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Numero 88 - dicembre 2015 Euro 2 - filt-cgil · pretazioni del Corano e dentro cui il rapporto con...

Date post: 15-Sep-2018
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Numero 88 - dicembre 2015 Euro 2.00 Periodico FILT-CGIL Nazionale
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N u m e r o 8 8 - d i c e m b r e 2 0 1 5 E u r o 2 . 0 0

P e r i o d i c o F I L T - C G I L N a z i o n a l e

Primo Piano

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Il servizio fotografico è stato realizzatoda Franco [email protected]

Primo Piano 2

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Tempo Presente

In Linea

Spazio Aperto

I demoni tra noi

Contrattare al tempo del Jobs Act

Una riflessione sul diritto di sciopero

Poste, un’Azienda Paese

“Il clima è la chiave di tutto”

Ricordo di Pietro Ingrao e Riccardo Terzi

Infrastrutture di trasporto in italia.Ritardi e rimedi

Navi e lavoro tra gli squilibri del mondo

31Sguardi e Traguardi

Più degli uomini, le donne

Donne in rete

35Finestre

38Immagini

“L’arte di far instrumenti…”

40Il tempo era adesso

60 anni di giornalismo e di storia

La legge del mercato di Stephane Brizé

Regole e democrazia, fondamentaper l’unità sindacale

Roma città da salvare

“Vogliamo essere la porta del sud Europa”

SIC (Sicurezza, Intermodalità, Competitività)

Aeroporto di Catania, occasione per il Sud

Tutelare chi lavora su strada

Vent’anni di NOSTOP

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Primo piano

È il tempo delle spinte a dividere, che prevalgono sul riconosci-mento del valore dell’unità ed è anche il tempo delle forzedisperse per deficit di unità. Le risposte ai problemi, anche quel-li di straordinaria gravità che mettono a rischio libertà e demo-crazia, non registrano la sufficiente risposta unitaria.Occorre ritrovare le ragioni che possano mettere insieme le conver-genze e gli interessi comuni contro la crescente sfiducia di tuttiverso tutti, che produce linee di divisione crescenti e sempre piùprofonde. Mettere insieme ciò che unisce nella convenienza di tuttisembra sempre più difficile, mentre aumentano le chiusure negliegoismi del particolare, che hanno prodotto e continuano a produr-re danni nella politica e nelle scelte elettorali dei cittadini in Euro-pa e in Italia, con la disaffezione e l’attrazione sempre più forteesercitata dalle forze delle tante destre e dei tanti populismi.Questa difficoltà a ritrovare le ragioni e le convenienze dell’uni-tà riguarda tutti i soggetti politici e sociali e non risparmia l’azio-ne del sindacato che, nelle tante crisi che si stanno sempre piùsviluppando, dovrebbe sentire come assoluta priorità e obbligoirrinunciabile la ricerca quotidiana della sintesi unitaria.È vero che per mettere insieme le forze ci vuole il convincimen-to di tutti, ma è anche vero che non mancano le condizioni chepossono contribuire a sviluppare le convergenze, se si riconosce ilvalore dell’azione unitaria. Senza di questa, il mondo del lavoroè destinato a ulteriori arretramenti dopo i lunghi anni della crisi,che hanno prodotto danni rilevanti sull’occupazione e sul redditoe la messa in discussione di fondamentali diritti a seguito del-l’azione del governo e del parlamento.Come fare? Su quali fondamenta si può ritrovare e rafforzarel’azione unitaria del sindacato?Se si riconosce la necessità di mettere insieme le forze, non man-cano solide fondamenta per l’unità nell’azione sindacale. Si ritro-vano nella necessità di sostenere, con l’iniziativa unitaria, lerichieste comuni verso il governo sui temi che registrano impor-tanti convergenze nel merito, come nel caso delle pensioni, delcontrasto ai tagli del welfare, etc.La parte più robusta di queste fondamenta dell’unità risiede nellacontrattazione, nelle sue regole e nel rapporto democratico coni lavoratori.Il sindacato italiano ha stabilito, attraverso l’accordo con le con-troparti, un potente sistema di regole per la rappresentanza e perl’esercizio della democrazia sindacale in tutti i posti di lavoro.L’intesa sul Testo Unico del 10 gennaio del 2014 consegna ai lavo-ratori il potere decisionale sui contratti collettivi con il voto vin-colante sugli accordi che, insieme al voto delle RSU nei posti dilavoro e alla misura certificata del tesseramento, ha ridefinitoprofondamente, attraverso il radicamento democratico, la natu-ra del sindacato italiano.Con l’applicazione del Testo Unico i lavoratori sono protagonisti edecisori sulla rappresentanza e sugli accordi che li riguardano equesto basta a tacitare chi ancora prova a sostenere che il sinda-cato si attribuisce un potere sulla contrattazione e sugli accordisvincolato dal rapporto con i lavoratori.Il Testo Unico, nei suoi contenuti di democrazia sindacale e diregolazione dei processi della contrattazione, può essere la

solida base per la legge sulla rappresentanza che il governominaccia, trascurando la straordinaria portata dell’intesa chetutte le parti sociali hanno prodotto.Troppe volte dal governo si sente ripetere che, se le parti socialinon si mettono d’accordo, ci sarà un intervento legislativo sullequestioni della contrattazione.Non si può mettere in discussione il fatto che su rappresentanza,democrazia e regole della contrattazione le parti sociali nonabbiano fatto la propria parte.Manca un accordo sul cosiddetto modello contrattuale, anche sequesto è vero parzialmente, in quanto lo stesso Testo Unico defi-nisce in buona parte il nuovo modello di contrattazione.Bisogna trovare l’intesa sulla parte mancante, certamente digrande importanza, e bisogna trovare una convergenza sindacalee un accordo con le controparti.Per fare un accordo, e per farlo in tempi brevi, bisogna riprende-re il metodo e la disponibilità a ricercare sintesi e unità, metten-do a disposizione di questa sintesi anche parti delle posizioni chele singole associazioni di rappresentanza hanno portato al tavoloall’inizio del confronto.Così è stato per il Testo Unico. Tutti hanno lasciato qualche partedelle proprie posizioni di organizzazione e l’intesa finale è unasintesi di grande avanzamento. Bisogna riprendere quello schemadi confronto, guardare ai cambiamenti che il sistema produttivoe il lavoro hanno registrato in conseguenza della crisi e delleinnovazioni tecnologiche e organizzative.Si può concludere anche il confronto sul modello contrattuale sela sintesi unitaria è riconosciuta per il valore che assume per ilavoratori che rappresentiamo, ma anche come contributo delsindacato italiano e di tutte le forze sociali alla costruzione di unsistema di regole compiuto. Senza di questo, il processo unitario rimarrebbe esposto alleragioni interne alle singole organizzazioni e, ancora di più, agliinterventi esterni.Regole condivise e democrazia nel mondo del lavoro sono lefondamenta dell’unità sindacale, così come regole condivisee democrazia sono le fondamenta per l’unità, sempre più neces-saria, per affrontare gli straordinari problemi che l’Italia el’Europa devono risolvere.

di Franco Nasso, Segretario Generale Nazionale Filt-Cgil

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Regole e democrazia,fondamenta per l’unità sindacale

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Tempo presente

La banalità del male non è arrivata ieri 13 novembre a Parigi.Così come i demoni. È tra noi da molti anni ma, a differenza diuna guerra combattuta in campo aperto o nelle strade o con ilsolo invio degli eserciti, appare d’improvviso in tutta la sua cru-deltà per poi colpire in un altro luogo o in un tempo successivo.Quasi che ci illuda nel ritorno a una normalità che riassorba ildolore e l’emozione vissuta. Così è da prima dell’attentato alle Twin Towers a New York. Civorrebbe un elenco minuzioso e cronologico di tutti gli attentatiin Europa e nel mondo, di tutte le stragi e crudeltà avvenute inMedio Oriente e in Africa per farci svegliare da questo torpore.Beirut, l’aereo russo nel Sinai, Tripoli, le stragi più recenti. E le tante altre stragi nascoste ai media. E l’inferno quotidianodei racconti di chi si è salvato. La conosciamo questa banalità di un male così distante dallenostre vite e sappiamo dove nasce, dove si dirigerà e comeaffrontarla? In realtà, credo che l’insieme di tutte le analisi lette o ascoltate,che pure appaiono inizialmente e, in molti casi, assolutamenteplausibili, ci lasci ancora senza una risposta e quindi o distratti osgomenti. E con infiniti perché. L’Islam attuale è, in molte forme e derivazioni, anzitutto la rispo-sta che in molti paesi arabi si è avuta, a partire dall’Iran di Kho-meini, a più eventi storici successivi alla fine del colonialismo. Paesi dominati da oligarchie quasi sempre militari, ma con unaforte connotazione laica, esperimenti socialisti a partito unico,regimi monarchici o a impronta feudale, avanzata progressivaculturale, più che politica, di modelli propri dell’occidente. La rivoluzione iraniana ci presentò inaspettatamente e potente-mente un’impronta religiosa che sembrava superata dalla e nellastoria, ma che costruiva una nuova identità ideologica. Nell’epoca della fine delle ideologie, o della scomparsa della solaideologia comunista al potere, avanzava nel mondo islamico unainterpretazione della crisi che richiamava alla religione la soluzio-ne dei problemi ma, soprattutto, come ogni ideologia, rispondevae declinava come doveva essere l’uomo futuro, come dovevavivere, come comportarsi ogni giorno fin nei rapporti personali.Una visione che separava e identificava il bene e il male.E quindi uomini e donne divisi sulla base della lettura oscura della

religione. La religione come un dogma assoluto diventa azionepolitica quotidiana. Ma, se la politica si richiama a una lettura einterpretazione di testi religiosi, non esiste più tolleranza e nonsi accetta più alcuna diversità. In Afghanistan, nonostante i tanti volontari di buone speranze eazioni, nel regime dei talebani le donne non andavano a scuola enon potevano lavorare, gli spettacoli ed anche la musica erano vie-tate, gli sport erano limitati e pure il riso era ritenuto blasfemo. Nell’epoca della globalizzazione, la religione è apparsa come lanuova ideologia capace di diffondersi in ogni luogo del pianeta. Una religione senza una guida, spezzata in mille rivoli e inter-pretazioni del Corano e dentro cui il rapporto con il potere haprodotto leadership in continuo conflitto. Prima che in Europa,l’Islam è attraversato da un conflitto armato interno che attra-versa ormai quasi tutti i paesi arabi. Un conflitto in cui non sidistingue religione da politica e da potere. E in quel conflitto, anoi incomprensibile, la componente moderata, che rifiuta ladegenerazione terroristica, è spesso come una maggioranzasilenziosa. Una visione medioevale del mondo che negava, in tante versioniemerse, le conquiste di liberta degli ultimi secoli. Non la tecno-logia moderna, ma proprio i principi e i diritti della persona. Si sgozza come nel medioevo, ma postando il filmato su internet. Il fanatismo è una componente presente in ogni cultura, in ognipolitica, in ogni religione. Ogni mito e ogni rivoluzione ha unacomponente di fanatismo. La stessa idea di libertà può essereoggetto di fanatismo. Avviene quando una persona si consegna aun mito che non è discutibile ed è identificato in un testo sacroe/o nella interpretazione di un capo (politico o religioso).

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di Nino Cortorillo, Segretario Nazionale Filt-Cgil

Ogni soldato in una guerra sa che può morire.Ma non vuole morire. Vuole uccidere. Gli assassini di Parigi vogliono uccidere con lostesso entusiasmo con cui vogliono morire. Non vi è distinzione in quanto la vita non havalore se non dentro il proprio schema reli-gioso. Ma se questa lettura deformata dellareligione diviene propriamente ideologia e,quindi, visione del mondo, di come si vive edel perché si vive, è evidente che il nostroapproccio costruito nei secoli, cristiano eilluministico insieme, non riesce e non puòdarsi spiegazioni convincenti.

I demoni tra noi

Tempo presente

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Quando una religione, che è di per sé trascendente ed esiste soloperché mistica, diventa una ideologia, si può immaginare di affron-tare le sue finalità su un piano di pura dialettica razionale? Il nazismo stesso era stata un’aberrazione del ventesimo secolo, maaveva estremizzato, oltre ogni limite conosciuto, ideologie e impron-te politiche già esistenti. Il mito dell’uomo forte, la società domina-ta da una razza, l’antisemitismo, la negazione della libertà e dellademocrazia, la guerra come luogo della soluzione dei conflitti, ilmondo dominato da una sola ideologia. Il tentativo di annientare conla guerra e lo sterminio di massa la storia dell’Europa. Nel mondo occidentale, risale alla rivoluzione francese la separa-zione dei poteri. E tra questi non vi è quello religioso. Anzi, ilpotere temporale è distinto e separato da quello religioso. Ma chiagisce sulla base di convinzioni religiose assolute ha sempre unavisione apocalittica che non accetta mediazioni, incapace di tol-lerare la diversità, vissuta come nemico da annientare. Gli assassini di Parigi sono tali per noi. Ma sono martiri per essistessi e per chi li ha convinti a quelle stragi. Se una religione, o una ideologia, non ha in sé un limite al pro-prio agire e non dà alcun valore alla vita umana, quello che pernoi è nichilismo, e quindi un male, per altri è martirio, e diventaquindi l’atto supremo del sacrificio che si può compiere e chesarà ripagato con il paradiso. Gli assassini di Parigi imbottiti di esplosivo sapevano che nonsarebbero tornati vivi. Come gli attentatori di New York. O glisgozzatori di ostaggi inermi. Ogni soldato in una guerra sa che può morire. Ma non vuole morire.Vuole uccidere. Gli assassini di Parigi vogliono uccidere con lo stesso entusiasmocon cui vogliono morire. Non vi è distinzione in quanto la vita non ha valore se non dentroil proprio schema religioso. Vivere o morire non è bene o male. Ma è solo un atto insignifican-te che deriva dal proprio precetto religioso. Ma se questa lettura deformata della religione diviene propria-mente ideologia e, quindi, visione del mondo (politica e cultura)

e ancor di più di come si vive e del perché si vive, è evidente cheil nostro approccio costruito nei secoli, cristiano e illuministicoinsieme, non riesce e non può darsi spiegazioni convincenti. Per-ché la ragione o l’istinto fanatico che muove chi uccide degli iner-mi trova origine in costruzioni mentali a noi incomprensibili. Per questi motivi, i conflitti in molti paesi musulmani e la guerraterroristica portata nel mondo non si risolveranno in pochi anni.Perché le ideologie, oltretutto impregnate di significati trattidalla religione, richiederanno anni a essere sconfitte. Perché si èmesso in moto un’immensa energia che si alimenta di infinite cri-ticità e per ogni problema ha una sola soluzione. Non basterà, come dimostrato negli anni, un intervento armato.Ma nemmeno si può immaginare che la presa di possesso brutaledi intere aree del mondo musulmano si possa arrestare con uninvito o una idea di non violenza che è semplicemente sinonimodi rinuncia e quindi sconfitta. Come se si potesse trattare colnazismo o mettersi al tavolo oggi con Isis. I siriani che fuggono dalla guerra come le minoranze religiose inIraq ci chiedono di intervenire perché una idea di estraneità ogginon esiste. Il punto è chi, come e con quali scopi. Evitando il ripe-tersi degli errori iracheni o libici. Ma respingendo l’idea di unpacifismo che anziché su valori è costruito sul distacco. Servireb-be una idea globale della politica fondata su valori condivisi. Proprio mentre l’Europa si divide esattamente su come accoglie-re i profughi delle guerre e della povertà. Vi è al contrario un occidente, a destra come a sinistra, che tra-duce e usa quanto avviene a fini di scontro interno in ogni paese.Il richiamo alle tesi di Oriana Fallaci, che contengono anche gran-di intuizioni ma ormai diventate come le profezie apocalittiche diNostradamus, le invettive contro l’islam o i musulmani come fos-sero tutti alleati dei terroristi, nutrono ed esaltano proprio i fana-tici delle proprie ragioni e della guerra che hanno dichiarato.Come coloro che, ad anni alterni, sono contrari a ogni intervento(sono problemi loro) e oggi chiedono di bombardare in 48 ore. Così come, però, trovo ridicole le letture animate da sensi di colpae che imputerebbero alle armi vendute nel mondo o agli errori

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Tempo presente

delle guerre mosse da Bush la causa degli attentati attuali. Io pensoche siamo di fronte a ben altro e, se anche si regalassero marghe-rite e ci fosse il ritiro e un disarmo unilaterale, la guerra inatto non solo non finirebbe, ma anzi avrebbe ancor di più campolibero. In un’area in cui le alleanze si sono costruite spesso sullabase del nemico prevalente e di interessi e non di valori. D’altronde, se volessimo valutare la coerenza delle alleanze del-l’occidente, scorderemmo che, nel 1938, Germania nazista eUnione Sovietica comunista si allearono in un patto durato pochimesi. Molti restando comunisti e molti non domandandosi qualefosse la coerenza di allearsi con chi si apprestava alla guerra eallo sterminio degli ebrei. Non siamo di fronte semplicemente a un gruppo guerrigliero o“uno stato canaglia”. Ma ad una parte del mondo che non trovaequilibrio e dentro la quale la guerra è nello stesso campo musul-mano tra sunniti e sciiti ed è tra gli stessi sunniti. E di ogni pote-re politico o tribale che, in assenza di strutture statali forti,rischia di essere annientato. Finita Al Qaeda nasce l’Isis, madomani potrebbe nascere un altro gruppo e poi un altro ancora. È quindi una guerra globale dichiarata che non ha bisogno diambasciatori o annunci formali. È una visione del mondo che si contrappone al mondo in cui vivia-mo. Un mondo, il nostro, nel quale le differenze sono immensema rientrano nei recinti dei principi condivisi (costituzioni,modelli sovranazionali, accordi internazionali) e nel sentirsi partedi una comunità con valori e principi riconosciuti. Quella sera a Parigi si voleva uccidere a freddo persone colpevolidi vivere in un paese nemico. Magari solo turisti. Magari come èavvenuto altri musulmani. Colpevoli anch’essi di vivere e convive-re con altre persone. Donne e uomini. Bianchi e di colore. Giovanie anziani. Colpevoli di mangiare in un ristorante, assistere a unconcerto o a una partita. Colpevoli semplicemente di esistere e sucui scaricare il proprio odio e fanatismo. Ma sarebbe stato lo stes-so in una stazione o un supermarket o una gelateria o un parco.O, come in Tunisia, su una spiaggia o in un museo. Potrebbe avve-nire in un qualunque luogo del nostro o di altri paesi. Perché noisiamo già dei nemici. Non dobbiamo compiere nulla di esplicito.Gli ebrei non avevano colpe. Così come i contadini di Marzabotto.La disumanità degli assassini non valuta colpe o responsabilità. Ma come devono reagire a una guerra dichiarata paesi che non

vogliono né dichiarare una guerra aperta né rispondere sullo stes-so piano? Come se la legge del taglione fosse la sola legge cuirichiamarsi? Anzitutto non venire meno ai nostri principi fondanti,non cedere all’odio e all’intolleranza, non associare la religione aun assassino. Non dividere, nemmeno in forma attenuata, ilmondo tra bene e male e, quindi, tra buoni, noi, e cattivi, gli altri. Io, a differenza di molti, non trovo e non concedo ragioni socio-logiche o economiche a quanto avviene. Se è vero che milioni dipersone fuggono dalla miseria verso l’Europa, non possiamo acco-gliere l’idea che basti vivere in un sobborgo per giustificare chispara a innocenti.Penso invece che, insieme a quanto avviene nel Medio Oriente enei paesi arabi, i processi psicologici di disadattamento individua-le e le ragioni di identificazione in una soluzione religiosa sianopiù evidenti di altre tra le cause di questo fanatismo.In questo le biografie di molti terroristi e guerrieri aiutano più deitanti improvvisati commentatori. Così come lo furono le biografiedi molti terroristi che insanguinarono l’Italia, a destra e sinistra,negli anni passati. Vite misere, ideali semplificati a giustificareogni omicidio, distacco dalla realtà.Allora come oggi, pure nelle differenze, il nichilismo dominavaogni pensiero e ogni agire. Qui il nichilismo, suicida e omicida, domina l’esistenza di moltigiovani votati al fanatismo.Ma noi sappiamo che quell’idea non può aver futuro. Il terrore che viene da fuori non può vincere. Ma può vincere lapaura che è vicina e dentro noi. Una paura che, mentre cerca i demoni da sconfiggere, trasforminoi in altrettanti demoni.

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Contrattare al tempo del Jobs�Act

Nella stagione contrattuale in corso, come Cgil,continuiamo a tenere il punto con grande coeren-za, sia ai tavoli settoriali, sia nel confronto conCisl e Uil sulle prospettive del sistema contrattua-le italiano. Il modello si rinnova se si rinnovano icontratti, proprio in virtù del fatto che un model-lo senza Ccnl non serve né al lavoro, né all’impre-sa, tanto meno aiuta la crescita del Paese.

