccolo indigeno, lo chiama Spot e insieme si aiutano l’un l’altro. Spot non parla ma lo difende da ogni pericolo come dice ad Arlo il saggio Silvano lo Sciamano, uno Stiracosauro che vive nella foresta e che che porta sulle sue corna altri animali per farsi consigliare tra cui: Furia un saltafango che lo protegge dagli animali che strisciano

di notte, Attila un fennec che lo protegge dagli insetti, Melogramo un ceratogaulo che lo protegge dal prefissarsi obbiettivi irraggiungibili e Derby un uccellino rosso che gli fa da consigliere. Così, aiutandosi a vicenda e collaborando, i due diventano grandi amici. Aldilà dei pericoli ambientali, i cuccioli vengono minacciati da un branco di pterosauri guidati da Tonitrus, il quale fa loro una lezione di vita su come si affronta una tempesta. Questo, insieme a Nubifragio e Tormenta, comincia a inseguire Arlo e Spot, quando questi vengono salvati da due fratelli tyrannosauri, Ramsey e Nash. Poco dopo, i due piccoli avventurieri conoscono anche il loro papà, Butch, che chiede loro una mano a ritrovare la loro mandria di bisonti giganti e a liberarla da alcuni furfanti, dei perfidi Velociraptor guidati da Bubbha. Una volta scampato il pericolo, Butch e i suoi figli raccontano le loro storie coraggiose ad Arlo e al suo amico Spot. In cambio del loro prezioso aiuto contro i velociraptor, Butch accompagna i due compagni di avventura nelle vicinanze di casa. Quando i due sono vicini alla meta, Spot viene rapito da Tonitrus. Arlo riesce a salvare l’amico e a rimettersi con lui in viaggio. Una volta in prossimità della fattoria, Spot ritrova la propria famiglia. Così i due amici si separano e Arlo torna dai suoi fratelli e dalla sua mamma, questa volta mettendo anche la propria orma sulla costruzione delle provviste.

I l nuovo capolavoro della Disney Pixar prende spunto dal classico Il re leone (1994) e il più recente L’era glaciale

(2002). Ancora una volta la resa grafica della pellicola è stupefacente come anche i colori dello scenario naturalistico. Del primo film citato, la scena della morte del padre di Simba Mufasa, con il passaggio degli gnu, ricorda molto la morte del papà di Arlo, Harry, durante l’alluvione; altra scena molto simile comune alle due pel-licole è quella in cui compare il fantasma del padre ai due piccoli animali. Il rapporto padre figlio e la sua analisi è, in entrambi i casi, solo l’incipit di queste pellicole, in

cui la famiglia ha un ruolo molto impor-tante: sia quella di origine sia quella che si acquisisce per amore nel nostro viaggio della vita. È così che succede ad Arlo e al selvaggio Spot, che comunicano in manie-ra non convenzionale e si comprendono in un linguaggio non verbale. A proposito dell’amore per la famiglia, sono strappala-crime in particolare due scene: quella in cui i due rappresentano la propria famiglia con dei pezzi di legno e un cerchio a terra e si comunicano l’un l’altro di aver subito delle perdite e quella quella finale in cui Arlo deve lasciar andare via il proprio amico che ha ritrovato la sua famiglia e ripropone il cerchio a terra con cui si erano aperti l’un l’altro sui loro preziosi legami affettivi. Una scena che ricorda L’era Glaciale quando Manny, Sid e Diego, al termine della loro avventura, devono restituire il piccolo uomo alla propria famiglia; il messaggio importante trasmesso è di quell’amore vero per il quale, dopo essersi occupato di qualcuno, lo si lascia andare per il proprio bene. Perché, in fondo, nel viaggio di Arlo ciascun animale racconta la propria filoso-fia di vita (come ad esempio lo stormo dei pterosauri per i quali “La tempesta è una festa”), in un immaginario completamente ribaltato. Basti pensare che gli Apatosauri fanno una vita stanziale e che la parte dei buoni viene lasciata ai tirannosauri, che in altri film ad ambientazione preistorica fanno sempre la parte dei cattivi per ec-cellenza. I tirannosauri, in particolare la figura di Butch, saranno con il loro affetto e il loro atteggiamento protettivo una nuova famiglia per i due piccoli. Durante la pel-licola quindi si valorizzano le diversità di ciascun animale, con il proprio carattere,ad eccezione di Arlo che in questo non viene compreso dal padre. Da una parte c’è la volontà di insegnare a un figlio la durezza della vita ma, dall’altra, c’è anche una mancata accortezza nel capire i diversi tempi di un essere vivente. Un obiettivo, quello dell’impronta, che viene raggiunto dal protagonista più tardi dei propri fratelli, in un processo di maturazione del tutto personale ma non per questo meno bello.

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L’amore più grande, quello che sconfigge le paure, è quello che istintivamente porta Spot, con reminiscenze del Mowgli di Il libro della giungla, a prendere in simpatia il piccolo dinosauro. In questo tripudio di valori importanti e buoni sentimenti, non

mancano scene esilaranti come quella in cui si prende l’insetto che viene suonato come fosse un flauto di Pan o come il personaggio di Silvano lo Sciamano. Il Viaggio di Arlo è un coinvolgente film sulla complessità del crescere e del diventare

grandi in cui si scopre che “non puoi libe-rarti della paura ma puoi resisterle”, perché è solo superando le proprie paure che si scopre la bellezza che ci sta intorno.

Giulia Angelucci

Italia, Francia, 2015

Regia: Laura Morante, Daniele Costantini (Collaborazione alla regia)

Produzione: Luigi Musini, Olivia Musini, Renato Ragosta per Cinemaundici e Elafilm

Distribuzione: Warner Bros. PicturesPrima: (Roma 5-1-2016; Milano 5-1-2016)Soggetto e Sceneggiatura: Laura Morante, Daniele CostantiniDirettore della fotografia: Fabio ZamarionMontaggio: Esmeralda CalabriaMusiche: Nicola PiovaniScenografia: Luca Merlini

Costumi: Agata CannizzaroInterpreti: Laura Morante (Flavia), Piera Degli Esposti

(Dott.ssa Grünewald, psicanalista), Francesco Pannofino (Gerardo), Lambert Wilson (Michele), Marco Giallini (Mauro), Donatella Finocchiaro (Evelina), Angela Finocchiaro (Valeria), Antonello Fassari (Istruttore di guida), Gigio Alberti (Willy), Emanuela Grimalda (Giusi), Carolina Crescentini (Ilaria), Eugenia Costantini (Giovanna), Edoardo Pesce (Istruttore di guida anni 90), Giovanni Anzaldo (Nicola, figlio di Gerardo), Filippo Tirabassi (Stefano, figlio di Willi)

Durata: 97’

ASSOLO

U na stanza con vari uomini vestiti di nero, la scena di un funerale di una donna. Presenti tutte le

figure maschili che hanno fatto parte della sua vita. La voce fuori campo di Flavia, una cinquantenne con due matrimoni falliti alle spalle e due figli, commenta un sogno con la sua psicanalista. Flavia è una donna fragile e insicura, è sempre alla disperata ricerca del consenso e dell’affetto delle persone che la circondano. Incapace di separarsi emotivamente dai suoi ex mariti Gerardo e Willy, da cui in parte dipende economicamente, vivendo in una casa che è sua solo per il venti per cento, Flavia intesse rapporti amichevoli anche con le loro nuove compagne, Giusi e Ilaria, che considera molto più risolte di lei. In questa famiglia allargata, Flavia è però sempre sola, incapace di raggiungere qualsiasi obiettivo per lei davvero importante. Prova da tempo a prendere la patente di guida, ma con scarsi risultati. È iscritta a un corso di tango, ma nessuno la invita mai a ballare. Un senso di inferiorità presente in lei fin dall’infanzia, la costringe a dipendere dalle persone a causa di una patologica insicurezza. Nel tempo si è costruita una rete malsana di rapporti che le ha donato un falso senso di protezione e sicurezza. Neanche le amiche che ha accanto, Eveli-na e Valeria, entrambe succubi dei propri compagni, sono un gran modello. L’unica che sembra comprenderla è la sua psico-loga, che non la giudica, ma anzi cerca di scuoterla e di darle una direzione. Nel silenzio sentimentale Flavia trova un po’ di affetto nella cagnolina dei vicini, che

sembra darle attenzioni, senza pretendere nulla in cambio. Al contrario di Mauro, il collega di lavoro, che tenta un approccio rozzo e sbrigativo. Tutte le sue amiche sono più sicure e disinibite di lei e, soprattutto, hanno una sessualità libera e amano il proprio corpo. Invece Flavia è “antica” come le dicono i figli, anche quando gof-famente, con tanto di manuale, approccia all’autoerotismo. Tra incidenti di percorso, inseguimenti e scoperte impara che nes-suna donna è perfetta e che l’autostima e la libertà tanto inseguite erano proprio li, a portata di mano. La verità gliela mette sotto il naso la psicanalista, offrendole la possibilità di uscire da quelle porte che l’hanno sempre imprigionata. A quel punto Flavia riprende in mano la sua vita, prende la patente, una nuova macchina rosso fuo-co, il cane e finalmente sarà lei a scegliere l’approccio con un uomo.

L aura Morante, alla seconda prova come regista e autrice, affiancata nella sceneggiatura dall’ex marito

Daniele Costantini, prosegue il discorso iniziato con Ciliegine, costruendo un’al-tra commedia che sembra riprendere il cinema francese e quello di Woody Allen. Assolo, come spiega la protagonista, è una composizione, o parte di essa, eseguita da un solo esecutore, isolato da una massa corale o strumentale. Laura Morante scrive e dirige la storia di una donna che come tante è diversa dalle altre, imperfetta. Ma proprio dall’imperfezione nasce quella normalità. Pensato, scritto e diretto dalla regista, Assolo è l’esperienza realistica,

ma anche molto onirica di una donna. Il racconto parte prendendo di petto il tema della morte, che sottende l’intera storia e ri-guarda quasi tutti i personaggi, descritto in una sequenza onirica tra Fellini e Sorrenti-no. La morte infatti è un punto di partenza, perché al suo cospetto il tempo stringe, le opzioni si riducono e quelle che restano sono quelle che contano. E il tempo, an-che se poco, può bastare, se lo si usa per andare in avanti, invece che guardare in-dietro all’infinito. Fidanzati, matrimoni falliti, amanti sposati, la vita di Flavia è costellata di uomini complicati e problematici, da cui la protagonista dipende completamente, anima e corpo, debole di fronte alle insidie della quotidianità, incapace di reggere il confronto con il restante genere femminile. Sempre insicura, inadeguata a sostenersi con le proprie gambe, Flavia è l’emblema dell’irrilevanza che l’individuo può sentire nei riguardi della sua esistenza; così tre-mendamente sola, sia nella condizione vi-tale sia nella dimensione sentimentale, ha il bisogno costante di un surrogato affettivo maschile al fianco. La vita che le si è creata tutta intorno è disseminata di dinamiche destabilizzanti dovute ai matrimoni con i precedenti mariti, nonché all’“amicizia” con le loro attuali mogli e dal timore del crudele giudizio esterno. Incompresa dagli altri, ma soprattutto da sé stessa, i giorni passano per la protagonista: tramite piccoli traguardi, che siano il riuscir a prendere la patente o la compagnia di una dolce cagnetta, Flavia alla fine si riscatta da un mondo dal quale si sente pesantemente schiacciata, colmando un vuoto interiore,

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senza sentire la necessità di qualcosa o di qualcuno. In una storia di maturazione la protagonista, a cinquant’anni, deve imparare a scegliere, invece di aspettare di essere scelta. Le serate di tango, le uscite disastrose con inadeguati compa-gni, le innumerevoli sedute di psicanalisi in cui sogno e realtà si intrecciano con nevrotica frenesia segnano un percorso di crescita all’insegna dell’introspezione e del lavoro su se stessi. Sono infatti le stesse de-lusioni e gli ostacoli incontrati nel percorso che renderanno più forte ed indipendente la protagonista. Flavia capirà che non è possibile amare una donna che non ama sé stessa. Analizzate le peggiori paure delle donne, dall’inadeguatezza sessuale allo scoraggiamento dovuto al confronto con l’universo donnesco fino all’impossibilità di cavarsela da sole, il film offre immagini drammatiche e mortificanti non solo grazie alla protagonista, ma aggiungendo perso-naggi di cui pochi dovrebbero sentirsi fieri: un’amica abbandonata ed ancora succube

di un amore finito, un’estetista sessuoma-ne e perversa, una fidanzata possessiva, una moglie traditrice, quadretto dal quale si salva solo la dottoressa Grünewald, la psicologa, giusta e sensata. Interessante la ripresa della terapia del “Gioco della Sabbia” di Dora Kalff, una modalità psico-terapeutica a orientamento psicanalitico che si basa su una forma di lavoro pratico e creativo: la costruzione di una serie di rappresentazioni immaginarie all’interno della relazione analitica, con un contenitore di sabbia e una serie di oggetti in miniatura. Attraverso l’uso degli oggetti nello spazio circoscritto della sabbiera, il paziente co-struisce una serie di rappresentazioni con la finalità di rappresentare il proprio mondo interiore inconscio, intraprendendo un viaggio simbolico-immaginativo attraverso le immagini della propria psiche. L’autrice si regala un autoritratto pieno di grazia e iro-nia, mai beffardo o crudele, poco incline ai patetismi e ai compiacimenti vittimisti. Ne emerge un’antieroina che vorrebbe vivere

a “Paperopoli” e che legge il manuale di autoerotismo. È impossibile non voler bene alla sua Flavia e non immedesimarsi nelle sue paure ed incertezze, che sono quelle di qualsiasi donna che attraversa il presente incespicando nei suoi errori passati e, in qualche modo, resta in piedi, che aspira a uscire dal coro, ma non osa l’assolo per paura di stonare. Al centro della storia c’è una tematica fondamentale della nostra epoca: il concetto di solitudine, distinta tra condizione di vita e percezione di sé; per-ché si può essere soli e non soffrirne, così come si può essere in due e sentirsi co-munque disperatamente soli. I personaggi maschili, che siano ex mariti, figli o possi-bili pretendenti appaiono assolutamente incompiuti e irresistibilmente sgradevoli. La Morante esibisce una cifra narrativa singolare, fatta di malinconia, ma anche leggerezza, delicatezza e una buona dose di autoironia. Il suo sguardo coraggioso sulla maturità femminile sembra darci un’occasione in più per poter godere la pienezza e migliorarsi, allontanando quegli stereotipi di donne cinquantenni invisibili e inette. Così il finale del film non può che essere di carattere onirico, all’insegna del colore rosso, che dominava i suoi sogni e rimanere sospeso. Naturalmente Laura Morante costruisce la pellicola sul proprio personaggio e sulla sua personale inter-pretazione, fatta di esitazioni, tentativi, tic facciali e tremolii vocali, che l’attrice mette in scena con sapienza e originalità. E si circonda inoltre di un coro di personaggi collaterali intensi, autentici e mai para-dossali. Ne sono un esempio il collega sempliciotto Marco Giallini, la terapista Piera Degli Esposti, l’ex marito “piacione” Francesco Pannofino, l’amica pazzoide Angela Finocchiaro, Donatella Finocchiaro e Carolina Crescentini.

Veronica Barteri

Francia, 2015

THE TRANSPORTER LEGACY(Le Transporteur: Héritage)

Regia: Camille DelamarreProduzione: Mark Gao, Luc Besson per Europacorp, TF1

Films Production, Fundamental Films, Belga FilmsDistribuzione: MedusaPrima: (Roma 24-9-2015; Milano 24-9-2015)Soggetto: dai personaggi di Luc Besson e Robert Mark

KarmenSceneggiatura: Adam Cooper, Bill Collage, Luc BessonDirettore della fotografia: Christophe ColletteMontaggio: Julien ReyMusiche: Alexandre Azaria

Scenografia: Hugues TissandierCostumi: Claire LacazeInterpreti: Ed Skrein (Frank Martin), Ray Stevenson (Frank

Martin Sr.), Loan Chabanol (Anna), Gabriella Wright (Gina), Tatiana Pajkovic (Maria), Wenxia Yu (Qiao), Radivoje Bukvic (Arkady Karasov), Lenn Kudrjawizki (Leo Imasov), Anatole Taubman (Stanislav Turgin), Noémie Lenoir (Maïssa), Samir Guesmi (Ispettore Bectaoui), Jua Amir (Robbie), Yuri Kolokolnikov (Yuri), Michael Morris (Capitano Guesdon), Nash Novcic (Ivan), Thibaut Evrard (Max)

Durata: 95’

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1 995. La nostra storia comin-cia sulla French Riviera; siamo nel Principato di Monaco tra i

trafficanti russi. Frank Maltin, alias il Trasportatore, è un famoso autista le cui regole sono semplici e chiare: niente nomi, nessuna domanda, nessuna rinegoziazione del contratto. Prima Frank lavorava per Arkady Karasov, il boss russo con un giro di prostituzione sulla costa tra cui le sue signorine Maissa e Anna. 15 anni dopo, Frank con la sua Audi è ancora disponibile per nuova clientela e, mentre festeggia con il padre andato in pensione dal consolato britannico, viene contattato da una donna. Intanto in un albergo due escort Gina e Qiao uccidono due uomini di Karasov tra cui Stanislav Turgin. Il Trasportatore continua a far viaggiare con la sua auto qualsiasi persona con il proprio bagaglio sconosciuto e così viene ingaggiato da Anna, dalle due compagne di squadra Gina e Qiao e da una quarta donna di nome Maria. Il loro piano è vendicarsi di 15 anni passati nel giro della prostituzione. Così, insieme a Frank, le ragazze portano avanti la loro strategia anche arrivando a sequestrare il padre di Frank. Fra Anna e il Trasportatore si crea anche un’intesa particolare a livello sentimentale, ma che non intralcia il loro lavoro. Alla fine, le ragazze riescono ad avere la meglio perché mettono Karasov contro i suoi uomini (Leo

Imasov, proprietario di una discoteca e Yuri) facendo credere loro che il capo li abbia derubati. Così Frank lascerà Anna al suo destino e lui continuerà a prendersi cura del padre ex agente.

