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OCCUPY!

Date post: 18-Mar-2016
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Occupy! Teoria e pratica del movimento contro l’oligarchia finanziaria a cura dei redattori di n+1 e Dissent Traduzione di Francesco Benetti, Carlo Milani, Sara Sullam
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Occupy!

Teoria e pratica del movimento contro l’oligarchia finanziaria

a cura dei redattori di n+1 e Dissent

Traduzione di Francesco Benetti, Carlo Milani, Sara Sullam

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Parte delle royalties di quest’opera sarà devoluta a Occupy Wall Street.

www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore

© editors of n+1, with Sarah Leonard and Astra Taylor 2011, Verso Books the imprint of New Left Books 2011

© il Saggiatore S.p.A., Milano 2012 Titolo originale: Occupy! Scenes from Occupied America

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Occupy!

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Sommario

Prefazione 13

Scene da un’occupazione di Eli Schmitt, Astra Taylor, Mark Greif 16

Un no, molti sì di Marina Sitrin 24

Scene da un’occupazione di Eli Schmitt, Astra Taylor 29

Parliamo davvero dell’1 percento di Doug Henwood e Congressional Budget Office 32

Scene da un’occupazione di Astra Taylor, Mark Greif 36

Lettere di dimissioni dal sogno americano di Marco Roth 41

Scene da un’occupazione di Elizabeth Gumport 50

Farsi valere di Manissa Maharawal 53

Scene da un’occupazione di Sarah Resnick, Keith Gessen, Sarah Leonard 61

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La teologia del consenso di L.A. Kauffman 67

Scene da un’occupazione di Keith Gessen, Astra Taylor, Sarah Resnick 72

I percussionisti di Zuccotti Park di Mark Greif 77

Scene da un’occupazione di Astra Taylor 86

Non innamoratevi di voi stessi di Slavoj Žižek 90

Scene da un’occupazione di Astra Taylor, Sarah Resnick 95

Nypd e Ows. Due stili in conflitto di Alex Vitale 98

Scene da un’occupazione di Sarah Leonard, Keith Gessen 108

Rivendica la divisione, denuncia il torto di Jodi Dean 113

Scene da un’occupazione di Sarah Resnick, Sarah Leonard, Astra Taylor 121

E Chinatown dov’è? di Audrea Lim 129

Stop allo «stop and frisk» di Svetlana Kitto, Celeste Dupuy-Spencer 137

Lavoro, lavoro e ancora lavoro di Nikil Saval 143

Occupytheboardroom.org di Mark Greif 150

Scene da Atlanta occupata di Kung Li 162

(Dis)occupiamo di Angela Davis 171

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Scene da Oakland occupata di Sunaura Taylor 172

Gettare gli attrezzi del padrone e costruire una casa migliore di Rebecca Solnit 188

Scene da Philadelphia occupata di Nikil Saval 203

La questione dei senzatetto di Christopher Herring , Zoltán Glück 210

Scene da Boston occupata di Stephen Squibb 218

Voci che girano di Astra Taylor, Sarah Resnick 226

Alleanza di corpi di Judith Butler 247

Giorno di bucato di Keith Gessen 249

La crisi americana di Thomas Paine 272

Note dei traduttori 275

Gli autori 279

Ringraziamenti 282

Crediti 283

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«Il denaro parla… troppo.»

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«C’è una biblioteca, ma è più per volantini, eventi e quello che succede qui… La gente arriva e lascia il materiale che vuole.»«Resisterete fino in fondo?» «Sì.» «Quanto tempo pensi che durerà?» «Dipen-de dalle forze dell’ordine, c’è stata una rissa, l’altra notte, ma è stata sedata velocemente. Hanno detto al tipo di andarsene perché stava compromettendo la sicurezza di tutti.»«Penso che molte persone siano qui per motivi diversi… ma condividiamo tut-ti le stesse esperienze.»«Sono qui perché sono anticapitalista.»«Non abbiamo nessuna strategia di difesa oltre alla rivendicazione di uno spazio e alla creazione di quello che ci piacerebbe vedere… la nostra stessa società.»