Sapevamo che si sarebbe trattata di una stagione contrattualefortemente caratterizzata dalla pesante crisi che ha colpito ilPaese in questi anni. L’economia italiana ha perso valore, ricchez-za, lavoro, mercato, sicuramente in misura superiore ad altreeconomie che hanno condiviso con noi la crisi mondiale e i suoiriflessi sul Vecchio Continente. Questo per le debolezze endemi-che che si sono trascinate in anni di totale assenza di politichestrutturali a favore della crescita e dello sviluppo.Per queste ragioni, l’approccio sindacale alla stagione contrattua-le, fin dall’inizio, con grande senso di responsabilità, si è ispira-to al massimo realismo, individuando, nella difesa dell’occupazio-ne e del potere d’acquisto delle retribuzioni, gli obiettivi da per-seguire in tutti i settori. Non è stata, però, solo la crisi a condizionare la fase; ancor piùlo è stato il tentativo di cavalcarla per sferrare un attacco al sin-dacato, per produrre un arretramento e un indebolimento dellesue funzioni. Un obiettivo che ha visto la convergenza tanto delleimprese, quanto del governo attualmente in carica.Non è un caso che ci troviamo, da tempo, a svolgere le nostreriflessioni e la nostra azione parlando della contrattazione“al tempo del Jobs Act”, legge che ha pesantemente stravolto lecondizioni nelle quali da decenni si svolgeva la contrattazione,peggiorando sicuramente le condizioni e i diritti sul lavoro. Questa è la prima stagione contrattuale che si svolge senzapiù l’articolo 18, provvedimento che, come sappiamo, va benal di là della norma in quanto tale, poiché la sua abolizione harappresentato la testa d’ariete di un’offensiva contro il diritto

del lavoro, cosi come il Parlamento a suo tempo e la pratica diquesti quarantacinque anni avevano ed hanno consolidato. Abolizione delle tutele contro i licenziamenti, stravolgimentodelle norme sul demansionamento e sui controlli a distanza, soloper fare alcuni esempi, non potevano non rappresentare pesanticondizionamenti, per non dire ipoteche, nelle relazioni negozia-li, dal momento che la condizione di parità tra le parti, in realtàmai a un livello di equità,  lasciava il posto a una condizione dipalese supremazia da parte del potere delle imprese.A questa entrata a gamba tesa del governo, secondo l’idea che ilpotere sindacale rappresentava un impaccio al cambiamento delPaese, quindi, da ridurre drasticamente (si pensi anche ai provve-dimenti “mirati” su Caaf e Patronati, per non dire delle agibilitàsindacali), ha fatto subito da sponda Confindustria, inaugurando la“sua” stagione contrattuale con il proprio “manifesto” del maggio2014. Quel documento ribaltava le posizioni che, fino a qualchemese prima, aveva portato quella stessa associazione a sottoscri-vere intese, ultima delle quali il Testo Unico sulla Rappresentanza,dove sulla contrattazione si affermavano cose diverse. Nel maggio 2014, Confindustria cala le carte e ritiene che le rego-le del gioco devono essere radicalmente cambiate su punti chia-ve della contrattazione. In particolare, l’alternatività tra i duelivelli (per quanto ribaditi nelle loro funzioni solo pochi mesiprima nel Testo Unico) e nelle dinamiche salariali, ancorate

Franco Martini- Segretario Nazionale CGIL

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Tempo presente

all’andamento della produttività, quindi, erogate a valle e non amonte del processo di produzione della ricchezza. Tra l’altro,quest’ultimo aspetto s’incrociava con le conseguenze del regimedeflazionistico, che portava alcune associazioni di settore a chie-dere la restituzione delle quote di salario “non dovute” per effet-to della mancata crescita dell’inflazione, ma già erogate nellavigenza contrattuale.A fronte di questo scenario, la posizione della Cgil ha, fin dall’ini-zio, definito con chiarezza l’inaccettabilità di un condizionamen-to dei tavoli contrattuali derivante dall’andamento del confrontosulla riforma del modello contrattuale. Confindustria, che giàriteneva impraticabile il rinnovo dei contratti senza prima ridefi-nire le nuove regole, dopo la scadenza dell’accordo (separato)del 2009, sollecitava quel confronto anche in relazione alle reite-rate minacce del governo di intervenire sulla materia contrattua-le in assenza di un’intesa tra le parti.  Di fatto, questo “bisognafare presto a fare l’accordo sul modello contrattuale, altrimen-ti interviene il governo” si traduceva in un tentativo di blocco deitavoli settoriali e  questo pesante condizionamento rivolto alleassociazioni di settore è la ragione che ha impedito il decollo delconfronto sulla riforma della contrattazione.Le direttrici che hanno orientato le categorie della Cgil, nel lavo-ro di elaborazione delle piattaforme e di gestione dei tavoli,hanno dovuto e voluto misurarsi con lo scenario descritto. Contrattare al tempo del Jobs Act ha voluto significare, innanzi-tutto, provare a esercitare, attraverso la contrattazione (nazio-nale e di secondo livello), un’azione di contrasto agli effetti dan-nosi di quella riforma, in particolare su licenziamenti, controlli adistanza e demansionamento. Senza ambizioni velleitarie, il tentativo è quello di salvaguardare lenorme contrattuali già presenti nei Ccnl in vigore, ben sapendo chevi sono settori nei quali il Jobs Act produce effetti ancor più deva-stanti. Nel caso della logistica, ad esempio, settore dove è largamen-te diffusa la pratica degli appalti, come in quello dei servizi, l’appli-cazione del contratto a tutele crescenti mette fortemente a rischiola clausola sociale, per cui ogni cambio di appalto costituisce unnuovo inizio del rapporto di lavoro, con la conseguente perdita deidiritti acquisiti nel corso della carriera lavorativa.Questo è un tema sul quale i sindacati hanno esercitato una fortepressione in occasione della discussione del disegno di legge peril recepimento delle Direttive Comunitarie sugli appalti, ma cheal momento non ha conseguito un risultato esplicito nella difesadella norma sulla clausola sociale. Ragion per cui, la contrattazio-ne, pur con le difficoltà immaginabili, deve tentare di frapporreostacoli alla deriva distruttiva dei diritti, effetto delle assunzionia tutele crescenti.L’osservatorio sulla contrattazione della Cgil dimostra che decine diaccordi in questo senso sono stati realizzati, in particolare nel set-tore dei servizi, ma è indubbio che un risultato conseguito a livellodella contrattazione nazionale avrebbe maggiore forza. Questoresta, dunque, un obiettivo che deve unificare gli sforzi di tutte lecategorie, data la forte trasversalità del fenomeno appalti.Naturalmente, la stagione contrattuale deve riaffermare il ruolodel Ccnl nella funzione di tutela delle lavoratrici e dei lavorato-ri. Si fa un gran parlare dell’implementazione del secondo livelloe la Cgil ha ben chiaro il valore di questa pratica contrattuale. Maquando si tende a rappresentarla come esaustiva o sostitutiva (difatto) del Ccnl, sapendo che i tre quarti della platea complessivanon esercita il secondo livello di contrattazione, significa condan-nare la maggioranza del mondo del lavoro italiano a un regime dibassi livelli salariali, così come lo sarebbe l’introduzione del sala-rio minimo per legge, dal momento che costituirebbe l’abrogazio-ne de facto della contrattazione nazionale. Ma ancor più insidiosa è la tesi secondo la quale gli aumenti salaria-li legati alla produttività sono affidati sempre al secondo livello,

“pagando” chi non esercita questo livello contrattuale con un’in-dennità di mancata contrattazione, del tutto svincolata dalle dina-miche produttive di quelle aziende e di quei settori. Questo signifi-ca negare l’esistenza di un incremento del potere d’acquisto deisalari nei Ccnl, tesi inaccettabile perché ingiusta nei confronti deisettori più deboli del mercato del lavoro.La vera novità di questa stagione contrattuale è che dovrebbeessere la prima senza più accordi separati, per effetto dell’entra-ta in vigore delle regole del Testo Unico sulla rappresentanza. Perquesto è giusto che sia rivendicata l’assunzione di tali regole,possibilmente negli stessi contratti nazionali, e che le stessesiano attuate senza strumentalizzazioni o tentativi di vanificazio-ne. Ormai tali regole sono state siglate anche nei settori dellacooperazione, dei servizi e, in ultimo, del terziario.Questa è la vera prima riforma della contrattazione che smenti-sce tutti coloro che sostengono che la stagione si sta svolgendosenza regole.La recente firma del Ccnl dei chimici, al momento, non si è rivela-to l’elemento in grado di attivare il confronto sulla riforma delmodello. La ragione è evidente ed è tutta dentro le dinamiche con-findustriali. Quell’intesa salvaguarda la funzione del  Ccnl, anchecome autorità salariale, contraddicendo i desiderata di Confindu-stria. Ma proprio per questo, come Cgil, continueremo a tenere ilpunto con grande coerenza, sia ai tavoli settoriali sia nel confrontocon Cisl e Uil, sulle prospettive del sistema contrattuale italiano. Il modello si rinnova se si rinnovano i contratti, proprio in virtùdel fatto che un modello senza Ccnl non serve né al lavoro, néall’impresa, tanto meno aiuta la crescita del Paese. Di questoConfindustria e governo devono prendere atto.

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Una riflessionesul diritto di sciopero

Nelle ultime settimane, attraverso le pagine dei principaliquotidiani nazionali e nel confronto politico, si è riapertoil dibattito sul tema della normativa di regolazione dellosciopero. Il governo ha dichiarato l’intenzione di volerriscrivere le regole con le quali in Italia si utilizza questostrumento. In Parlamento vi sono depositate diverse propo-ste di legge ma non si è ancora avviato l’iter di discussio-ne. Dal suo punto di vista, è necessario modificare la nor-mativa e in quale direzione?

Dal mio punto di vista, più che di necessità, parlerei di opportuni-tà di rivedere qualche aspetto della legge 146 che rimane, nel suocomplesso una buona legge, espressione di un equilibrio mirabile inuna materia di estrema delicatezza quale lo sciopero. Un grandemaestro come Gino Giugni (del quale ho avuto il privilegio di esse-re uno stretto collaboratore) ci insegnava come il diritto sindacalesi fondi essenzialmente sul c.d. diritto vivente e, dunque, anche lenorme di legge che lo regolano non possano essere cristallizzate neltempo. Non si deve, quindi, stravolgere la legge nei suoi principifondamentali, ma si può tener conto di talune esigenze avvertitenel corso della sua esperienza attuativa. Ad esempio, credo che il sistema di regolamentazione del conflittonon possa non tener conto delle esigenze di verifica della rappre-sentatività sindacale di fronte ad una situazione di frammentazionesindacale che, nel settore dei servizi, assume dimensioni particola-ri e non contribuisce a un sereno e condiviso governo del conflitto.Su tale aspetto mi soffermerò rispondendo alla domanda n.3. Penso, altresì, che, in una prospettiva che valorizzi la procedi-mentalizzazione del conflitto, si possano ampliare le competen-ze dell’Autorità di garanzia in materia di composizione della con-troversia. Un ruolo più attivo, nella fase c.d. ex ante, rivolto ascongiurare l’effettuazione dell’astensione, ricorrendo (come

avviene in altri Paesi di comprovata democrazia nelle relazioniindustriali) a tutti i possibili strumenti procedurali e di concerta-zione. Rendere, ad esempio, più incisiva la previsione contenutanella lett. c), dell’art. 13, della legge 146/1990, che consentealla Commissione di «assumere informazioni o convocare le parti[…] per verificare se vi sono le condizioni per una composizionedella controversia […] e, nel caso di conflitti di particolare rilie-vo nazionale […], differire la data dell’astensione dal lavoro peril tempo necessario a consentire un ulteriore tentativo di media-zione». In altre parole, verificare se non ci sia più niente da fareper evitare lo sciopero.Inoltre, anche l’apparato sanzionatorio attualmente previsto perle aziende, forse, meriterebbe di essere aggiornato, di fronte aipotesi di gravi responsabilità e violazioni della normativa.Con riferimento all’aumento di astensioni spontanee, poi, sirende forse opportuna l’introduzione di una tipizzazione dellesanzioni individuali, (così come avviene nel comma 2 della norma

Intervista a Giovanni Pino

Il diritto di sciopero vive nella storia del sindaca-lismo dei paesi democratici ed è garantito innumerose carte costituzionali. La regolamenta-zione dell’esercizio del diritto di sciopero nasce,attraverso leggi specifiche ed in forme diverseda paese a paese, per garantire ed equilibrarealtri interessi costituzionalmente garantiti. La Redazione ha scelto di ospitare un dibattitofuori dalla contingenza, che vuole essere unostrumento di riflessione. Sul numero preceden-te abbiamo intervistato la Professoressa IdaRegalia e l’On. Cesare Damiano.Adesso diamo la parola al dott. Giovanni Pino,Capo di Gabinetto della Commissione di garan-zia e docente di Diritto sindacale.

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in questione per le sanzioni collettive), in caso di scioperi posti inessere dai singoli lavoratori, nei quali non appare identificabile laresponsabilità di una precisa organizzazione sindacale. Ciò rende-rebbe più certa e meno discrezionale la responsabilità dei singo-li lavoratori per comportamenti illegittimi e sarebbe più difficile,anche per alcuni soggetti collettivi, organizzare forme di prote-sta selvaggia che, una volta ottenuto il risultato di ledere i dirit-ti dei cittadini utenti, possono non essere adeguatamente sanzio-nate sul piano disciplinare, data la piena discrezionalità, su ciò,riservata al datore di lavoro. Ed ancora, credo che sia arrivata l’ora di riformare il vecchioistituto della precettazione, perlomeno nel campo di applicazio-ne della legge 146. Una rivisitazione della precettazione è avve-nuta con l’art. 8, della legge, anche a seguito di precise solle-citazioni in tal senso nei lavori preparatori, da due grandi giuri-sti del lavoro, Gino Giugni e Giorgio Ghezzi, rispettivamentePresidente e Vice Presidente delle Commissioni Lavoro di Sena-to e Camera. Se non affidare integralmente il potere di differi-re lo sciopero alla Commissione di garanzia – che, in quantogarante del contemperamento del diritto di sciopero con quellidegli utenti, ha già cognizione delle varie fasi del conflitto – sipotrebbe almeno pensare di attribuire a questa la formulazionedi un parere obbligatorio e vincolante, da fornire alle Autoritàprecettanti al momento dell’adozione del provvedimento che,per sua natura, dovrebbe restare eccezionale. In tal modo si evi-terebbe quell’imbarazzante contraddizione che spesso si verifi-ca tra Commissione di garanzia e Autorità preposta alla precet-tazione, nel momento in cui nella loro autonomia pongano inessere difformi valutazioni su scioperi, magari ritenuti legittimidalla prima e, contestualmente, oggetto di ordinanza di precet-tazione del Ministro di turno.

In Europa vi sono normative che regolano in forme diversel’esercizio del diritto di sciopero, frutto delle diverse sto-rie nazionali. Perché il tema, nonostante che in Italia vi siauna delle leggi più restrittive, sembra così acuto solonel nostro paese? C’è, secondo lei, un diverso modellocui potersi ispirare?

Nella domanda si indica la nostra legge come una delle piùrestrittive; ciononostante, dai dati della Commissione di garanzia,le proclamazioni di scioperi nei servizi pubblici essenziali, ognianno, superano circa le 2000. È chiaro che si tratta di un datogenerale che riporta la mera somma aritmetica delle proclama-zioni, anche quelle di ambito locale e relative alle prestazionistraordinarie e/o accessorie, mentre poi, sul piano concreto, aseguito delle revoche delle parti, intervenute anche in ottempe-ranza alle indicazioni preventive della Commissione, le azioni disciopero effettivamente attuate scendono a meno della metà.Rimane un dato eclatante e non paragonabile con quello di altripaesi europei, nei quali, pur tuttavia, si sono registrati, proprionegli ultimi anni, cruenti fenomeni di aumento del conflitto col-lettivo nei servizi pubblici, sfociati in scioperi svolti senza alcunagaranzia di soglie minime per i cittadini utenti. Ci si riferisce, nonsolamente ai paesi maggiormente colpiti dalla crisi (Grecia o Spa-gna), ma anche alla Francia e alla ben solida Germania la quale,nel 2014, è stata provata duramente da una serie di scioperi nelsettore del trasporto ferroviario. Indubbiamente il nostro sistema di relazioni industriali si basaanche su una fisiologia del conflitto che, per carità, nel suo ampiosignificato di confronto può avere anche dei profili positivi.Tuttavia, non si può non avvertire l’esigenza (e non solo sotto ilprofilo di una maggiore tutela dei cittadini utenti) di restituireserietà e rigore allo sciopero come diritto costituzionale, che haavuto, ed ha, un ruolo fondamentale della nostra democrazia,

dal momento che un ricorso ad esso eccessivo e irrazionalerischia, poi, di depotenziarne gli effetti.I modelli cui ispirasi rimangono quelli anzidetti di una maggioreprocedimentalizzazione del conflitto, oltre che di una maggioreidentificazione dei soggetti rappresentativi ai quali riconoscere(nel contesto dei servizi pubblici essenziali) determinate preroga-tive in materia di titolarità del conflitto.

Ogni volta che si riapre la riflessione sulla regolazione deldiritto di sciopero, si apre anche il tema della rappresen-tanza, della sua misurazione e della loro messa in connes-sione. CGIL CISL e UIL insieme a Confindustria hanno firma-to un protocollo sui temi della contrattazione che, per laprima volta nella storia del paese, chiede una misurazioneoggettiva e terza degli aderenti alle organizzazioni sinda-cali anche certificando il numero degli iscritti. Qual è,secondo lei, la strada migliore per legare la rappresentan-za alla regolazione dell’esercizio del diritto di sciopero?

Ecco questo è un punto cruciale: l’esigenza di una verifica dellarappresentanza contestuale all’esigenza di un buon governo delconflitto collettivo, che guardi all’individuazione di strumenti dicontenimento attraverso l’introduzione di soglie di rappresenta-tività sindacale.Com’è noto, la legge 146 del 1990 è intervenuta in un contestoprivo di regole legali in materia (se si escludono gli interventi nelpubblico impiego), ma credo che l’esigenza sia avvertita, ormaiin modo trasversale, da tutte le parti sociali più responsabili, lequali hanno fornito dei segnali importanti: dall’Accordo del 28giugno 2011, al Protocollo del 31 maggio 2013, fino al Testo Unicodel 10 gennaio 2014. Senza voler pregiudicare il diritto a poter proclamare lo sciopero,potrebbe ritenersi opportuno, nei servizi pubblici essenziali, sot-toporre tale diritto a criteri di selezione direttamente collegatiall’effettiva rappresentatività e capacità contrattuale delle orga-nizzazioni sindacali, ad esempio, come definiti nel suddetto TestoUnico. O ancora, ipotizzare meccanismi che consentano di privi-legiare determinate cause di insorgenza del conflitto, connesse avertenze di particolare rilievo. Per le organizzazioni sindacali chesono fuori da questi parametri potrebbe rivelarsi utile sottoporrela proclamazione dello sciopero a referendum tra i lavoratori, perl’acquisizione di un certo quorum.

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E probabilmente (lo dico non come Capo di Gabinetto della Com-missione di garanzia, ma come studioso della materia) credo chela Commissione potrebbe anche tener conto di alcune regole pro-venienti dall’ordinamento intersindacale, come quelle del citatoTesto Unico. Ciò, non solo con riferimento alla rilevanza delle ver-tenze e ai soggetti collettivi protagonisti, ma anche riguardoall’impatto dello sciopero, al fine di una più efficace applicazio-ne della regola della rarefazione. Si potrebbe così evitare cheproclamazioni da parte di soggetti sindacali sprovvisti dei requi-siti di rappresentatività, individuati nel Testo Unico e rivolti, dun-que, a produrre, prevalentemente, un effetto annuncio, impedi-scano scioperi indetti da organizzazioni sindacali, magari a con-clusione di un percorso procedimentale. Inoltre, in sede di valutazione degli accordi sulle prestazioni indi-spensabili, l’Autorità potrebbe già assumere tra i requisiti essen-ziali, ai fini del giudizio di idoneità, la condizione che i suddettiaccordi siano stati siglati dalle organizzazioni sindacali provvistedei requisiti di rappresentatività individuati nel Testo Unico.Sarebbe questa, di per sé, una garanzia di tenuta della disciplinaconcordata e, di conseguenza, un elemento rivelatore dell’intrin-seca idoneità della stessa.

Tutta la discussione aperta verte sui nuovi limiti da porreall’attuale legge sempre in capo alle organizzazioni sinda-cali o ai lavoratori. Non ritiene che andrebbero rafforzatele procedure preventive allo sciopero, con un diverso ruoloe responsabilità delle imprese e dei soggetti istituzionali?

Non credo proprio che una prospettiva di revisione (anche mini-ma) delle regole sullo sciopero possa essere pensata solo in ter-mini di introdurre nuovi limiti nei confronti delle organizzazionisindacali e dei lavoratori. È evidente che spesso il pregiudizio aidiritti costituzionalmente protetti dei cittadini utenti è dovuto achiare responsabilità delle amministrazioni e aziende erogatricidei servizi pubblici essenziali. Sono peraltro recenti delle delibe-re di valutazione negativa dell’Autorità di garanzia che hannoinflitto sanzioni a note società del trasporto pubblico locale e deltrasporto aereo.Da questo punto di vista è necessario valorizzare, anche in sededi eventuale riforma, quanto previsto dell’art. 13 lett. h) dellalegge 146 in materia di accertamento di quei comportamenti, diamministrazioni o imprese, che possano determinare l’insorgenzao l’aggravamento di conflitti in corso.

In tali comportamenti bisognerebbe ricomprendere non solamen-te quelli tradizionalmente rivolti a ledere le manifestazioni dilibertà e attività sindacale, vale a dire quelli rientranti esclusiva-mente nella dinamica delle relazioni industriali tra sindacato eazienda. Nell’attuale fase di congiuntura economica, accadespesso che Enti locali, o società partecipate o controllate, o cheoperano in house, si trovino in una grave situazione difficoltàfinanziaria, se non addirittura di dissesto economico, non rara-mente generato anche da episodi di corruzione, soprattutto neiservizi gestiti da società municipalizzate. Quel che avviene confrequenza nella realtà è che enti locali, dopo aver affidato lagestione del servizio all’esterno, non sono nella condizione di riu-scire a erogare i canoni pattuiti all’azienda appaltatrice, laquale, a propria volta, si trova costretta a un’esposizione debito-ria che comporta la mancata corresponsione delle retribuzioni aipropri dipendenti. D’altro canto è stata spesso denunciata unaprassi consolidata che vede alcune imprese vantare dei capitali,per aggiudicarsi gli appalti, poi non effettivamente disponibili, aseguito del conferimento del servizio. È evidente che una similesituazione di inadempimento nei confronti dei lavoratori è, di persé, una causa di insorgenza o aggravamento del conflitto.Si può dire che la Commissione di garanzia, con una propria delibe-ra interpretativa, si è adoperata a sviluppare le potenzialità appli-cative dell’art. 13 lett. h, in base alla quale, previo accertamentodelle relative responsabilità, si prevede la possibilità di rivolgere lapropria indagine anche verso amministrazioni pubbliche che hannoaffidato l’erogazione del servizio a imprese solo formalmentedistinte da esse, sulle quali esercitano un controllo diretto. Nelcaso in cui emergano comportamenti rilevanti dal punto di vistapenale o erariale, la Commissione provvederà alla trasmissione diidonea informativa agli organi giurisdizionali competenti per mate-ria e territorio, ai fini degli opportuni accertamenti.

A cura di Gabriele Cerratti

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Il Gruppo Poste Italiane opera principal-mente in tre settori di attività: corrispon-denza e pacchi, finanziario e assicurativo.Poste Italiane, che da sola occupa più di137mila addetti, ha 25 controllate chesvolgono attività non riconducibili diretta-mente al servizio pubblico. Tra queste:Postevita e Poste Assicura che, da sole,contribuiscono per il 67% ai ricavi dell’in-tero Gruppo; Postemobile, primo operato-re virtuale di telefonia mobile in Italia;Postel, azienda grafica di stampa; la Bancadel mezzogiorno Medio Credito Centrale;SDA Express Courier.Data la composizione del Gruppo, di cui,come si evince da quanto sopra ricordato,la parte relativa al “Servizio Pubblico” è,oggettivamente marginale, il GovernoLetta aveva posto l’ipotesi di “scorporo”di Postevita con la finalità esclusiva di fare“cassa”, ancora una volta senza una visione

d’insieme della complessità dell’aziendache ha proprio nella sua diversificazione enella sua integrazione il vero punto diforza. Rimossa la prospettiva di collocazio-ne sul mercato di Postevita, anche graziea una netta posizione delle segreterieconfederali di CGIL, CISL e UIL, è rimastain campo l’esigenza, avanzata anche dalGoverno successivo Renzi, di avviare unprocesso di parziale privatizzazione delGruppo. Ovviamente per noi resta impre-scindibile il mantenimento del perimetroattuale. Infatti, l’esperienza ci dice chesoluzioni tese a “spacchettare” le grandiaziende producono un progressivo indebo-limento strutturale delle aziende stesse.Da questo punto di vista è emblematico ilcaso Telecom che, come dicono ormai tuttigli analisti (con colpevole ritardo e conbuona dose di ipocrisia), la privatizzazionedell’ex monopolista di TLC dovrebbe

comparire nei manuali come esempio clas-sico di ciò che non si deve fare in un per-corso di privatizzazione. Nel 2014, il Governo ha disposto il parzialecollocamento azionario del Gruppo Poste,optando per il mantenimento dell’unita-rietà del Gruppo rispetto alla ventilatavalorizzazione di alcune società del Grup-po stesso (Postevita tra queste).La SLC-CGIL, a quella data, aveva mani-festato l’esigenza che si garantisseroalcune condizioni in tema di divieto aconcentrazioni azionarie e a favore di unmodello di azionariato diffuso, con lagaranzia del mantenimento in mano pub-blica del 60% delle azioni e il reinvesti-mento del ricavato del collocamentoall’interno del Gruppo. Abbiamo ancheposto il tema di evitare concentrazioniazionarie in capo a grandi gruppi bancarie/o assicurativi, in quanto tale presenzatra gli azionisti avrebbe, prima o poi,posto in essere una sorta di conflitto conle attività proprie del Gruppo.Era ed è convinzione profonda di SLC,infatti, che Poste possa coniugare un servi-zio pubblico, riattualizzato rispetto allemutate esigenze dei cittadini, alle attivitàsu libero mercato e rafforzare quellaimprescindibile integrazione tra societàdel Gruppo che lo rende una “piattaformamulticanale”, capace di svolgere servizistrategici e innovativi ai cittadini, allaPubblica Amministrazione e alle Piccole eMedie Imprese.È evidente che la governance pubblica sianecessaria proprio per la strategicità delGruppo rispetto all’erogazione di servizi eall’ideazione di prodotti rispondenti alleesigenze del segmento pubblico, dellefamiglie e del tessuto produttivo diffusodel Paese.Premesso quanto già detto sulla composi-zione di Poste, è forse utile sottolineare idue aspetti principali che qualificano ilvalore dell’azienda. Il primo riguarda lacapillarità della sua presenza in tutto ilterritorio nazionale, per effetto del qualePoste dispone di un “portafoglio” superio-re a 30 milioni di utenti/clienti. Un pano-rama straordinario costituito da lavorato-ri, pensionati, piccola e media impresa,enti locali, pubblica amministrazione.Il secondo riguarda l’efficienza e la capaci-tà della sua rete informatica che noi rite-niamo possa essere un asset fondamentale

Poste, un’Azienda Paesedi Massimo Cestaro, Segretario Generale SLC-CGIL

Si è avviata la privatizzazione del Gruppo Poste Italiane. Come Sinda-cato Lavoratori della Comunicazione manteniamo tutta l’attenzionee l’azione necessaria per far sì che i processi avviati non si traducanoin operazioni “di cassa”, ma puntino al consolidamento e al rafforza-mento di una delle poche grandi Imprese rimaste in Italia.