D ai produttori di Lucy e della tri-logia Taken ecco un altro action movie adrenalitico per chi ama

vedere donnine che muovono il loro fon-doschiena e macchinoni che corrono. The transporter legacy non è altro che il reboot della popolare saga cinematografica creata da Luc Besson e iniziata nel 2002 con il film The Transporter; qui, al posto di Jason Statham dei precedenti episodi, troviamo Ed Skrein; l’attore e rap-per britannico(pseudonimo The Dinnerlady P.I.M.P) ha recentemente firmato per un ruolo di supporto in Deadpool; volto già visto nei panni di Daario Naharis nella terza stagione della serie tv Il trono di spade e nel recente action a sfondo stori-co I Vichinghi, aggiunge all’atmosfera già commercialotta (tra gli ammiccamenti agli i phone o all’Audi) ulteriore ritmo pop. Per chi vuole divertirsi senza alte aspettative il film scimmiotta un po’ alcune scene che solitamente si possono gustare solo con gli episodi di Mission impossible: tra le tantissime sgommate delle macchine troverete una coattissima scena della macchina sotto un aereo in movimento da

cui si lanciano persone, la stessa auto che entra dentro l’aeroporto. Come in Taken anche qui si amano i combattimenti a più riprese a mani nude che risultano ridicoli e un po’ improbabili. The transporter legacy deve però confessare alcuni pastrocchi registici qua e là: compaiono improvvisa-mente delle maschere nei bagni di una discoteca, ci sono delle scene mancanti, Anna che viene ferita al petto con una pallottola guarisce subito, vengono rappresentati dei trasferimenti bancari con cifre astronomiche che vengono aggiornati all’istante con un solo tablet. Tra tanti peccatucci dobbiamo spezzare una lancia a favore del thriller di Camil-le Delamarre, che riscrive in maniera rivoluzionaria il ruolo della donna all’in-terno dei film d’azione, conferendole pur sempre quella nota di femme fatale dei film di 007, ma lasciandole più potere decisionale e strategico. Nel cast, oltre al noto protagonista, c’è Ray Stevenson, visto di recente nella parte del villain di Big Game-Caccia al presidente. Ma ciò che ricorderemo di più di questo film, in questa regia iperealistica e quasi fumetti-stica, sono le sequenza in bianco e nero, in cui, in maniera didascalica, ci viene scritto il nome dei personaggi per capire chi sono dopo che è trascorso del tempo.

Giulia Angelucci

Stati Uniti, 2015

Regia: Todd HaynesProduzione: Number 9 Films, Killer Films, in associazione

con Studiocanal, Hanway Films, Goldcrest, Dirty Films, In-film, Larkhark Films Limited

Distribuzione: Lucky RedPrima: (Roma 5-1-2016; Milano 5-1-2016)Soggetto: dal romanzo omonimo di Patricia HighsmithSceneggiatura: Phyllis NagyDirettore della fotografia: Edward LachmanMontaggio: Affonso GonçalvesMusiche: Carter BurwellScenografia: Judy BeckerCostumi: Sandy Powell

Interpreti: Cate Blanchett (Carol Aird), Rooney Mara (Therese Belivet), Kyle Chandler (Harge Aird),Jake Lacy (Richard Semco), Sarah Paulson (Abby Gerhard), Cory Michael Smith (Tommy Tucker), Carrie Brownstein (Genevieve Cantrell), John Magaro (Dannie McElroy), Kevin Crowley (Fred Haymes), Trent Rowland (Jack Taft), Nik Pajic (Phil McElroy), Michael Haney (John Aird), Ann Reskin (Florence), Jeremy Parker (Dorothy), Sadie Heim (Rindy Aird), Kennedy Heim (Rindy Aird), Amy Warner (Jennifer Aird), Wendy Lardin (Jeanette Harrison), Pamela Haynes (Roberta Walls), Greg Violand (Jerry Rix), Jim Dougherty (Mr. Semco), Ken Strunk (Cal, barman del Ritz), Colin Botts (Ted Grey), Douglas Scott Sorenson (Charles, ospite al party)

Durata: 118’

CAROL(Carol)

N ew York 1952. Carol è una donna dalla forte personalità e di un’e-leganza e raffinatezza estreme,

sta affrontando una crisi di coppia con il marito Harde e ha una figlia di nome Rindy. Un giorno, durante delle spese natalizie in un negozio a Manhattan, incontra una giovane commessa di nome Thérèse. Tra le due c’è feeling e Carol, dopo aver acquistato

un trenino giocattolo per la figlia, dimen-tica i guanti in negozio. Anche la giovane commessa è impegnata e anche lei vive una situazione complessa; non si sente pronta ad accettare la proposta di matrimonio del fidanzato Richard, è riservata e confusa sul proprio futuro. Poi c’è Dannie, un altro pretendente, che la vorrebbe al suo fianco oltre che come fotografa al New York Times.

La giovane, contesa tra questi due ragazzi, sembra avere come unico pensiero Carol; così, decide di riportare all’affascinante signora l’oggetto dimenticato; da lì comin-cia la loro frequentazione. Tra le due nasce un’incredibile storia d’amore che le porta a superare le loro solitudine emotive viag-giando insieme, allontanandosi verso Ovest dalla Grande Mela per passare insieme il

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Natale. Durante la loro relazione, però, è in ballo la difficile decisione dell’affido di Rin-dy, che è stata sottratta a Carol con l’accusa di una condotta poco morale. Si scopre così che questa, anche prima di Thérése, aveva intrattenuto un’altra relazione omosessuale clandestina con una donna di nome Abby. Il marito da allora non aveva accettato la vera natura di Carol e aveva cercato in tutti i modi di riconquistarla invano. Il suo ultimo tentativo di ricatto per riaverla è non farle vedere la figlia. Egli manderà durante il viaggio delle due amanti un investigatore privato che filmerà le prove della loro re-lazione. Inizialmente Carol decide di inter-rompere la relazione con la ragazza per non procurarle altri problemi, va in cura da uno psicanalista per riacquisire la sua immagine di madre e moglie modello; ma poi prende coscienza, anche grazie all’aiuto della sua amica Abby, di non poter combattere la sua vera natura. Decide così di mettere in vendita la villa dove abitava con Harde, di dare la bambina in custodia al marito e di andare a vivere da sola. Non si è mai dimenticata del suo grande amore, che nel frattempo continua a cercarla. Un giorno decide di ricontattarla e da lì riprendono insieme la loro storia.

“M ia cara, niente accade per caso e tutto torna al punto di partenza”; questo l’incipit del-

la lettera che la protagonista del nuovo film di Todd Haynes interpretata da un’indimentica-bile Cate Blanchett scrive alla propria amata. Un dramma intimistico che vede come nu-cleo della vicenda una donna di mezza età, Carol e la giovanissima Thérése e la loro storia d’amore. Al centro della storia sono due donne che devono trovare un altro posto nel mondo. Passione, libertà, emancipazione

l’affascinante signora torna a dover rendere conto ai suoi impegni presi. “Tu cerchi una soluzione perché sei giovane” dice all’amata, cerca di chiudere la relazione per il suo bene, va in cura da un dottore ma il suo cuore sta realmente altrove. Così, mentre trova il coraggio di prendere delle scelte sofferte, durante la sua lontananza la giovane compa-gna, prima bisognosa di sicurezze, diventa donna anch’essa. Le due si ritrovano unite dallo stesso amore di prima pur se in un nuovo equilibrio. Per questo il regista, già vicino alla tematica con Lontano dal Paradiso e con la serie televisiva Mildred Pierce, opta per un punto di vista più giovane e di far svi-luppare la vicenda attraverso il flashback di Thérèse. Una struttura a cerchio che avvolge un quadro, dall’atmosfera delicata, elegante e allo stesso tempo intensa. La magia della fotografia, quella delle inquadrature sbiadite anche grazie alle ripresa a 16 mm, riprodu-cono e ci fanno calare in un clima di altri tempi. Scelte eleganti anche per le scene di intimità tra le due donne al confronto con altri film recenti, sempre di contenuto lesbo, come, ad esempio, La vita di Adele. Ci sen-tiamo avvolti, catturati e piacevolmente rapiti dalla vicenda grazie a un ritmo lento, alla preziosa scelta musicale, ma, soprattutto, alla bravura sconvolgente e al magnetismo di Cate Blanchett, che compare anche tra i produttori esecutivi. Rooney Mara, nono-stante la grandiosità della coprotagonista, si è conquistata con la sua bravura (e le sembianze alla Audrey Hepburn) il premio all’interpretazione femminile al Festival di Cannes. La pellicola, tratta dal best seller di Patricia Highsmith The price of salt, si è guadagnata meritatamente 5 candidature ai Golden Globe e ha incantato il suo pubblico “per una questione di sguardi”.

Giulia Angelucci

e ricerca dell’identità al centro dell’intreccio più che la sola tematica omosessuale, La pellicola è ambientata nell’America degli anni ’50, un periodo storico particolarmente delicato dove poter seguire la propria natura equivaleva a combattere contro il giudizio morale dell’epoca. Sono omosessuali, di età e ceto diverso. Esse in maniera diversa e con la propria indole vivono con posatezza ma allo stesso tempo con passione la loro relazione. Una storia d’amore in cui Carol dichiara alla compagna “Ci siamo concesse il più straordinario dei regali” ma che appunto, per la diversa condizione di partenza, viene affrontata da due punti di vista diversi. Ca-rol agli occhi della società e di suo marito deve essere una madre e una moglie che rispecchi i canoni della “normalità”. Invece la donna si trova a dover convincere se stessa ma soprattutto il mondo esterno di quel che vuole realmente. A tratti lucida e in altri momenti persa nello sguardo di Thérèse,

Stati Uniti, 2015

Regia: Steve MartinoProduzione: Paul Feig, Bryan Schulz, Craig Schulz, Michael J. Travers, Cornelius

Uliano per 20th Century Fox Studios, Blue Sky Studios, Peanuts Worldwide, 20th Century Fox Animation

Distribuzione: 20th Century FoxPrima: (Roma 5-11-2015; Milano 5-11-2015)Soggetto: dai fumetti di Charles M. SchulzSceneggiatura: Craig Scultz, Bryan Sculz, Cornelius UlianoDirettore della fotografia: Renato FalcãoMontaggio: Randy TragerMusiche: Christophe BeckEffetti: Blue Sky StudiosDurata: 92

SNOOPY & FRIENDS – IL FILM DEI PEANUTS(The Peanuts Movie)

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SNOOPY & FRIENDS – IL FILM DEI PEANUTS(The Peanuts Movie)

È arrivato l’inverno, nevica e la scuola viene chiusa. Nell’eu-foria di questa buona notizia,

tutti i ragazzi giocano con la neve, mentre Charlie Brown riprova a usare il suo aquilone. A lui va tutto storto finché un, giorno, in classe arriva una nuova com-pagna, la ragazzina dai capelli rossi, della quale si innamora. Intanto il suo fedele cane Snoopy scrive un romanzo di guerra e amore sullo sfidare il celebre Barone Rosso, tutto per conquistare il cuore della cagnolina Fifi. Oltre a Snoopy, a dare una mano a Charlie, che non trova il coraggio di dichiararsi, c’è sempre il suo amico Linus. Così chiede a Lucy, al suo sportello psichiatrico, come poter conquistare la bimba dai capelli rossi e lei gli consiglia un libro su come diventare vincente. Il ragazzo decide, quindi, di partecipare alla gara scolastica, ma si trova a dover rinunciare al suo numero da mago per aiutare la so-rellina in difficoltà sul palco. Un giorno, in classe viene fatto un test d’intelligenza e qualche giorno dopo, una volta usciti i risultati, si scopre che Charlie ha totaliz-zato il punteggio massimo. Così finalmente comincia a essere stimato e osannato da tutti. Nei giorni seguenti viene organizzato il ballo della scuola e Charlie scopre che alla sua amata piace ballare e così si fa insegnare da Snoopy dei passi. Durante la festa danzante, vince la gara del ballerino più bravo, ma la serata viene interrotta da un allagamento da lui provocato. A scuola l’indomani viene assegnato agli studenti il commento di un classico di letteratura e in un fine settimana, su consiglio di Piperita Patti, si legge il famosissimo e pesantissi-mo capolavoro di Leone Testone, alias Lev Tolsotoj, Guerra e Pace. Per questo compi-to scolastico, Charlie capita in coppia con la bimba fulva e decide come carineria (e anche per timidezza) di scrivere da solo

il pezzo. Il commento, sempre per la sua distrazione, va a finire in pezzi e alla sua premiazione per il voto massimo ottenuto al test, Charlie scopre che il compito non è il suo ma è stato scambiato con quello di Piperita Patti; così dopo aver confessato platealmente che c’è stato uno sbaglio, ancora una volta il ragazzo si sente un perdente. È l’ultimo giorno di scuola e ciascuno deve scegliere il suo amico di penna per l’estate; la ragazzina dai capelli rossi sceglie Charlie Brown, che ha poco tempo per scoprire perché lo ha scelto. Così, mentre la bimba sta partendo per il campo estivo, Charlie la raggiunge per salutarla e per chiederle spiegazioni della sua scelta. La ragazzina gli dice tenera-mente che per lei non è un perdente, anzi lo apprezza tantissimo per tutte le cose dolci e coraggiose che ha fatto.

S on passati 65 anni da quando Schulz inventò i Peanuts, eppure i suoi mitici personaggi ci fanno

ancora emozionare. Il film è nato da un’i-dea del figlio di Charles M. Schulz, Craig, ed è stato scritto da quest’ultimo e da suo figlio Bryan (il nipote di Charles).Distribuito dalla 20 Century Fox e prodotto grazie alla tecnica della Computer Generated Imagery, la pellicola presenta le strisce originali pre-sentandole in stereoscopia, cercando di si-mulare la bidimensionalità in 3d, senza per-dere la ricchezza e la maestria dei disegni cartacei. Alcune animazioni in bianco e nero servono a rappresentare l’immaginazione di Charlie Brown, in perfetto stile Schultz. Di tanto in tanto, compaiono dei segni grafici del mondo dei comics e i colori e i disegni sono bellissimi e molto vivaci, impreziositi dal segno manuale degli occhi e del viso. Ma, nonostante tutti gli accorgimenti tecno-logici, non vengono traditi i tormentoni né lo spirito del fumetto originale: come sempre

Lucy insegue Schroeder, lui suona il piano, Piperita Patti vive in simbiosi con Marcie e Snoopy bisticcia con Woodstock. La scelta è stata quella di utilizzare ancora una volta per le voci di Snoopy e Woodstock, quella del loro storico doppiatore Bill Melendez, tristemente scomparso qualche anno fa. Il regista Steve Martino (ricordate Ortone e il mondo di Chi? e L’era Glaciale 4) ripropo-ne tutti gli elementi della psicanalisi in un mondo interamente riservato ai bambini. Gli adulti non ci sono e, per sottolineare l’estraneità alla dimensione fanciullesca di Snoopy e dei suoi compagni, viene usata la geniale trovata registica di far emettere agli adulti dei suoni non comprensibili quando parlano. Bel ritmo dato anche dalla comicità slapstick e da alcune scene di-vertenti come quella del flamenco o come quella in cui la sorellina di Charlie Sally gli fa da manager, creando dei prodotti per sponsorizzare il fratello diventato famoso in tutta la scuola. Come spassosissimo è il personaggio di Snoopy, l’alter ego dina-mico ed estroverso di Charlie Brown, con la sua simpatia “non verbale” che viene solo intuita o comunicata attraverso delle simpatiche nuvolette. La storia viene spez-zata dalle sue invenzioni letterarie e di lui in versione Asso della Prima guerra mondia-le, forse con delle sequenze un po’ troppo lunghe per poter creare movimento nella vicenda del protagonista. Un’avventura che ruota attorno allo sfortunato e dolcis-simo pasticcione Charlie Brown, ma in cui ogni personaggio ha la propria personalità e la cui bellezza viene dalla loro umanità, da quelle peculiarità in cui ci riflettiamo un po’ tutti noi. Un film sull’autostima, sul credere in noi stessi e sulle piccole cose, che regala tante piccole emozioni ai grandi e ai piccini.

Giulia Angelucci

Germania,Olanda, Francia, 2015

Regia: Aleksandr SokurovProduzione: Idéale Audience, Zéro One Production, N279

Entertainment, in co-produzione con Arte France Cinema, Le Musee du Louvre

Distribuzione: Academy TwoPrima: (Roma 17-12-2015; Milano 17-12-2015)Soggetto e Sceneggiatura: Alexei Jankowski, Aleksandr

SokurovDirettore della fotografia: Bruno DelbonnelMontaggio: Alexei Jankowski, Hansjörg Weissbrich

Musiche: Murat KabardokovCostumi: Colombe Lauriot PrevostEffetti: Jean-Michel BoublilInterpreti: Louis-Do de Lencquesaing (Jacques Jaujard),

Benjamin Utzerath (Conte Franziskus Wolff-Metternich), Vincent Nemeth (Napoleone Bonaparte), Johanna Korthals Altes (Marianne), Catherine Limbert (La segretaria di Jacques Jaujard), Eric Moreau (Capitano tedesco), Andrey Chelpanov, Jean-Claude Caer

Durata: 87’

FRANCOFONIA(Francofonia, le Louvre sous l’occupation)

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Film Tutti i film della stagione

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Film Tutti i film della stagione

L ’arte ha avuto sempre la difficoltà di farsi rispettare nell’avanzata inarrestabile dei meccanismi

della Storia e contemporaneamente si è trovata di fronte sempre lo stesso nemico, cioè l’ostilità e i tentativi di sopraffazione o, addirittura, di sfruttamento da parte del potere, da chiunque questo sia stato rappresentato.