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Prefazione

Questo libro ha visto la luce perché abbiamo avuto la fortuna di trovarci a New York – e in America – quando sono iniziate le occupazioni del suolo pubblico, nel settembre del 2011. Sia-mo partiti come spettatori; nessuno di noi pensava che quella protesta avrebbe assunto dimensioni maggiori rispetto ad al-tre a cui avevamo partecipato. Col passare del tempo, ci siamo calati sempre più nel nostro ruolo di osservatori. Stavamo as-sistendo a uno degli eventi più significativi e promettenti del-la nostra vita.

Abbiamo cominciato con quello che sapevamo fare: scrive-re, chiedere agli amici di scrivere, rileggere, pubblicare. Nel gi-ro di pochi giorni avevamo in mano un giornale, una specie di testimonianza vivente che diffondevamo gratis in città e in re-te. Le prime due Gazettes nate sull’onda di Ows costituiscono il nucleo originario di questo libro.

I diari descrivono quello che avevamo davanti agli occhi, e sono fortemente influenzati dal nostro modo di vedere le co-se, di pensare, di sognare. Come tutte le testimonianze del mo-

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vimento, anche questi resoconti non hanno nulla di ufficiale. I saggi riportano altre opinioni che abbiamo sollecitato, idee che abbiamo cercato, discorsi che abbiamo sentito. Settimana do-po settimana, abbiamo capito che volevamo lasciare una testi-monianza per il futuro, come un prisma che raccogliesse la luce di quell’evento.

Mentre Verso Books mandava in stampa questo libro, Zuc-cotti Park-Liberty Plaza veniva sgomberato in seguito al giro di vite sulle occupazioni in tutto il paese. Seguendo l’esempio dei corpi di polizia di altre città, nella notte il Nypd ha fat-to irruzione nell’accampamento, ha cacciato tutti gli occupan-ti, confiscato le tende, i sacchi a pelo, i libri e, armato di spray urticante, ha arrestato chi opponeva resistenza. «Non potete estirpare un’idea che deve ancora realizzarsi» è stata la prima risposta. Rebecca Solnit ne ha pensata una più poetica: «Potete anche strappare i fiori, ma non fermerete la primavera».

Il movimento non è finito, e questo libro nemmeno. Con-tinueremo a pubblicare aggiornamenti e analisi sul sito della Occupy! Gazette.

AstrA, Eli, Nikil, sArAh r, sArAh l, MArk, kEith, CArlA

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Prefazione 15

«Non c’è libertà politica senza giustizia economica.»

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Scene da un’occupazione di Eli Schmitt, Astra Taylor, Mark Greif

17 settembre, sabato

Eli

Quando sono sceso dal treno nel Financial District, sabato scorso, per prima cosa mi sono scontrato per sbaglio con un poliziotto. Lui e una quindicina di altri agenti stavano in piedi davanti alle transenne sistemate per impedire che qualcuno en-trasse a Wall Street. Mi sono spostato da lì, turbato, e ho sen-tito una coppia di anziani che si dicevano, indicando un punto tra due edifici: «È quella lassù la Freedom Tower?».

Ero arrivato al Financial District per un raduno di dissiden-ti di sinistra, che mi avevano descritto come «un’occupazione di Wall Street». Alcuni siti web spiegavano che «per #occupy-wallstreet, il decentramento è parte del piano» e informavano i manifestanti del fatto che non «avevano bisogno di nessun per-messo per occupare o riunirsi pacificamente sui marciapiedi pubblici». Email e post su vari blog parlavano della sentenza della Corte suprema «Citizens United»,1 delle sommosse po-

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Scene da un’occupazione 17

polari in Medio Oriente e di quanto peso avessero le istituzio-ni finanziarie. Il tono variava, ma in tutti quei discorsi spiccava un comune senso di indignazione. L’evento sembrava basato sull’idea che la semplice libertà di riunione fosse in pericolo e che l’assemblea si dovesse giustificare da sola.

A ogni modo, non è stato facile raggiungere l’assemblea, per-ché l’intera via di Wall Street era stata bloccata. Il luogo desi-gnato per l’incontro, la Chase Manhattan Plaza, era circondato dalle transenne della polizia. Non ho visto nessun manifestan-te sulle transenne, solo turisti che si scattavano foto con i po-liziotti, e altri che se le facevano scattare dai poliziotti. Erano solo le tre e mezzo del pomeriggio, ma sembrava già l’imbru-nire. Camminando, sono arrivato addirittura a sospettare che i dissidenti non ci fossero affatto, che tutte le azioni di massa in programma fossero state spazzate via dalle centinaia di agenti a guardia della strettoia tra i grattacieli.