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rispetto all’innovazione di processo e diprodotto direttamente connessi allo svi-luppo delle nuove tecnologie al serviziodella Pubblica Amministrazione.La natura complessa del Gruppo che, affi-datario del servizio universale in base adun accordo con lo Stato valevole per iprossimi 15 anni, svolge attività rilevantiin ambiti di libero mercato e concorren-za, ha un elemento di criticità nel seg-mento della corrispondenza, legato inprimis all’importante flessione mondialedel mercato.In questo senso si è siglato, il 25 settembrescorso, un accordo quadro tra organizza-zioni sindacali e Poste Italiane, nell’alveodelle linee guida del piano industriale,attinente il rilancio del segmento corri-spondenza e pacchi. Se, infatti, è innega-bile il calo della corrispondenza ordinaria,Poste ha le caratteristiche, la diffusione,la capillarità, la dotazione strumentale ele infrastrutture necessarie e sufficientiper svolgere un servizio di logistica inte-grata, atto anche a intercettare il trendpositivo della spedizione di merci e il pre-visto sviluppo dell’e-commerce.La coniugazione fra trasporto fisico dellemerci, immateriale dei dati, sicurezza,tracciabilità, possibilità di gestione deipagamenti e capillarità di consegna, congli adeguati investimenti e la proposizionedi modelli organizzativi attagliati e seg-mentati rispetto alle diverse esigenze deiclienti e degli utenti, comporterebbe unnetto miglioramento del servizio e, conse-guentemente, dei ricavi.A questo, in sinergia possibile con altrioperatori, conseguirebbe l’importante

possibilità di costituzione di un grandeoperatore logistico nazionale.La valorizzazione e la riorganizzazione delpatrimonio immobiliare a vocazione indu-striale di Poste Italiane costituirebbe, intal senso, l’elemento strumentale indi-spensabile ai processi di logistica.Nella sostanza, l’accordo sottoscritto il 25Settembre contiene l’obiettivo del mante-nimento del perimetro del Gruppo. Infatti,l’unicità dell’azienda non può essere sola-mente “invocata”, occorre sviluppare poli-tiche, anche di natura sindacale e contrat-tuale, mirate a quell’obiettivo. È del tuttoevidente che, a fronte del bilancio conso-lidato, non è realisticamente immaginabi-le che le aziende e le strutture divisionalia forte valore aggiunto possano continua-re, nel tempo, a sostenere le perditeingenti della divisione preposta al serviziouniversale, tra l’altro quella col maggiorcarico occupazionale (circa il 50% degliaddetti). In quel caso, avremmo un effet-to “centrifugo” con la parcellizzazionedelle attività e l’indebolimento del servi-zio universale. Pertanto, il tema dell’effi-cientamento della divisione “Servizi Posta-li” è il centro di un’azione anche sindaca-le che, come abbiamo detto, deve essereintrapresa anche indipendentemente dalprocesso di privatizzazione.La presenza di SDA Express Courier nelGruppo rappresenta una possibilità di inte-grazione dei servizi e delle attività, difatto, proposta nelle linee guida del Pianoindustriale.È di tutta evidenza però che, a fronte diuna sempre maggiore interazione tra leattività di SDA e quelle della Divisione di

Poste Italiane addetta alla commercializ-zazione e alla consegna di merci e corri-spondenza, si rende necessario ragionaresull’inserimento di SDA nel perimetro con-trattuale del Gruppo. Di fatto, a oggi, SDAè l’unica società totalmente partecipatada Poste Italiane che non applica il con-tratto del Gruppo. Tema, questo, chedovrà essere affrontato, ovviamente, con isindacati dei trasporti e che attiene altema più generale, peraltro indicato dallaConferenza di Organizzazione, di ridefini-zione dei perimetri delle rispettive cate-gorie della CGIL, in relazione agli assettiindustriali, produttivi e organizzativi chesi sono, nel tempo, determinati. Il mantenimento della fattispecie di “onecompany”, l’indirizzo pubblico, i necessa-ri investimenti e il rafforzamento dei seg-menti oggi più deboli possono, a nostroavviso, garantire al Gruppo una soliditàpatrimoniale e una implementazione diservizi integrati necessari complessiva-mente al sistema paese.L’ultimo aspetto riguarda la discussioneche c’è stata in relazione alla presenza dirappresentanti dei lavoratori in seno alC.d.A. Un tema, questo, per ora esclusodallo stesso Ministero competente, mache ha offerto spunti di discussione inambito sindacale. La CISL si è dichiarata,da subito, favorevole all’ipotesi.La nostra posizione è stata, invece, dicontrarietà a tale soluzione, partendodalla convinzione che, comunque la simetta, una rappresentanza dei dipenden-ti nel CdA produrrebbe, nel tempo, unelemento oggettivamente conflittuale colsistema di relazioni sindacali fin qui con-solidato. Abbiamo valutato più percorribi-le l’ipotesi di un sistema “duale” con lacostituzione di un consiglio di indirizzoformato dalle rappresentanze di interessi(dalle organizzazioni sindacali dei lavora-tori e datoriali fino a quelle dei consuma-tori) proprio in forza del servizio di “pros-simità” reso da Poste Italiane, quali il ser-vizio universale, quello di grande gestoredi reti, informatiche e logistiche, di ser-vizi tecnologici innovativi offerti alla pic-cola e media impresa e di gestore diquote ingenti del risparmio di lavoratori epensionati. Insomma, come abbiamodetto più volte, un’Azienda “Paese” enon solo una grande azienda “del” Paese.Restiamo su questa ipotesi, sapendo cheil tema è principalmente politico e dirilievo confederale.Per quanto ci riguarda, manteniamo tuttal’attenzione e l’azione necessaria per farsì che i processi avviati non si traducanoin operazioni “di cassa”, ma puntino alconsolidamento e al rafforzamento diuna delle poche grandi Imprese rimastein Italia.

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A livello globale, il 2014 è stato l’anno più caldo della storia.L’aumento della temperatura terrestre è responsabile dell’incre-mento nel numero e nell’intensità degli eventi catastrofici checolpiscono il nostro pianeta: alluvioni, uragani, desertificazione, edi conseguenza siccità, scarsità alimentare, migrazioni climatiche(sono stimati circa 250 milioni di rifugiati climatici entro il 2050).La scienza ci dice che il surriscaldamento globale è la conseguen-za delle attività umane, in particolare le emissioni di gas a effet-to serra e la deforestazione. Per contrastare gli effetti disastrosidei cambiamenti climatici, occorre cambiare radicalmente ilmodello di sviluppo verso un’economia a basso contenuto di car-bonio. Il limite massimo da non superare, indicato dalla scienzaper evitare effetti devastanti sul pianeta e i suoi abitanti, è di 2°Co, se possibile, di 1,5°C. Nel momento in cui sto scrivendo, i 140impegni volontari di riduzione delle emissioni (INDCs) presentatiall’ONU per la definizione dell’accordo di Parigi 2015 porterebbe-ro, qualora rispettati, a un aumento della temperatura globaleche, secondo gli studi, si attesta fra 2,7°C e 3,5°C.Se fossero confermati questi impegni, l’accordo sarebbe un tota-le fallimento con ripercussioni devastanti per tutti i popoli,soprattutto per le popolazioni più povere e dei paesi più vulnera-bili. Il testo in elaborazione, oltre a non avere alcuna ambizionein termini di riduzione di emissioni, non ha nemmeno natura giu-ridicamente vincolante. Si parla di contributi volontari determi-nati a livello nazionale, da rivedere periodicamente, senza alcunimpegno concreto né alcuna sanzione in caso di mancato rispettodegli stessi. In più, non c’è alcun serio impegno finanziario peril sostegno nella transizione per i paesi più poveri e vulnerabili,né per la giusta transizione dei lavoratori coinvolti nei processidi trasformazione.Il 28 e 29 novembre, in molte capitali mondiali, si sono svoltegrandi mobilitazioni per il clima: la “Global Climate March”, per

sollecitare i leader mondiali a un impegno vero a difesa del pia-neta e del clima. Allo stesso tempo, è già stata programmata per il 12 dicembre aParigi quella che è annunciata come la più grande azione di massaper la giustizia climatica. Dopo la fine ufficiale dei negoziatiCOP21 Parigi 2015, la società civile di tutto il mondo si mobilite-rà a Parigi per avere l’ultima parola, consapevole che sarà neces-saria una mobilitazione di lungo termine con l’obiettivo di unfuturo migliore, fondato sulla giustizia ambientale e climatica, epiù giusto per tutti. La lotta per la giustizia climatica è strettamente interconnessaalla lotta per la giustizia sociale, per la piena occupazione, per ladifesa dei beni comuni, per la sicurezza alimentare, per l’autode-terminazione dei popoli. La transizione a un nuovo modello eco-nomico a basso impatto di carbonio apre un’opportunità irripeti-bile di tutela del pianeta e del clima ma, allo stesso tempo, dicreazione di nuova e qualificata occupazione. La lotta per la giu-stizia climatica racchiude in sé la lotta contro l’attuale sistemaeconomico che ha causato la crisi economica, ambientale e socia-le, e ha prodotto disoccupazione, disastri ambientali e aumentodelle disuguaglianze.La CGIL, nell’ambito nelle posizioni condivise ed espresse dalleconfederazioni sindacali europee e internazionali ETUC e ITUC, èimpegnata nell’azione per il clima, convinta che solo un nuovomodello di sviluppo sostenibile dal punto di vista sociale, econo-mico, industriale e ambientale possa garantire giustizia sociale,equità, piena occupazione, rispetto per la terra e per le futuregenerazioni. Il contrasto al riscaldamento globale è una necessi-tà urgente per la sopravvivenza di intere popolazioni e per con-trastare gli effetti devastanti dei fenomeni atmosferici estremi.Le azioni di mitigazione e di adattamento ai cambiamenti clima-tici costituiscono un’opportunità unica di sviluppo sostenibile, di

crescita economica e occupazionale.Come sostiene sempre la segretaria gene-rale della ITUC, Sharan Burrow: “Non c’èlavoro in un pianeta morto”; anche perquesto l’azione climatica è una questionesindacale. Sulla COP21 peseranno le pressioni dellelobbies dei fossili; non è un caso che tutti imaggiori sponsor della conferenza di Parigisiano multinazionali che hanno forti interes-si legati a questi combustibili. Mentre èestremamente urgente definire un accordoper lasciare sotto terra gran parte delleriserve di gas, carbone e petrolio, i produt-tori di fossili stanno cercando di aumentarele estrazioni per compensare le perdite diprofitti determinate dal calo dei prezzi.E anche il Governo italiano, incurante dellavolontà della popolazione e della miopiaeconomica e occupazionale di queste scel-te, conferma il ruolo strategico di trivelle,inceneritori e gas per il nostro paese.

Il titolo di questo articolo riporta una frase diLaurent Fabius, ministro degli esteri francese.

“Il clima è la chiave di tutto”di Simona Fabiani, Responsabile Ambiente e Territorio CGIL

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Nel dicembre 2015, i paesi si riuniranno a Parigi sotto l’egida delleNazioni Unite per suggellare un nuovo accordo globale per combat-tere i cambiamenti climatici. In vista di questo vertice cruciale, laCES ribadisce le sue richieste chiavi alle parti, e in particolareverso l’Unione europea, che deve continuare a svolgere un ruolodi primo piano nei negoziati.

Impegni giuridici di tutte le parti basati su responsabilità con-divise ma differenziateMantenere il riscaldamento globale ben al di sotto di 2°C richiedemisure di mitigazione ambiziose al fine di rendere il pianeta car-bonio-neutrale entro la fine del 21º secolo, in conformità alle rac-comandazioni della quinta relazione di valutazione dell’IPCC.Come primo passo in questa direzione, la conferenza sul clima diParigi deve consegnare un accordo giuridicamente vincolante,fatto di impegni chiari e comparabili per il 2030 per tutte le parti,che rifletta responsabilità comuni ma differenziate. La COP21deve anche consegnare una tabella di marcia credibile che combi-ni obiettivi quantificati a lungo termine di riduzione delle emissio-ni e obiettivi intermedi da raggiungere dalle diverse categorie dipaesi. Una raccolta di impegni nazionali non fornirà il genere disvolta politica globale ai cambiamenti climatici che è necessariacon urgenza oggi.La conferenza di Parigi deve inoltre accelerare l’azione a brevetermine contro i cambiamenti climatici, garantendo il rispettodegli impegni esistenti, in particolare nel quadro del protocollo diKyoto.

Transizione giusta e lavoro dignitoso devono essere partedell’accordoIl passaggio da un’economia basata sui combustibili fossili aun’economia senza emissioni di carbonio non può essere fattosenza cambiare, allo stesso tempo, il mercato del lavoro. Metterela giusta transizione e il lavoro dignitoso al centro dell’accordo diParigi dimostrerà l’impegno delle parti ad accoppiare la decarbo-nizzazione delle loro economie con un forte investimento perun’agenda sociale che comprende la creazione di posti di lavoro diqualità, partecipazione dei lavoratori, “inverdimento” di compe-tenze e curriculum, protezione sociale e rispetto dei diritti deilavoratori. Fare dell’economia a basse emissioni di carbonio unaprospettiva auspicabile per tutti è fondamentale per garantire ilsostegno pubblico per la transizione.

Equità come pietra miliareI paesi ricchi devono condurre la lotta globale contro i cambiamen-ti climatici, non solo riducendo drasticamente le loro emissioni,ma anche offrendo ai paesi più poveri il sostegno necessario perl’attuazione di misure di mitigazione e adattamento. Ciò significache i paesi sviluppati devono attenersi agli impegni finanziariassunti a Copenaghen. È evidente, tuttavia, che questi impegninon forniranno risorse sufficienti per far fronte alle esigenze finan-ziarie determinate dai cambiamenti climatici. Tassa sulle transa-zioni finanziarie, quote dei proventi di meccanismi flessibili, con-tributi finanziari dai trasporti internazionali, la graduale elimina-zione dei sussidi dannosi per l’ambiente, sono tutti i modi pergenerare ulteriori risorse finanziarie per affrontare i cambiamenticlimatici. I fondi Pensione, ma anche tutti i tipi di investimenti pri-vati, dovrebbero contribuire alla transizione verso un’economia abasse emissioni di carbonio in un modo che sia socialmente edecologicamente responsabile.

Va promossa e riconosciuta la partecipazione di tutti i gruppi La transizione, che abbiamo davanti, richiede la partecipazione ditutte le parti interessate, e i sindacati hanno un ruolo importanteda svolgere nei cambiamenti che questa comporterà per il merca-to del lavoro. Da Rio 1992, garantire un’ampia partecipazione delpubblico al processo decisionale è stato identificato come unimportante prerequisito per lo sviluppo sostenibile. A tal fine,l’Agenda 21 individua nove principali gruppi della società civile epromuove il rafforzamento del ruolo dei lavoratori e dei loro sin-dacati. Garantire una rappresentazione completa ed equilibrata diquesti gruppi è ormai una pratica comune all’interno del sistemadelle Nazioni Unite e i testi dell’UNFCCC non dovrebbero essereun’eccezione. L’accordo di Parigi deve promuovere con fermezzae riconoscere il ruolo svolto da tutti i maggiori gruppi,e in particolare da parte delle organizzazioni sindacali.

Il rispetto dei diritti umani e dei diritti dei lavoratoriIl futuro regime climatico deve rispettare i diritti umani e dei lavo-ratori. Tutti i meccanismi, tra cui meccanismi di progetto, devonoessere basati su processi decisionali democratici e garantire ilrispetto dei diritti umani in tutti i paesi. Le azioni di mitigazionenon devono mettere a rischio il diritto alla terra, all’acqua,all’energia a prezzi accessibili e gli altri diritti fondamentali deilavoratori e delle comunità locali.

1 - Aumentare l’ambizione e investire nel potenziale occupazio-nale dell’azione climaticaL’accordo sul clima di Parigi deve garantire che i governi faccianodei passi concreti per ridurre le emissioni prima e dopo il 2020, inlinea con un contenimento dell’aumento della temperatura di2°C. L’accordo deve contenere anche un robusto meccanismo direvisione periodica per innalzare l’ambizione nel corso del tempo.

2 - Finanza climatica e supporto ai paesi più vulnerabiliL’accordo deve prevedere con chiarezza le modalità con cui ipaesi sviluppati dovranno soddisfare il loro impegno a mobilitare

100 miliardi di dollari dal 2020 per garantire sufficienti risorseper l’adattamento. Dovrà anche individuare le modalità peraumentare questo impegno dopo il 2020.

3 – Impegno per garantire la giusta transizione per i lavoratori ele loro comunità L’accordo, nella Sezione operativa, deve includere l’impegno permisure di “Giusta transizione”. Ciò è essenziale per sostenere lasfida della trasformazione industriale in tutti i settori, in partico-lare creando nuovi lavori e mezzi di sussistenza per i lavoratoridelle industrie ad alta intensità di emissioni.

Richieste chiave della CES per la COP21 Parigi 2015Posizione adottata nel Comitato Esecutivo del 17-18 giugno 2015

Domande prioritarie dei sindacati per la COP21Vertice sindacale sul clima ITUC Parigi 14-15 settembre 2015

Quando leggerete questo articolo saremo nella fase finale della 21ª Conferenza delle Parti (COP21) della Convenzione quadro delleNazioni Unite sui cambiamenti climatici (Parigi 30 novembre-11 dicembre). Sul prossimo numero parleremo degli esiti.

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Pietro Ingrao ci ha lasciato dopo aver compiuto 100 anni,dopo aver attraversato la storia della democrazia italiana e dopoessere stato un protagonista di pagine importanti delle vicendeche hanno caratterizzato le scelte politiche e lo stesso modo diessere del Partito Comunista Italiano, del quale è stato a lungouno degli esponenti più noti e più popolari.Nella sua bella e lunga vita, in tutti gli incarichi di partito, comenelle Istituzioni repubblicane, con serenità e forte impegno intel-lettuale ha affrontato, militando nella sinistra, i fatti e le vicen-de drammatiche e tumultuose del Novecento. Uomo di cinema, ma anche di poesia, scrittore e saggista, dopo averpreso parte con successo come esponente della Guf ai Littorialidella cultura e dell’arte divenne presto in gioventù un convintoantifascita, poi un militante comunista che ha operato nella clande-stinità e nella Resistenza, dove ha dato il suo contributo a riconqui-stare la libertà e a costruire la democrazia nel nostro paese. Nell’Italia liberata è divenuto dapprima uno dei giovani dirigentiche collaborarono con Palmiro Togliatti nel forgiare e nel costruire

il “partito nuovo” assumendo, nel 1947, e proseguendola peroltre un decennio, la direzione del quotidiano L’Unità; poi, dal1950, svolgendo anche un’impegnata funzione di parlamentare,un’attività che lo ha sempre appassionato. Esponente di una tendenza di sinistra nel dibattito interno al Pci,ha duellato a lungo con le posizioni e con le culture politicheespresse sul versante opposto guidate e sostenute soprattutto daGiorgio Amendola.La sua lunghissima e apprezzata esperienza istituzionale lo haportato a essere eletto presidente della Camera dei Deputati nel1976 dopo la grande avanzata elettorale del Pci diretto da EnricoBerlinguer.Dopo la caduta del muro di Berlino e dopo lo scioglimento del suopartito, che ha contrastato tenacemente sia nelle forme che neicontenuti, ha seguitato ugualmente a militare nel Pds per qual-che anno ancora per poi concludere la sua esperienza politicavicino a Rifondazione Comunista.Per la gente della sinistra italiana Ingrao ha sempre rappresenta-to un punto di riferimento popolare e prestigioso nelle battaglieper il progresso e per la democrazia ed è stato portatore di unostimolo costante a concentrare gli sforzi verso i più deboli, versola parte meno tutelata della società e a sostegno della causadella democrazia e della pace.È stato un oratore molto apprezzato nei suoi comizi, che risulta-vano sempre molto partecipati; la sua passione e la sua abilitàoratoria erano così pregnanti che perfino all’undicesimo congres-so del Pci, tenutosi nel 1966, nel quale le tesi politiche che soste-neva furono battute, e nelle quali tra l’altro sosteneva la fine delcentralismo democratico e la più libera dialettica pubblica neldibattito di partito, il suo intervento fu calorosamente e lunga-mente applaudito anche da parte di coloro che non condivideva-no le sue opinioni.È stato rilevato che egli, autorevolissimo dirigente comunista, era

l’uomo del dubbio, e ciò è stato indubbiamente vero.Su un punto però Ingrao dubbi non ne ha mai avuti:sullo stare sempre dalla parte dei lavoratori. Non haavuto paura di esplorare terreni nuovi né di esprimereil proprio dissenso anche quando questa scelta lo haesposto a dei sacrifici sul piano politico-personale.Nel difendere il proprio punto di vista ha tuttavia sem-pre cercato di assumere una visione nazionale e ditenere vivo il confronto con gli altri, dai diversi movi-menti che si sviluppavano nella società ai fermentipresenti nel mondo cattolico. Le Istituzioni, segnate dai valori della Costituzione,hanno rappresentato per lui un limite entro cui svol-gere una corretta competizione di idee ma, al tempostesso, hanno rappresentato un orizzonte democrati-co da cercare di allargare ai nuovi soggetti sociali eagli esclusi. La sua è stata una lunga vita di lotte, di passioni, divittorie come di sconfitte, nelle quali ha portatocostantemente la sua profonda cultura, la sua grandeumanità e la sua forte personalità.