Così ci dice il regista Alexandr Soku-rov impegnato in una conversazione al computer via Skype con l’amico Kirk, comandante di un cargo che trasporta una ricca collezione di capolavori museali e che per la tempesta in atto rischia di finire in fondo al mare; contemporaneamente Sokurov rievoca i mesi terribili dell’asse-dio di Leningrado, i fatti dell’occupazione nazista in Francia, del collaborazionismo francese e delle loro conseguenze sul destino delle opere d’arte custodite nel Louvre.

Da qui ricordi, riflessioni sui fatti accaduti, fantasie, ipotetici dialoghi con i fantasmi che vagano per il Louvre come la Marianna e Napoleone, compon-gono una complessa struttura che tocca approfondimenti storici, considerazioni sul significato e sulla funzione dell’arte, meditazioni sul destino dell’uomo e il riconoscere come siano andati in pezzi gli ideali sul ruolo coinvolgente e de-terminante che avrebbe potuto e dovuto avere l’Europa.

Siamo nel 1940 e nell’aberrazione e nella follia degli uomini in guerra pare risplendere un palpito d’umanesimo: il Conte Franz Wolff-Metternich, capo della commissione tedesca per la protezione delle opere d’arte in Francia, incontra Jacques Jaujard, il direttore del Louvre che ha già organizzato l’evacuazione delle

opere maggiori dal museo nei vari castelli di Francia.

I due sono nemici ma illuminati dallo stesso senso di responsabilità, che va oltre l’opportunità di conservazione di un’opera d’arte e scopre comuni sentimenti, aspre reazioni e soprattutto simili convinzioni che appartengono a una religiosità del tutto umana e terrena, ma universale.

Questo oceano complesso di infor-mazioni, considerazioni e turbamenti va di pari passo con l’altra tempesta di cui Sokurov ha cognizione attraverso le notizie frammentate che gli pervengono dal suo amico in mezzo al mare; la nave è messa male, alcuni containers sono andati perduti, davvero non si possono stivare delle opere d’arte in un cargo squassato dalle onde e poi vale la pena affrontare un rischio enorme in un mare in tempesta con delle finalità così uto-piche?

L a scienza, l’arte, l’esistenza umana, la realtà del mondo empirico, l’espressione di una

forma di verità e la storicizzazione di ogni fenomeno che potesse compren-dere tutto questo sono i temi che hanno costituito l’ossatura dell’evoluzione del genere umano, qualunque sia stato il giudizio morale.

Ecco la parola che mancava, morale. Tutti, artisti, scienziati e ogni tipo di addetto ai lavori che si sia occupato di approfondire e allargare l’orizzonte culturale dell’uomo si è detto convinto di potere arrivare alla rappresentazione della verità, nell’elabo-razione, addirittura, di uno stile che pos-sedesse, addirittura, la forza e il prestigio della giustificazione morale.

Il regista Aleksandr Sokurov (premiato a Venezia 2011 per Faust, l’ultimo epi-sodio della tetralogia sul potere) ha ben presente tutto questo che ci trasmette secondo la sua personalissima riflessio-ne a cominciare dal titolo; Francofonia echeggia infatti un’atmosfera, di base senz’altro musicale ma che assume subi-to un significato evocativo che racchiude passato e presente a disposizione della ricerca umanistica che compie il regista lungo il suo cammino.

Misfatti terribili, orrori che la guerra porta con sé, cataste di cadaveri, can-nibalismo e disperazione, paure e follie, la violenza e la sopraffazione da sempre perpetrate dai vincitori sui vinti, ma an-che compromessi, equivoci, tradimenti: in mezzo a questo, olimpica e cristallina, divina nei suoi poteri provenienti dalla notte dei tempi e virtuosa nel preten-dere rispetto e fiducia per la dignità dell’uomo (ecco il suo significato etico) sta l’arte, la sua capacità creativa nella continua e assoluta difesa del concetto di humanitas.

Per accogliere questo senso dell’u-mano filtrato ed esaltato attraverso l’e-spressione dell’arte non poteva esistere posto migliore del Louvre, non soltanto luogo scelto per raccogliere e custodire le opere del genio, ma cuore pulsante di sentimenti e conquiste che ci accom-pagnano, in una testimonianza a metà strada tra il sogno e la materia, il ricordo e la sua inafferrabilità e il desiderio che tutto possa ancora perpetuarsi: la Marianna e Napoleone, davvero i custodi più adatti, esigenti, fantasiosi e testardi nel preten-dere rispetto per un continuum che non può mai avere fine.

In un periodo come l’odierno, in cui la bandiera nera del terrore distrugge il patrimonio archeologico di Palmira (dopo una serie di feroci atti di inciviltà nei confronti di altri siti archeologici) e ne decapita il suo conservatore, il vec-chio studioso Khaled Asaad che aveva dedicato la sua vita alla difesa di uno dei patrimoni dell’umanità, dobbiamo vedere in questo film la luce di una convinzione e di una speranza: non tutto è perduto in quest’epoca barbara se ancora qual-cuno ci fa accarezzare con lo sguardo la bellezza struggente del corpo di una statua o la pennellata miracolosa di un dipinto che ci rende partecipi del fasci-no ancora enigmatico di cosa significhi essere uomini.

Fabrizio Moresco

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Film Tutti i film della stagioneFilm Tutti i film della stagione

Francia, 2015Regia: Mark OsborneProduzione: Orange Studio, M6 Films, LppTv, On Animation

Studios, in co-produzione con Lucky Red in collaborazione con Rti

Distribuzione: Lucky RedPrima: (Roma 1-1-2016; Milano 1-1-2016)

Soggetto: dal romanzo omonimo di Antoine de Saint-ExupérySceneggiatura: Bob Persichetti, Irena BrignullMontaggio: Matt Landon, Carole DesrumauxMusiche: Hans Zimmer, Richard HarveyScenografia: Lou Romano, Céline DesrumauxDurata: 108’

IL PICCOLO PRINCIPE(Le Petit Prince)

D opo il primo colloquio andato male, per entrare nella prestigio-sa Accademia Werth, scuola che

forma i manager del futuro, una bambina si trasferisce con la madre in un nuovo quartie-re della città, vicino alla struttura. Qui dovrà impegnarsi nello studio secondo un planning estremamente articolato elaborato dalla ma-dre, la quale, donna in carriera, vuole assolu-tamente che la figlia si inserisca nella famosa scuola. La donna le sta col fiato sul collo e ha già pianificato gran parte della sua vita, ora per ora. Durante la giornata, per tutto il periodo delle vacanze estive, la bambina dovrà impegnarsi a preparare molto diligen-temente le diverse materie, senza distrazioni. Una mattina, però, lo studio viene interrotto da un bizzarro incidente. L’elica di un aereo ha rotto il muro della casa. Si tratta del nuovo vicino, che ha tentato di rimettere in moto il suo vecchio aereo. L’anziano aviatore inizia a raccontare alla bambina del suo incontro, av-venuto tanti anni prima nel deserto africano, con un Piccolo Principe, giunto sulla Terra dopo un lungo viaggio tra gli asteroidi. La bambina inizialmente sembra voler resistere alla narrazione, ma progressivamente si fa catturare da quei disegni e da quel pupazzo a forma di volpe. Così trascorre le sue giornate con l’aviatore, fantasticando sulla storia del Piccolo Principe, un bambino che vive su un lontano asteroide, B612, sul quale abita solo lui e una piccola rosa, molto vanitosa, che egli cura e ama. Il bambino aveva bi-sogno di una pecora per farle divorare gli arbusti di baobab, prima che crescessero e soffocassero il suo pianeta. Così inizia a viaggiare nello spazio, abbandonando la sua rosa. Durante il suo viaggio conosce diversi personaggi strani, che gli insegnano molte cose: un vecchio re solitario, che ama dare ordine ai suoi sudditi, sebbene sia l’unico abitante del pianeta; un vanitoso che chiede solo di essere ammirato e applaudito senza ragione; un uomo d’affari che passa i giorni a contare le stelle, credendo che siano sue. Poi il principe visita la Terra e nel deserto incontra un serpente, che gli dice di poterlo far tornare nel suo pianeta quando vorrà, lasciando sulla terra solo la sua spoglia. In seguito incontra una piccola volpe, che addomestica e fa diventare sua amica. La bambina rimane sempre più affascinata

da quella storia e con l’anziano aviatore accetta di andare a mangiare delle frittelle in città. Ma i due, durante il tragitto con la vecchia macchina, hanno un incidente. Così la bambina viene scoperta dalla madre e allontanata dall’uomo, che non ha la possi-bilità di raccontare la fine della sua storia. Mancano pochi giorni all’inizio della scuola e la bambina non ha portato a termine la sua preparazione: per recuperare è costretta a studiare giorno e notte. Tuttavia la piccola, di nascosto, si reca a visitare l’aviatore per rimanere poi delusa a causa del triste finale del racconto, in cui il principe si sacrifica per vedere la sua amata rosa e muore facendosi mordere dal serpente. Le condizioni di salute dell’aviatore non sono buone e viene portato in ospedale. La bambina è molto preoccupa-ta, non sa come aiutare il suo amico, finché, per andare in cerca del Piccolo Principe, sale sull’aereo del vicino con la volpe di pezza e raggiunge un asteroide, dove vivono solo adulti indaffarati, tra cui anche il principe ormai cresciuto, che ha scordato il suo pas-sato e pulisce i camini. Qui incontrano il re, travestito da maggiordomo e l’uomo d’affari che ha rubato tutte le stelle per arricchirsi. L’uomo li cattura e sequestra la bambina in quella che dovrebbe essere l’accademia, dove lei dovrebbe crescere e diventare adulta, ma, all’improvviso, riaffiorano i ricordi nel piccolo principe che insieme a lei si ribella, permettendo alle stelle di tornare a brillare nel cielo. I due tornano nell’asteroide B612 ormai pieno di baobab, per avere la conferma che l’amata rosa è morta, ma la sua imma-gine ricompare all’alba nel ricordo dei due, confermando il messaggio dell’aviatore. La

bambina torna a casa e il mattino seguente, accompagnata dalla madre, fa visita in ospedale al vecchio amico, portandogli come regalo il suo racconto, ordinato, rilegato e ormai concluso. Anche con la madre avrà un nuovo e migliore rapporto e inizierà il suo percorso di studi all’Accademia.

P ortare sul grande schermo Il piccolo principe, il celebre racconto di An-toine de Saint-Exupéry, testo che

dagli anni Quaranta ha forgiato la fantasia e la sensibilità di tante generazioni, non doveva essere un’impresa affatto semplice. Mark Osborne, regista di Kung Fu Panda non ha deluso le aspettative, animando la sua versione con un tocco di poesia e di stravaganza, riuscendo dove altri non erano riusciti. In materia infatti erano già stati fatti tentativi per tradurre le vicende del Piccolo Principe in immagini, ma sempre con risultati non proprio all’altezza dell’opera. Perché il problema era rivolgersi a due target molto diversi, visto che l’autore stesso dedicava la sua opera a un amico “quando era un bambino”, ma il testo è leggibile da tutti, a prescindere dall’età anagrafica. Così l’im-magine del principe che vola, trascinato dagli uccelli, tra un pianeta e l’altro ormai fa parte dell’immaginario collettivo. La scelta registi-ca ha privilegiato inizialmente la storia del Piccolo Principe, facendone un racconto nel racconto; poi si è proseguito con l’incontro tra questi e la bambina, in un epilogo all’insegna dell’azione, che integra il tono di carattere più poetico e filosofico della prima parte. Dove lo spettatore conosce il Principe, la Volpe, la Rosa, il Serpente, l’asteroide B612 e i

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Film Tutti i film della stagione

Stati Uniti, 2015

DADDY’S HOME(Daddy’s Home)

Regia: Sean AndersProduzione: Will Ferrell, Adam McKay, Chris Henchy, John

Morris per Gary Sanchez Productions, Good Universe, Para-mount Pictures, Red Granite Pictures

Distribuzione: Universal Pictures InternationalPrima: (Roma 14-1-2016; Milano 14-1-2016)Soggetto: Brian BurnsSceneggiatura: Brian Burns, Sean Anders, John MorrisDirettore della fotografia: Julio MacatMontaggio: Eric Kissack, Brad E. WihiteMusiche: Michael AndrewsScenografia: Clayton Hartley

Costumi: Carol RamseyEffetti: Daneiam, Atomic FictionInterpreti: Will Ferrell (Brad Taggart), Mark Wahlberg (Dusty

Mayron), Linda Cardellini (Sarah Taggart), Hannibal Buress (Griff), Thomas Haden Church (Leo Holt), Bobby Cannavale (Dottor Francisco), Paul Scheer (The Whip), Bill Burr (Jerry), Scarlett Estevez (Megan), Owen Vaccaro (Dylan), Alessandra Ambrosio (Karen), Kobe Bryant (Se stesso), Hector Presedo (Pepe), Chris Henchy (Panda DJ/Jason Sinclair), Matthew Paul Martinez (Pete), Jamie Denbo (Doris), LaMonica Garrett (Marco), LaJessie Smith (Jean Jacket)

Durata: 96’

B rad è un tranquillo ed amorevole patrigno che desidera solo essere un buon papà per i suoi figliastri.

Fa il radio executive e, da quando ha sposato Sarah, la sua vita è cambiata. Cerca di essere sempre presente e disponibile e si adopera ogni giorno per essere amato dai suoi due bambini, ma nel frattempo sogna di avere dei figli, sapendo di non poterne avere di propri per un incidente che ne pregiudica le capacità riproduttive. Quando finalmente sembra essere riuscito ad avvicinarsi ai bambini a colpi di partite di calcio, consigli dati e aiuti a scuola, torna nella loro vita Dusty, padre biologico dei due e primo ma-rito di Sarah. Combattente, sregolato agente segreto ribelle, palestrato e abile negli sport estremi, Dusty sembra migliore di Brad in

tutto, in più è determinato a conquistare il cuore dei suoi figli. L’uomo fa di tutto per far colpo sui bambini e rientra in scena a suon di piccole e strampalate sfide, a cui tuttavia Brad risponde a testa alta. Eppure entrambi vogliono solo ed esattamente la stessa cosa: conquistarsi l’affetto della loro famiglia. Ad un certo punto, però, Brad arriva a perdere il controllo e pur di mettere in cattiva luce il suo rivale agisce in maniera scorretta, perdendo la propria dignità. Così Dusty sembra avere la meglio, ma di fronte alle responsabilità che lo aspettano come padre, di nuovo prova a tirarsi indietro. È proprio Brad che lo con-vince a tornare dai figli durante il ballo della scuola e si fa perdonare anche da Sarah. La coppia finalmente riesce anche ad avere un figlio. Quella che inizialmente si presentava

come una famiglia con due padri, con il tem-po assume una conformazione tradizionale. Infatti Dusty si sposerà con un’altra donna con una figlia e a sua volta dovrà farsi ac-cettare come patrigno.

D addy’s Home, firmata dalla coppia di registi Sean Anders e John Morris, è una commedia principal-

mente basata sull’esilarante contrasto che si genera tra un imbranato e un duro. Il film unisce la coppia di I Poliziotti di riserva per mettere in scena il confronto tra un uomo qualunque e uno ribelle e virile, a cui pare riuscire tutto e che si presenta come migliore di lui in ogni ambito, da quello estetico fino a quello pratico. Will Ferrell è un gigante buono e impacciato, animale da spettacolo molto

personaggi di contorno del piccolo grande classico letterario. Tutto ciò risulta ancora più coinvolgente, poiché il regista opta per un originale mix di tecniche d’animazione, alternando le immagini generate al computer, con altre in stop-motion, fotogramma per fo-togramma, al classico disegno animato a due dimensioni, in carta ritagliata. La convivenza d’immaginari diversi trasmette un senso di libertà creativa ed ha il merito di dare vita ad un film pieno d’incanti, di continue sorprese visive, che richiamano in parte le immagini di Miyazaki. Significativo l’alternarsi di disegni monocromatici e freddi, che sono adottati per illustrare il mondo grigio, ossessionato dalla performance e dal successo, dove la mamma vuole rinchiudere la bambina, a quelli invece evocativi della fiaba, che rimandano piuttosto a un colorato immaginario antico, lo stesso delle illustrazioni originali di Saint-Exupéry. Gli innesti rispetto alla storia originale sono copiosi, così come non sono rispettati tutti i passaggi, né sono presenti tutti i personaggi del libro. Che sia tra il principe e la rosa, la volpe oppure l’aviatore, è il concetto di “ad-domesticamento”, uno dei significati simbolici

più importanti che rende il testo così speciale. Questo aspetto del sodalizio nel film si ritrova nel legame tra la bimba e l’aviatore, che con la sua storia le fa scoprire l’importanza dell’amicizia e del non tradire ciò che siamo stati da bambini continuando a sognare anche una volta diventati adulti. La bambina progressivamente si ribellerà a quello che sembra essere il suo percorso ormai segna-to, non in nome della sindrome di Peter Pan, piuttosto dell’eterno “Fanciullino” pascoliano, cercando di conservare senza alcun timore il proprio bambino interiore. Così l’anziano pilota diventa un tramite fra il vecchio e il nuovo mondo, tra quello ormai vuoto, grigio degli adulti e quello colorato ed incantato del Piccolo Principe e dei suoi personaggi. L’esaltazione della fantasia, dell’ingenuità fanciullesca, l’importanza di non dimenticare cosa è importante rimangono sempre in pri-mo piano ed è proprio da queste tematiche, così difficili da portare sullo schermo, che scaturisce l’emozione. Tante le sequenze poetiche e coinvolgenti come le rappresen-tazioni del libro, ma ancor più quelle della storia principale, dove l’insegnamento e le

parole del piccolo principe prendono sempre più il cuore della protagonista. È chiaro che il libro è e resterà intramontabile, molto più profondo e significativo, ma proprio chi ha amato le pagine di Antoine de Saint-Exupéry e ne ha compreso il valore, nella sua più intima essenza, potrà commuoversi ed emozionarsi, vedendolo animarsi in imma-gini sullo schermo. A rendere piacevole e coinvolgente la visione contribuisce anche il doppiaggio. Le voci italiane sono tutte sim-patiche e note. Toni Servillo presta la voce al bizzarro aviatore, Alessandro Gassmann molto appropriato nelle sembianze del fasci-noso serpente, la rosa vanitosa è doppiata da Micaela Ramazzotti, la madre manager da Paola Cortellesi, mentre la Volpe, forse il più bello dei personaggi incontrati dal principe, è doppiata da Stefano Accorsi. Al cast vocale si aggiungono poi Alessandro Siani, Giuseppe Battiston, Pif e Angelo Pintus. Se “non si vede bene che con il cuore, perché l’essenziale è invisibile agli occhi” questa volta ciò che percepiscono gli occhi arriva dritto al cuore.