Alla fine, un amico ha risposto ai miei sms e mi ha detto do-ve trovare l’Assemblea generale. I partecipanti si erano riuni-ti a Zuccotti Park, in Liberty Plaza, un rettangolo lastricato tra Broadway e Trinity Place: era un bel gruppo, direi, alcu-ne centinaia di persone. Invece di un’unica assemblea, si era-no formati piccoli nuclei che andavano dai dieci ai cinquanta componenti. Alcuni avevano megafoni, moderatori e ordini del giorno, altri sembravano più spontanei. Gli oratori si alterna-vano, condividendo i propri pensieri e suggerimenti: come do-vremmo rispettare le forze dell’ordine («fotti la polizia, ama il poliziotto»), come il clientelismo sta distruggendo la nostra de-mocrazia.

Le persone, alcune convincenti, altre meno, si incitavano a

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vicenda ad assaltare Wall Street, condividevano informazioni su dove trovare cibo e coperte e criticavano l’amministrazione Obama, mentre tutto intorno al parco si radunavano schiere di agenti e folti gruppi di manifestanti.

AstrA

Il primo giorno in cui sono arrivata e ho osservato la scena, mi so-no cadute le braccia: sempre la stessa roba, sempre uguale, nulla di che. Dato che le autorità avevano bloccato la zona in previsio-ne degli eventi della giornata, i manifestanti erano stati dispersi dalla polizia ed erano in netta inferiorità numerica. Ma poi ho se-guito un corteo improvvisato verso il parco, dove sono accampati adesso. Ho incontrato un po’ di amici e abbiamo fatto «un’as-semblea» insieme a un gruppo di estranei con cui abbiamo par-lato di economia per due o tre ore. Direi che è stato bello essere a una manifestazione e scambiarsi idee, invece di camminare e gridare. Sembrava che il copione fosse cambiato. Erano quasi le sette quando ho lasciato i miei amici, convinta che di lì a poco la polizia avrebbe sgomberato tutto. Invece sono andati avanti fino al mattino, e io ho cominciato a dare loro più credito.

MArk

Era una bella giornata. Sono venuto per incontrare una coppia di amici e ci siamo imbattuti in gente che conoscevamo alla lon-tana; abbiamo incrociato Astra e i suoi amici, poi gente di Dis-sident e di The New Inquiry. Ci siamo riuniti, ci siamo seduti e abbiamo fatto ciò che gli organizzatori ci chiedevano, cioè discu-tere di quali proposte e richieste fossero più importanti secondo noi, per il nostro gruppo di discussione. Questi suggerimenti sa-

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rebbero stati portati all’Assemblea generale per essere esamina-ti in plenaria; così questo nutrito gruppo di sconosciuti avrebbe potuto determinare gli obiettivi dell’Assemblea generale. Attira-vamo sempre più curiosi e visitatori.

Dopo innumerevoli votazioni e riflessioni, siamo giunti al-la conclusione che il desiderio che aveva spinto tante persone a partecipare al nostro gruppo era questo: riportare il gover-no sotto il controllo dei cittadini, regolamentare la finanza per il bene comune, tenere le banche alla larga dalle faccende di compravendita dei legislatori e dall’influenzare le leggi. Si è parlato di debiti e detrazioni fiscali sul pagamento degli inte-ressi ipotecari, come dello scempio della legge Glass-Steagall2 e della legge McCain-Feingold3 e di possibili alternative per risolvere quelle situazioni. Avremmo avuto bisogno di un ac-cordo nazionale per il fatto che la libertà di parola riguarda solamente i cittadini in carne e ossa e non le aziende – per ri-baltare la «Citizen United» –, e probabilmente avremmo po-tuto ottenerlo lottando per un emendamento costituzionale. Era questa la nostra proposta! Ci siamo scambiati gli indirizzi email e abbiamo deciso di provare a capire da dove comincia-re. Solo più tardi mi sono reso conto che era il Giorno della Costituzione, il 224esimo anniversario della firma prima che il documento passasse agli stati per la ratifica.