Ricordo diPietro Ingrao e Riccardo Terzi

di Carlo Ghezzi, Segretario della Fondazione Giuseppe Di Vittorio

Sono recentemente scomparse due significativepersonalità della sinistra italiana che, pur con sto-rie personali e con percorsi molto diversi, aveva-no raccolto nel corso degli anni, con il loro opera-re e con il loro pensiero, la stima e l’affetto dimoltissimi militanti dello schieramento progressi-sta che hanno avuto la fortuna di conoscerli, diascoltarli e di riflettere sulle opinioni e sulletesi che hanno via via sostenuto: Pietro Ingrao eRiccardo Terzi.

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Riccardo Terzi è mancato mentreera ancora nel pieno delle sue forze fisi-che e intellettuali; apparteneva alla gene-razione successiva a quella di Ingrao ed èstato per lunghi anni una delle menti piùvivaci e più fervide del Pci milanese. Dirigente della Federazione giovanilecomunista provinciale e poi nazionale, èdivenuto successivamente segretario dellaFederazione del Pci di Milano. Nel 1975 èstato tra gli artefici della formazione dellagiunta di sinistra nella metropoli ambro-siana, guidata dapprima da Aldo Aniasi epoi da Carlo Tognoli. In quegli anni ha assunto in Consigliocomunale la funzione di capo gruppo delPci, mentre Claudio Martelli lo era del Psi.In quegli anni si è contraddistinto peressere stato un corag gioso e isolato cri -tico di Ber lin guer e ne ha avversato lanota proposta di “compromesso storico”in nome dell’intesa a  sini stra con il Psi,anche se Terzi non è mai stato politica-mente e culturalmente vicino ai così dettimiglioristi, che rappresentavano la posi-zione di destra del suo partito e che facevano dell’unità con isocialisti uno dei perni della loro proposta politica. È innegabi-le che alcune posizioni sostenute da Terzi e alcune sue battagliegli siano costate, in più di una fase, una certa marginalizzazio-ne politica.Luciano Lama, nei primi anni Ottanta, gli chiese di lasciare il lavo-ro a tempo pieno nel partito per passare a quello sindacale ecollaborare con la Cgil dopo la storica sconfitta subita alla Fiat,dapprima come coordinatore del gruppo di lavoro dei quadri e deitecnici della Cgil nazionale e poi di tornare in Lombardia a fiancodi Antonio Pizzinato e di Alberto Bellocchio nella segreteria regio-nale della Cgil, di cui divenne il segretario generale nel 1987.Fu poi Bruno Trentin a richiamarlo a Roma e a nominarlo, nel1993, responsabile per la Cgil nazionale del dipartimento delleriforme istituzionali proprio quando, dopo l’emergere dello scan-dalo di tangentopoli, esplodeva la crisi del sistema poli tico e isti-tuzionale ita liano. Terzi è stato poi segretario dello Spi-Cgil della Lombardia e quin-di componente della segreteria nazionale del sindacato dei pen-sionati, un incarico che ha ricoperto fino a poche stagioni fa. Militante e importante dirigente del Pci, ne ha seguito le successi-ve evoluzioni politiche portandovi il suo originale contributo finché,nel 2013, dopo le elezioni finite senza un chiaro vincitore, ha abban-donato il Partito Democratico in polemica con il sostegno al Gover-no presieduto da Enrico Letta e appoggiato da Silvio Berlusconi. È rimasto, fino alla sua prematura scomparsa, fedele solo alla Cgile nella sua lunga e ricca militanza ha sempre tenacemente pro-pugnato la necessità di sviluppare un’intensa e autonoma vitasociale in una società moderna e complessa quale la nostra, daporre alla base della vita politica.La sua formazione personale e politica è rimasta indubbiamentesegnata nel suo più profondo modo di sentire e di operare dagli inse-gnamenti togliattiani e, non a caso, una delle ultime iniziative dalui promosse, organizzata nella sua Bergamo con il sostegno dellaFondazione Di Vittorio, è stata da lui finalizzata a commemorarel’anniversario del celebre discorso tenuto in quella città da Togliat-ti, nel 1963, sul rapporto con i cattolici, sui destini dell’uomo e sulcrinale terribilmente delicato che separa la pace dalla guerra.Discutendo frequentemente a lungo e a fondo con lui, e per miafortuna le occasioni non mi sono mai mancate sia nel lavoro, sia

fuori dal lavoro, sia nel corso di lunghi e ripetuti viaggi fatti insie-me, ho sempre avuto la sensazione che le grandi vicende interna-zionali lo appassionassero e lo accalorassero meno di quanto nonaccadesse per altri dirigenti della sua generazione, mentre loappassionava e lo coinvolgeva maggiormente l’interrogarsi e l’in-terrogare gli altri sulle trasformazioni economiche, sociali e cul-turali in atto nel paese e di conseguenza, sul carattere della rap-presentanza politica e di quella sociale calando entrambe nelcontesto concreto nel quale erano chiamate ad operare. Ragionando sul sindacalismo confederale esprimeva costante-mente una sacrosanta propensione unitaria, forse da lui più sen-tita rispetto ad altri, mentre il suo operare è sempre stato scevroda ogni forma di settarismo così come dal manifestare malintesipatriottismi d’organizzazione.È stato fino ai suoi ultimi giorni un infaticabile organizzatore di con-vegni, di confronti, di occasioni di studio e di discussione. I suoi con-tatti erano vastissimi e la sua capacità di interlocuzione con perso-nalità portatrici delle più svariate competenze come delle più diver-se tendenze culturali era notevole. Ha scritto molto, ha periodica-mente riordinato parte dei suoi scritti e ci lascia in questo campoun grande patrimonio che dovremo saper valorizzare.Ric cardo Terzi è stato un dirigente politico e sindacale di valore,un intel let tuale di prestigio, caratterizzato da una rara intel li -genza cri tica sempre espressa pacatamente e aliena da ansiecome da tor menti. A chi lo ascoltava, la sua intelligenza critica appa riva costante-mente intrisa di serena coscienza e  di equilibrata fermezza,appariva portatrice di riflessioni, di elaborazioni e di propostespesso di grande valore. È stato una persona dotata di una stra-ordinaria acutezza, a volte accompagnata da un sottile velo diironia, che ha davvero contribuito con il suo pensiero, con i suoiinterventi e con i suoi numerosi scritti ad animare il dibattitonello schieramento progressista; un dibattito ahimè sempre piùpovero sia di voci autorevoli sia di strumenti atti a diffonderlo, afarlo conoscere e a farlo crescere.E gli interventi di Riccardo Terzi non risultavano astratti poiché sifondavano su un’acuta analisi della realtà; un’analisi che sapevapartire dalle moti va zioni che lo ave vano spinto sin da giovanea schie rarsi da una parte ben precisa. Da quella parte ha scelto di spendere la propria vita.

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Il Giubileo Straordinario della Misericordia,proclamato da papa Francesco per l’anno2016, è stata un’altra di quelle occasioniche questa città ha perso per abbandona-re il suo stato di piccola capitale provin-ciale e provare a definirsi come metropo-li, centro culturale, economico e sociale,traino virtuoso del paese.Invece, Roma, i suoi gruppi di interessepolitico, economico, sociale, i suoi cittadi-ni, non riescono ad abbandonare una visio-ne mediocre di città che vive principal-mente sulla rendita immobiliare, sulla spe-culazione fondiaria e sulla pubblica ammi-nistrazione. Roma è una città che ha enor-mi punti di eccellenza che, però, non rie-scono a diventare sistema, principalmenteperché il legislatore italiano non ha volutomai attribuirgli concretamente lo status diCapitale d’Italia. Roma è oggi equiparatacittà metropolitana al pari di Milano eNapoli; purtroppo sfugge al legislatore lacomplessità e la peculiarità di una cittàunica al mondo. Roma ha bisogno innanzi-tutto di una profonda riforma amministra-tiva e politica.Questo non toglie le sue colpe, che sononell’incapacità culturale e intellettuale, daparte delle componenti produttive e socialidella città, delle sue classi dirigenti, dellapolitica e della stessa società civile di agiree pensare diversamente dallo stereotipocon cui è descritta e rappresentata. È unacittà perduta, che non ha saputo darsi unavocazione e un’identità precisa. Città persatra il cinismo quotidiano e la piccola e gran-de corruzione, che sono gli elementi cheormai la caratterizzano, e non solo agliocchi dell’opinione pubblica mondiale.Roma è una città di relazioni che si compia-ce nella forma allontanando le soluzioni.Una metropoli per dirsi tale deve affronta-re il tema della mobilità urbana e dellaaccessibilità. La non organizzazione dellamobilità, spesso abbandonata a se stessa,influisce sulla percezione negativa che i

cittadini e i turisti hanno della nostra città.La politica romana non ha mai avuto lacapacità di intervenire con indirizzi e pro-grammazione sulla mobilità, così come, inverità, sui tanti aspetti che caratterizzanola vita quotidiana della città.La società di trasporto pubblico, Atac, ètutti i giorni sui media accusata di ineffi-cienze e scandali. Tutto questo l’ha ancorpiù indebolita fino ad arrivare alla situa-zione paradossale in cui è la proprietàstessa, il comune di Roma, la giunta, ilconsiglio, i partiti, che attaccano il mana-gement da loro stessi nominato. Un caso distudio su come non devono essere gover-nate le aziende pubbliche.Le vittime di questo sistema sono princi-palmente i pendolari e i cittadini. Attra-versare Roma con i mezzi pubblici disuperfice o con la metropolitana è spessoun’avventura; non sai mai come va a fini-re. Per quello che sopportano i pendolariromani e gli utenti, anche occasionali,

sono dotati di una pazienza infinita. Ritar-di incomprensibili e mai annunciati, corsesoppresse senza spiegazioni, rottureimprovvise, autobus e vagoni della metrosporchi, persone stipate su mezzi in cui siviaggia in situazioni promiscue, ognunoappoggiato all’altro. Le metropolitane egli autobus sono il regno di borseggiatoriimpunemente pronti a colpire. Per questie tanti altri motivi il trasporto pubblico,che è lo specchio di una città, non è effi-cace né sostenibile né affidabile.Questo, nel tempo, ha prodotto uno scolla-mento profondo tra cittadinanza e lavorato-ri del trasporto che noi dobbiamo provare aricucire. Cambiando, se necessario, anchela modalità del conflitto. Spesso ci sfuggeche c’è un legame diretto tra la mobilità, lavita quotidiana e la salute dei cittadini.Atac è il paradigma di Roma. Una città chenon regge il confronto con nessuna capita-le europea. Ogni giorno circolano perRoma quasi due milioni di veicoli privati. Iltrasporto pubblico locale è al collasso.Entrare a Roma è un’odissea, tra parcheg-gi che non si trovano, traffico anarchico,macchine in doppia fila e regole del codi-ce della strada che non sono rispettate danessuno. L’azienda di trasporto pubblico èstata abbandonata dalla stessa politicache ha creato il mostro: oggi tutti quantine disconoscono la paternità. In più, orga-nizzazioni sindacali relativamente rappre-sentative che, forti del proprio potere

Roma città da salvaredi Eugenio Stanziale, Segretario Generale Filt-Cgil Lazio

Roma non merita di soffocare nella mediocrità. Per salvarla occor-re costruire un nuovo modello di mobilità e accessibilità riorganiz-zando il TPL intorno ai nodi ferroviari e metropolitani, razionaliz-zando i collegamenti e gli orari, intrecciando le esigenze indivi-duali con quelle collettive, investendo coraggiosamente nelleinfrastrutture della mobilità sostenibile, immaginando anche unapolitica degli orari della città diversa, più aperta e accogliente.

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contrattuale ricattatorio, ciclicamentemettono la città in ginocchio, senza maiporsi il problema del costo ambientale edel disagio collettivo che creano.I cittadini, gli utenti, i pendolari nondistinguono e da qui la percezione negati-va che si riverbera su tutti i sindacati.Certo, se Atac va male, non è colpa deglioperatori che comunque, nelle condizionidate, si prodigano per portare avanti almeglio il servizio. Operatori che, al nettodegli errori e delle responsabilità, sonodileggiati dall’opinione pubblica e, ultima-mente, anche vittime di aggressioni daparte dei pendolari, cittadini che, nondimentichiamoci, hanno nel mezzo pubbli-co l’unica opportunità per potersi recareal lavoro, a scuola, all’università.Anni di assenza di investimenti, dioccupazione della politica da partedell’azienda, di dirigenti cherispondono a logiche referenziali, diincapacità di direzione e di organiz-zazione, di manutenzione che non èmai stata fatta, hanno prodottoquesto risultato. Oggi sparare sul-l’azienda è uno sport che va per lamaggiore, ma sicuramente nonmigliora il servizio. Non c’è bisognoné di maghi né di commissari, bensìdi una volontà collettiva e di inve-stimenti certi nella direzione dioffrire un servizio all’altezza di unametropoli moderna.In un convegno di alcuni anni fa, sidiceva che “Roma non sarà salvatafintanto che non si riformerà il tra-sporto pubblico locale”; noi aggiun-giamo, però, che il collasso dellamobilità nella nostra città è dovuto,anche e soprattutto, a politiche edi-lizie e urbanistiche che hanno privi-legiato lo scempio edilizio, l’occupa-zione del suolo, l’abbandono delle perife-rie. Le cosiddette élite dominanti dellacittà, nella visione piccola e mediocre dicui dicevo prima, hanno perseguito ununico e immediato obiettivo: i propri inte-ressi. Ripensare Roma significa anche ripen-sare un modello di sviluppo che ha prodot-to danni e reso asfittica questa città.Il Giubileo poteva, invece, essere l’occa-sione per cominciare a pensare e costruireun nuovo modello di mobilità e accessibili-tà, riorganizzando il TPL intorno ai nodiferroviari e metropolitani, razionalizzandoi collegamenti e gli orari, aumentando lavelocità media e i percorsi protetti, le cor-sie preferenziali, i parcheggi, intrecciandole esigenze individuali con quelle colletti-ve, investendo coraggiosamente nelleinfrastrutture della mobilità sostenibile,immaginando anche una politica degliorari della città diversa, più aperta e acco-gliente. Insomma non basta tagliare i

costi, cambiare i dirigenti e praticare latrasparenza nelle gare d’appalto; il tuttodeve essere accompagnato da una visionee dalla Politica che è la grande assente diquesti anni e che ha favorito il corporati-vismo e i privilegi interni all’azienda.La cittadinanza, gli stessi operatori dellamobilità devono pretendere molto di più,allearsi in un progetto condiviso. In questocontesto, tra mille difficoltà e incompren-sioni, anche noi ci siamo messi in discus-sione e fatto la nostra parte. L’accordosottoscritto a luglio, che tante polemicheha suscitato, va in questa direzione. Unaccordo che ha l’obiettivo di evitare con-flitti improduttivi, razionalizzare il model-lo organizzativo, garantire lavoro, occupa-

zione, reddito. Non seve a nulla urlare esbraitare, anzi, nella stragrande maggio-ranza dei casi, questo va ad alimentarecoloro i quali pensano e agiscono perchéAtac, così come tutte le aziende municipa-lizzate, siano semplicemente privatizzate.Siamo convinti che la parte più matura eresponsabile dei lavoratori e delle lavora-trici ha compreso lo sforzo che noi stiamofacendo. Anche perché questa è l’unicastrada che noi conosciamo e pratichiamo:diritti e doveri per offrire un servizio diqualità ai cittadini.La mobilità a Roma è ormai una prioritànazionale. I partiti romani, avvitati su sestessi e al loro interno dilaniati da protago-nismi e interessi di gruppi di potere, nonsono stati in grado di offrire alla città unmodello di sviluppo e di crescita diversa. Lagiunta Marino, al di là dei limiti e del ver-gognoso attacco mediatico al quale è statosottoposto il sindaco, ha perso subito la sua

spinta propulsiva e non ha mai avuto unaforte sintonia con la cittadinanza. La farsadelle sue dimissioni, se non fosse tragicanelle sue conseguenze, racconta il vuotodella politica romana. Classe dirigente esocietà civile, accomunati da uno stessodeclino morale, dimostrano una incapacitàa leggere il contesto e ad avere una visioned’insieme. Ora si pensa di risolvere il tuttocon la nomina di un commissario, ma senzal’impegno, la partecipazione, la politica,Roma rischia di finire in un buco nero e conlei l’attuale azienda di trasporto pubblicolocale e i suoi lavoratori.Sull’Atac, così come per altri aspetti, ilcomportamento della politica e delle forzesociali è stato ondivago e spesso contrad-

dittorio. Oggi, più che del commissa-rio, c’è bisogno di risorse e investi-menti, di una volontà comune, diabbandonare un passato che ha pro-dotto solo danni e inefficienze.Abbiamo bisogno di un’azienda deitrasporti che sappia coniugare, in unambito territoriale ottimale, il dirit-to alla mobilità come elementocaratterizzante all’interno del con-cetto più ampio dei diritti della cit-tadinanza. Atac è un bene al serviziodella collettività e non nella disponi-bilità della gestione della politica,dei partiti e delle loro consorterie.Sicuramente anche noi, in questianni, non siamo stati esenti da erro-ri ma, essendo convinti che in questaetà delle incertezze non esistonomodelli applicabili universalmente,ci stiamo battendo per una mobilitàsostenibile, al servizio dei cittadini edella città, che sia in grado di mette-re insieme le istituzioni locali, Regio-ne e Comune, il Governo nazionale,e soggetti industriali competenti.

Essendo le risorse finanziare scarse, solouna programmazione pubblica di indirizzo econtrollo, con una visione di quello che sivuole fare, senza guardare in faccia privile-gi, interessi e altro, sarà in grado di offrireuna politica di mobilità collettiva incardi-nata all’interno di una strategia complessi-va, perché il trasporto pubblico a Roma nonè, come molti vogliono far credere, un pro-blema di spending review bensì una leva disviluppo per la città e per l’intera regione.Bisogna pensare e agire in grande e dobbia-mo allargare il ragionamento: Fiumicino,per quanto riguarda l’aeroporto, Civitavec-chia perché è il porto di Roma, sono gli assiintorno ai quali costruire un piano regiona-le della mobilità e dello sviluppo he abbiala capacità di guardare oltre.Roma non merita di soffocare nellamediocrità; c’è bisogno di una Primaveradi rinascita. Noi siamo pronti a fare lanostra parte.

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Il momento di grande rilancio dei traffici marittimi del bacinomediterraneo impone una riflessione sul ruolo dei porti delMezzogiorno.Tra il 2000 e il 2014, il traffico delle merci attraverso il Canale diSuez è aumentato del 120 per cento. Nel solo 2014, vi sono transi-tate 822 milioni di tonnellate di merci e oltre 17.000 navi. Il 50%circa del traffico del Canale è rappresentato da navi container. Il Nuovo canale di Suez inaugurato il 6 agosto 2015 – secondo lo stu-dio presentato da Srm – consente una riduzione dei tempi di per-correnza che ora sono stimati in 6-7 ore e porta la capacità mediadi traffico giornaliero a 97 navi (dalla precedente media di 49). Pertanto l’Italia, che ha una quota di mercato pari al 18% del traf-fico transhipment nell’area Med, potrebbe essere in grado di inter-cettare solo su questa rotta un traffico aggiuntivo pari a oltre170mila Teu.È oggi più che mai urgente investire sui porti e sulla logistica.Il Mezzogiorno, in particolare, che trasporta il 75% del proprioexport su navi, potrebbe avvantaggiarsi e superare il ruolo di mar-ginalità in cui è stato relegato dal grave ritardo dell’Italia nell’ado-zione di una politica nazionale dei trasporti. Sebbene fino ad oggi l’Italia meridionale abbia sempre sofferto lacondizione di “perifericità” rispetto all’area “mittleuropa”, oggiha finalmente la possibilità concreta di recuperare una propriacentralità nel ricco scacchiere dei traffici intercontinentali che delMediterraneo ne fanno la principale porta di ingresso per i notevo-li flussi commerciali tra Europa, Africa, Oriente e Americhe. “Noi vogliamo essere la porta del Sud Europa” per il trasportodelle merci. L’ha detto il ministro delle Infrastrutture e Traspor-ti, Graziano Delrio, ricordando come recenti studi abbiano messoin luce che i ritardi nella logistica costano al paese 40 miliardil’anno. Un’opportunità, questa, da perseguire attraverso gli inve-stimenti necessari a realizzare un sistema di infrastrutture di col-legamento e d’interscambio pari ai grandi hub portuali delleregioni europee più avanzate.In questa direzione si è mossa l’Unione europea con il regolamen-to comunitario di dicembre 2014, che ha ridisegnato le principalilinee di traffico in base alle quali rielaborare le politiche di inve-stimento infrastrutturale. E in questa direzione sembra finalmente andare il Governo italiano

con l’adozione del Piano Nazionale Strategico dei Porti e della Logi-stica, volto alla creazione di un sistema integrato di reti infra-strutturali che possa rendere competitivo il Paese nell’ambito delmercato internazionale. Un progetto di crescita e di sviluppo che prevede interventi –infrastrutturali e non – volti a rendere più efficiente la rete com-plessiva dei trasporti: fluidificare i collegamenti tra i varchi por-tuali e la rete autostradale; creare aree e piazzali per la sosta deinon semoventi a servizio dei terminali Ro-Ro e per la razionaliz-zazione dei flussi; porre le condizioni per un progressivo sviluppodi terminali dedicati al traffico Ro-Ro all’interno dei principaliscali nazionali; creare lo sportello unico per le pratiche ammini-strativo-doganali; prevedere l’adozione di ITS (intelligent tran-sportation systems) per facilitare le comunicazioni e il trasferi-mento di informazioni, comunicazioni e documenti così da conte-nere i tempi complessivi del viaggio. Sono solo alcune delle misu-re di modernizzazione di cui il Paese ha bisogno. Altre azioni di politica economica dei trasporti sono poi in corsodi adozione a livello nazionale e comunitario: è proprio di questigiorni la notizia di una proposta di stanziamento dell’Unione

“Vogliamo essere la portadel sud Europa”

di Natale Colombo, Segretario Generale Filt-Cgil Campania

L’adozione del Piano Nazionale Strategico deiPorti e della Logistica, volto alla creazione di unsistema integrato di reti infrastrutturali per ren-dere competitivo il Paese nell’ambito del mer-cato internazionale, assieme ad altre azioni dipolitica economica dei trasporti in corso di ado-zione, possono contribuire a una più equa distri-buzione delle risorse e delle opportunità di svi-luppo, costituendo un’occasione concreta per ilrilancio del Mezzogiorno.

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Europea attraverso i fondi CEF per la progettazione di un nuovostrumento destinato a incentivare l’uso delle autostrade del mareche si chiamerà Med Atlantic Ecobonus e che, proposto su inizia-tiva dell’Italia, dovrebbe riguardare praticamente tutti i Paesieuropei affacciati sul Mediterraneo a partire dal 2017.Di autostrade del mare si parla inoltre per il cd.’marebonus’,da introdurre nell’ambito dell’iter di conversione della legge diStabilità, come misura di sostegno al ‘combinato marittimo’ perrilanciare le autostrade del mare. Sono tutte azioni che, se realizzate, contribuiranno a una piùequa distribuzione delle risorse e delle opportunità di sviluppo,costituendo un’occasione concreta per il rilancio del Mezzogior-no: il trasporto porta ricchezza!Un ruolo centrale riveste lo stato di attuazione del Piano strate-gico nazionale della Logistica e della Portualità: siamo tutti inattesa del primo decreto attuativo della riforma dei porti, relati-vo alla governance, attualmente all’attenzione del Ministro dellaPubblica Amministrazione Marianna Madia.Bisogna puntare alla realizzazione di un sistema portuale capacedi assumere il ruolo di vera e propria piattaforma di integrazionedei sistemi intermodali dei traffici terra-mare, con spiccata capa-cità di intercettare i flussi di scambio e di interconnettere i gran-di corridoi industriali.Urge davvero un’azione di governo che porti all’adozione deiregolamenti per lo Sportello Unico Doganale e lo Sportello UnicoAmministrativo, così come ai collegamenti dell’Ultimo miglio trale infrastrutture ferroviarie e stradali con i porti, attraverso icontratti Anas e RFI. Potenzialità e capacità di sviluppo infrastrutturale che vannoaccompagnate con azioni programmatorie e di intervento di rapi-da esecuzione per recuperare i notevoli ritardi accumulati per gliescavi e i dragaggi, per un rilancio della governance delle Autori-tà portali che, come quella di Napoli, sono state penalizzate daitroppi mesi di commissariamenti e dai localismi che a oggi hannodi fatto prodotto una fisiologica stagnazione delle criticità.Il sistema portuale campano va affidato a un’Authority capace diconiugare l’offerta di oggi con la domanda di domani, la cui alta

specializzazione consenta di realizzare quegli interventi infra-strutturali necessari a dare continuità ed efficienza in tutti queiservizi che rappresentano la spina dorsale di un’offerta universa-le pronta a competere con gli altri gate del mediterraneo.