Veronica Barteri

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ben attrezzato, provenendo dalla scuola del “Saturday Night Live”. Mark Wahlberg è invece un bullo spaccone, ma anche un po’ torvo e misterioso. Il primo vorrebbe che i due figli della sua compagna lo accettas-sero come papà. L’altro, padre biologico inadempiente, è tanto affascinante che gli basta ricomparire dopo lunga assenza per conquistare la piazza. L’enorme popolarità americana del primo traina quel tipo di comici-tà che mescola perbenismo e “scorrettezze”, ingenuità e volgarità. Contrariamente al solito, c’è un team di sceneggiatori e un solo comico in una commedia che ambisce alla quiete familiare e marcia al ritmo elevatissimo della sua star, Ferrell. Corpo comico capace di mutare l’ambiente intorno a sé, creando il surreale anche nella semplicità, l’attore è come sempre a suo agio nei panni di Brad, uomo consueto, padre di famiglia amorevole e premuroso, professionista noioso dalla vita monotona, ma dall’affidabile insicurezza. Su questa maschera fissa lavora benissimo il trio di sceneggiatori John Morris, Brian Burns e Sean Anders, costruendo intorno a lui un mondo comico che marci in armonia alla sua inadeguatezza. Lo stesso fa Mark Wahlberg, spalla d’eccezione, specchio che serve a riflettere le inadeguatezze del protagonista, mettendo in moto tutta una storia composta di sole gag che lo mettono in condizione di subire umiliazioni e dimostrarsi sempre meno adeguato. Nulla di diverso dal solito, ma con i tempi, il ritmo e l’inventiva del comico ameri-cano ogni gag risaputa diventa un momento di grande comicità vera, capace di far ridere con lo scopo di dire qualcosa. È infatti proprio il sorriso sicuro e trionfante che Ferrell esibi-sce quando, alla fine, risolve ogni problema e riconquista la propria vita priva di prospet-tive e di picchi sentimentali, la sua arma più potente. L’aria da brava persona che pare bastare a se stessa costituisce lo scarto interno ai suoi film, un espediente che basta a garantire la sequela di divertenti situazioni, volte a tempestare sufficientemente un’ ora e

mezza di visione in grado di strappare risate e di fornire l’immancabile, indispensabile messaggio positivo con morale annessa, tipico della celluloide a stelle e strisce. Film come Daddy’s Home sono produzioni rassi-curanti e calde, dal prevedibile finale, cui si giunge a partire da premesse mai realmente disturbanti, piccoli trattati di contemporaneità sui problemi delle famiglie moderne. In que-sto caso, il tema non è nemmeno dei più audaci, ovvero quello delle famiglie allargate con più di un genitore per ruolo. Ovviamente affermerà la pacifica convivenza dei due pa-dri, anche nella più estrema delle situazioni. Una battaglia senza esclusione di colpi che Anders mette in piedi per satireggiare sulla paternità e sulle responsabilità che essa comporta, regalando allo spettatore un non eccelso, ma gradevole spettacolo comico privo di volgarità. La sceneggiatura si piega intorno al corpo e alla maniera di usare la manifesta inadeguatezza in chiave comica del suo protagonista. Ogni gag prende le mosse da una situazione comune che, già nel suo attacco annuncia il problema e len-

tamente scivola nella direzione disastrosa più prevedibile. Non ci sono battute memorabili, né situazioni imprevedibili, anzi molte asso-lutamente scontate, ma hanno l’obiettivo di far subire difficoltà e umiliazioni al protagoni-sta, moderno antieroe. Ed è proprio questo che lo fa uscire vincente. L’uomo medio di Ferrell non ha aspirazioni, non prende rischi né sarebbe incline a causare disastri se le circostanze non complottassero contro di lui. Si ha l’impressione che finito il film e terminato l’intreccio che l’ha messo in moto, la sua vita torni a essere priva di momenti divertenti, ter-ribile, piatta e mortalmente vuota di stimoli. Si ritrova un po’ di originalità solo nel finale che strappa un sorriso in più. Will Ferrell, come nella maggior parte delle sue interpretazio-ni, esagera con lo stereotipo, mentre Mark Wahlberg sorprende e regge testa al comico più navigato, grazie al fisico e un umorismo più sottinteso. Un tipo di comicità in ogni caso sicuramente più apprezzata negli States che dal pubblico italiano.

Veronica Barteri

Italia, 2015

Regia: Volfango de BlasiProduzione: Aurelio De Laurentiis & Luigi De Laurentiis per

FilmauroDistribuzione: FilmauroPrima: (Roma 16-12-2015; Milano 16-12-2015)Soggetto e Sceneggiatura: Volfango De Biasi, Alessandro

Bencivenni, Francesco Marioni, Tiziana Martini, Lillo, GregDirettore della fotografia: Tani CanevariMontaggio: Gianni Vezzosi

Musiche: Attilio Di Giovanni,Claudio GregoriScenografia: Luca GobbiCostumi: Tatiana RomanoffInterpreti: Greg (Alex), Lillo (Dino), Francesco Mandelli

(Leo), Paolo Ruffini (Cosimo), Giulia Belvilacqua (Sara), Francesco di Leva (Fefè), Enrico Guarneri (Commissario Zaganetti), Francesco Pennasilico (Mario), Peppino Di Capri (Boss)

Durata: 96’

NATALE COL BOSS

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Film Tutti i film della stagione

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Film Tutti i film della stagione

C osimo e Leo sono due poliziot-ti completamente imbranati, mandati a sorvegliare un boss

della camorra, proprio in virtù della loro manifesta idiozia dal loro capo corrotto. Ciò nonostante riescono a fotografare il malavitoso, che dunque si vede costretto a cambiare identità, decidendo di farsi fare una faccia nuova. Così manda i suoi scagnozzi a prelevare Alex e Dino, due chirurghi plastici romani trapiantati a Milano che devono lasciare la loro bella vita da ricconi, per seguire, sotto minaccia, gli uomini del boss a Napoli. Qui vengono obbligati a operarlo e tenuti prigionieri fino allo svelamento del nuovo volto scelto dal criminale. Peccato che i chirurghi capiscano la preferenza per Peppino Di Capri, piuttosto che Leo-nardo Di Caprio e rendano il criminale identico al cantante campano. Da questo momento in poi hanno inizio una serie di inseguimenti e di fughe. Alex e Dino dal boss e dai suoi uomini, Cosimo e Leo alla ricerca del boss, mentre quest’ultimo si trova faccia a faccia con il vero Peppino di Capri. Così i due poliziotti vogliono a tutti i costi occuparsi del boss, ma non sapendo del suo cambio d’identità lo scambiano per Peppino Di Capri, lo ac-compagnano al concerto e lo proteggono; il boss si entusiasma a cantare le canzoni del noto cantante, mentre Dino e Alex se la vorrebbero semplicemente dare a gambe, ma sentono il dovere di avvertire le forze dell’ordine del doppione in circolazione e così si mettono in ulteriori pasticci. Errore che li costringe a una continua fuga che non manca di farli finire tra le sbarre di una prigione e dinanzi a un decrepito “mammasantissima” dalle grot-tesche fattezze di un nonno attaccato alla flebo. Poi c’è Sara, moglie ex poliziotta di Leo, la cui personalità si dipana fino alla fine tra un’amorevole moglie e una fedifraga, un’agile eroina e una donna dai facili costumi, che aiuterà il marito con oggetti di difesa davvero geniali, come falli fluorescenti, manette di peluche e peperoncino spray. Alla fine, Cosimo e Leo riceveranno i giusti riconoscimenti per aver fatto arrestare il boss, mentre Alex e Dino torneranno con entusiasmo ai loro bisturi.

N onostante la parola magica “Natale” nel titolo e un vaghissi-mo riferimento al fatto che tutta

la storia si svolga a ridosso della notte di Natale, Natale col boss è una commedia che non ha niente a che vedere con i cinepanettoni e tra le diverse interpretate da Lillo e Greg per la Filmauro è forse

quella che sembra appartenergli di più. Diretto dal regista romano Volfango De Biasi e prodotto da De Laurentiis, questa volta il prodotto cerca di allontanarsi dai canoni della commedia “caciarona” e volgare a tutti i costi, per entrare in territori meno battuti e grevi. Un’opera degli equivoci bilanciata negli sketch e intelligentemente forzata nello scim-miottare il genere del poliziesco vecchia maniera. Dimenticati quindi luoghi esotici, navi da crociera, montagne innevate, mogli cornute e mariti farfalloni. Stavolta le storie non sono separate come ave-vano sperimentato nei primi due film, ma intrecciate. Il precedente Un Natale stupefacente, primo film del genere con una storia unica affidata a Lillo e Greg, anche se gradevole non aveva però un ritmo omogeneo e certi scambi tra gli at-tori sembravano più adatti al palco di un teatro che al grande schermo, complice l’unità di tempo e luogo. Ora ci si muove molto e ci si diverte fino alla fine, senza evidenti inceppamenti e riempitivi, non tanto per le battute o i momenti surreali in cui la coppia è ormai maestra, quanto per le situazioni paradossali in cui tutti i personaggi si vengono a trovare e le reazioni che mettono in atto. Quello che conta è che in un prodotto pensato in funzione del divertimento fine a se stes-so, non si sia mai ceduto alla tentazione verso l’idiozia. Così, anche se l’azione parte da un’idea dichiaratamente e total-mente assurda, non è per niente forzato o illogico quello che viene dopo. Natale con il boss possiede la consapevolezza che gli spettatori non siano necessaria-mente sottosviluppati, e dunque possano divertirsi a seguire una trama che è sì surreale, ma è anche basata su quanto, al cinema, è ormai “patrimonio” acquisito: una memoria storica dei mafia movie, una conoscenza dei meccanismi comici che ne consente il ribaltamento e la va-riazione, una comprensione dei caratteri che dà spazio al rinnovamento, partendo proprio dalla loro riconoscibilità. Ogni attore è utilizzato sulla base delle sue specifiche potenzialità e dello spazio che si è conquistato nell’immaginario del pub-blico. Le battute fanno perno sul ricordo di mille altre, e poi trovano il mood originale e diverso dalle altre volte. Si ride senza vergognarsene, si segue il ritmo in cre-scendo di ogni scena e una comicità che è un susseguirsi di situazioni congruenti, equivoci a non finire, pur nella loro sem-plicità, non semplicemente una sequela di gag attaccate l’una all’altra. Una storia che gira bene su se stessa, con sketch divertenti e in armonia tra loro che fanno

ridere con semplicità e onestà e qua e là regala agli appassionati piccole perle e citazioni, da Kill Bill a Frankenstein. È così che una delle scene più buffe del film rimanda a Gomorra, mentre altre ai classici film mafiosi con De Niro, in cui però i malavitosi qui hanno il posto che meriterebbero in una società di sani prin-cipi: sono grotteschi, cafoni, imbroglioni e finiscono in manette. Perché, come c’era da aspettarsi, sono in particolar modo gag giocate sullo scambio di persona a fornire buona parte del potenziale comi-co dell’operazione, contaminazione tra la commedia d’azione americana anni Ottanta e quella nostrana più classica. I vari membri del cast appartengono a mondi totalmente differenti: chi arriva da un cinema più demenziale, chi dalle fic-tion tv e chi ancora dal teatro e dalla mu-sica. Un’unione di intenti per un obiettivo comune, quello di rinnovare la classica idea di commediola natalizia campione di incassi. La bravura di Lillo e Greg, già palesatasi in altre occasioni, acquista un carisma differente che influenza l’intera pellicola, dileguandosi fino al territorio demenziale di Paolo Ruffini e Francesco Mandelli, che regalano spiragli di sincero sollazzo, con travestimenti assortiti sulla falsariga di I soliti idioti. A tal proposito, meritano tutti gli elogi del caso anche gli attori di contorno: Francesco Di Leva, la cui recitazione da cattivo di turno nel ruo-lo di Fefè è un autentico fiore all’occhiello, Enrico Guarnieri, il corrotto commissario Zaganetti, che non perde occasione di denigrare i suoi uomini e Giulia Bevi-lacqua che nelle vesti di Sara, moglie di Leo, incarna una figura femminile ben contestualizzata e non stereotipata. Oltre ad alcuni fra i migliori caratteristi della scuola napoletana come Gianfelice Imparato, Giovanni Esposito e Antonio Pennarella. Tuttavia, la vera sorpresa del film è rappresentata da Peppino Di Capri, perfettamente a suo agio nei pan-ni del boss della camorra “trasfigurato”. Mirabile la sua doppia interpretazione, che gli permette di immedesimarsi ma-gnificamente sia in se stesso, che nel boss camorrista e dal linguaggio scurrile. Il cantante conosciuto al grande pubblico come timido e riservato lascia spazio a un personaggio realistico, sia da un punto di vista vocale che fisico. Un artista dall’i-naspettata duttilità e poliedricità, che ha saputo reinventarsi e il duetto finale con un rapper ai titoli di coda, che mescola il fumetto con il documentario, funge da testimonianza.

Veronica Barteri

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Ungheria, Francia, 2015

Regia: László NemesProduzione: Laokoon FilmgroupDistribuzione: Teodora FilmPrima: (Roma 21-1-2016; Milano 21-1-2016)Soggetto e Sceneggiatura: László NemesDirettore della fotografia: Mátyás ErdélyMontaggio: Matthieu TaponierMusiche: László MelisScenografia: László RajkCostumi: Edit Szücs

Effetti: Barnabás PrinczInterpreti: Géza Röhrig (Saul Ausländer), Levente

Molnár (Ábrahám), Urs Rechn (Oberkapo Biederman), Todd Charmont (Uomo con la barba), Marcin Czarnik (Feigenbaum), Sándor Zsótér (Dottore), Jerzy Walczak (Rabbino del Sonderkommando), Uwe Lauer (SS Voss), Christian Harting (SS Busch), Kamil Dobrowolski (Mietek), Amitai Kedar (Hirsch), István Pion (Katz), Levente Orbán (Vassili), Juli Jakab (Ella)

Durata: 107’

IL FIGLIO DI SAUL(Saul fia)

O ttobre 1944: Auschwitz Bir-kenau.

Saul Auslander appartiene al Sonderkommando, cioè a quel gruppo di ebrei che lavora nei campi per indirizzare i deportati ai forni, liberare gli spazi dai ca-daveri e provvedere alla loro cremazione.

Saul sa benissimo che lui stesso e i suoi compagni faranno la stessa fine perchè anche il Sonderkommando deve essere periodicamente “rinnovato”, ma continua senza apparenti turbamenti a fare il suo lavoro tra cataste di cadaveri, il calore dei forni, le ingiurie e le frustate degli aguzzini.

Naturalmente gli uomini del gruppo di Saul stanno preparando la rivolta con armi raccattate qua e là e con la complicità dei kapò pagati con i gioielli prelevati dai morti.

Un giorno Saul riesce a evitare che le fiamme brucino il corpo di un ragazzino che lui è convinto sia suo figlio, avuto in Ungheria non dalla moglie ma da un’altra donna.

Da questo momento Saul cerca dapper-tutto un rabbino che possa dare al povero morto una dignitosa sepoltura secondo il rito e la preghiera ebraica. Tutto questo mentre la rivolta ha preso il via e vede da un lato la ricerca di Saul che continua e, dall’altro, l’inizio dei combattimenti con i carcerieri del campo: tra le esplosioni, i fumi e gli spari gli uomini del Sonder-kommando riescono a fuggire, Saul porta con sé il corpo del ragazzo che perde però durante la traversata del fiume.

Saul e i suoi compagni di fuga sono poi scovati dai carcerieri sulle loro tracce con i cani e poi uccisi a colpi di mitra dentro un capannone dove si erano rifugiati.