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Lo scorso 5 Novembre, si è svolta Genova la Conferenza di capi-talizzazione del programma Marittimo Transfrontaliero, Italia –Francia 2007- 2014. In questo incontro, al quale hanno parteci-pato tutti i soggetti che hanno dato vita alle attività previste nelprogramma operativo, sono stati presentati quattro progetti,considerati buone pratiche anche per il futuro in vista dellanuova programmazione 2015-2020 che sta iniziando ora. Fra iprogetti individuati vi è SIC promosso da un partenariato di cuifa parte attiva IRES Toscana.SIC nasce dall’esigenza di proiettare le dinamiche dei trasporti,in particolare quelle relative ai porti e alla navigazione, in unaprospettiva più ampia di qualificazione economica, dove la que-stione della sicurezza diventa non solo una risposta dovuta ailavoratori e passeggeri, ma anche un’offerta economica che leimprese possono vantare in campo competitivo.Queste convinzioni sono alla base della formazione di un parte-nariato, italiano e francese, che ha sviluppato una capacitàprogettuale in grado di rispondere agli interrogativi sul rapportofra efficienza e sicurezza, messa in discussione, pochi mesi primadel lancio di progetto, dalla tragedia della Costa Concordia,arenata a pochi chilometri dallo scenario progettuale.Di questo partenariato hanno fatto parte: l’Autorità Portuale diPiombino come capofila e responsabile del progetto; l’AutoritàPortuale di Livorno; la Regione Toscana; la Provincia di Livorno; laChambre de Commerce di Bastia; Corsica Ferries; Moby (solo perun primo periodo) e IRES Toscana che, oltre a gestire le parti piùpropriamente economiche del progetto, ha garantito un proficuoe alto coinvolgimento del sindacato, sia territoriale (la CGIL diLivorno) sia di categoria (Filt Regionale e Provinciale).È stato grazie a questa funzione di collegamento di IRES che alcu-ne questioni relative alla sicurezza e all’organizzazione del lavo-ro marittima e portuale sono state affrontate con correttezza erispetto delle relazioni sociali che si sono dimostrate sempreall’altezza della situazione.

Quali sono i contenuti e le finalità di SIC? Il progetto Sicurezza Intermodalità Competitività (SIC) si propo-ne di migliorare la competitività del sistema dei collegamentimarittimi dell’area transfrontaliera Toscana- Corsica attraversol’innovazione dei servizi connessi e dei sistemi di sicurezza deiporti interessati.

3 filoni di intervento sono stati previsti per il raggiungimentodella finalità generale:● sistema informatico● miglioramento della sicurezza dei passeggeri● azioni di miglioramento dell’intermodalitàIn concreto, il progetto SIC è rivolto al miglioramento della pro-grammazione dei collegamenti Toscana-Corsica e dei servizi con-nessi, grazie all’elaborazione sistematica dei dati forniti da unsistema informatico innovativo collegato in rete nello spazio tran-sfrontaliero e al miglioramento della sicurezza di trasporto deipasseggeri e della prevenzione degli incidenti sul lavoro nellearee portuali transfrontaliere interessate al progetto. Questefinalità sono state perseguite attraverso il monitoraggio dell’im-piego dei trasporti multi-modali (autobus/treno/auto/nave) deipasseggeri in arrivo/partenza nelle aree portuali Toscana - Corsi-ca e il monitoraggio del flusso passeggeri in entrata/uscita dallenavi, al fine di migliorare i sistemi di sicurezza sia a terra sia abordo, sempre tramite la realizzazione del sistema informatico.Inoltre, nell’ambito del progetto saranno studiate e poi adottatemisure di sicurezza specifiche per target deboli (donne incinte,bambini sotto i 12 anni, persone a mobilità ridotta).

SIC (Sicurezza, Intermodalità, Competitività)

di Fabio Giovagnoli, Presidente IRES Toscana

Un Progetto di crescita e di qualità del sistema logistico,

marittimo e portuale del Tirreno.

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Attraverso il lavoro svolto fra i partner, sono statiraggiunti i seguenti obiettiviMiglioramento del Sistema informaticoRealizzazione del sistema informatico di scambio informazioni suipasseggeri imbarcati sulle navi di Corsica Ferries in partenza/arri-vo nei porti di Piombino, Livorno e Bastia.Collocamento di display informativi per i passeggeri nei porti diPiombino, Livorno, Savona, Bastia e su 2 navi di Corsica Ferriessulle partenze/arrivi delle navi; informazioni sui posti disponibiliparcheggio a Livorno (grazie al collegamento sistema 3i infomobi-lità della Regione Toscana).

Firma di un agreement per il mantenimento del sistema infor-matico creato (incluso in un unico protocollo sulla sicurezza).I soggetti firmatari s’impegnano a garantire la continuità operativadel sistema informatico SIC volto all’elaborazione sistematica eall’interscambio dei dati tra i partner relativi all’organizzazionedei servizi di collegamento Toscana-Corsica. Di seguito sono specificate le azioni di mantenimento:● Garantire la continuità operativa dei sistemi hardware e softwa-

re che compongono il sistema informatico SIC di interscambiodati tra i 3 porti e la compagnia di navigazione Corsica Ferries;

● Garantire la continuità operativa dell’interscambio dati con ilsistema di infomobilità della regione Toscana;

● Garantire la continuità dello scambio dati tra porti e compa-gnia di navigazione Corsica Ferries per quanto attiene le trattePiombino-Bastia e Livorno-Bastia.

Al fine di garantire l’attuazione di tali azioni di mantenimento, èindividuato un organigramma per la gestione del sistema informa-tico con relativi referenti e ruoli.

SicurezzaRealizzazione di un percorso partecipativo con coinvolgimento distakeholder responsabili della sicurezza nei porti, sulle navi diCorsica Ferries e rappresentanti sindacali, per l’individuazionedelle criticità e buone pratiche esistenti nell’ambito dellasicurezza nei porti di Livorno, Piombino, Bastia e sulle navi diCorsica Ferries.

Firma di Protocollo sulla sicurezza1 Linee guida per la realizzazione della segnaletica interna ed

esterna in ambito portuale.2 Gestione e coordinamento delle informazioni da fornire ai

passeggeri prima dell’imbarco.3 Informazioni ai passeggeri durante la navigazione.4 Gestione dei servizi in favore dei PMR (“carta dei servizi e dei

diritti del PMR”).5 Salvaguardia dei bambini.6 Agreement informatico.7 Incontri periodici di coordinamento tra gli operatori economici

del porto.8 Rete permanente transfrontaliera per la sicurezza.

IntermodalitàDall’analisi dei dati, rilevati attraverso l’indagine svolta sullenavi nelle tratte Livorno/Savona-Bastia effettuata tra luglio eottobre 2014, abbiamo potuto documentare le caratteristichedel viaggiatore tipo che visita la Corsica partendo dai porti ana-lizzati. Si tratta principalmente di italiani, seguiti da francesi etedeschi. Sono famiglie con i figli, oppure coppie. Hanno un’etàmedia tra i 36 e i 45 anni. Si muovono con la propria automobilee, per usare un mezzo pubblico, richiedono un ottimo servizioe/o a basso costo. Quando usano il mezzo pubblico, preferisconoutilizzare il bus oppure il treno+bici (soprattutto gli stranieri).La maggioranza si muove per trascorrere una “vacanza stabile”e ripetono il viaggio più volte nel tempo.

Da ciò potremmo dedurre che si tratta di un passeggero chevuole una vacanza tranquilla, durante la quale riposarsi e starecon la famiglia. Vuole essere indipendente e facilitato negli spo-stamenti (chi si muove con i figli lamenta il problema del trasfe-rimento dei bagagli). È attento a quanto spende (alcuni sareb-bero disposti a utilizzare un mezzo pubblico se il costo permet-tesse un risparmio rispetto all’uso di un mezzo proprio). Lanazionalità e la cultura incidono sullo spostamento dei viaggia-tori: i tedeschi sono più propensi a utilizzare un mezzo pubbli-co rispetto ai francesi o agli italiani, e si muovono nell’arco ditutto il periodo monitorato rispetto ai secondi, che si muovonoprevalentemente in agosto (con una eccezione dei viaggi inottobre dei francesi, probabilmente legati al possesso di secon-de case in Corsica).Per quanto riguarda l’incremento dell’uso dei mezzi pubblici inintermodalità, l’analisi ha mostrato che il loro utilizzo è increscita nonostante sia in aumento anche l’uso dell’automobi-le privata. Il progetto sta attuando delle attività e ha messo in luce delletendenze, che potrebbero incrementare l’uso degli spostamentiattraverso l’intermodalità, che possono essere descritte comepunti di forza. Allo stesso modo, possiamo descrivere le critici-tà che, se non gestite, potrebbero rallentare tale incremento.Con la conclusione di SIC, i partner hanno deciso di continuarela cooperazione nell’ambito del nuovo programma marittimoItalia Francia 2020. L’esperienza fatta ci permette oggi di poterutilizzare le opportunità europee per affrontare i nodi strategi-ci dei trasporti, della logistica integrata e, soprattutto, dellasicurezza che non sempre è ai primi posti nell’attenzione deisoggetti interessati.

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L’aeroporto Fontanarossa di Catania, cer-tamente la più importante infrastrutturadella rete della mobilità e dei trasportidella Sicilia, è, con i suoi sette milioni emezzo di passeggeri tendenti all’aumento,senz’altro il primo aeroporto del Sud.È, inoltre, stato inserito fra i dodici scalidi rilevanza strategica nel piano nazionaledegli aeroporti ma, fatto assolutamentenegativo, non fa parte della rete TEN-T (lereti di trasporto trans-europee). Ciò acausa della mancanza di intermodalità e,quindi, di connessione con la rete ferro-viaria e di gravi carenze del sistema deiparcheggi intorno all’aerostazione, oltreal mancato raggiungimento del milione diabitanti dell’area metropolitana catanese.Appare chiaro che i requisiti di efficienteintermodalità e parcheggi adeguati sonoessenziali e possono, con l’impegno ditutti, a iniziare dalle istituzioni locali ecentrali, per troppo tempo colpevolmentedisattente e negligenti, essere conseguiti,consentendo cosi allo scalo catanese l’in-gresso nella rete TEN-T.

Oggi Fontanarossa è catalogato dalla com-missione Infrastrutture e Trasporti dellaConferenza nazionale Regioni e provinceautonome tra gli aeroporti “core”, nellarete “core comprehensive network”, ma èescluso da tutta una serie di finanziamen-ti strutturali comunitari. Va, comunque, detto che importanti risor-se economiche sono già state impegnate ealtre sono in avanzata programmazione.Infatti, l’accordo di Programma stipulatotra ENAC e SAC (Società di Gestione) pre-vede di spendere su Fontanarossa benottanta milioni di euro, oltre ai trentatrégià spesi che consentiranno, a breve,l’ampliamento del terminal di circa diciot-tomila metri quadrati, oltre alla riqualifi-cazione del vecchio terminal arrivi e allarealizzazione di un piano parcheggi chegarantirà circa tremilacinquecento nuovistalli. Ma quello che resta assolutamentevitale per Catania è prevedere l’interra-mento del binario ferroviario che lambiscel’aeroporto, per permettere l’allungamen-to della pista di circa cinquecento metri

consentendo, cosi, agli aeromobili cheoperano su rotte intercontinentali, ildecollo e l’atterraggio a pieno carico,fatto questo che abiliterebbe lo scalo adivenire pienamente un aeroporto inter-continentale, mettendo Catania al centrodelle rotte turistiche e commerciali del-l’Europa del Sud.Appare evidente che tutto ciò avrebbe uneffetto rilevante sia sulla vita dell’aero-porto stesso sia sullo sviluppo economico eoccupazionale, non solo della Sicilia orien-tale, ma delle sette provincie che, difatto, utilizzano Fontanarossa. Va, infatti,rilevato che la Sicilia sconta una pesantis-sima marginalità che la penalizza forte-mente sotto il profilo sia della commercia-lizzazione di quanto prodotto in loco siada un punto di vista dell’appetibilità delnostro territorio per lo stanziamento dinuove attività economiche, consideratoanche che il sistema portuale è totalmen-te carente cosi come quelli viario e ferro-viario. Resta, pertanto, vitale l’apportodato dallo scalo catanese che, se adegua-tamente potenziato, potrebbe ancor piùdivenire un volano di sviluppo del nostroterritorio.La Filt-Cgil catanese, insieme alla Confe-derazione, ha, ormai da molti anni, porta-to avanti una dura battaglia per giungerea quanto ho sinora descritto, ma la totalemancanza di progetto di sviluppo deigoverni regionale e nazionale e la cecitàdei gruppi dirigenti a tutti i livelli dellaprovincia di Catania non ha consentito diottenere importanti risultati. Sino a oggi,sono stati mancati troppi importantiappuntamenti, cosi, mentre gli altri Paesirivieraschi del Mediterraneo hanno poten-ziato i loro aeroporti, quello di Catania è,

di Alessandro Grasso, Segretario Generale Filt-Cgil Catania

Aeroporto di Catania,occasione per il Sud

nonostante la nuova aerostazione e lemigliorie che ho prima descritto, assoluta-mente insufficiente a reggere la competi-zione con gli altri scali.È bene, a questo punto, sottolineare chel’aeroporto Vincenzo Bellini (Fontanaros-sa) impiega circa milleduecento addetticon il CCNL del trasporto aereo (circanovecento) e di Assologistica (circa tre-cento); infatti, il primo si applica alla SAC,nei quattro Handlers e nelle aziende diCatering che vi operano e il secondo, inmodo assolutamente ingiustificato anchese abbiamo recentemente ottenuto l’aper-tura di un tavolo tecnico per la sua modi-fica, presso la SAC Service, una societàstrumentale del gestore aeroportuale SACche fornisce servizi vari, a cominciaredalla Security aeroportuale e dal PRM(Passeggeri Ridotta Mobilità) per finire neiparcheggi e nel servizio informazioni alpasseggero.A questi vanno aggiunti circa ottocentoaddetti delle varie attività commerciali,delle pulizie, dell’autonoleggio e, più ingenerale, dell’indotto. Questa sommariadescrizione ci aiuta a comprendere comeFontanarossa sia una realtà complessa conequilibri delicati che è, insieme, portad’ingresso della Sicilia e anche grandecontenitore di aziende, lavoratori, storieumane e professionali e, anche, storie dilotta per i diritti, i salari e il rispetto delruolo delle Organizzazioni Sindacali.La Filt-Cgil si è sempre distinta per una

attività frenetica volta alla tutela deilivelli occupazionali e salariali sin dalmomento più difficile, quello che hasegnato la fine del monopolio, con l’in-gresso di un secondo handler, quando sisono evidenziati tutti i rischi che il passag-gio di fase imponeva a tutti noi. Sin daallora abbiamo scelto di percorrere lastrada maestra della tutela dei livellioccupazionali, cercando di ridurre al mini-mo i danni ai salari e condividendo con lelavoratrici e i lavoratori ogni cosa, com-piendo le scelte, anche le più difficili, conpercorsi decisionali chiari e democratici.Tutto questo avveniva nel 2003, da alloragli handlers sono divenuti quattro, i lavo-ratori impegnati in questo settore sonocirca settecento, siamo riusciti, mante-nendo un livello di lavoro unitario con Fit-Cisl, UILtrasporti, e UGL T.A. a non perde-re posti di lavoro; anzi abbiamo quasi pro-sciugato il precariato, con accordi di sta-bilizzazione, con i quali abbiamo dato unaprospettiva di lavoro a tempo indetermi-nato a circa duecento lavoratori.Adesso la sfida è rappresentata dalla clau-sola sociale, dal CCNL di settore e, perquel concerne Catania, dal riuscire, inaccordo con ENAC e SAC, a limitare glihandlers, cosi come già fatto a RomaFiumicino, definendone il numero e sele-zionando gli operatori con un bando digara. Questa procedura, unitamente allaclausola sociale e al CCNL di settore, con-sentirebbe di continuare a lavorare in

regime non di monopolio e ci darebbe lapossibilità, una volta limitati gli handlers,di evitare la gara al ribasso per assicurarsii clienti/vettori, che ora, invece, caratte-rizza il nostro aeroporto, con danni rile-vanti, con aggravi di costo e, soprattutto,con un rischio continuo per i lavoratori diessere espulsi dal processo produttivo. Vaprecisato, inoltre, che allo stato attuale laconcorrenza spietata dettata da un merca-to libero senza regole rischia di provocaredumping salariale, di restringere i dirittidei lavoratori, di peggiorarne le condizio-ni di lavoro e di pregiudicare complessiva-mente sia la qualità del servizio sia,soprattutto, la sicurezza.È assolutamente evidente che il rinnovodel CCNL di settore è fondamentale per-ché ci consentirà di mantenere l’unità delcomparto, di ribadire il valore del CCNLcome autorità salariale nazionale e dinormare la clausola sociale che è l’unicostrumento che può consentire di passaredalla strettoia dei cambi di handler daparte delle compagnie aeree senza caderenella macelleria sociale.La Filt-Cgil catanese, unitamente alla Con-federazione, sta cercando, consideratoquanto deciso dalla recente Conferenza diOrganizzazione, di sperimentare su un sitocomplesso quale Fontanarossa la costitu-zione di un livello Confederale, la Cameradel Lavoro dell’aeroporto di Catania, cheal suo interno riesca a tenere le esigenzedei lavoratori più forti (Gestore Aeropor-tuale), di coloro che sono più esposti allaconcorrenza (Handlers) con quelle deilavoratori più deboli, a causa dei cambi diappalto o del susseguirsi di datori di lavo-ro diversi (ad esempio i dipendenti delleCooperative di Pulizia o i lavoratori degliOperatori Commerciali). Stiamo, inoltre,provando a coinvolgere la SAC a farsi connoi promotrice di un sistema di regole chetenti di dare un minimo di tutela ai lavo-ratori del commercio impegnati presso glioperatori commerciali e, coinvolgendoanche le categorie interessate, di dar vitaa un contratto di sito.Concludendo, desidero sottolineare ilnostro continuo sforzo di promuovere,all’interno di tutte le aziende, giovaniquadri, cercando di offrire loro anchemomenti formativi promossi con le purlimitate risorse. Stiamo, insomma, cercan-do di mantenere la nostra FILT dentro ilpercorso ambizioso che ci indica la Confe-renza di Organizzazione. Proprio per que-sto stiamo lavorando per arrivare, possi-bilmente senza strappi del quadro unita-rio, alle elezioni delle RSU, in modo dacompiere definitivamente il percorso checonsegna alle lavoratrici e ai lavoratori latitolarità, insieme alla categoria provin-ciale, della trattativa.

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Decreto interministeriale 4 marzo 2013,Segnaletica stradale per attività lavorativesvolte in presenza di traffico veicolare.Facciamolo rispettare.

Il Decreto interministeriale del 4 marzo 2013, frutto di un lungolavoro che ha visto la partecipazione dei ministeri competenti(Lavoro e politiche sociali, Salute, Infrastrutture e trasporti),delle parti datoriali (Aiscat e Anas in primis) e delle organizzazio-ni sindacali, rimane ancora per molti sconosciuto o scarsamenteapprofondito.Per tutti noi, invece, che ci occupiamo quotidianamente dellelavoratrici e dei lavoratori che operano su strada, dovrebbediventare un punto di riferimento fondamentale per tutelare almeglio la loro sicurezza.È, infatti, noto come, spesso, l’infortunio di un lavoratore cheesercita la propria attività su strada, sia esso un camionista o unoperaio impegnato nella manutenzione viaria o in un’attività diausilio agli automobilisti, sia il più delle volte “archiviato” comeincidente stradale e legato alle generiche situazioni che caratte-rizzano i tragici eventi sulle strade: le violazioni al codice pereccesso di velocità, l’alcol e le droghe assunte dall’automobili-sta, la distrazione dall’autotrasportatore, il colpo di sonno etc.Nel mondo del lavoro, tra le cose più drammatiche cui si può assi-stere, è quando un camionista investe una squadra di lavoratoriche operano per interventi stradali o quando lo stesso camionista,dopo aver “causato” l’incidente/infortunio degli operai, rimaneegli stesso vittima dell’evento.Questi lavoratori hanno uno strumento di tutela molto valido:il decreto interministeriale è destinato a ridurre il principalepericolo lavorativo di chi opera sulla strada, rappresentato dalrischio di investimento e si configura come un ulteriore elemen-to di ausilio anche rispetto al rischio per i terzi, in questo casoautomobilisti e autotrasportatori.Brevemente, e rinviando a una lettura più complessiva del testo,che è composto da un articolato e da due allegati, l’importanzadel decreto si può riassumere così: l’introduzione di un ambito diapplicazione che ne impone il rispetto sia da parte di tutti igestori delle strade (concessionari, enti proprietari) anche relati-vamente al personale direttamente impiegato, sia da parte delleimprese appaltatrici che, per conto dei gestori o per conto di altricommittenti, svolgono attività sulla rete viaria; la previsione dielementi dell’organizzazione del lavoro in rapporto alle diverseattività da svolgere (cantieri fissi, mobili ed emergenza), ponen-do particolare attenzione alle delicatissime fasi connesse alleprocedure di apposizione e rimozione della segnaletica stradale,quale momento di massima esposizione al rischio di investimentoper gli operatori.Il decreto rinvia quindi ad una specifica e approfondita valutazio-ne dei rischi e ad una formazione e addestramento aggiuntivi daeffettuarsi da parte dei datori di lavoro e pone sicuramente incapo ai gestori/committenti un principio di responsabilità addi-zionale, in particolar modo nelle fasi propedeutiche allo svolgi-mento delle attività su strada, rappresentate dalla costruzionedei capitolati d’appalto e dall’identificazione dei costi per lasicurezza e del lavoro. Il costo del lavoro, in particolare, deve

essere chiaramente individuato attraverso una precisa definizio-ne delle risorse umane necessarie a operare in sicurezza rispetto,ad esempio, alla diversa tipologia di strada. È sicuramente piùcomplicato e rischioso lavorare su una strada caratterizzata daintenso traffico che non su un tracciato viario provinciale; com’èaltrettanto diverso operare su una strada garantita dalla presen-za di una corsia di emergenza o di rettilinei. È evidente che, soloprendendo a riferimento i diversi fattori di rischio derivanti, adesempio, dai differenti tracciati viari appena indicati, l’organiz-zazione del lavoro ed anche le modalità di allestimento dellasegnaletica, devono essere diverse, prevedendo, ove valutatonecessario, una presenza maggiore di uomini e mezzi sin dallafase di progettazione dell’intervento.Quindi, occorre farla finita con i documenti di valutazione deirischi “fotocopie”(!) e ampliare la consapevolezza per uno sforzocomune (da parte dei committenti e dei gestori in primo luogo)per individuare e trasferire in forma chiara e univoca, anche alleimprese appaltatrici, i rischi connessi alle varie attività da realiz-zarsi sulla specifica tipologia di strada.

Al decreto bisogna dare seguito in due direzioni, ferma restando lasua applicazione. Da un lato, monitorare con serietà le casistichedegli infortuni che continuano ad accadere anche per affinare ildisciplinare tecnico contenuto nell’allegato al decreto. Dall’altrolato, rafforzare la capacità dei controlli interni alle aziende e dellavigilanza istituzionale sugli eventi, anche in forma preventiva, conl’obiettivo di un intervento efficace rispetto alle due macro-que-stioni da indagare e che sono chiaramente contenute nel decreto:la tipologia della segnaletica stradale utilizzata “a difesa” delleattività (quale patrimonio di conoscenza spesso esclusivo dellapolizia stradale nell’ambito delle attività di vigilanza istituzionali);l’organizzazione del lavoro necessaria all’intervento stradaleanche attraverso una capacità di correzione/analisi della valuta-zione dei rischi realizzata dal gestore e/o dall’impresa appaltatri-ce. Un binomio (attrezzature, intese come segnaletica, adotta-te/fornite e organizzazione del lavoro per utilizzarle al meglio) chein questo spaccato del mondo del lavoro, come in molti altri campi,non può essere più disatteso.

di Tatiana Fazzi, Segretaria Nazionale Filt-Cgil

Tutelare chi lavora su strada

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Concepire e costruire infrastrutture di tra-sporto in Italia è molto difficile, tanto piùquando queste sono di grandi dimensioni edhanno impatti su territori ampi, come nelcaso di strade e ferrovie. Ma anche nel casodi infrastrutture “puntuali”, come porti,aeroporti, centri logistici, parcheggi, le dif-ficoltà non mancano. Ne sono prova lediscussioni e le polemiche che, puntual-mente, accompagnano qualunque progetto.E pensare che l’Italia è la patria delle infra-strutture di trasporto. L’ingegneria deiromani ha lasciato testimonianze che ancoroggi lasciano ammirati: strade, porti,acquedotti. Esattamente 2000 anni fa, nel15 d.C., Vitruvio teorizzava quel sapere nelsuo De Architectura e definiva le caratteri-stiche che doveva avere un’opera pubblica:Utilitas, Firmitas e Venustas.Questa eccellenza italiana è proseguita fraalti e bassi fin nella storia più recente, conla rete ferroviaria dell‘ottocento e delprimo novecento, le autostrade del dopo-guerra, la linea di Alta Velocità Roma Firen-

ze, prima in Europa, degli anni settanta.Questa tradizione oggi sembra essersi inter-rotta e il divario nella dotazione di infra-strutture e nella qualità dei servizi di tra-sporto viaggiatori e merci tra l’Italia e glialtri Paesi europei è un dato di fatto. Ildivario è eclatante nel caso delle infra-strutture di trasporto locale, come tram emetropolitane: basti pensare che nella solaMadrid ci sono più km di metropolitana(233) che in tutte le città italiane messeinsieme (175 km). Ma la “questione infra-strutture” italiana non si limita solo alledotazioni, riguarda molto i tempi e i costi direalizzazione, la trasparenza dei processi,la lunga e inaccettabile lista delle opereincompiute.Nel libro che ho recentemente pubblicatoinsieme a Francesca Pagliara (E. Cascetta,F. Pagliara, Le Infrastrutture di Trasporto inItalia, cosa non ha funzionato e come porvirimedio, Aracne, 2015), abbiamo propostoun’analisi delle cause che hanno portato airitardi infrastrutturali attuali, con partico-

lare riferimento ai limiti dei processi didecisione e di progettazione delle infra-strutture di trasporto, al fine di suggerireun approccio diverso e più attuale, cheaiuti a scegliere e progettare le infrastrut-ture “giuste”, ossia quelle che servono eche si possono realizzare. La tesi di fondodel libro è che le infrastrutture di trasportosono un mezzo per muovere persone ecose. Servono per produrre servizi di tra-sporto e di logistica, che garantisconoaccessibilità da e per le funzioni rilevanti diun territorio, che consentono a una doman-da di mobilità di spostarsi fra diverse areecon minori costi generalizzati per gli utentie minori esternalità, consentono la produ-zione e il consumo di beni e servizi.Un’affermazione tanto ovvia da sembrarebanale. Eppure, spesso si parla di strade,ferrovie, porti, aeroporti, affermando laloro utilità in molti casi senza neanche faredelle ipotesi sui servizi che consentiranno,su quante persone o spedizioni di merce leutilizzeranno.

di Ennio Cascetta

Infrastrutture di trasporto in ItaliaRitardi e rimedi

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È possibile individuare molteplici causeche hanno prodotto i problemi del sistemainfrastrutturale italiano: alcune riguarda-no le procedure e le norme inefficienti, lepossibilità di contenziosi, le risorse pubbli-che insufficienti, la difficoltà di consensoterritoriale. Su questi argomenti ci sononumerose analisi e proposte di prestigioseIstituzioni come la Banca d’Italia e Confin-dustria. Altre cause riguardano la sceltadelle infrastrutture da realizzare e la loroprogettazione.Negli ultimi anni, è prevalsa la retoricadelle grandi opere e della frammentazionedelle risorse in una pluralità di cantieri,che ha contribuito alla dispersione deifondi (in diminuzione) su opere spessoincompiute o comunque con tempi di rea-lizzazione lunghissimi. Inoltre, poca atten-zione è stata rivolta alla manutenzione eall’upgrading delle reti esistenti, agli inve-stimenti nelle “piccole opere”, che posso-no determinare grandi effetti in termini diincremento della capacità e delle presta-zioni con tempi di realizzazione inferiori,cosi come sono poco considerate le enormipotenzialità della tecnologia.Tutto ciò non implica che non bisognaeffettuare investimenti, anche consisten-ti, ma piuttosto che bisogna scegliere ilmix di interventi nazionali e locali chemeglio risponde alle esigenze del sistemaPaese, definendo prima “cosa” c’è bisognodi realizzare e poi “come”. Insomma, leinfrastrutture di trasporto in Italia si scel-gono e si progettano secondo schemi supe-rati e inefficaci e, per recuperare la capa-cità realizzativa di cui il Paese ha assoluta-mente bisogno, è necessario ripensareinnanzitutto i processi decisionali e l’ap-proccio alla progettazione.Le decisioni sulle infrastrutture di trasporto,

dalla pedonalizzazione di una strada allacostruzione di nuova linea di Alta Velocità,riguardano tipicamente dei decisori pub-blici, (lo Stato, le Regioni, i Comuni), oanche decisori privati (come una compa-gnia aerea o ferroviaria) e comportanodelle conseguenze “pubbliche” estese amolteplici persone, gruppi, aziende.Progettare e realizzare infrastrutturesignifica quindi gestire un processo didecisione pubblica che incide sulla collet-tività, su interessi diversi e molto spessocontrastanti.Il punto di partenza per un esame a tuttocampo della “questione infrastrutture”dovrebbe essere, quindi, che la scelta e laprogettazione di una infrastruttura non sirisolvono in un esercizio puramente tecni-co (ingegneristico, economico, giuridico),né in decisioni puramente “politiche”,

basate su interessi di parte e potere con-trattuale, in cui il risultato casuale e insta-bile è caratterizzato dall’incontro fra pro-blemi da risolvere, attori e progetti cherisolvono quei problemi, secondo modellidecisionali che in letteratura sono chiamatidi garbage can (o bidoni della spazzatura).Scelte e progetti dovrebbero, invece,essere il risultato di un processo decisio-nale pubblico basato su elementi e dati difatto. Il modello di processo decisionalepiù adatto a gestire la complessità dellescelte e degli interessi, tipica delle infra-strutture di trasporto, è basato su un pro-cesso a razionalità limitata, o cognitivo,che parte dalla definizione di obiettivi evincoli condivisi per proporre soluzioniche vanno confrontate fra loro e con lapossibilità di rinviare le decisioni.Confronti che devono, ovviamente, tene-re in conto diversi elementi, dai rapportifra benefici e costi, alle ricadute sull’am-biente, sull’equità e sulla distribuzionedegli impatti, fino al grado di consensoche le soluzioni hanno; insomma attuandostudi di fattibilità veri.Molto spesso la qualità della decisione,dell’infrastruttura, dipende proprio dallaqualità di tale processo. Un cattivo proces-so decisionale e un cattivo progetto condu-cono a scelte sbagliate o all’impossibilitàdi decidere e, anche quando porta a unadecisione, comporta ritardi nella costruzio-ne, per i contenziosi e i blocchi che si crea-no e conduce a costi più elevati. Al contrario, una buona programmazione euna buona progettazione dovrebbero risul-tare non solo da una diversa e più modernavisione delle infrastrutture, ma anche dalforte coinvolgimento dei diversi portatoridi interesse. Il Public Engagement (PE) èl’insieme delle attività e delle tecnicherelative al processo di identificazione e di

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coinvolgimento degli stakeholders istituzio-nali, economici, territoriali, politici all’in-terno del processo decisionale. Il PublicEngagement per essere efficace non si puòbasare solo sulla ricerca di un consensosulle scelte, sulla capacità di trovare ilcompromesso possibile, ha invece bisognodi analisi tecniche ed economiche solide.È necessario che il dibattito e la partecipa-zione con gli interlocutori, istituzionali enon, avvenga nelle prime fasi del processoper evitare il propagarsi di sindromi diopposizione come NIMBY (Not in My BackYard, non nel mio giardino). Una causa del ritardo infrastrutturale delnostro Paese è nella bassa qualità dei pro-getti. Le ultime tendenze internazionali,che sono analizzate nel libro, sono basatesu una visione olistica delle infrastrutture.Le infrastrutture, e più in generale i sistemidi trasporto, vanno innanzitutto concepitiin modo snello, intendendo con questalocuzione la riduzione degli sprechi di risor-se applicando i principi e la filosofia dellaLean Production (LEAN) (Cascetta E., DaGiau A., Furlan A., Macchion L., Vinelli A.,Zanotto M., Binotto F., Fioratti M. Towardslean transportation infrastructures: defi-ning value and identifying MUDA - Semina-rio SIDT 2012 Padova). Progettare l’infra-struttura di trasporto tenendo conto dellerisorse economiche, temporali, ambientalie sociali e, ovviamente, della domanda dimobilità che potenzialmente utilizzeràquella infrastruttura.Inoltre, bisogna porre una maggiore atten-zione all’ambiente sia nella fase di costru-zione (nella scelta dei materiali costrutti-vi) sia nella fase di gestione (ponendo

attenzione ai sistemi di produzione e distri-buzione di energia in esercizio per i sistemiesistenti) (GREEN). Per migliorare la quali-tà delle nuove infrastrutture e di quelle giàesistenti è necessario introdurre le tecnolo-gie ICT (Information CommunicationTechnologies) per il monitoraggio, il con-trollo e l’informazione degli utenti(SMART). Mentre i sistemi di trasporto intel-ligenti (ITS o Intelligent TransportationSystems) sono molto diffusi nei diversiambiti, sono ancora concepiti e progettatiindipendentemente dalla componente fisi-ca dell’infrastruttura. Invece, proprio dallaprogettazione congiunta di infrastruttura e

sistemi tecnologici, si possono avere grandirisparmi e/o una qualità dei servizi moltomigliore; basti pensare alla possibilità dieliminare i caselli autostradali grazie ad unsistema di pagamento in corsia (free flowtolling), agli effetti sulla sicurezza del con-trollo della velocità media, oppure all’au-mento del numero di treni che può utilizza-re una linea ferroviaria con i sistemi di con-trollo dinamico della circolazione.Infine, il progettista possiede oggi unamaggiore libertà formale, meno legataalle regole del calcolo o a modelli di rife-rimento storicamente sedimentati. Puòsvilupparsi inventiva, combinando cosìl’aspetto tecnico, economico ed estetico,per realizzare infrastrutture BELLE, chemigliorino il contesto antropizzato o menonel quale sono realizzate. Bisogna porreparticolare attenzione all’impatto visivo:le nuove infrastrutture devono rispettarel’ambiente e il paesaggio dove sonocostruite, essere uno spunto per la riqua-lificazione di intere aree.Studi sperimentali condotti sulle “nuovestazioni dell’arte” della Metropolitana diNapoli dimostrano che infrastrutture piùbelle hanno un valore di uso maggiore, fun-zionano meglio e attraggono più utenti (siveda Cascetta E., Cartenì 2014 The hedonicvalue of railways terminals. A quantitativeanalysis of the impact of stations quality ontravellers behavior Transportation Researchpart A, vol. 61 pp 41-52).Insomma, nuove norme per la programma-zione, la progettazione e la costruzione,processi decisionali consapevoli e parteci-pati, progetti innovativi sono gli ingredien-ti necessari per la ripresa di un settorestrategico per il Paese.

Ennio Cascetta è nato a Napoli il 16 dicembre 1953, è professore ordinario di Pianificazione deiSistemi di Trasporto presso l’Università Federico II di Napoli, è docente presso il MassachusettsInstitute of Technology (MIT) di Cambridge USA. È autore di testi accademici adottati in univer-sità di numerosi Paesi e di oltre 150 lavori pubblicati a livello internazionale.Ha svolto attività didattica ed è membro di numerosi gruppi scientifici internazionali che coin-volgono prestigiosi centri di ricerca come il MIT di Boston, le università di Singapore e Coimbra,il Royal Technical Institute di Stoccolma.L’attività scientifica ha riguardato temi relativi all’analisi dei sistemi di trasporto, alla teoriadella pianificazione dei trasporti, alla simulazione dell’interazione domanda-offerta nei merca-ti di trasporto, alla pianificazione e alla politica tariffaria delle reti ferroviarie, ai modellimacroeconomici per la simulazione delle relazioni trasporti-economia.È stato coordinatore scientifico per la redazione del Piano Generale dei Trasporti e della Logi-stica del 2000 e direttore del Secondo Progetto Finalizzato Trasporti del CNR. Ha partecipatoagli studi di fattibilità delle linee di Alta Velocità italiane, ai Piani di trasporto di diverse Regionie città italiane.Dal 2000 al 2010, è stato Assessore ai Trasporti della Regione Campania in qualità di tecnico,contribuendo alla realizzazione del progetto di Metropolitana Regionale (50 km di linee e 40stazioni aperte), delle infrastrutture di trasporto (investimenti completati per 8 miliardi dieuro), del sistema tariffario Unico Campania, del metrò del mare e dello sviluppo delle piatta-forme logistiche.Dal 2005 al 2010, è stato Coordinatore della Commissione Infrastrutture, Mobilità e Governo delTerritorio della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome.Da Ottobre 2015 è Coordinatore della Struttura tecnica di Missione per l’indirizzo strategico,lo sviluppo delle infrastrutture e l’Alta Sorveglianza presso il Ministero delle Infrastrutture edei Trasporti.

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di Giovanna Visco, Giornalista di economia marittima – Blogger di “Mari Terre Merci”

Sempre più, nel dibattito degli organismiinternazionali del settore marittimo, ricor-re il tema della gente di mare, cui que-st’anno è stata dedicata la giornata mon-diale del mare (World Maritime Day). Da fonte IMO (International Maritime Orga-nization), attualmente a bordo delle navisono impiegati 1,5 milioni di marittimi,che costituiscono l’offerta di un mercatodel lavoro internazionalizzato e semprepiù specializzato. Gli equipaggi delle navioggi affrontano in mare aperto le sfidetecnologiche, dimensionali e commercialidel trasporto marittimo che, in pochi anni,è mutato profondamente con la netta divi-sione della proprietà degli asset dallesocietà armatoriali. La separazione traproprietà e gestione commerciale ha acce-lerato il processo di concentrazione e con-trollo delle flotte mondiali in poche manie introdotto pratiche finanziarie speculati-ve, tra cui l’utilizzo di strumenti “creati-vi” sui carichi trasportati. Il motore di svi-luppo di questo modello è stata la forteinterdipendenza di produzione e consumofra opposte aree del mondo negli ultimidecenni, caratterizzando con bolle e cracki diversi segmenti dell’economia derivatadel trasporto marittimo, con particolareevidenza nei traffici delle rinfuse.

L’insieme di questi fattori ha avuto unimpatto diretto sui meccanismi di ricercae reclutamento della gente di mare e sullavita a bordo, in termini di compiti e man-sioni e di organizzazione del lavoro, che aloro volta si combinano molto flessibil-mente e frammentariamente con le pecu-liarità specifiche della navigazione recepi-te dalla normativa ai vari livelli, con lasovranità di bandiera delle navi e conregole e organizzazioni di porti, terminal eterminali di imbarco/sbarco.Il risultato è una moltitudine di situazionie trattamenti diversi, che rendono l’offer-ta molto debole sotto il profilo dei diritticontrattuali rispetto a una domanda cheancora troppo diffusamente tende a com-primerne il più possibile il costo, e nonsolo in termini salariali, aprendo una fallaenorme anche per quel che riguarda lequestioni della sicurezza della navigazionein tutti i suoi aspetti. In base all’andamento negli ultimi 50 annidel trend della flotta mondiale, che entroil 2030 ha un orizzonte di crescita del 70%,l’IMO prevede nel mercato del lavoro dellagente di mare una forte spinta in avantidella domanda. Solo per quel che riguardail corpo ufficiali impiegato a bordo dellenavi, il fabbisogno di reclutamento salirà

dai 500.000 di oggi a 850.000 ufficiali. Alnetto di coloro che intanto usciranno dalmercato, ciò significa che il traportomarittimo, per sostenere il commerciointernazionale, ha bisogno di 40.000 nuoviingressi l’anno, per poter giungere al sod-disfacimento del fabbisogno di 600.000nuovi ufficiali entro il 2030. Alla luce diciò, potrebbe forse essere utile anche unarilettura del gigantismo navale.Incoraggiati dalla concentrazione commer-ciale delle navi, dall’ingresso nel mercatodi società armatoriali di nessuna esperien-za marittima, dalla crescita numericadelle flotte, dalla difficoltà di comporreequipaggi spesso interrazziali i cui membrisiano tra loro compatibili, sono fiorite nelmondo società di manning che fornisconoagli armatori equipaggi completi certifica-ti a basso costo, reclutando personale daaddestrare nei paesi emergenti, che rico-noscono particolari agevolazioni all’inse-diamento di quest’attività che crea occu-pazione e reddito - le rimesse dei maritti-mi sono territorialmente una voce impor-tante di reddito e, spesso, a livello stataleanche di valuta.Tuttavia, la produzione seriale di figureprofessionali a basso costo introduce unaprofonda distorsione sul piano dell’offer-ta della gente mare. Non avendo un livel-lo di saturazione, i centri del brokeraggiodi uomini determinano una concorrenza alribasso, esondando ben al di là del fabbi-sogno scaturito dall’introduzione di nuovenavi, estendendosi fino alla sostituzionedei marittimi attivi quando le bandiere diStato lo consentono. Un aspetto sul qualeancora non si è riflettuto abbastanza eche può avere effetti rovinosi anchemolto ravvicinati nel tempo proprio in Ita-lia, se passerà la liberalizzazione chesvincola la tonnage tax (fiscalità forfetta-ria degli armatori italiani) dalla nostrabandiera - che almeno obbliga il cabotag-gio ad arruolare marittimi italiani o comu-nitari - per consentire alle navi di altrebandiere europee, le cui società di navi-gazione abbiano organizzazione stabile inItalia, di poter usufruire della tonnage taxitaliana e, viceversa, alle navi di bandieraitaliana di andare sotto un’altra bandieradi un paese comunitario, conservando latonnage tax italiana.

Navi e lavorotra gli squilibri del mondo

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Da dati Confitarma, il settore del cabotag-gio italiano traghetti occupa 11.000 marit-timi per il 92% quasi interamente italianoe per l’8% extracomunitario imbarcato sutratte internazionali, ma questi datipotrebbero essere stravolti per l’interven-to attivo di altre bandiere europee moltoaggressive (portoghese, belga, danese,maltese ma anche inglese), che nel 2014sono cresciute sensibilmente per le facili-tazioni che offrono all’armamento, su cuisarebbe opportuno in ambito UE una pro-fonda riflessione comparativa. Ancora una volta, il rischio è che si tendaa fare economia nel modo più semplice,semplificato e vecchio del mondo, senzaaffrontare i veri nodi di una concorrenzainternazionale evoluta, basata sullo svilup-po di parametri di qualità e di efficienzaappoggiati da normative nazionali, comu-nitarie e internazionali che mettano inprimo piano sicurezza e occupazione, cioèil bene comune. Attualmente dai dati ILO le Filippine sonoil paese che più di altri immette marittimicertificati sul mercato internazionale. Sistima che nel mondo 1 marinaio su 5 siafilippino. In generale, i contratti di lavorosono di 10 mesi, prevedendo due imbarchidi 4 mesi consecutivi, intervallati da duemesi di riposo nei quali non si percepiscesalario. Un viaggio Asia-Europa, con tempobuono e se non insorgono problemi nelcorso della navigazione, può durare inmedia circa 2 mesi. Dal Canada all’Austra-lia si naviga in pieno oceano per quasi unmese oppure si può stare all’ancora per ilcongestionamento del porto anche quattromesi in attesa di carico/scarico dellanave. Il cabotaggio, invece, non comportalunghe percorrenze in mare aperto, maun’altissima frequenza di sbarchi/imbarchi

che richiedono un intenso lavoro procedu-rale, manuale per la bassa forza e docu-mentale per gli ufficiali.Ma al di là delle differenze di rotta e ser-vizi, i mutamenti della terraferma tradot-ti a bordo nave in tecnologia, gigantismonavale e internazionalità dei viaggi, hannoreso il lavoro della gente di mare moltopiù complesso e crescentemente qualifica-to a tutti i livelli, sia per le navi cargo siaper quelle passeggeri o da crociera. Indipendentemente dal ruolo che si occupa,lavorare a bordo di una nave è ormai unaprofessione post moderna di grande knowhow strategico per le economie nazionali,incardinata su una formazione professionalebasica di conoscenza specifica, sulla quale

costruire l’esperienza pratica della naviga-zione. E non solo. Se è vero che la sicurezzaè principalmente fattore umano sia nellaprevenzione che nella incidentalità, allagente di mare è affidata questa responsabi-lità crescente, a prescindere dalla specializ-zazione e dal carico della nave e dalla velo-cità di esecuzione delle operazioni di bordo,che la concorrenza armatoriale di mercatoaccelera sempre più.Tuttavia, il lavoro della gente di mareresta ancora oscurato, come fosse un’ap-pendice e non l’anima degli smagliantiacciai dei giganteschi scafi, nonostantel’impiego della tecnologia ICT che ha rottol’isolamento in alto mare avvicinando lefamiglie e i territori di origine ai navigantie la terraferma al comando nave. La nonconoscenza del lavoro marittimo può tra-sformarsi facilmente in forte debolezza,se usata per rinforzare i tentativi di distor-te economie di scala che vorrebbero con-trollare condizioni e opportunità di lavorodella gente di mare attraverso il ridimen-sionamento di quel che si è conquistatofinora in termini di diritti, introducendouna concorrenza al ribasso tra marittimi.Allo stesso modo, racconti troppo promet-tenti e romanzati della vita di bordo pro-ducono aspettative irrealistiche, chereprimono la conoscenza e lo sviluppo cul-turale del lavoro della gente di mare e neassottigliano, di fatto, l’appetibilità diingresso per le nuove generazioni. La gente di mare, che in pochi anni puòtoccare tutti i continenti del globo eattraversare tutti i mari, senza mai smet-tere di pensare che il miglior posto delmondo è la propria terra, meriterebbeevidentemente molto di più da decisori eorganismi internazionali.