C ome si può, oggi, rappresentare il dolore, la disumanizzazione, il raccapriccio che proviene da

ogni azione, l’orrore insomma? Si può rac-

contare il massacro degli ebrei nei campi usando le tecniche di ripresa sempre più sofisticate, arricchite di effetti speciali e di mezzi tecnologici all’avanguardia?

No, non si può.Forse si potrebbe farlo come un nor-

male film di guerra anni ‘60, un grande meccanismo bellico spettacolare che si tenga però ben lontano dalla sofferenza e dalla disperazione, senza scavarne l’intimo strazio e il perchè possa capitare tutto questo a un essere umano.

Quindi è impossibile.Laszlo Nemes, regista e sceneggiatore

ungherese che con il suo film ha ottenuto messe di premi (diciassette finora, com-prensivi del Gran Premio a Cannes 2015, del Golden Globe e della candidatura all’Oscar) ha fatto delle scelte ben precise, una più strettamente tecnica, la seconda

più spiazzante perchè tocca le scelte più intime dell’animo umano, ciò che riesce a inventare l’uomo per convincersi di con-tinuare a essere tale e non uguale a uno dei cadaveri accatastati, oggetto del suo orribile lavoro.

La prima decisione fa convergere lo sguardo della macchina da presa sempre e decisamente su Saul (grazie anche alla scelta del 35 mm. e del formato 4:3), sulle sue azioni, sui suoi movimenti alle camere a gas, mentre pulisce il sangue dei morti, prepara i fuochi ai forni, disperde nel fiume i quintali di cenere accumulata; il resto rimane ai bordi dello schermo come i volti dei suoi compagni, i corpi smembrati in attesa del fuoco, il vestiario accumulato da catalogare e frugare in cerca di qualcosa di prezioso; ugualmente ai lati restano le urla degli aguzzini, le scudisciate dei kapò,

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i pavimenti raschiati, gli ordini da eseguire, gli sguardi della paura, la consapevolezza di stare sempre in contiguità con la morte.

La seconda scelta invece fa pensare maggiormente perchè riguarda il ricono-scimento del figlio perduto da parte di Saul: molto probabilmente Saul non ha riconosciuto nessuno e con altrettanta probabilità figli non ne ha mai avuti. Tutto ciò è la costituzione di un’ossessione cioè la voglia, contro ogni verità e possibilità umana, di darsi un progetto che possa

nobilitarlo e ridargli quella dignità che lui ha permesso fosse calpestata e mischiata al liquame con cui lui convive ogni ora delle sue giornate maledette.

L’ossessione, visto che non gli interes-sa più nulla né dei morti né dei vivi è l’unica cosa che è rimasta a Saul per riconoscersi come uomo e pretendere rispetto, forse da nessuno, sicuramente da se stesso.

La storia, naturalmente, va come deve andare e finisce con il massacro di tutti; resta questa ossessiva affermazione di

se stesso, resta la sua forza morale che trascina chi è in sala per farlo sentire un po’ meno vile, infondergli un pizzico di quella dignità anche per lui calpestata quando durante tutto il film visto senza mai tirare il fiato non ha smesso di do-mandarsi come sia stato possibile per coloro che c’erano volgere la testa da un’altra parte, non vedere, non sapere e così presto dimenticare.

Fabrizio Moresco

Italia, 2016

LA CORRISPONDENZA

Regia: Giuseppe TornatoreProduzione: Isabella Cocuzza e Arturo Paglia per Paco Cine-

matografica con Rai CinemaDistribuzione: 01 DistributionPrima: (Roma 14-1-2016; Milano 14-1-2016)Soggetto e Sceneggiatura: Giuseppe TornatoreDirettore della fotografia: Fabio ZamarionMontaggio: Massimo QuagliaMusiche: Ennio MorriconeScenografia: Maurizio SabatiniCostumi: Gemma Mascagni

Effetti: Danny Hargraves, Real SFXInterpreti: Jeremy Irons (Ed Phoerum), Olga Kurylenko (Amy

Ryan), Simon Johns (Jason), James Warren (Rick), Shauna MacDonald (Victoria), Oscar Sanders (Nicholas), Paolo Calabresi (Pescatore Ottavio), Simon Meacock (Artista), Florian Schwienbacher (Tommy), Irina Karatcheva (Madre di Amy), Darren Whitfield

(Custode), Patricia Winker (Proprietaria teatro), Marc Forde (Ristoratore), Ian Cairns

(George), Daphne Mereu (Madeline)Durata: 116’

E d Phoerum, professore di astro-fisica presso l’Università di Edimburgo, ha la famiglia in

un’altra città del Regno Unito e gira il mondo per conferenze e incarichi di alto livello internazionale.

Il professore ha un’allieva fuori cor-so, Amy Ryan, che si guadagna da vivere facendo la stuntgirl nelle scene più perico-lose e rischiose dei film d’azione.

I due sono legati da un amore profondo, da una forte passione senza limiti da circa sei anni; il loro legame non ha mai avuto un cedimento durante questo periodo e loro continuano a desiderarsi e completarsi pur nel turbinio degli impegni e delle recipro-che difficoltà nel trovare il giorno adatto per stare insieme.

Un giorno, il professore saluta la sua allieva per un ciclo di conferenze che li terranno divisi per un po’: tra i due inna-morati il contatto è assicurato da Skype che permette loro di vedersi, parlarsi, amarsi attraverso lo schermo del computer che li fa sentire un po’ meno lontani.

Di giorno in giorno, Ed continua a rimandare il suo ritorno, pressato dagli impegni che si accavallano gli uni sugli altri, pur continuando attraverso lo scher-mo a sommergere Amy di tutte le parole d’amore possibile.

Una brutta mattina, all’inizio di una

lezione all’università, il sostituto del pro-fessore comunica nello sgomento generale, l’improvvisa scomparsa di Ed Phoerum avvenuta il giorno prima.

Amy è annientata dal dolore e non sa darsi pace soprattutto perchè, sempre attraverso il computer, continuano ad arrivarle da parte di Ed messaggi di ogni genere datati successivamente alla morte; lei cerca di venire a capo di questa situa-zione che la sta facendo impazzire e ben presto arriva alla spiegazione, comprovata dall’incontro con l’avvocato di Ed e con altri personaggi di cui il professore si è servito.

Ed, dopo aver saputo del cancro al ce-vello che l’avrebbe divorato in pochissimo tempo, ha dedicato gli ultimi mesi della sua vita alla preparazione di filmati, lettere e messaggi che avrebbero seguito la sua amatissima ragazza almeno fino alla fine del corso di studi.

La rete costruita dal professore è capil-lare; intanto l’automatismo dei programmi telematici, poi l’intervento di spedizionieri, postini, portieri, anche la custode della bellissima casa sul lago, Bosco Ventoso dove i due amanti si rifugiavano soli: tutto e tutti contribuiscono a far sì che Amy, pur nelle lacrime, si senta meno sola grazie al suo amatissimo Ed che continua a starle vicino anche se in maniera virtuale. Fino

alla laurea, in occasione della quale Amy riceve per prima cosa un mazzo di rose e successivamente, attraverso un notaio, la donazione di Bosco Ventoso.

Amy riceve anche un ultimo filmato che le mostra di spalle il suo Ed, ormai alla fine, esprimerle il suo amore infinito e il suo ultimo saluto.

“L ’Amor che move il sole e l’altre stelle”: prendiamo in prestito (con grande umiltà) le parole

che il Poeta ha usato addirittura per riferirsi all’Essere Supremo perchè ci sembrano adatte a qualificare in pieno questa storia di un grandissimo amore che si perde tra le stelle, un amore stellare sia per l’attinenza con gli studi scientifici, sia per l’altezza metafisica toccata dalla sua intensità.

Non poteva essere più grande e profondo questo amore che lo scienziato si è trovato nel cuore comparando la grandezza e il mistero dell’universo con la piccolezza della vita umana: è stato come trovare una stella persa e spaesata nei grandi spazi galattici e poi piombata sulla terra a dimostrare che anche a livello terreno la luce e il calore di una passione può diventare cosmica, senza confini.

Ugualmente non poteva essere più grande questo amore per la stuntgirl abituata a giocare con la morte sfidando

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il pericolo e i suoi sensi di colpa (in un incidente con lei alla guida le era morto il padre) e desiderosa in maniera frenetica di ritornare alla vita per immergersi in questa passione fatta di stelle, di intelletto e di coinvolgimento assoluto.

Tutto così assume presto i dettagli di un enigma, ma non perchè ci sia qualcosa da scoprire che obbedisca alle esigenze del thriller, ma perchè è proprio l’esistenza a mostrarsi misteriosa quando unisce ma-teria e anima e sfonda i confini dei comuni parametri per liberarsi in un territorio che appartiene alla scienza e all’intimità, ai sentimenti e alla ragione: quindi insonda-bile, inesplorabile.

D’altra parte, non sono milioni le stelle già morte che continuano a mandarci segnali della loro esistenza, fasci di luce lontana che perseverano nello stare in comunicazione con noi per convincerci che tutto continua nella voglia di esistere proprio quando sembra che tutto sia finito?

Il professore di astrofisica Ed Phoerum non può che comportarsi così, particella anche lui di quell’universo che continuerà sempre a esistere nella luce e nell’amore perchè proprio questo è quello che “move il Sole e l’altre stelle”.

Tornatore è un regista che ama parlare d’amore, che per lui continua a essere il motore dei rapporti umani (così ha so-stenuto nelle interviste di presentazione del film), anche nel continuo accavallarsi della diversità dei tempi e in presenza di problemi sociali, economici e politici che potrebbero spingere definitivamente l’essere umano verso l’aridità più assoluta.

È qui che possiamo avere dei dubbi: Tornatore ci sta proprio dicendo che pur in tempi di così rarefatto scambio di sentimenti, l’amore espresso in modo diverso trova la strada per rioccupare la

posizione centrale delle nostre capacità e volontà emozionali? Oppure il regista ci sta facendo intravedere l’apertura di nuovi orizzonti, di cui ancora non abbia-mo la totale consapevolezza, dove esseri umani incapaci di darsi possono sfruttare le nuove tecnologie in grado di raffreddare le passioni e mantenersi “intatti” in una lontananza fatta di onde siderali?

Aspettiamo altri film, aspettiamo altri input per approfondire questo argomento.

Comunque, come sia, Tornatore per parlare d’amore in questo modo si avvale di due attori che lo hanno inteso benissimo: il fascinosissimo Irons e la dolce Kurylenko hanno uno sguardo carico di luce stellare e fondano il loro rapporto tenero, malinconi-co, misterioso, antico e romanticissimo su uno scambio struggente di ricordi, brividi e tormenti a rappresentare una totale de-dizione umana e una continua, incredibile dichiarazione d’amore.

Tornatore poi inquadra il suo racconto in interni ed esterni semplicemente da favola, plasmandone i colori e lo spessore per renderli adatti a una narrazione così densa di suggestioni: l’isola di San Giu-lio sul lago d’Orta è il luogo incantevole come nido d’amore smarrito nella nebbia e nella fantasia in cui confluiscono calore e promesse, così la Biblioteca Storica del Seminario Maggiore di Bolzano trasuda quell’avvolgente atmosfera culturale che offre la giusta culla per un amore così colto, metafisico ed emozionale.

Ogni immagine è curata, accumula citazioni letterarie, si offusca di pioggia e di malinconia, pesca gli smarrimenti più intimi, ci racconta l’amore nella costruzio-ne di un film che pare volerci vicino per recuperare il valore di modi dimenticati e, soprattutto, cosa significhi essere persone.

Fabrizio Moresco

Stati Uniti, 2015

Regia: Robert ZemeckisProduzione: Steve Starkey, Robert Zemeckis, Jack Rapke

per Imagemovers, Sony Pictures Entertainment, Tristar Pro-ductions

Distribuzione: Warner Bros. EntertainmentPrima: (Roma 22-10-2015; Milano 22-10-2015)Soggetto: dal libro “Toccare le nuvole” di Philippe PetitSceneggiatura: Robert Zemeckis, Christopher BrowneDirettore della fotografia: Dariusz WolskiMontaggio: Jeremiah O’DriscollMusiche: Alan SilvestriScenografia: Naomi Shohan

Costumi: Suttirat LarlarbEffetti: Kevin BaillieInterpreti: Joseph Gordon-Levitt (Philippe Petit), Ben

Kingsley (Papa Rudy), Charlotte Le Bon (Annie Allix), Ben Schwartz (Albert), James Badge Dale (Jean-Pierre/J.P.), Steve Valentine (Barry Greenhouse), Clément Sibony (Jean-Louis), Mark Camacho (Guy Tozolli), Sergio Di Zio (Agente Genco), Benedict Samuel (Jean-Louis), Jason Blicker (Agente Daley), Mizinga Mwinga (Agente Foley), Jason Deline (Tessio), Karl Werleman (Sergente Reese), Daniel Harroch (Agente Clemenza)

Durata: 100

THE WALK(The Walk)

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I l film racconta la follia di un grande sognatore, una storia vera.

Nel 1973 l’artista di strada Phi-lippe Petit si guadagna da vivere a Parigi come giocoliere e funambolo con il disap-punto di suo padre. Durante un’esibizione, il giovane si fa male a un dente. Mentre è nella sala d’aspetto del dentista, Philippe nota su una rivista una foto delle Twin Towers a New York. Analizzando la foto, decide di tentare l’impresa camminare in equilibrio su un cavo d’acciaio fra le due Torri Gemelle ancora in costruzione. Nel frattempo, cacciato via di casa dai suoi genitori, Philippe torna a lavorare al circo e attira l’attenzione di Papa Rudy che viene colpito dalle sua abilità di giocoliere. Un giorno, mentre si sta esiben-do, Philippe incontra una bella ragazza, Annie, che si esibisce come artista di strada e allaccia una relazione con lei. Philippe confessa a Annie il suo sogno, la ragazza lo appoggia e gli permette di allenarsi nella sua scuola di musica. Philippe incontra Jean-Louis che diventa il suo fotografo ufficiale e il secondo sostenitore della sua impresa. Philippe chiede a Papa Rudy suggerimenti per fare nodi e manipolare le corde. Dopo aver fallito la sua prima prova cadendo in un lago, Philippe decide di fare un tentati-vo passeggiando sulla cattedrale di Notre Dame a Parigi per riscattarsi. Egli riesce nell’impresa ma viene arrestato. Jean-Louis presenta a Philippe e Annie il suo amico Jeff che spiega ai suoi amici la sua idea di usare un arco e una freccia legata su un filo per sostenere il cavo di collegamento delle due Torri Gemelle. Philippe e Annie tornano in America e fissano la data dell’impresa per il 6 agosto 1974. Philippe indossa un trave-stimento per andare a fare una ricognizione ai lavori per il completamento delle Twin Towers. Nel frattempo, il giovane funambolo incontra un suo ammiratore che lo aveva seguito anche nell’impresa di Notre Dame. L’uomo gli presenta Barry Greenhouse,un assicuratore che collabora alla costruzione delle Twin Towers e che diventa un altro membro della squadra di Philippe. A loro si uniscono altri tre amici. Il gruppo fa diversi sopralluoghi sul posto e, alla fine, stabilisce che Philippe dovrà essere sulla corda prima che il gruppo di operai arrivi alle Torri alle 7 di mattina.

Alla vigilia dell’impresa, il gruppo incontra diversi ostacoli, tra cui delle guardie incaricate di controllare gli edi-fici. Nonostante le difficoltà, riescono ad appendere le funi e fissare i cavi. Philippe inizia la sua camminata e tutto intorno a lui sbiadisce appena comincia l’impresa: egli sente che esiste solo lui e il cavo su cui restare in equilibrio. Per la prima volta nella sua vita, il giovane si sente pieno di

riconoscenza nei confronti della vita e in pace con se stesso. Philippe cammina con successo nello spazio tra le due Torri men-tre la folla sottostante fa il tifo per lui. Una volta raggiunta l’altra torre, Philippe vuole percorrere il percorso inverso nel vuoto e tornare sulla prima torre. A un certo punto, il funambolo si inginocchia perfino verso la folla e addirittura si sdraia. Arriva la polizia che cerca di caricare Philippe su un elicottero ma l’uomo continua imperterrito la sua camminata sulla fune, passeggiando avanti e indietro fino a compiere l’impresa per sei volte. Egli viene subito arrestato anche se sia la polizia che i lavoratori alla costruzione delle Torri lodano il suo coraggio. Philippe e i suoi amici sono poi rilasciati, Philippe decide di restare a New York mentre Annie decide di tornare a Pa-rigi per inseguire i suoi sogni. Il capo dei lavori per la costruzione delle Twin Towers consegna a Philippe un pass per i ponti di osservazione di entrambi i grattacieli. Phi-lippe guarda dritto nella telecamera con le Torri Gemelle sullo sfondo e dice che la data di scadenza sul pass è stata cancellata e sostituita dalla dicitura “per sempre”.

R egista da sempre attento a un’idea di cinema capace di giocare con lo spazio e il tempo (come non ricor-

dare il ‘cult’ Ritorno al futuro di cui quest’anno si celebrano i 30 anni dall’uscita?), Zemeckis continua a raccontare storie di personaggi che con la tenacia, la voglia di riscatto, a dispetto di tutti e tutto realizzano un sogno.

Questa volta, ancora di più che nelle sue opere passate, il regista compie il prodigio di spingere la macchina da presa verso traiettorie incredibili, ben coadiuvato da uno staff tecnico di prim’ordine: basti pensare che l’esperto di effetti visivi Kevin Baillie ha recuperato importanti documenti per riprodurre circa trenta piani di interni delle Torri Gemelle, e il team di Atomic Fiction ha lavorato mesi per ricostruire la downtown Manhattan degli anni Settanta.