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Sguardi e traguardi

Le donne amano l’ecologia. Non tanto come scienza da studiare,anche; ma come esperienza da osservare per trarne parola ediscorso radicandosi nell’interazione fra sé, essere vivente incar-nato, e ambiente. Più degli uomini, le donne sperimentano l’ascolto del loro corpoe di ciò che la vita esprime con le sue aspirazioni, necessità, gira-volte, difficoltà, slanci e inciampi, nel contesto in cui è dato diviverla. Hanno sapienza della cura, sanno la necessità di accompagnaregli esseri viventi fin dai loro primi passi nel mondo e di come lavita dipenda dall’ambiente in cui si sviluppa. Lontana dall’idea di esprimere un giudizio di valore, m’interessarichiamare qui come questa sapienza femminile “incarnata” possaspiegare la maggiore presenza femminile nella lotta per la salva-guardia dell’ambiente, nell’orizzonte di uno sviluppo più sosteni-bile e più a misura del vivere bene, a partire da sé, dalla propriaumanità fragile, nel rispetto altrui e dell’ambiente che ci ospita. Ne è stata prova evidente la battaglia referendaria per la gestio-ne pubblica dell’acqua, quale bene comune da preservare nell’in-teresse generale, che ha visto le donne protagoniste riconosciu-te; una battaglia vinta in Italia nel 2011, il cui significato haassunto un carattere simbolico a livello internazionale. Vandana Shiva, il cui impegno per amore della Terra Madre edelle sue popolazioni più povere è noto, lo evidenziò in occasio-ne dell’apertura della Conferenza ONU per lo Sviluppo sostenibi-le del 2012 (RIO+20), quando ringraziò a quel livello le italiane egli italiani che animarono quella battaglia, determinando l’esitovincente del Referendum popolare. Oggi, a distanza di tempo, se è pur vero che non sono bastati 26milioni di ‘Sì’ per trasformare il sistema di gestione del servizioidrico italiano secondo la volontà di quel 54% di elettori ed elet-trici che si espresse in modo contrario a qualunque forma di pri-vatizzazione, questo non significa che quella valenza simbolicasia venuta meno. Anzi. Come la passione politica, ovvero la passione per la modifica del-l’esistente per migliori condizioni di “ben-essere” o di “buenvivir”, salvaguardando i beni comuni, quella valenza simbolicacontinua ad agire. Non sono certo prepotenza e disegni piùrispondenti a interessi particolari che impediscono di farne espe-rienza. Che impediscono di trarre, nello scarto tra il senso condi-viso ed espresso con il referendum e la realtà che va componen-dosi sulla base di scelte di segno opposto, parole, discorsi e ini-ziative che smascherano il conformismo diffuso, la prepotenza,i troppi interessi particolari e la malafede a qualsiasi livello,sociale, economico e istituzionale. La persistente sottovalutazione della portata simbolica, di persé, non azzera l’esperienza che ha animato quella battaglia eneppure quel filo di senso che l’ha alimentata e permessa. Que-sto, infatti, si rinnova e, a ben vedere, è fra le cause principali

della tanta sfiducia verso gli attuali governanti che occupano iluoghi delle decisioni.D’altro canto, il disinteresse diffuso per la politica tradizionale,la calma o mancanza di iniziativa non devono trarre in inganno opacificare i decisori che disattendono l’esito referendario. La sto-ria insegna che là dove le donne sono protagoniste, queste pro-pensioni in realtà altro non sono che tempi di gestazione per cam-biamenti radicali inaspettati. L’esperienza viva di donne che scelgono di restare in sintonia conquel che la vita reclama non ha soluzione di continuità; la politi-ca delle donne, pur seguendo modalità meno conosciute, resta incampo. Sottovalutarlo può limitare nella lettura della realtà,tanto da portare a decisioni destinate a rivelarsi inefficaci.Questo è il tempo in cui la lotta per la salvaguardia dell’ambien-te e dei suoi abitanti è irriducibilmente in atto e registra unasignificativa e rilevante presenza femminile. Non coglierla nellasua reale qualità e portata per il cambiamento che già sta inve-stendo stili di vita, produttivi, nei servizi e nei consumi, puòindurre a pensare come digerite o ignorate scelte adottate in

di Oriella Savoldi, Segreteria Camera del lavoro Brescia

Più degli uomini, le donne

L’Ecologia “...è una scienza di esperienza e nondi esperimento, perché non può lavorare sumodelli della realtà, ma può soltanto osservarela realtà.” Laura Conti

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virtù di poteri e interessi particolari, dannose a livello economi-co, sociale e ambientale. Al contrario, dovrebbe essere all’ordine del giorno dei governiuna politica di contrasto, per l’interesse generale, come rivendi-cano le istanze femminili. L’occasione dei governi per distinguersi è aperta; la salvaguar-dia dell’ambiente, rivendicata da più donne che uomini, rap-presenta un campo fertile di iniziativa irrinunciabile considera-to il persistere della crisi economica- ambientale e l’importan-za dei negoziati che si stanno svolgendo nella 21ª ConferenzaOnu per il clima a Parigi. La richiesta ai negoziatori istituzionali dei diversi Paesi è quella diportarsi al livello dell’attesa di un accordo multilaterale vincolan-te per la riduzione delle emissioni dei gas serra clima alteranti, cheha orientato la stesura del documento uscito dal Summit dei Popo-li nell’ambito di “RIO+20” e, ora, rilanciata dalle tante realtàsociali, sindacali e ambientaliste, vive e attive grazie anche al por-tato di saperi e pratiche dell’esperienza femminile. Assumere decisioni in termini di impegni ambiziosi di riduzionedelle emissioni, per contenere il riscaldamento dell’atmosferaterreste entro i 2°C secondo l’indicazione della comunità scienti-fica internazionale che, da tempo, ci allarma sul rischio di even-ti climatici estremi irrimediabili e irreversibili, è la via non sol-tanto per salvare il Pianeta e con esso gli esseri viventi, ma perinnescare una trasformazione culturale, produttiva, economica esociale radicale e senza precedenti. Basti pensare che l’obiettivo assunto dal Parlamento europeo conla Roadmap aggiornata al 2050 di ridurre le emissioni del 40%(Roadmap 2050) in tutti i settori, per quanto si attesti a pocopiù della metà di quanto sarebbe necessario, se perseguito con-cretamente, può rappresentare quella che in molti definiscono la

terza rivoluzione industriale, rispettivamente dopo quelle ricon-ducibili all’avvento della macchina a vapore e alla elettricità pro-dotta con l’utilizzo delle fonti fossili.Ridurre le emissioni ha questa valenza. Le sollecitazioni a livellointernazionale in vista di COP21 insistono sulla richiesta di cambia-mento radicale nello sviluppo, verso quella sostenibilità che nean-che gli esiti ufficiali deludenti nel 2012 di Rio+20, hanno placato. Più in particolare, la richiesta si concentra sulla necessità diridurre l’intensità energetica della manifattura, nei servizi e neiconsumi quotidiani, proponendosi la realizzazione di tecnologiedi produzione dell’energia senza utilizzo di combustibili fossili,ma ricorrendo a fonti energetiche rinnovabili, risultate menoimpattanti per l’ambiente. In questa prospettiva, se la crisi può rappresentare la fine diun’era economica e, nello stesso tempo, l’occasione per il pas-saggio a un nuovo sviluppo più sostenibile, le istanze della politi-ca delle donne sono più che attuali per rimettere la vita alla radi-ce dell’economia, la vita con i suoi bisogni e le sue aspirazioni.Per chi, cosa e come produrre, con quali tecnologie, per qualiconsumi, attraverso quale lavoro e per quale livello di redistribu-zione e riconoscimento della ricchezza prodotta e disponibile,sono istanze che investono la convivenza sociale e le scelte poli-tiche, a livello locale e globale.In ultima analisi e a prescindere dall’esito dei negoziati di COP21,che auspichiamo positivi, qui e ora, mettersi al livello dell’amorefemminile per l’ecologia è l’occasione inedita aperta, di cui pos-siamo farci protagonisti e protagoniste a tutti i livelli, in sintoniacon la vita che ci capita di vivere, scommettendo politicamenteper un presente e un futuro più sensato per l’intera umanità.

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Sguardi e traguardi

Il Counseling di gruppo per donne in bilico tralavoro, affetti e spazi personali, alla ricercadel benessere Da sempre le donne sono riuscite a cavarsela nel portare avantilavoro e impegni familiari, ma con dei notevoli costi in termini difatica fisica ed emotiva e, spesso, con delle rinunce sul pianodella propria autorealizzazione. Per capire la natura dei difficili equilibri che le donne si trovanoa gestire partiamo da quello che le donne vogliono e dal conte-sto in cui si trovano oggi a perseguire i propri desideri. Quello che le donne che incontriamo ci dicono di volere sonocose apparentemente semplici, diciamo“sacrosante” eppure cosìdifficili da tenere insieme: fare un lavoro che le appassioni, farecarriera; stare bene con i figli, i genitori, gli amici, la coppia;dare spazio agli interessi: nutrire il corpo e l’anima sentirsi citta-dine del mondo; entrare in relazione con persone nuove. Non è da molto che le donne possono interrogarsi su cosa vogliono,cosa dà loro piacere, senza fare i conti con degli obblighi socia-li normati e vincolanti. Ovviamente stiamo parlando di quella

parte del mondo dove alcuni diritti fondamentali sono stati rag-giunti: diritto all’autonomia economica, diritto alla partecipazionepolitica, diritto di famiglia.Le donne dimostrano di essere capaci, diciamo brave a trovaresoluzioni creative che consentano di integrare lavoro, affetti espazi per sè, ma questo equilibrio, oltre a essere difficile da rag-giungere, è sempre in bilico e precario a fronte dei cambiamentieconomici e sociali: lavoro in diminuzione e malpagato, servizisociali costosi, difficoltà a trovare care givers affidabili. Gli stereotipi sono durissimi a morire. Anche se razionalmentedonne e uomini sono convinti, in buona sostanza, della necessitàdi una parità di genere e il quadro normativo si muove in quelladirezione, il cambiamento culturale richiede a ciascuno di noi unlavoro molto più profondo per fare i conti con permessi e divietiche abbiamo interiorizzato da “piccole”. Inoltre, società e media da una parte ci offrono l’immagine di unadonna onnipotente “wonderwoman”, dall’altra ripropongono larichiesta atavica di proteggere e custodire le relazioni familiari,occuparsi di figli e genitori anziani. A questo aggiungiamo che le donne sono impegnate a crearemodelli di successo per sé e per le nuove generazioni, con un saltoimportante rispetto ai modelli consegnati da nonne e mamme del‘900. Le donne di oggi non accettano più, come è stato appunto nelsecolo scorso, di dover scegliere tra carriera e famiglia. Vogliono il pane. E le rose. Ogni caso di successo è ancora presentato come un fatto stra-ordinario, appunto, poco raggiungibile se non per eccezione, pen-siamo all’Astronauta Samantha Cristoforetti o alla Direttrice delCERN Fabiola Gianotti. Il messaggio che arriva dalla società èspesso quello di portar pazienza e accontentarsi. Di recente, ilCEO di Microsoft, Satya Nadella, ha invitato le sue collaboratricia non chiedere l’aumento “fidatevi del sistema: così seminereteun buon karma e avrete la giusta ricompensa”! Alla base dell’insoddisfazione e delle delusioni che le donne sitrovano a fronteggiare ci sono dunque aspettative non concretiz-zate e desideri non realizzabili. Come reagiscono le donne? Strin-gono i denti e ci provano. Con qualche costo… Naturalmente si sovraccaricano nel tentativo di dimostrare a sestesse e agli altri che ce la possono fare. Questo genera stanchezza cronica, insoddisfazione, sensi di colpae malesseri fisici: cervicale, mal di schiena coliti, etc. La maggior parte non pensano di chiedere aiuto, nascondono leproprie difficoltà e disagio quasi come una colpa, non si confron-tano, in una sfida con se stesse. Naturalmente a farne le spesesono gli spazi personali dai più banali (parrucchiere, palestra,nutrirsi bene) alle passioni sepolte nel cassetto. Si riducono le occasioni di coltivare relazioni autentiche enutrienti e si produce invece perdita di entusiasmo e poca dispo-nibilità a cose nuove, perché tutto diventa fatica. Le stesse cosepossiamo dire succedono anche agli uomini, ma il carico emotivoè diverso proprio perché per la donna è tutto scontato, un uomosi sente più libero di scegliere. Queste riflessioni ci aiutano a comprendere in quale contesto ilcounseling di gruppo può essere di supporto nella ricerca di unbenessere migliore. Le condizioni sociali ed economiche in cui le donne si trovano aoperare costituiscono dei fattori oggettivi, dei dati di realtà concui confrontarsi, ma spesso non sono nel nostro raggio di azione

Di Marina Sangalli e Cristina Tegon

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diretto. Pensiamo al livello dell’ occupazione femminile (46%,ben lontano dal traguardo stabilito dell’UE al 60%-Trattato diLisbona 2007 per Europa 2020), alla lenta diffusione di politichedi flessibilità e alla distribuzione ancora non equa del lavoro dicura tra uomini e donne (su 15 ore medie di attività giornaliera,secondo l’Istat, le donne ne dedicano più di 8 a casa/cura controi 5 degli uomini). Esistono però delle dimensioni soggettive che producono comporta-menti di auto-limitazione e che sono figlie di quegli stereotipi cul-turali e dei condizionamenti familiari che, nostro malgrado, abbia-mo introiettato e che ci condizionano seppur inconsapevolmente. Può ad esempio succedere che una donna faccia molta fatica adaccettare che il marito inoccupato si dedichi alla gestione dellacasa e dei figli, si senta al tempo stesso sollevata e in colpa per-ché sente minacciata la propria identità di “custode delle rela-zioni familiari”. Il carico dei condizionamenti culturali produce aspettative di faretutto e bene, difficoltà a farsi valere e farsi avanti, rinuncia aprogettare, a osare perché la sensazione è che le condizioni sianotroppo difficili e i costi troppo alti. Su queste dimensioni è possibile intervenire mettendosi in gioco,in un percorso di cambiamento personale grazie al confronto conle esperienze di altre donne. Proprio per creare uno spazio possi-bile di cambiamento, abbiamo progettato un percorso di counse-ling di gruppo per “donne in bilico” o meglio donne alla ricerca diun nuovo equilibrio creativo tra bisogni/desideri e dato di realtà. Vediamo cos’è il counseling e come può facilitare il cambiamento.Il counseling è una nuova professione che si è diffusa in Italia e inEuropa a partire dalla fine degli anni ’90, potendo contare su unalunga tradizione professionale sviluppatasi nei paesi anglo-sassoni. Secondo la definizione dell’associazione di categoria Assocounse-ling: “Il counseling professionale è un’attività il cui obiettivo è ilmiglioramento della qualità di vita del cliente, sostenendo i suoipunti di forza e le sue capacità di autodeterminazione. Il counselingoffre uno spazio di ascolto e di riflessione, nel quale esplorare dif-ficoltà relative a processi evolutivi, fasi di transizione e stati di crisie rinforzare capacità di scelta o di cambiamento. È un interventoche utilizza varie metodologie mutuate da diversi orientamenti teo-rici. Si rivolge al singolo, alle famiglie, a gruppi e istituzioni”. Il counseling consente quindi di affrontare le proprie difficoltà,uscire dalla confusione e dallo scoraggiamento e aumentare laconsapevolezza delle risorse che abbiamo a disposizione per tro-vare nuove strade e nuove possibilità. Nel counseling di gruppo,attraverso l’ascolto di sé e delle compagne di viaggio, in unambiente “protetto”, è possibile sperimentare relazioni autenti-che e nutrienti. Per questo io e Cristina, counselor e amiche da 25 anni, abbiamopensato di mettere insieme i nostri diversi approcci metodologi-ci, per dare vita a un percorso di counseling per donne, a cuiabbiamo dato il nome di Donne in Rete, per sottolineare l’impor-tanza della relazione tra donne, relazione che da sempre ha per-messo a noi donne di sostenerci a vicenda nella condivisione dellavita familiare e lavorativa, relazione che negli ultimi decenni,con l’evoluzione sociale di cui parlavamo, si è spesso interrotta. La vita comunitaria tra donne, presente in tutte le civiltà, è sem-pre stata caratterizzata da momenti di racconto, momenti diinsegnamento tra differenti generazioni, momenti di sostegno emomenti ludici. La condivisione del proprio vissuto e delle pro-prie fragilità permette di scoprire e sviluppare potenzialità ecreatività attraverso risorse personali, ritrovando l’entusiasmo ela forza per affrontare nuovi orizzonti. A partire dai nostri modelli di riferimento – Analisi Transazionale eGestalt – che hanno in comune una visione di base positiva sullepotenzialità e le risorse che ciascuno di noi può attivare per miglio-rare la qualità della propria vita, facciamo avvicinare le parteci-panti alla dimensione creativa che permette di sentire bisogni ed

emozioni, provare piacere e rimettere in circolo energia. Diamo strumenti per rimettere in discussione i comportamentiautomatici e rinforzare l’autonomia decisionale. Sperimentiamoquali ostacoli e quali risorse mettiamo in campo per il cambia-mento. Le energie “liberate” possono essere messe a disposizio-ne per trovare le soluzioni più adatte a soddisfare i propri bisogniin sintonia con i propri valori. È possibile quindi decidere in chedirezione vogliamo muoverci (crescita personale, professionale oarea affettiva) e dare forma ad un progetto di cambiamento, pic-colo o grande che esso sia. Le donne scoprono che hanno bisogno di occuparsi dei loro desi-deri, mettono in discussione spazi e tempi. Sono alla ricerca di un tempo armonioso e corrispondente alleloro esigenze. Lo scambio con altre donne in difficoltà insegna aspecchiarsi nei problemi delle altre anche se molto diversi, a nonsentirsi isolate e a prendere il coraggio per rendere il cambia-mento possibile. Il progetto è partito nel 2013 e vuole crescere perrendere la “rete” sempre più ampia e solidale.Chi volesse entrare a farne parte sarà la benvenuta.(www.facebook.com/counselingdonneinrete).

Marina Sangalli, supervisor counselor a indirizzo analitico-transa-zionale. Dopo 15 anni di esperienza in azienda come ResponsabileFormazione e Sviluppo, dal 2001 opera come counselor per lo svilup-po e la riprogettazione professionale per singoli individui e gruppi siadel settore profit che nonprofit. È attiva come maternity coach asupporto della conciliazione fra vita personale e [email protected]

Cristina Tegon, professional counselor a indirizzo gestaltico. Dopouna lunga esperienza nel campo tecnico-aziendale con ruolo di TeamLeader, si dedica alle professioni d’aiuto. Esperta di terapia corporea,diplomata in Shiatsu e in massoterapia. È docente in più scuole diformazione professionale in counseling. Per approfondire: “Le buone pratiche del counseling” Franco Angeli2015 (pagg.25-44)

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Dal boom economico alle battaglie per i diritti civili, dai movi-menti studenteschi del ‘68 agli scandali e ai misteri d’Italia, dallanostra politica a quella internazionale tra guerre e muri abbattu-ti, la storia nazionale e internazionale è stata protagonista in unagrande mostra che si è tenuta a Roma, al Complesso del Vittoria-no, dal titolo “La nostra storia. 60 anni dell’Italia e del mondoattraverso le fotografie dell’Espresso”, che ha festeggiato i 60anni della celebre testata. Una mostra divisa in 10 sezioni, corre-date da oltre 400 scatti storici, selezionati dal vastissimo archiviodell’Espresso, oggi diretto da Luigi Vicinanza e fondato a Roma il2 ottobre 1955 da Arrigo Benedetti, Eugenio Scalfari e un piccologruppo di giornalisti. Benedetti e Scalfari sognavano un quotidia-no ma dovettero optare per un più economico settimanale. Ilsogno del quotidiano si realizzerà 20 anni dopo con La Repubbli-ca, il cui primo numero esce il 14 gennaio 1976. Il viaggio attraverso i 60 anni dell’Espresso comincia con la sezio-ne “C’era una volta il boom” che restituisce con immediatezza ilclima degli anni ‘50, quando è nata la rivista, gli anni del miraco-lo economico e della Guerra Fredda. L’Espresso in quegli anni rac-conta, anche attraverso i servizi della storica firma e inviata,Camilla Cederna, quello che succede alla Scala, nei salotti della

capitale del Boom, entra nelle case dei notabili della Dc e raccon-ta “come cambiano le donne”. Sono gli anni degli impiantid’avanguardia della Olivetti di Ivrea (forse non un caso che Adria-no Olivetti fu nel 1955 tra i primissimi finanziatori del progetto“Espresso”), di Mike Bongiorno che conduce in tv “Lascia o Rad-doppia”. Oltre che di progresso, sono anche gli anni dei fenome-ni dell’immigrazione che attraversa il paese da Sud a Nord (nellefoto della mostra, gli emigranti alla stazione di Milano centralesiamo noi). Memorabile in quegli anni, e pubblicata nel 1959, l’in-chiesta a puntate dal titolo “L’Africa in casa”, alla quale parteci-pano diverse firme del giornale, che raccontano senza mezzi ter-mini le condizioni di miseria del Mezzogiorno. Le immagini inmostra ci fanno ricordare come negli anni del boom nei Sassi diMatera ci vivevano intere famiglie, ritraggono inoltre bambiniscalzi, braccianti e raccoglitrici di olive.Ma l’inchiesta più sorprendente, datata dicembre 1955, è intito-lata “Capitale corrotta = nazione infetta”. Un titolo che potreb-be essere ripreso quasi letteralmente dalla copertina dell’Espres-so in edicola in questi giorni. L’autore di allora Manlio Cancognisvela la devastazione di Roma attraverso le speculazioni ediliziee gli intrecci tra costruttori e politici. Protagonisti di quegli annianche i trasporti documentati dalle immagini in mostra dei lavo-ri dell’autostrada del Sole, degli operai che scavano gli ultimimetri del traforo del monte Bianco che unisce Italia e Francia edanche le immagini del “Golden Dophin” che, costruito in un unicoesemplare alle officine Viberti di Torino, sarebbe dovuto diventa-re l’autobus del futuro in grado di toccare i 200 km orari. Rimaseun esemplare unico.Si prosegue con “Cadono i muri”, sezione dedicata alle vicende,seguite negli anni da L’Espresso, dei vari muri, edificati e crolla-ti, a partire dal 13 agosto 1961 quando il mondo si svegliò con ilmuro di Berlino.

“La rabbia, la rivolta, il piombo” è il tito-lo della sezione che mostra le copertinedel settimanale con le prime avvisagliedella contestazione studentesca del ‘68, leprese di posizione di Pasolini su studenti epolizia, le lotte sindacali e dagli Usa arri-vano sia il dramma della guerra nel Viet-nam sia la pace dei figli dei fiori. Colpiscela copertina del gennaio 1968 con un sol-dato americano ferito in Vietnam, appog-giato a un albero con l’elmetto a terra el’orrore impresso nel volto. In questasezione è documentato anche il piombo ele bombe di Piazza Fontana fino al seque-stro ed assassinio di Aldo Moro che, secon-do il settimanale, segna l’inizio dell’inevi-tabile declino della Prima Repubblica.Sempre in questa sezione, pensando allastoria della Cgil, troviamo anche la foto diBerlinguer alla manifestazione dei metal-meccanici contro i tagli alla scala mobile.Una foto che rievoca i giorni, anzi il giornodi San Valentino del 1984, quando il gover-no di Bettino Craxi, con il sostegno di Cisl

60 anni di giornalismo e di storiadi Guido Barcucci

L’Espresso ha compiuto 60 anni e questa ricor-renza è stata l’occasione per celebrare, a Roma,la storica rivista fondata da Arrigo Benedetti edEugenio Scalfari con una mostra corredata daoltre 400 scatti. Una mostra che abbiamo visita-to e che ha rappresentato un viaggio nellastoria dell’Italia e del mondo degli ultimi anni.