The Walk racconta del funambolo francese Philippe Petit che compì la sua impresa il 7 agosto 1974 camminando nello spazio tra le Twin Towers (inaugurate in quell’anno) in equilibrio su una fune a circa 412 metri d’altezza. Prima della sua ‘passeggiata’, Petit visitò le Torri Gemelle più di duecento volte con diversi travesti-menti. Il funambolo restò sospeso nel cielo per più di 45 minuti mentre la polizia era lì accanto, pronta ad arrestarlo.

Dietro all’idea del film c’è anche il rapporto irrisolto del regista con le Twin Towers, da lui mai particolarmente amate, ma mai neanche apertamente criticate. Certo è che l’impresa di quel funambolo

francese potrebbe essere vista come un tentativo di attribuire una specie di anima alle Torri Gemelle, unendole per qualche minuto fatale con una fune.

Occorre fugare un dubbio: come ha sottolineato lo stesso regista, non era sua intenzione girare un film sul significato del crollo delle due torri dell’11 settembre 2001 ma “studiarne la percezione e le sembian-ze”, rendere il fascino del “bilanciamento tra architettura e natura”, “l’incontro del piede di un artista e quei sostegni che toccano le nuvole”.

L’impresa di Petit era già stata portata sul grande schermo due volte: la prima nel cortometraggio High Wire di Sandi Sissel del 1984 e la seconda nel documentario Man on Wire – Un Uomo tra le Torri di James Marsh, che vinse l’Oscar nel 2009 come miglior documentario. Ma a differen-za del documentario di Marsh, grazie alla tecnologia del 3D, il film di Zemeckis offre la possibilità allo spettatore di salire lassù tra le Twin Towers insieme al funambolo protagonista.

Spazio e tempo, passato e presente, sogno e realtà, tutto si collega magica-mente in The Walk, una passeggiata speciale in cui si ha davvero percezione della multidimensionalità e della grande profondità (che Zemeckis sia uno dei pri-mi sperimentatori nell’uso del 3D e delle sue potenzialità non è una novità come in assoluto sia stato un campione nell’uso di diverse tecnologie sul grande schermo).

Valore aggiunto del film è l’ecceziona-le prova dell’attore protagonista, Joseph Gordon-Levitt, che si è sottoposto a una duro training per imparare a camminare in equilibrio su una fune d’acciaio e che ha alle-nato alla perfezione il suo accento francese.

Trascinante e divertente, a tratti mozzafiato per la grandiosità del 3D, il film (tratto dal libro “To Reach the Clouds” scritto dal 2002 dallo stesso Petit e uscito in Italia con il titolo “Toccare le nuvole”) appare davvero come un inno alla libertà creativa per mano di un regista da sempre attratto da storie e personaggi stra-ordinari (che ne dite di un certo Forrest Gump?).

“Il limiti esistono soltanto nell’anima di chi è a corto di sogni” osservò Philippe Petit: e sul grande schermo ogni limite è da sempre superato proprio perché nulla è più vicino al sogno dell’esperienza cinematografica.

E forse nessuno come il mago Zeme-ckis (la sua filmografia parla, anzi fa sogna-re, da sola) ha dimostrato di saper far volare alto lo spettatore, questa volta coniugando alla perfezione emozione e tecnologia, realtà e illusione, possibile e impossibile.

Elena Bartoni

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P arigi, oggi. Undici donne sono alla disperata ricerca di se stesse. Rose è una classica donna d’affari che

pensa solo al lavoro e che, a un certo punto della sua vita, si fa prendere dal panico quan-do le rivelano che il suo tasso di testosterone è alle stelle. Così si mette in cerca delle sue compagne di scuola, con risultati disastrosi. A subirne sempre le conseguenze, è la sua assistente Adeline, che farebbe volentieri a meno di soddisfare tutti i capricci del suo capo, oltre a dover affrontare un grave pro-blema familiare. Sua madre per difendersi ha ucciso il padre. L’avvocato che si occupa del suo caso è Agathe, una donna bella e di successo, che non riesce a trovare l’uomo giusto, anche perché, di fronte a quelli che le piacciono, si ritrova a sopportare degli inconvenienti imbarazzanti con una brutta colite. Ad aiutarla, la sua migliore amica Jo, che con gli uomini passa da periodi molto freddi ad altri decisamente intensi. Ultimamente, è diventata l’amante di un uomo sposato, la cui moglie non è poi così intenzionata a mollare l’osso. La moglie infatti, Inès, deve fronteggiare una crisi dovuta a questa situazione, mentre intanto continua a lavorare per Lily, un’esigente stilista, che, a sua volta, affronta delle dif-ficoltà nella vita personale, in particolare nel rapporto con la figlia adolescente, mentre non accetta il fatto di invecchiare. Nel suo studio, troviamo anche il marito di Ysis, una madre che, nonostante la giovane età, ha quattro figli e che, a un certo punto, scopre di non voler più sacrificare tutto per la famiglia, ma “di voler cercare gli arcobaleni nel cielo anche quando non piove”. Così inizierà una relazione con un’altra donna, Marie, arrivata a casa sua, per caso, come babysitter che le farà conoscere una dimensione nuova dell’amore, portando finalmente un po’ di passione nella sua vita. Sempre attorno a Lily, ruotano sua sorella, una donna ansiosa e ipocondriaca che, a un certo punto, dovrà fare i conti con un cancro al seno e Sophie, una sua impiegata, che non perde occasione di spettegolare in ufficio sulle sue colleghe, ma che nasconde uno spiacevole segreto:

non riesce a raggiungere il piacere. Infine, troviamo Fanny, un’autista di autobus, che è sposata da anni, ma ha dimenticato di poter avere una vita sessuale, fino a quando una botta in testa non risveglierà i suoi istinti. Rose alla fine troverà in Adeline una buona amica. Agathe riesce a vincere il caso e fi-nalmente trova, in un importante avvocato, l’uomo per lei. Ysis dopo la delusione dell’e-sperienza omosessuale torna con il marito, più innamorata di prima.

E sordio alla regia dell’attrice Audrey Dana, 11 donne a Parigi qui in veste di regista, sceneggiatrice a attrice,

si è attestata come la commedia femminile di maggior successo in Francia negli ultimi anni. Quella che la regista ci propone è una vera e propria epopea sentimentale all’interno della metropoli europea con-temporanea, con le sue stramberie e i suoi piccoli e assurdi drammi. Parigi è la grande protagonista di questo composito collage ci-nematografico, che cerca di raccontarci le vicende di undici donne. Una vera e propria cartina sentimentale, per orientarsi all’interno

della complessa selva dei sentimenti, con tutti i problemi dell’identità e della sessualità femminile. La donna d’oggi, sembra sugge-rire il film, è quanto mai sfaccettata e varia. Non c’è una sola via percorribile, ma diversi itinerari che possono essere intrapresi e che si scoprono saldamente intrecciati, sino al rischio della confusione. Se c’è in effetti una nota stonata in tutta l’operazione è proprio la difficoltà di seguire un percorso articolato, fatto di numerosi personaggi di spicco, che forse non hanno sufficiente spazio di autonomia. Per lo spettatore infatti non risulta affatto facile districarsi fra un numero così alto di primedonne, ciascuna delle quali vanta una personale caricatura, il più delle volte eccessiva e stereotipata. E undici protagoniste sono decisamente troppe. Il film può essere considerato come la versione francese non riuscita di Sex and the City. Ma un altro punto dolente di 11 donne a Parigi è rappresentato dalla ca-ratterizzazione eccessivamente maschilista delle protagoniste, da cui è facile intuire che l’argomento più trattato è quello riguardante il sesso, con l’aggiunta di qualche tormentata

Francia, 2014Regia: Audrey DanaProduzione: Wild Bunch, M6 Films con la partecipazione di

Ocs, M6, W9, in associazione con Palatine Etoile 11Distribuzione: MicrocinemaPrima: (Roma 3-12-2015; Milano 3-12-2015)Soggetto e Sceneggiatura: Audrey Dana, Murielle Magellan,

Raphaëlle DesplechinDirettore della fotografia: Gianni Fiore ColtellacciMontaggio: Julien Leloup, Herve DeluzeMusiche: ImanyScenografia: Bertrand Seitz

Costumi: Charlotte BetailloeInterpreti: Isabelle Adjani (Lili), Alice Belaïdi (Adeline),

Laetitia Casta (Agathe), Audrey Dana (Joe), Julie Ferrier (Fanny), Audrey Fleurot (Sophie), Marina Hands (Inès), Géraldine Nakache (Ysis), Vanessa Paradis (Rose), Alice Taglioni (Marie), Sylvie Testud (Sam), Pascal Elbé (Il bel av-vocato), Marc Lavoine (Il bel ginecologo), Guillaume Gouix (Il marito di Ysis), Alex Lutz (Jacques, il marito di Inès), Nicolas Briançon (Il marito di Fanny), Stanley Weber (James Gordon)

Durata: 118’

11 DONNE A PARIGI(Sous les jupes des filles)

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Film Tutti i film della stagione

S cozia, tardo medioevo.È in atto una guerra tra il

potere legittimo impersonato dal Re Duncan e i ribelli guidati dal traditore Mac Donwald. Macbeth, Signore di Gla-mis, comandante l’esercito del re di Scozia, conduce gli armati a una brillante vittoria sugli insorti.

Alla fine dei sanguinosissimi scontri, Macbeth e il suo compagno Banquo ispe-zionano il campo di battaglia e si imbattono in tre streghe che fanno loro delle profezie: nel salutare Macbeth Barone di Cawdor oltre già di Glamis, annunciano che presto sarà re; prevedono invece la corona regale non per Banquo ma per i suoi discendenti.

Macbeth confida alla moglie i suoi tur-bamenti soprattutto perchè nel frattempo un messaggero del re gli porta la nomina a Barone di Cawdor, proprio come avevano profetizzato le streghe.

Lady Macbeth spinge il marito a non indugiare oltre e ad approfittare della situazione in quanto Duncan con il suo seguito è in arrivo al castello di Inverness per festeggiare il trionfo in battaglia.

La notte stessa Macbeth pugnala a mor-

te Duncan, ma non riesce a nascondere l’o-micidio al figlio di lui, Malcolm, che fugge in Inghilterra; anche l’alto dignitario Macduff nutre dei sospetti dopo che Macbeth uccide con la spada le tre guardie ubriache del re, colpevoli di non aver vegliato a dovere e così ora impossibilitate a parlare.

Da qui l’escalation omicida dei due coniugi assetati di sangue e di potere non si ferma più: Macbeth ordina a due sicari l’assassinio di Banquo, il cui fantasma lo perseguiterà non poco; subito ordina lo sterminio di tutta la famiglia di Macduff, fuggito in Inghilterra per organizzare l’esercito che dovrà abbattere il despota.

Macbeth ritorna dalle streghe per essere sicuro dell’esito della prossima battaglia e ri-ceve da loro una profezia equivoca: non avrà nulla da temere fino a quando gli alberi della forestta di Birnam non si muoveranno contro il castello di Dunsinane e che non potrà morire per mano di un uomo nato da donna.

Macbeth scopre ben presto che gli al-beri della foresta a cui è stato appiccato il fuoco dell’assedio dall’esercito di Malcolm e Macduff sembrano davvero muoversi verso gli spalti di Dunsinane spinti dal

vento forte; scopre poi che il rivale Macduff è nato da parto cesareo, strappato quindi alla madre in modo innaturale.

Ormai è tardi per tutto: Lady Macbeth muore, forse suicida, forse oppressa dalla colpa per il tanto sangue versato; Macbeth è ucciso in duello da Macduff, eroe della battaglia contro l’usurpatore.

M acbeth è la più breve delle tra-gedie di Shakespeare, forse la più intensa, certamente quella

che condensa le metafore e le immagini più straordinarie in una continua espressione di battute presenti nell’immaginario di chi conosce un po’ il teatro e che fanno venire il fiato corto solo a leggerle, bisbigliarle; fino alla profondità assoluta di “...la vita non è che un’ombra che cammina, un povero com-mediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo...”, parole che continuano a mostrare dopo quattrocento anni tutta la convinzione poetica circa la nullità dell’azio-ne umana e la sua impossibilità di scelta.

Contemporaneamente Macbeth, alla pari di tutte le altre tragedie di Shakespeare dedicate ai re, si posiziona come un ele-

relazione familiare. In realtà, le donne di Dana sono poco indipendenti e anzi fini-scono per appartenere, più o meno diretta-mente, a una figura maschile di riferimento. Il titolo originale, ancora più esplicito, Sotto le gonne delle ragazze, sottolinea come quei ventotto giorni da cui si parte, il ciclo ormonale femminile, designino piuttosto picchi siderali e nevrotici, idiosincrasie, in un racconto costantemente sopra le righe. La pellicola ha il grande potenziale di tro-varsi a raccontare il mondo femminile, ma non riesce a raccontarlo nella sua totalità e profondità. Rimane in superficie, con un ritratto delle donne esageratamente caricato e incentrato principalmente sull’aspetto ses-suale, soffermandosi sulla facciata più frivola e banale. Un film scritto per le donne, ma che

non rende loro giustizia, semmai sembra la materializzazione di tutti i più tremendi luoghi comuni sugli sbalzi umorali e sull’isteria. Infi-ne, quello che più di tutti colpisce, è la quasi totale assenza di comicità e ironia. Con una serie di sketch grotteschi, messi insieme in modo ancor più stravagante, la regista dà l’impressione di aver perso le redini, così che una storia corale si intreccia in maniera concitata e vorticosa per tutto il tempo, non concedendo allo spettatore nemmeno di capire di cosa si tratti. Il linguaggio diretto e realistico, seppure forzato e appiccicato ad-dosso ai personaggi, non aiuta ad affezio-narsi, né a comprendere le vicende montate di donne, che rimangono distanti per tutta la durata del film. Neanche l’introduzione della malattia giova alla mancanza di avvi-

cinamento e alla pretesa di verosimiglianza delle storie e dei modelli presentati. Donne troppo insipide, e quasi indistinguibili tra loro, nonostante la volontà di caratterizzarle, che sono più impegnate a mascherarsi nel loro essere comicamente impacciate e quasi macchiettistiche, piuttosto che irrisolte. Allo stesso modo, le interpretazioni tardano a es-sere credibili e divertenti, tra Laetitia Casta, che sembra imbarazzata e in vistoso disagio, Vanessa Paradis irrigidita e poco credibile, una Isabelle Adjani irriconoscibile sotto la maschera di botox; a salvarsi è la sola Julie Ferrier, nei panni dell’unico personaggio originale e irriverente nella sua particolarità di autista di autobus piena di tic.

Veronica Barteri

Francia, Gran Bretagna, 2015

MACBETH(Macbeth)

Regia: Justin KurzelProduzione: See-Saw Films, in associazione con Dmc FilmDistribuzione: VideaPrima: (Roma 5-1-2016; Milano 5-1-2016)Soggetto: dal dramma di William ShakespeareSceneggiatura: Jacob Koskoff, Todd Louiso, Michael LesslieDirettore della fotografia: Adam ArkapawMontaggio: Chris DickensMusiche: Jed KurzelScenografia: Fiona Crombie

Costumi: Jacqueline DurranEffetti: BlueBoltInterpreti: Michael Fassbender (Macbeth), Marion Cotillard

(Lady Macbeth), Paddy Considine (Banquo), David Thewlis (Duncan), Sean Harris (Macduff), Jack Reynor (Malcolm), Elizabeth Debicki (Lady Macduff), David Hayman (Lennox), Ross Anderson (Rosse), Maurice Roëves (Menteith), Barrie Martin (Thane), Hilton McRae (Macdonwald), Scott Dymond (Seyton)

Durata: 113’

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mento del Grande Meccanismo della Storia, risultando da questo prima determinato poi schiacciato. Con una differenza però che nel Macbeth la lotta per il potere è guidata dall’in-cubo, dalla forza dell’inconscio che tracima fangosa e si trasforma in sangue che copre tutto e tutti sotto una coltre appiccicosa e che diventa l’elemento conduttore di ogni azione.

Come si può tradurre oggi su uno schermo questa montagna poetica co-lossale, così ricca di strade conoscitive, di soluzioni interpretative e, nello stesso tempo, così potentemente rigida nel rap-presentare la scalata di un uomo, di un re verso la propria mostruosità?

Justin Kurzel, giovane regista austra-liano proveniente dalla sceneggiatura e quindi, per più di un motivo, lontano da qualsiasi influenza pseudoletteraria o da qualsiasi contaminazione poetica che po-tesse fuorviare la sua idea di trasposizione cinematografica, ha scelto di restare fedele al testo fino a toccare la convenzionalità e insieme superarla mettendo in risalto soprattutto la forza dell’intimità dei due protagonisti quale motore portante di ogni scelta, di ogni azione e di ogni delitto.

Quali problemi antichi, quanti figli per-duti (l’ultima, straziante sepoltura si vede all’inizio del film raggelare Macbeth e la moglie in un dolore senza fine), quante maternità mancate, invocate, piante e ma-ledette, dormienti illusoriamente nel tempo sono esplose di colpo a mostrare la soffe-renza della propria frustrazione e la voglia dirompente e incontenibile di avanzare nella salita al potere, non tanto per conquistarlo ed esercitarlo, ma per continuare a nutrirsi di quel sangue che lo stesso potere procura e che rende i due protagonisti soli? A loro, chiusi in un mondo in cui esiste solo l’as-sassinio perchè un tempo loro stessi sono stati assassinati nelle loro speranze e nei loro sogni di uomo e di donna, non resta altro che la bramosia del potere.

Inizialmente è determinata Lady Mac-beth che forgia questo marito esitante per farlo diventare finalmente virile e risoluto come quel figlio mai nato, poi è lui, final-mente uomo a prendere il sopravvento, ad allontanarsi dalla moglie madre che scivola sempre più verso la sua alienazione abulica, che le permette solo di scrostarsi dalle mani quel sangue, che diventa invece per Macbeth il centro della sua vitalità, la persecuzione opprimente di un delitto che chiama un altro delitto perchè solo così può sentirsi uomo.

La fedeltà di Kurzel è totale, corretta, ammirevole e, nonostante le critiche che gli sono pervenute addosso per la scarsa disponibilità nell’affermare una sua perso-nale visione della tragedia, pure abbiamo

trovato perfette quelle immagini scure, notturne dove l’incubo si dilata a coprire ogni esistenza, dove non si capisce più il confine tra il fango della battaglia e il sangue degli assassini perchè tutto è mischiato nella paura, nell’allucinazione, nell’ossessione di un’idea fissa che ha spazzato via ogni dignità umana.

Fassbender e la Cotillard hanno com-preso in maniera totale l’impianto registico e sono stati perfetti nel comunicarci con la sola forza di uno sguardo o di un atteggiamento l’ubriacatura di immagini e di sogni che si traduce nei loro desideri funerei, nella loro ricerca di vicinanza e intimità sempre per-duta, sempre sconfitta, presto assassinata.

Fabrizio Moresco

Italia, 2015

Regia: Leonardo Pieraccioni Produzione: Marco Belardi per Lotus Production con Rai Ci-

nema e LevanteDistribuzione: 01 DistributionPrima: (Roma 7-12-2015; Milano 7-12-2015)Soggetto: Leonardo PieraccioniSceneggiatura: Leonardo Pieraccioni, Giovanni Veronesi,

Domenico CostanzoDirettore della fotografia: Fabrizio LucciMontaggio: Patrizio MaroneMusiche: Gianluca Sibaldi

Scenografia: Francesco FrigeriCostumi: Claudio CordaroInterpreti: Leonardo Pieraccioni (Umberto), Laura Chiatti

(Morgana), Davide Marotta (Arnaldo), Sergio Friscia (Don Vincenzo), Nicola Acunzo (Il Calabrese), Massimo Ceccherini (Il Tinto), Flavio Insinna (Direttore del carcere), Lorena Cesarini (Sveva), Manuela Zero (Mia), Emanuela Aurizi (Sposina), Lucianna De Falco (Sig.ra Mammolotti), Lisa Ruth Andreozzi (Martina),Sabrina Paravicini (Ex moglie), Nicola Nocella (Agente Nocella), Lorenzo Renzi (Hannibal), Guido Genovesi (Guidino)

Durata: 90’

IL PROFESSOR CENERENTOLO

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VALUTAZIONI PASTORALI

Assolo – complesso-problematico / di-battiti

Big Game – Caccia al Presidfente – n.c.Black Sea – n.c.Carol – complesso / scabrositàCorrispondenza (La) – complesso-pro-

blematico / dibattitiDaddy’s Home – n.c.Dio esiste e vive a Bruxelles – comples-

so-problematico / dibattitiEverest – n.c.Figlio di Saul (Il) – consigliabile-proble-

matico / dibattitiFrancofonia – raccomandabile-proble-

matico / dibattitiHateful Eight (The) – complesso-proble-

matico / dibatiti

Hitman: Agent 47 – n.c.Irrational Man – consigliabile-problema-

tico / dibattitiMacbeth – complesso-problematico / di-

battitiMr. Holmes – Il mistero del caso irrisol-

to – n.c.Natale col il Boss – consigliabile / bril-

lantePiccolo Principe (Il) – consigliabile / po-

eticoPoint Break – consigliabile / superficialitàProfessor Cenerentolo (Il) – consigliabi-

le / sempliceQuo vado? – consigliabile / brillanteRagazzo della porta accanto (Il) –

n.c.

Regola del gioco (La) – consigliabile-problematico / dibattiti

Revenant – Reditivo – complesso-pro-blematico / dibattiti

Snoopy & Friends – Il film dei Peanuts – n.c.

Spectre – consigliabile / sempliceStraight Outta Compton – n.c.Taken 3 – L’ora della verità – n.c.Transporter Legacy (The) – n.c.11 donne a Parigi – n.c.Una volta nella vita – n.c.Uno per tutti – n.c.Viaggio di Arlo (Il) – consigliabile / sempliceWalk (The) – consigliabile / realisticoWoman in Gold – consigliabile-proble-

matico / dibattiti

U mberto è in carcere a Ventotene per scontare quattro anni di de-tenzione comminatigli per avere

tentato con un complice una maldestra rapina in banca per evitare il fallimento della sua ditta di costruzioni. Ormai è a fine pena e può quindi godere dei permessi previsti dalla legge che gli consentono di lavorare fuori delle sbarre nella biblioteca del Paese.

Durante una delle giornate in cui il carcere si apre a conferenze e incontri con l’esterno, Umberto conosce Morgana, una ragazza un po’ sciroccata, ancora in parte ragazzina che non capisce che lui è un detenuto e inizia con Umberto un rap-porto che si sviluppa durante i permessi gestiti con furbizia e che sfocia presto in un incontro di sesso.

È proprio da qui che inizia un saliscen-di di equivoci e stratagemmi con il direttore del carcere che non capisce se Umberto lo prenda in giro o no.

Fatto sta che questo riesce, in occasio-ne di un lungo permesso di dodici ore, a rivedere la figlia amatissima e recuperare un prezioso gioiello rubato a Morgana e finito come regalo di nozze per una rumena cicciona al cui matrimonio l’allegra briga-ta di Umberto e company si fa passare per un gruppo di animatori di feste.

Ben presto il periodo di detenzione di Umberto finisce e il suo reintegro nella vita normale potrebbe forse precludere a un vero legame d’amore con Morgana.

D oveva essere un film comico? Perchè di ridere non se ne parla, di un coinvolgimento allegro, da

commedia insomma, nemmeno. Di cosa stiamo parlando quindi?

Lo stesso Pieraccioni d’altra parte si è sempre considerato un cabarettista presta-to al cinema e anche in questa occasione ha detto che questo sa fare e non altro e se è questo, è rimasto poco: probabilmente

possiamo considerare esaurita la parabola del regista toscano che non solo da ora ma da diversi anni ormai ha bruciato ogni inven-tiva, ogni pulsione di comicità ormai perduta dopo i primi grandi esploit di I laureati e Il ciclone, campioni d’incasso negli anni ‘90.

Il risultato è quindi una costruzione debole, un filo esilissimo che unisce senza danno e senza nerbo una serie di battute e trovate del tutto superficiali, perchè il tutto è gentile, carino, cortese ma superficiale; anzi fa meraviglia che Pieraccioni abbia navigato per tutto questo film lungo una serie di dialoghi striminziti e freddi che non scuotono e una struttura narrativa opaca e sgangherata.

Neanche la prorompente, femminilis-sima e simpatica vitalità di Laura Chiatti, né la guizzante e provata amicizia di Mario Ceccherini sono utili a ravvivare un fuoco ormai ridotto in cenere.

Fabrizio Moresco

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TUTTO FESTIVAL Torino Film Festival 2015

A cura di Flavio Vergerio e Davide Di Giorgio

IL FUTURO È GIÀ QUI

Dopo la lunga coabitazione con i registi-cinefili Nanni Moretti, Gianni Amelio e Paolo Virzì, Emanuela Martini dirige il TFF per il secondo anno come unica direttrice artistica, potendo così manifestare compiu-tamente la sua strategia culturale. Che è ap-parsa più chiara nella scelta non tanto delle opere inedite (comunque significative nella loro linea di tendenza), quanto della retro-spettiva dedicata alla fantascienza, intito-lata significativamente Cose che verranno. La terra vista dal cinema. Più intrigante e misterioso il titolo del volume collettaneo di accompagnamento (una bella raccolta di saggi vecchi e nuovi di cinefilia assoluta e di acuta analisi del fenomeno socio-culturale), Pecore elettriche, che riprende il titolo origi-nale del racconto di Philip K. Dick dal quale Ridley Scott ricavò nel 1982 il suo Blade Runner : “Ma gli androidi sognano peco-re elettriche?”. La Martini afferma di aver avuto l’idea della retrospettiva in occasione della tragedia parigina dell’uccisione di tutta la redazione di Charlie Hebdo. “L’idea (...) nasce dal senso di vuoto e nuova barbarie tecnologicamente avanzata e spettacolariz-zata innescato da quell’evento, e dalla con-sapevolezza di essere arrivati alla fine di un ciclo storico-culturale, dalla percezione che in realtà il meccanismo (se non l’ordigno) “Fine del mondo” fosse in moto già da mol-to tempo. Michel Houllebecq, con Sottomis-sione, ha scritto un libro di Storia, non di fantapolitica. Accadde ieri, e la fantascienza l’ha previsto”. La SF ha nobili ascendenze letterarie, dai “classici” Jules Verne (ma si può citare an-che il Frankenstein di Mary Shelley), Ge-orge Orwell, Aldous Huxley, Ray Bradbu-ry, Isac Asimov e J.G.Ballard, ai più “mo-derni” Philip K.Dick e Stephen King. Ma anche il genere cinematografico in questio-ne ha sorprendenti lombi di nobiltà avendo impegnato in opere memorabili registi quali J.-L.Godard, Chris Marker, Alain Resnais, François Truffaut (cioè una parte cospicua

della N.V.), David Cronenberg, Elio Petri, Marco Ferreri, Steven Spielberg, Stanley Kubrick, Andrej Tarkovsky. Un ulterio-re conferma che la distinzione fra cinema di genere e cinema d’autore è totalmente superata, viste le produttive commistioni e trasmigrazioni da un versante all’altro. La Martini afferma con questa sua scelta la necessità di studiare i profondi rapporti fra cinema popolare e cinema “nobile”. Non è l’appartenenza a un genere che determina la specificità di un film, ma la capacità del regista di conferirgli interesse tematico ed espressivo. Questa prospettiva di rimescolamento del-le carte nell’ ideazione del TFF si è notata quest’anno nella scelta del guest director e degli omaggi. Il “direttore ospite” è stato l’inglese Julian Temple, che ha presenta-to The Ecstasy of Wilko Johnson, ritratto dal chitarrista dei Blackheads colpito da una malattia terminale, ma dotato da una straordinario energia e amore per la vita. Formatosi alla scuola creativa dei video-clip musicali, Temple ha una girato lunga serie di film effervescenti dedicati a gruppi rock-punk, iscrivendosi cosi alla categoria dei registi pop. È stato quindi sorprenden-te la sua scelta, per la “carta bianca” con-cessagli, di film “classici” dedicati al tema della morte: Scala al Paradiso di Powell e Pressburger, La belle et la béte di Jean Cocteau, Il colore del melograno di Sergei Paradžanov, Il settimo sigillo di Ingmar Bergman.L’omaggio più significativo è stato attribui-to a un altro inglese, il leggendario Terence Davis, autore di uno dei film più importanti degli anni ’80, La trilogia di Terence Davis (lancinante ritratto della crescita e affer-mazione di un omosessuale in un ambiente familiare di poveri minatori cattolici), qui presente con il suo secondo film del 1988, Voci lontane, sempre presenti (storia di una famiglia proletaria di Liverpool descritta attraverso i canti popolari e le bevute al pub) e con la sua ultima opera, in distribu-zione, Sunset Song (Canto del tramonto),

tratta da un classico letterario dello scoz-zese Lewis Grassic Gibbon. La vicenda, grondante amore per i suoi personaggi e per i paesaggi scozzesi, narra la lotta per la conquista della propria identità di una don-na contadina, vittima prima della violenza del padre e poi dell’anaffettività del marito destinato al fronte nella Guerra Mondiale del ‘14-‘18.Altri “omaggi”, che a mio avviso obbligano anche i cinefili più maturi a una progressi-va riconsiderazione delle proprie posizioni critiche, sono stata attribuite in occasione di anniversari o recenti scomparse, sono stati attribuiti a Orson Welles, Lorenza Mazzetti, Jean-Daniel Pollet, Chantal Akerman, Au-gusto Tretti.Un particolare “valore aggiunto” del TFF consiste nella presentazione di film già consacrati dalla critica in altri festival, senza sciocche pretese di prelazione, in vero spirito di conoscenza di opere in gran parte destinate a rimanere inedite in Ita-lia. Fra questi segnaliamo: Bella e perduta di Pietro Marcello (un viaggio poetico di Pulcinella, legame fra i vivi e i morti, at-traverso l’Italia in rovina dalla “terra dei fuochi” alle tombe etrusche a Tuscania), Cemetery of Splendour di Apitchapong Weerasethakul (vedi la sezione Onde), The Assassin del risorto Hou Hsiao-Hsien (vedi la sezione Festa Mobile), il fluviale Le mille e una notte del talentuoso por-toghese Miguel Gomes, che racconta nei toni cangianti della fiaba surreale e umo-ristica alcune storie della crisi sociale e dell’impoverimento del suo Paese. Gli episodi più significativi sono quelli del cagnolino Dixie che passa di padrone in padrone, senza rendersi conto del loro sui-cidio e quello dedicato alla cattura e alla cura dei fringuelli da parte di poveri ope-rai, che finiscono per identificarsi in essi, in un inno al canto e alla bellezza gratuiti. Da segnalare ancora in Festa Mobile Co-moara (Il tesoro) del romeno Corneliu Po-rumboiu, amara denuncia dei sotterranei legami economici fra l’Est e il capitalismo

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occidentale, aperto tuttavia al sogno e alla speranza. Nella sezione TFFDOC, presen-tato quale “evento speciale”, si è potuto “recuperare” lo straordinario La France est notre patrie del cambogiano Rithy Pahn, un montaggio di materiali d’archi-vio sull’opera di colonizzazione francese del sud-est asiatico, sino alla tragedia di Dien Bien Phu (1954), che segnò la fine del colonialismo francese e il prodromo alla successiva guerra del Vietnam. Privo di commenti didascalici (il commento in controsenso è dato da didascalie tratte da un testo delirante di un teorico della colo-nizzazione) e perciò ancora più sottile e penetrante, il film mette in scena il conflit-to fra due civiltà e la distruzione dell’eco-nomia agricola in Cambogia.

IL CONCORSO

Malgrado le prevedibili difficoltà nel re-perire importanti opere prime o seconde, strappandole ai festival maggiori, la sele-zione delle 15 opere in competizione era di buon livello. Se si vuole individuare un tema comune lo si può cogliere nel rappor-to problematico di singoli individui con i propri sogni, la famiglia e le strutture so-ciali. Il primo premio è stato attribuito a Keeper (Custode) dell’esordiente belga Guillaume Senez, vicenda di una gravidanza indeside-rata, provocata dalla scoperta della sessua-lità da parte di due adolescenti. Malgrado i consigli e l’opposizione delle due famiglie i due ragazzi decidono di tenersi il figlio, che finirà però – in un finale amaro – per essere dato in affido a una famiglia. La vi-cenda è vista soprattutto attraverso gli occhi del ragazzo, che si trova di fronte a scelte più grandi di lui e ne misura quindi la matu-razione e la consapevolezza di sé. Colpisce nella costruzione della storia l’assenza di qualsiasi riferimento morale (o moralistico) e famigliare, quasi che i ragazzi si trovino a dover costruire la loro esistenza nel vuoto di rapporti socio-culturali.Altrettanto intrigante, ma più affidata a una logica dell’atto gratuito (o folle), la vicen-da di La patota (Paulina), opera seconda dell’argentino Santiago Mitre. Una giovane avvocatessa di Buenos Aires decide di ab-bandonare la promettente professione e di dedicarsi al volontariato come insegnante in una zona di confine, a forte disagio so-ciale, nel villaggio natale. La sua decisione ostinata non verrà scalfita nemmeno quando un gruppo di ragazzi la violenterà durante un’aggressione notturna, La donna si rifiu-terà di denunciare il branco vivendo sulla propria pelle la miseria morale del villaggio. Il film rifiuta qualsiasi logica di una tesi pre-costituita, lasciando allo spettatore l’inter-

pretazione e il giudizio sul comportamento della protagonista.Il film premiato dal pubblico è stato invece Coup de chaud (Colpo di calore) del fran-cese Raphaël Jacoulot, dramma della perdi-ta dell’innocenza da parte di una comunità agricola assediata dalla siccità estiva. Quan-do viene manomessa una pompa idraulica si dà la colpa al giovane handicappato psichi-co del villaggio, che diventa capro espiato-rio del disagio collettivo. Il regista sceglie una cifra realistica, con un efficace climax poliziesco, ma manca il senso del mistero e dell’ambiguità.Si affida invece alla cifra della metafora e del simbolismo con la sua opera prima, Coma, la siriana Sara Fattahi, emigrata oggi in Libano. Tre donne, rappresentanti di tre generazioni, vivono sole in una casa borghese a Damasco, assediate dalla guer-ra. Le tre donne vivono con i loro ricordi e i loro fantasmi, anestetizzate nei deside-ri e nei sentimenti. La guerra uccide non tanto i corpi, ma piuttosto le anime delle vittime.Da segnalare infine due storie di migranti. Nel primo, A Simple Goodbye, della cinese Degena Yun una ragazza torna, dopo lunghi anni di studio e di solitudine in Inghilter-ra, a Pechino dove il padre, vecchio regi-sta mongolo, sta morendo di cancro. Dopo lunga separazione la madre si è riavvicinata al marito per curarlo, ma il loro rapporto è difficile; a sua volta la figlia rimprovera il padre di averla abbandonata in tenera età. Prima di morire l’uomo visita la casa di produzione cinematografica di Stato in Mongolia dove realizzava film di genere epico. La fine dell’uomo coincide con la riappacificazione di padre e figlia e con l’annuncio di una nuova vita. Il film illustra bene la difficoltà dei rapporti generazionali nella nuova Cina, sconvolta dai cambia-menti economici.Nel secondo, The Waiting Room del bo-sniaco Igor Drličaa, viene descritta la dissociazione esistenziale di un atto-re un tempo famoso a Sarajevo, duran-te la guerra civile emigrato a Toronto. Qui cerca di sopravvivere come muratore e piccole comparsate televisive. Quando deve interpretare un personaggio comico in qualche modo autografico i ricordici del pasdsato si mescolano con il presente in un groviglio doloroso.