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e Uil e l’opposizione della Cgil, aveva varato il decreto legge chetagliava tre punti della scala mobile, bloccando per tre mesiprezzi, tariffe e lo scatto dell’equo canone per le case in affitto.Quello di San Valentino fu il primo vero naufragio dell’unità sin-dacale con ripercussioni anche sulla sinistra. “Per più diritti civili” è una delle sezioni più significative della sto-ria dell’Espresso, con in mostra una delle più celebri copertine,datata 19 gennaio 1975, che ritrae una donna incinta nuda ed incroce con il titolo “Aborto: Una tragedia italiana”. È una foto veracon una modella che ha posato nuda e incinta. Una provocazione asostegno della campagna di depenalizzazione dell’aborto nelnostro paese. Il giornale si schiera apertamente e il suo direttoredell’epoca Livio Zanetti, insieme a Marco Pannella, leader dei radi-cali, presentano in cassazione nel 1975 la richiesta di referendumabrogativo degli articoli del codice penale che puniscono l’aborto.Fu l’avvio del percorso che tre anni dopo portò all’approvazionedella legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza. Attra-versando questa sezione si comprende come le battaglie civili sonostate sin dall’inizio parte dell’identità dell’Espresso che si è battu-to con immagini e inchieste a favore del divorzio, per il riconosci-mento dell’obiezione di coscienza, per lo smantellamento degliospedali psichiatrici, contro la censura, la discriminazione degliomosessuali, fino alla copertina più recente del barcone stracolmodi profughi che scappano da guerre e persecuzioni.A metà del percorso della mostra si arriva agli “Scandali e miste-ri d’Italia” che affollano le cronache dei giornali e dell’Espresso,dai delitti di mafia alle bombe sui treni Rapido 904 e Italicus,dalla bomba di Piazza Fontana all’assassinio Calabresi a Sindona,

da Gelli alla morte del banchiere Calvi. La strage di Bologna, latragedia di Ustica, l’attentato a Giovanni Paolo II aprono gli anni‘80. Nei sessant’anni della sua storia, L’Espresso come politicaeditoriale ha sempre cercato di dare, attraverso gli articoli, ilproprio contributo a cercare di fare luce su misteri, stragi e com-plotti. È stata l’inchiesta di Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi asvelare il piano di golpe del generale De Lorenzo che, nell’estatedel 1964, ha minacciato il governo di centro sinistra guidato daAldo Moro. La tiratura superò le 100 mila copie.Indagini di buon giornalismo protagoniste anche della sezione“Mafia”, da quelle su Cosa Nostra e sui tanti omicidi tristementefamosi come le stragi di Capaci e Via D’Amelio, fino ad arrivaredalla Sicilia alla Lombardia seguendo le piste del riciclaggiomafioso con il coinvolgimento di Dell’Utri e Berlusconi. Nel solcodella tradizione sono le inchieste attuali di Lirio Abbate, autore-vole firma della rivista, attualmente sotto scorta, che hanno con-tribuito a scoperchiare il caso Roma Capitale. Il declino della Prima Repubblica, iniziato tra la fine degli anni‘70, trova la sua conclusione negli anni ‘90 ed è raccontato nellasezione “Da mani pulite all’antipolitica”. “È la caporetto di unintero sistema. È l’impeachment di una parte rilevante della clas-se dirigente sia politica sia imprenditoriale, prosperata per anni,per decenni, all’insegna dell’illegalità e degli abusi”. Così raccon-tava i primi arresti di Tangentopoli il direttore negli anni ‘90,Claudio Rinaldi. In copertina di quegli anni ci finisce il pm di ManiPulite, Antonio di Pietro con titoli come “Due, tre, cento Di Pie-tro” e “Grazie”. Si inizia ad affacciare in politica Silvio Berlusco-ni, ancora presidente Fininvest e sempre Rinaldi coglie la suanatura descrivendolo nel 1993 così: “Sua Emittenza, come ilpadreterno del vecchio catechismo, è in cielo, in terra e in ogniluogo. Così ama presentarsi il potere berlusconiano: imperiale ediscreto, duro e candido, spietato e amichevole. Un fenomenoraro anzi unico. Quello di Berlusconi è uno dei poteri più diaboli-camente intrusivi che si siano mai conosciuti”. Sulle pagine delgiornale appare in quegli anni la foto di Berlusconi ritratto con ilrevolver sulla scrivania agli inizi della sua carriera. Berlusconinella storia dell’Espresso sarà anche protagonista a fine anni ‘80della cosiddetta guerra di Segrate, in occasione della cessionedelle quote della rivista a Carlo De Benedetti che porta il gruppoin dote alla Mondadori di cui è socio e di cui aspira a diventareazionista di riferimento. Il progetto trova l’opposizione di Berlu-sconi. La pace è raggiunta tra i due contendenti con la divisionedella casa editrice che rimane al cavaliere, dal gruppo editorialeL’Espresso che comprende anche La Repubblica.Nella penultima sezione “Salvare il pianeta” si fanno più pressan-ti, nella linea editoriale più recente dell’Espresso, le tematicheambientali e i giornalisti della testata, in particolare FabrizioGatti, nel solco della tradizione delle inchieste della rivista, s’in-filtrano tra i trafficanti che accompagnano le migrazioni lungo ildeserto e il mare, attraversano i fronti della guerra e raccontanolo squilibrio del pianeta terra, caratterizzato da ampie zone dipovertà estrema. Il viaggio nei 60 anni dell’Espresso arriva fino all’ultimo decen-nio quando, riprendendo il titolo dell’ultima sezione, “Il Terro-re cambia il mondo”. Sono gli anni segnati da terrorismo, guer-re e immigrazione. Sono raccontati gli attentati dell’11 settem-bre 2001, gli attentati successivi di Madrid, Londra fino a quel-lo di Parigi alla redazione della rivista satirica di Charlie Hedbo(rimane impressa, tra quelle più recenti, la copertina con l’im-magine della scrivania insanguinata) e inoltre le azioni terrori-stiche di Al Qaeda e dell’Isis. 60 anni raccontati, com’è ricorda-to da un lungo elenco alla fine della mostra, da un esercito di“grandi firme” (da Moravia a Sartre, da Scalfari a Eco, da Cala-mandrei a Calvino, da Bocca a Saviano fino a Parise), ma anchedalle tavole di Altan o Pericoli.

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Il film che segnalo questa volta – da fine ottobre in proiezionenei cinema in Italia – è La legge del mercato: si tratta di un filmdi produzione francese, che il regista Stephane Brizé ha volutogirare senza grande dispendio di mezzi, in presa diretta con larealtà che ha inteso rappresentare: il mondo della gente sem-plice alle prese con la crisi, la disoccupazione, la difficoltà quo-tidiana di sbarcare il lunario, l’oggettiva crescente debolezzanei confronti delle necessità del mercato. Per questa ragione siè avvalso della recitazione di un solo – ancorché assai noto –attore professionista, Vincent Lindon, mentre le altre parti sonoimpersonate da persone reclutate nel mondo stesso che è rap-presentato. Lindon, tuttavia, non mostra alcuna difficoltà nelrecitare con non professionisti. Anzi, ci dona un’interpretazionefra le sue più intense, che gli è valsa la Palma d’oro per lamigliore interpretazione maschile al recente Festival di Cannes.Nel film, Lindon interpreta Thierry, un uomo di 51 anni,

disoccupato daventi mesi – inseguito alla chiusuradella fabbrica nellaquale lavorava – conmoglie e figlio disa-bile cui badare.Sopravvive con unassegno di disoccu-pazione, mentre haun mutuo da pagaree corre il rischio diperdere la casadove vive, frutto diuna vita di lavoro.Affronta colloqui,frequenta corsi perimparare come ci sipresenta meglio perriuscire a essereassunti, cerca di vendere l’amata casetta di legno che ha al mare.Non si scoraggia, mantiene la calma. In famiglia è molto dolce enon si sfoga mai.Infine, trova un lavoro come addetto alla sicurezza in un grandemagazzino. Deve controllare che nessuno rubi. Thierry è una per-sona integra, che – malgrado le difficoltà economiche che ha dovu-to affrontare – è rimasto saldo nella sua dirittura morale. Dunquedisapprova chi invece ruba. La regola è che chi è scoperto la primavolta, se si fa identificare e paga quanto sottratto, non è denuncia-to. Scopre prima un giovane probabilmente uso al taccheggio.Fin qui nessun problema. Poi un pensionato che non è in gradodi pagare. E qui qualche problema emotivo potrebbe esserci.Ma Thierry tira diritto.Successivamente, però, ad incappare nella sorveglianza è unacassiera che lavora da venti anni in quel supermercato: è scoper-ta a sottrarre dei buoni sconto. Viene licenziata. Ha un figlio chesi droga. Non ce la fa a sopportare l’umiliazione: va a suicidarsiproprio nel supermercato. Thierry continua a lavorare in silenzio.Grazie al suo lavoro ottiene un prestito dalla banca per cambiarela sua vecchia auto, che si è definitivamente fermata.Poi è scoperta un’altra cassiera che cerca di accumulare indebi-tamente punti su quei clienti che non usano la carta fedeltà…Il film è singolarmente asciutto. Non vi sono sfoghi emotivi.I sentimenti sembrano celati dietro una cortina di vergogna.I protagonisti, travolti dalla legge del mercato, non protestano, sof-frono in silenzio, tengono anzitutto a difendere la propria dignità.Sono resi più impotenti dalla crisi. Ciascuno affronta da solo il pro-prio dolore quotidiano, la propria coscienza, i propri dilemmi mora-li. Magari solidarizza anche con chi gli sta vicino. Ma resta solo.Un film così vicino alla vita quotidiana di milioni di persone nonvuole né può fornire risposte: la legge del mercato non è analiz-zata ma solo rappresentata attraverso i suoi danni collaterali.Può solo – e certo non è poco – indurci a riflettere.

La legge del mercato ei suoi danni collaterali di Osvaldo Cisternino

La legge del mercato(Francia 2015)

Regia di Stephane Brizé.Con Vincent Lindon, Karine de Mirbeck, MatthieuSchaller, Yves Ory, Xavier Mathieu. Drammatico,

colore, 92 min.

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Illuminate dalla luce direzionale del proprio bancone da lavoro gio-vani mani tagliano con cura, piallano con determinazione, limanocon precisione, intagliano con accuratezza, verniciano delicata-mente, scrutano con attenzione, accarezzano con dolcezza quellapersonale creatura che, a poco a poco, prende forma dalla lavora-zione e dall’assemblaggio di legni diversi e che un giorno avrà pureil dono della “parola” sotto forma di suono melodico. Non è la bottega di Mastro Geppetto né il laboratorio di giovaniFrankenstein. È la Scuola Internazionale di Liuteria, l’Istituto di IstruzioneSuperiore “Antonio Stradivari” di Cremona dove circa 180 allieviprovenienti da tutta Italia e da varie parti del Mondo, sotto l’at-tenta guida di Maestri Liutai, acquisiscono l’arte di costruire glistrumenti ad arco – viole, violoncelli e violini - che hanno reso laCittà del Torrazzo famosa ovunque, grazie alle storiche dinastiefamiliari di abili artigiani artisti del legno – Amati, Guarneri,Stradivari, Rugeri, Bergonzi – che hanno messo a disposizione diillustri compositori, virtuosi interpreti e orchestre di ogni tipostrumenti musicali sublimi. E proprio il loro suono affascina e seduce da oltre cinquecentoanni il pubblico di ogni genere e specie, dalle sale da concertoalle chiese, dalle corti nobiliari ai teatri del mondo intero.

Un suono che trova corpo nella scelta accurata dei materiali -primo fra tutti l’abete rosso della Val di Fiemme in Trentino AltoAdige – e nella riproduzione di forme, curve e dimensioni “codi-ficate” da secoli di esperienza, maturate prima e tramandateoggi nelle circa 160 botteghe artigiane diffuse nel cuore storicodella città e che hanno elevato la produzione cremonese al disopra di ogni altra.Segni impercettibili a occhi ignari “firmano” ogni singolo pezzo:la raffinatezza di un intarsio, la curvatura di un “ricciolo”, l’al-chimia di una colorazione sono l’impronta incontrovertibile chericonduce un violino, una viola, un violoncello al suo creatore eal suo stile personale. Nelle circa 220 ore di lavoro che servono per costruire un violino,il maestro liutaio trasferisce ogni volta piccole dosi del propriotalento e della propria anima, consegnando nelle mani del musi-cista un oggetto vivo che, tramite le sue dita, trasforma il suonoin emozione. Nella sinergia che lega liutaio e musicista risiede la combinazio-ne ideale in grado di esaltare le caratteristiche sonore dello stru-mento musicale che è costruito, modellato e modulato seguendola conformazione fisica e le attitudini motorie di chi poi lo impu-gnerà. Una perfetta simbiosi fatta di impercettibili aggiustamenti

“L’arte di far instrumenti…”

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e adattamenti che nessuna produzioneindustriale – la cui serialità ed economici-tà di scala ha comunque permesso l’ap-prendimento diffuso della musica - potràmai lontanamente eguagliare. La salvaguardia di standard qualitativi cosìelevati e peculiari che hanno contraddi-stinto per secoli la produzione strumenti-stica cremonese e che ancora oggi utilizzagli stessi metodi tradizionali delle origini,per quanto inevitabilmente supportatianche da ciò che le moderne tecnologiemettono a disposizione, coniugata allanecessità di far fronte alle leggi economi-che di un mercato mondiale globalizzato,ha favorito la nascita di nuove formuleorganizzative fra gli artigiani cittadini,confluite nella fondazione del “ConsorzioLiutai Antonio Stradivari Cremona”(www.cremonaviolins.com). Per tutelare e promuovere la loro abilità inepoca di diffuse contraffazioni e di concor-renza sleale (sapevate che in Cina è sortavicino a Pechino una città di nome Cremo-na dove producono violini? da Il Sole 24Ore Lombardia, settembre 2011) è statocreato il marchio “CREMONA LIUTERIE”, registrato internazional-mente in oltre 40 Paesi nel Mondo, che garantisce e certifica lacostruzione artigianale dello strumento a cura di un maestro liu-taio professionista cremonese. A dimostrazione di quanto spirito di collaborazione e passione perla liuteria uniscano e animino i membri del Consorzio, è statamessa in atto una singolare iniziativa che vede 17 Maestri Liutaialternarsi quotidianamente, nelle vetrine dell’associazione nellacentralissima Piazza Stradivari, alla fabbricazione di un “quartet-to d’archi”: le singole capacità costruttive e la personale indivi-dualità di ogni liutaio si fondono in un progetto collettivo straor-dinario che ne testimonia l’abilità costruttiva e interpretativa. Ma nella capitale mondiale della liuteria non poteva mancare un

luogo dove conservare e mostrare al mondo il frutto secolare ditante testimonianze storiche e artistiche. Il Museo del Violino (www.museodelviolino.org) è oggi ospitato inun edificio figlio dell’architettura razionalista del ventenniofascista che, opportunamente restaurato e riadattato, custodiscecome in uno scrigno strumenti dal valore inestimabile. Qui si pos-sono ammirare i capolavori dei grandi Maestri Liutai del passato:le opere di Stradivari, Amati, Guarneri del Gesù e di tanti altriche hanno reso famosa la liuteria cremonese, sono avvolte nellesuggestive atmosfere delle sale espositive lungo percorsi guidatie installazioni multimediali che offrono informazioni storiche eattività didattiche interattive per ogni età. Se vedere non basta, è possibile lasciarsi ammaliare dal suono di

questi strumenti nel corso di audizionipubbliche all’interno del fantastico eavveniristico Auditorium “Giovanni Arvedi”progettato dagli architetti Palù e Bianchicon il contributo dell’ingegner YasuhisaToyota per l’ottimizzazione acustica.Rivedo nella mente le agili mani operose dichi ha scelto di dedicare la propria vita aun’attività così complessa e intrisa di bel-lezza. Ripenso a quegli studenti apprendi-sti liutai che, oltre al piacere e alla faticadi un’attività manuale, accolgono consa-pevolmente l’onere e l’onore di perpetua-re nel tempo e nel mondo l’arte sopraffinadella liuteria cremonese. Chissà che tra diloro non si celi, come già è avvenuto inpassato, un nuovo protagonista capace diregalare a futuri musicisti e alla platea deiloro ascoltatori il prodotto della propriagenialità, un piccolo e modesto concentra-to di storia, tradizione, conoscenza esapienza in grado di consentire al semplicesfregamento di un archetto su una corda diconvertirsi in un insieme di calde, intensee trepidanti vibrazioni emotive.

© testo e fotografie di Franco Mammana

Con questo numero, NOSTOP compie 20 anni. Nasce perun’intuizione di Franco Giuffrida, allora Segretario Genera-le della Filt Lombardia ed è uscito sino a oggi grazie alla col-laborazione di molti, ma sapendo che senza l’impegno e lapassione di Vittoria Scordo non potremmo oggi scriverne.NOSTOP è nato come periodico della Filt Lombardia, ma daottobre 2012 è diventato periodico della Filt nazionale. Così come per un libro, è il lettore, più che l’opinione delloscrittore, che ne dà un giudizio ed anche un’interpretazione.Noi pensiamo che NOSTOP appartenga anzitutto a chi, inquesti anni, ci ha accompagnato nella sua lettura.Le scelte degli articoli, condivisibili o meno, che si sia riu-sciti nell’intento o meno, hanno sempre guardato a un campopiù largo dei trasporti e del sindacato in generale. Sapendo che l’uscita periodica non consente di raccontare ognifatto e con tempestività, abbiamo selezionato sempre quelliche avevano una rilevanza maggiore, ma soprattutto abbiamocercato di analizzare i temi che andavano aldilà del quotidiano. Analizzare, riflettere, avere una pluralità di opinioni, com-porre un mosaico di idee.Il cuore di NOSTOP resta la nostra azione sindacale, ma vis-suta come una parte che va esplorata all’interno di quanto simuove nella società. Niente pan sindacalismo, niente autar-chia intellettuale, niente autoreferenzialità. Almeno questonelle nostre intenzioni. Questo numero ne è l’ennesima conferma: la ricerca di con-tributi esterni alla Filt che aprano uno sguardo ad altre rifles-sioni è la costante di questi anni. Abbiamo privilegiato lamodalità del confronto non solo all’interno del variegatomondo sindacale, ma dando spazio a controparti datoriali,imprenditori, politici, economisti, sociologi, docenti univer-sitari, esperti di diritto del lavoro, ricercatori, personalità delmondo della cultura e della società civile. I contributi, tuttigratuiti, sono sempre stati scritti per noi e non ripresi da arti-coli già pubblicati. Consegniamo ai lettori la sempre più difficile disponibilitàalla scrittura. E forse alla lettura.Un periodico che, pur avendo avuto negli anni un’evoluzionegrafica e scelte stilistiche adeguate alla nostra voglia di offrireun prodotto anche gradevole da sfogliare, resta in controten-denza in anni di twittismo imperante. E il termine twittismo dàla dimensione di come si possa ormai creare il nulla spaccian-dolo per originalità. Convinti, però, che temi oggetto di rifles-sione non possano essere condensati in 140 o 500 caratteri.

Resta, tra le “originalità” di NOSTOP, la scelta di avere inogni numero fotografie non tratte da archivi, ma scelte espesso realizzate appositamente per noi. Franco Mammanaci accompagna in un viaggio immaginario dal forte potereevocativo, con foto di notevole livello artistico e indubbiovalore documentale. Sono reportage da ogni parte delmondo, scatti d’autore che suscitano emozione e meraviglia. Sin dal primo numero, abbiamo scelto di dedicare uno spazioai temi di genere: “Sguardi e Traguardi” è proprio il punto divista delle donne e le loro multiformi esperienze, conoscenze,relazioni. Spazio prezioso di parola e pensiero femminile.“Il tempo è adesso” è stato il titolo del primo editoriale di

NOSTOP, a maggio 1995. E il tempo è adesso ci ripetiamotutte le volte che prepariamo un nuovo numero. Siamo arri-vati a 88, oltre a 5 Numeri speciali e a 9 Quaderni. Cercan-do il fatto da approfondire, l’analisi sui temi attinenti i tra-sporti, ma anche quelli di interesse politico, economico,sociale, ambientale, culturale.NOSTOP ha insito nel nome una scelta: parlare di movimen-ti di persone e cose, di scambi di idee, di percorsi versole innovazioni, di itinerari di ricerca, di barriere fisiche eideologiche da superare.Dal 1995 siamo cresciuti. Abbiamo raccolto e condiviso,segnalato e sottolineato, con determinazione ed entusiasmo,gli umori di un settore, quello dei trasporti, ricco di valorisaldi e tensioni vive, aprendoci poi, sempre più al mondofuori di noi. Abbiamo ricordato i primi 10 anni di NOSTOP con unatavola rotonda in occasione dell’VIII Congresso della FiltLombardia, il 18 febbraio 2006. Gli atti sono stati pubblica-ti sul n. 7 de “I Quaderni di NOSTOP”, consultabile sul sitodella FILT.Alcune parole-chiave hanno accompagnato il nostro percorso:diritti, valori, cambiamento, memoria, utopia, sogno, passione,amore. Ciascuno dei nostri lettori avrà avuto modo di ritro-varli nelle pagine di questi anni.Nel panorama sindacale è raro che una rivista resista allanaturale stanchezza delle persone e delle idee. Di questodovremo tenerne conto nel futuro.Un grazie a chi ha collaborato e un grazie a chi trovaNOSTOP uno strumento utile e non banale di riflessione nelnostro impegno sindacale, nel nostro curiosare su quantoavviene nella società e nei percorsi di vita.

Nino Cortorillo

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RESPONSABILE DI REDAZIONE Vittoria SCORDO GRUPPO DI REDAZIONE Guido BARCUCCI, Luca STANZIONEPROGETTO GRAFICO ORIGINARIO Armando Artibio FANFONI - RESTYLING URAKEN GraphixRedazione Via Morgagni 27 - 00161 Roma - Tel. 06.440761 Contatti mail: [email protected] - I numeri arretrati sono consultabili su: www.filtcgil.itSupplemento al n°7 novembre 2015 de “Il lavoro nei trasporti” Mensile della FILT-CGIL nazionale Direzione/Amministrazione EDITRICE EDITRASPORTIVia Morgagni 27 - 00161 Roma Iscritto al n°92/82 del Registro Pubblicazioni periodiche del Trib. di Roma il 10/3/82 Testata registrata presso il RegistroNazionale della Stampa Direttore Responsabile Paolo Serventi Longhi Sped. in abb. postale c26 art.20 lett. B art.2 della legge 23/12/96 n° 662 RomaChiuso in tipografia: 24 novembre 2015 BINE EDITORE - Corso di Porta Vittoria 43, MilanoVideoimpaginazione e fotolito PRG Via Gaffurio 2, Milano - [email protected] - Graphic Artist: Roberto Ambrosioni

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