ONDE

Anche quest’anno la selezione di Onde approntata da Massimo Causo e Roberto Manassero è stata ricca di suggestioni e di stimoli linguistici. Sopra tutti la straor-dinaria nuova performance del tailandese Apitchapong Weerasethakul che con Ce-

metery of Splendor ci ripropone un cinema ipnotico, sospeso fra memoria, immagina-rio e oblio. Il film mette in scena una cor-sia d’ospedale, ricavata da una ex-scuola, a sua volta costruita sul terreno di un vec-chio cimitero abbandonato, sconvolto dal-le ruspe al lavoro per fare spazio a nuove costruzioni, nella cittadina di Khon Kaen, luogo natale del regista. Nell’ospedale è ricoverato un gruppo di soldati colpiti da una misteriosa malattia che li costringe a una condizione di letargo, interrotto da brevi risvegli. I soldati sono assistiti da al-cuni volontari e infermieri, fra i quali una casalinga che accompagna un soldato in passeggiate in giro per la città, cercando di evocare e mettere ordine nei ricordi del soldato. La donna si fa aiutare da una me-dium che usa i suoi poteri per comunicare con i malati. La corsia con i letti dei ma-lati addormentati è illuminata la notte da una doppia fila di lampade fluorescenti che la costituisce come un misterioso luogo metaforico: il “cimitero di splendore” si manifesta come una sala cinematografica popolata dai sogni degli spettatori in uno stato di dormi-veglia. Il profondo motivo di fascinazione del cinema di Weerasetha-kul è costituito dalla modalità morbida e poetica con cui il racconto trascorre dalla supposta realtà al sogno e viceversa, tanto che i due versanti della rappresentazione divengono indistinti e misteriosi. Volto alla riformulazione delle regole del racconto e della rappresentazione era an-che Balikbayan #1 – Memories of Over-delopement Redux III del filippino Kidlat Tahimik (maestro dei più noti Lav Diaz e Raya Martin, a lui accomunati nella ricerca di un cinema che mescoli realismo e finzio-ne). Tahimik innesta elementi di mitologia fantastica nella ricostruzione ironicamente “storica” della circumnavigazione da parte di Ferdinando da Magellano, accompagna-to da un dimenticato schiavo filippino, En-rique. Alle ricerche documentarie sull’arte popolare scolpita che ancora oggi perpetua l’immagine mitica di Enrique, il regista alterna il racconto del lungo e periglioso viaggio transoceanico e sequenze in co-stume ambientate alla corte spagnola ove il “selvaggio” Enrique avrebbe avuto una storia d’amore con la figlia della regina. Sviluppato quindi su molteplici piani della rappresentazione, Balikbayan si costituisce come uno straordinario saggio di ricostru-zione storica della colonizzazione e di ri-affermazione della originaria identità di un popolo.Dopo la rigorosa costruzione di La sapienza il franco-americano Eugène Green sembra abbandonare con Faire la parole le sue ri-cerche formali fondate sulle strutture fin-zionali barocche. Il film apparentemente è un documentario sulla natura della cultura

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Film Tutti i film della stagioneFilm Tutti i film della stagione

basca e sulle lotte di un popolo per il ricono-scimento della propria identità. Green racco-glie le testimonianze di quattro adolescenti abitanti nel nord del Paesi Baschi, educati all’interno della lingua e della cultura basca, che nel loro peregrinare attraverso il Paese entrano in contatto con gruppi folkloristici che per mezzo di canti e balli tradizionali mantengono viva una delle culture più an-tiche e misteriose d’Europa. Fra l’altro as-sistono a uno spettacolo teatrale “pastorale” in cui viene definita l’anima anti-borghese della cultura basca. Estranei alle lotte poli-tiche e ai metodi di lotta violenta dell’ETA, i quattro giovani (aspiranti poeti e cantan-ti) parlano di sé e dei propri profondi con la propria terra. Green percorre ancora una volta le strade della poesia per liberare una materia facilmente riconducibile alla più po-vera dimensione sociologico-politica verso orizzonti intimamente esistenziali e spiri-tuali.Fra gli altri film della sezione da segnalare per l’alto livello di consapevolezza stilisti-ca: Nacimiento del colombiano Martìn Meja Rugeles (una povera comunità sperduta nella foresta amazonica partecipa alla na-scita di una nuova vita come occasione di rinnovamento della propria esistenza, in un legame simbiotico con una natura bellissima e al tempo stesso ostile), Symptoma del gre-co Angelo Frantzis (in un’isola sperduta una popolazione anonima di pastori si confronta con l’apparizione di un essere misterioso e dall’aspetto luciferino, destinato a fungere da capro espiatorio della paure e dei pregiu-dizi collettivi), Stand by for Tape Back-Up dell’inglese Ross Sutherland (il regista dopo la morte del nonno rivede ossessivamente un VHS in cui sono registrati spezzoni di film e di sit-comedy come occasione di “ri-flessione sui ricordi, la morte e il concetto di ripetizione”).

Flavio Vergerio

FESTA MOBILE: IL CINEMA ATTRAVERSO LE EPOCHE

Fuori dal Concorso Lungometraggi, il Tori-no Film Festival si apre come da tradizione agli spazi trasversali di Festa Mobile, in cui far confluire il meglio delle nuove produ-zioni realizzate dagli acclamati maestri e le piccole scoperte, senza dimenticare il pia-cere di riproposte e piccole personali. Nel primo caso spicca uno tra i migliori lavori transitati sotto la mole, The Assassin (in ori-ginale Nie Yinninang), che segna il ritorno alla regia di Hou Hiao-Hsien dopo 6 anni di silenzio. Stavolta il regista taiwanese affron-ta il genere wuxiapian, attraverso la storia di un’assassina nella Cina del IX secolo, inter-pretata dalla bella Shu Qi (già in Millennium

Mambo): l’autore rispetta con precisione i codici del genere, fra duelli splendidamen-te coreografati, e una vicenda di assassini su commissione che costeggia i fatti della Storia reale, intrecciandosi con i sentimenti del vissuto personale dei personaggi, in una dinamica allo stesso tempo grande e picco-la. Nel farlo, però, raggela ogni possibilità spettacolare sospendendo i gesti, i tempi e gli spazi in una cifra contemplativa che esal-ta l’assoluta bellezza di un’opera meditativa e di enorme suggestione filmica. Fra rein-venzione e personalissima rielaborazione, il film si offre come un autentico capolavoro che rinnova e allo stesso tempo conferma la forza del genere.Tra il sogno e l’incubo, tra le nuove leve, già più o meno note al pubblico cinefilo, si segnala invece il rumeno Corneliu Po-rumboiu, con Comoara/Treasure, bizzar-ra caccia al tesoro nascosto in un terreno di famiglia: un’avventura ritratta con toni raggelati ma divertiti, che sembra guardare al cinema di Aki Kaurismaki, ivi inclusa la sorprendente umanità che permette di em-patizzare con gli spiantati protagonisti (in perfetta opposizione a quanto accadeva, ad esempio, con le ossessioni di un Vegas di Amir Naderi o di un Umut di Yilmaz Guney, che la storia può far tornare alla mente). Dalla Francia, invece, il duo di ani-matori Jean-Loup Felicioli e Alain Gagnol, con il loro Phantom Boy, mostrano la vita-lità del cartoon d’oltralpe, attraverso l’im-presa di un ragazzo malato, ma in grado di far “uscire” la sua anima dal corpo, che in questo modo presta il suo aiuto alle inda-gini su un supercriminale che sta tenendo in scacco New York: al di là dello stile, che ossequia la grazia stilistica dei fumetti francofoni, intriga il confronto fra l’inazio-ne e la forza della parola, che si pone in quanto elemento discriminante – il prota-gonista infatti non può materialmente agire quando è fuori dal corpo, ma può riferire quello che vede. In questo modo i prota-gonisti riescono a raggiungere i loro scopi non attraverso i gesti materiali, ma quando riescono a farsi veicolo di narrazione.Non si può dire lo stesso del cinema ingle-se, che in pellicole come Just Jim, di Craig Roberts, o Iona, di Scott Graham (già vin-citore nel 2012 con Shell), tenta l’indagine su personaggi giovani in situazioni diffi-cili, che tentano perciò di ricostruirsi una vita attraverso il confronto con altre realtà. In Just Jim, infatti, il protagonista incontra un intraprendente coetaneo venuto dall’A-merica, che in apparenza sembra un valido consigliere, ma in realtà cerca lentamente di estrometterlo dalla sua famiglia; in Iona, invece, la protagonista torna al paese natale, dove il confronto con il suo passato lascia emergere i traumi sepolti. Due opere che tentano la carta del dramma interiore (o del-

la commedia nera), ma senza riuscire a far vibrare realmente di vita i mondi che met-tono in scena.A metà strada si pone l’America di Me and Earl and the Dying Girl (nelle nostre sale come Quel fantastico peggior anno della mia vita), di Alfonso Goomez-Rejon, già regista di acclamate serie tv come Glee o American Horror Story, che tenta la carta della commedia nera: Greg, per acquietare il proprio cinismo, decide di farsi amica Rachel, condannata a morte da un male in-curabile, ma quello che nasce quasi come un gioco diventa poi una grande lezione di vita. Facile pensare a un’opera furba, ed è effettivamente un peccato che il re-gista insista su certi detestabili cliché à la Wes Anderson, perché quando decide di lasciarsi andare alla sincerità del senti-mento, il film riesce regalare intense emo-zioni, come se la vita scardinasse davvero la semplice adesione a meccanismi imbal-samati.Infine gli omaggi, con i restauri della Ci-neteca Nazionale di Terrore nello spazio di Mario Bava e Giulietta degli spiriti, di Federico Fellini, singolare e significativo accostamento fra due maestri capaci di far prevalere l’estro visivo e la contami-nazione linguistica sulla componente più strettamente narrativa. A questi si accosta la riedizione di West and Soda, di Bruno Bozzetto, in occasione dei cinquant’anni dall’uscita in sala: opera ben incanalata nel suo tempo (anticipa e ossequia tutto il filo-ne dei nascenti western italiani), è ancora capace di essere altro rispetto ai sentieri dell’animazione coeva, per la stilizzazione che diventa allo stesso tempo mitologia e satira di un modo di concepire la narrazio-ne. Il segno di come nel cinema del passato si ritrovi spesso una capacità di guardare al di là del proprio tempo e che spiega perché i percorsi del Torino Film Festival amino abbattere steccati ed essere trasversali ri-spetto alle epoche.

AFTER HOURS: VIEN DI NOTTE IL GENERE NERO

Lo spazio dedicato al cinema di genere, con un occhio particolare all’horror, ha fatto registrare quest’anno una particolare novità, con l’introduzione della maratona notturna che, da mezzanotte fino all’alba, ha attirato in sala un altissimo numero di spettatori. La selezione ha inteso nel complesso fornire uno specchio variegato delle possibilità di declinazione dei generi più “oscuri”, con una mini-personale de-dicata a Sion Sono, arrivato a Torino con tre delle ben cinque pellicole realizzate nel 2015: Shinjuku Swan, bizzaro gangster movie sull’ascesa di un ragazzo fra le fila

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Film Tutti i film della stagione

dei procacciatori di prostitute nell’eponi-mo quartiere di Tokyo; Real Oni Gokko/Tag, sanguinolenta odissea in bilico fra realtà e incubo, con una protagonista in transito fra universi paralleli; e infine Love & Peace, il migliore del trittico, in cui l’a-scesa al successo del protagonista Kyo, da imbranato impiegato vessato dai colleghi a divo della musica pop, si accompagna al rapporto con la tartaruga domestica desti-nata a diventare un gigantesco mostro da Kaiju Eiga: al di là dell’amore per l’ec-cesso e la bizzarria, Sono continua a com-porre intelligenti affreschi sul tema dell’i-dentità nella società contemporanea, dove emerge una vena satirica nei confronti dei rigidi dettami della cultura e della società giapponese e un forte desiderio di umani-tà, che si estrinseca in un recupero della memoria e degli affetti nascosti.Il resto della selezione sembra aver opta-to principalmente per un ritorno all’horror d’atmosfera, dove anche gli eccessi sono tenuti sotto controllo da una tendenza a creare universi organici e compatti, di for-te impatto visivo. Fra i migliori esempi va citato February, di Osgood Perkins (figlio del mai dimenticato Anthony), che ribalta il classico tema della possessione demonia-ca, declinandolo nel senso della privazione d’affetto: l’entità che possiede il corpo di-venta così non già una forza devastante che priva la protagonista del sé, ma, al contra-rio, l’elemento mancante in una vita con-trassegnata dalla mancanza degli affetti, strappati anzitempo a questo mondo. Il tut-to in una struttura a rompicapo che si rive-la soltanto strada facendo, con esiti molto interessanti. Da segnalare anche il francese Evolution, di Lucile Hadzihalilovic, per le atmosfere asfissianti e ossessive, rilette in una chiave fiabesca, dove un bambino

è prigioniero di strane infermiere-mostro che praticano l’inseminazione artificiale, aprendo spazi di morbosità in un tessuto visivo straniante e in grado di creare sensa-zioni a metà strada.

COSE CHE VERRANNO: IL FUTURO VISTO DAL PASSATO

Lo spazio retrospettivo sembra, rispetto alle edizioni precedenti, aver perso un po’ della sua centralità, complice la tendenza a non concentrarsi più sulla riscoperta di maestri erroneamente considerati “mino-ri”, ma su filoni più consolidati. Nel caso di questo nuovo percorso tematico, deno-minato Cose che verranno, il tema predi-letto è la fantascienza e, in particolare, le visioni del futuro più o meno distopico fra gli anni Trenta e Novanta del XX secolo. Una bella occasione di confronto con epo-che in cui prevaleva, da un lato, la forte inventiva nell’immaginazione di mondi futuri spesso avveniristici: - si pensi a La vita futura di William Cameron Menzies, La decima vittima di Elio Petri, Brazil di Terry Gilliam o Blade Runner di Ridley Scott. Allo stesso tempo, però questo fer-mento creativo era spesso al servizio di un clima di paranoia tipico dell’epoca in cui le varie pellicole erano realizzate e pertan-to si concretizzava in visioni ansiogene o negative, da quella del Pianeta delle scim-mie, a quella de L’uomo che visse nel fu-turo, fino a Mad Max, Arancia meccanica, Akira o E la terra prese fuoco. La selezio-ne nel complesso è apparsa attenta a ripro-porre grandi classici delle varie epoche, si pensi a kolossal ante-litteram come La guerra dei mondi di Byron Haskin (e Ge-orge Pal), unitamente a titoli più defilati

ma non meno validi, dove spesso la collo-cazione nel futuro non è necessariamente esplicitata (Crash di David Cronenberg o Il Dr. Stranamore). Più significativa senz’altro la riscoperta di capolavori mi-sconosciuti come Fine agosto all’Hotel Ozon, di Jan Schmidt che rappresenta un interessante contributo dalla fiorente e poco considerata fantascienza est europea, in questo caso la Cecoslovacchia, che nel caso specifico ci regala un’opera decaden-te e suggestiva su nove donne in viaggio in un mondo post apocalisse, ritratto con po-chi elementi naturalistici, ma grande for-za evocativa. A questo si somma La terra silenziosa, di Geoff Murphy, pure incen-trato sull’odissea di pochi sopravvissuti a un esperimento che ha cancellato il genere umano: curioso notare come, a fronte di un mondo futuro chiaramente percepito come caotico e incapace di contenere l’istinto vitalistico della nostra razza, le pellicole si concentrino spesso su pochi personaggi, su spazi aperti e inagibili, su comunità ri-dotte che cercano di resistere a un’indole autodistruttiva destinata inevitabilmente a cancellare tutto il nostro retaggio: segno di una fobia che il cinema si faceva carico di esorcizzare raffigurandone le pulsioni. Una scelta che appare quasi avanguardi-stica in un tempo dove l’anticipazione sembra essere uscita dal radar dei crea-tivi, dove tutto è concentrato sul passato o su un presente che sembra destinato a protrarsi per sempre, senza le capacità di immaginare un altro domani. La retrospet-tiva avrà una prosecuzione nell’edizione 2016, dove speriamo di trovare altre rarità e visioni in grado di sorprenderci per ca-pacità profetica e forza creativa.

Davide Di Giorgio

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DADDY’S HOME - Sean Anders

CAROL - di Todd Haynes

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FRANCOFONIA

REVENANT - REDIVIVO

LA CORRISPONDENZA

IL FIGLIODI SAUL

THE HATEFUL EIGHT

di Aleksandr Sokurov

di Alejandro Gonzáles Iñárritu

di Giuseppe Tornatore

di László Nemes

di Quentin Tarantino

SPECTRE - di Sam Mendes

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