Eli

Qualcuno suggerì di «fare un’assemblea», così ci sedemmo tut-ti in cerchio. In un primo momento sembrava quasi uno scher-zo. Dovevamo urlare per riuscire a sentirci reciprocamente in mezzo a tutte le voci delle assemblee vicine e, talvolta, le sirene

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della polizia. Ogni tanto una donna seduta su una panchina lì vicino suonava un tamburello.

Qualcuno a un certo punto chiese che azione si pensava di portare a termine, che cosa avremmo fatto, e qualcun altro ri-spose che era quella l’azione, che eravamo lì per discutere e organizzarci. Altri allora suggerirono di avanzare le nostre ri-chieste come gruppo; poi, dopo qualche deliberazione, deci-demmo che ne avevamo una sola. Il compito del nostro gruppo di lavoro sarebbe stato decidere cos’era più importante per noi. Accettai di prendere appunti, e durante gli interventi buttai giù la seguente lista di potenziali richieste:

abrogazione della sentenza della Corte costituzionale «Citi- -zens United» (attraverso un emendamento costituzionale);rimozione della statua del toro da Wall Street (su suggeri- -mento di un passante vestito da banchiere, ma con un cap-pio al posto della cravatta);una qualche forma di cancellazione dei debiti (per tutti o so- -lo per gli studenti);finanziamento - in fieri degli interventi militari (in questo mo-do non sarebbe possibile intraprendere guerre a meno che il Congresso sia d’accordo a finanziarne immediatamente ogni fase);imposte sulle piccole transazioni finanziarie (una versione di -queste imposte è conosciuta come Tobin Tax);piena occupazione; -un salario sociale o un reddito garantito (anche descritto co- -me un’imposta negativa sul reddito);centri di cura per tutti (bambini e anziani); -

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ripristinare la legge Glass-Steagall (una riforma bancaria -introdotta nel 1933 e parzialmente abrogata a partire dal 1980);congedo per malattia retribuito per tutti i lavoratori ame- -ricani;maggiore trasparenza politica in generale. -

La conversazione era seria ma anche spensierata. Un tizio ha proposto che i centri di cura di base fossero costruiti negli ex uffici postali, non appena le poste (Usps) avessero chiuso i bat-tenti. Un altro non era d’accordo con la richiesta della piena occupazione, poiché era convinto che gli americani lavorasse-ro già troppo. Nel bel mezzo del nostro dibattito, si è parlato del perché fosse problematico avanzare una richiesta e di co-me, per essere significativa, questa debba fondarsi su una que-stione rilevante a livello finanziario. Qualcuno ha domandato se la nostra lista di richieste potesse essere pubblicata sulla ri-vista Harper’s.

Mentre parlavamo, altra gente si avvicinava e si univa al cer-chio. Non era sempre chiaro chi conosceva qualcuno del gruppo e chi no. Un uomo si sedette e ci disse che Wall Street non era il posto giusto per riunirci, che avremmo dovuto puntare al «cen-tro nevralgico», cioè a quelle organizzazioni semisegrete e non governative che scrivono le leggi. Nel frattempo, i manifestanti marciavano per tutto il perimetro della piazza cantando: «Di chi sono le strade? Queste strade sono nostre!». Abbiamo parlato di quali criteri fossero utili per formulare richieste positive.

Qualcuno ci disse che ogni piccolo gruppo di discussione avrebbe presentato le proprie deliberazioni più tardi, quella stes-

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sa sera, e alla fine abbiamo deciso che l’abrogazione della senten-za «Citizen United» della Corte suprema fosse la migliore delle nostre richieste, perché sarebbe stata utile per creare un clima politico veramente più democratico, nel quale soddisfare anche tutte le altre voci della lista. Girava un taccuino su cui ognuno se-gnava la propria email per poter continuare la nostra discussione sulla «Citizens United». A quel punto eravamo stanchi morti.

Qualche giorno dopo, mentre stavo cercando di scrivere questo articolo, mi sono imbattuto in una frase di George Eliot: «I mortali in generale hanno la straordinaria capacità di rimane-re impressionati dalla presenza di ciò che hanno lottato per ot-tenere e dall’assenza di ciò per cui non hanno fatto nulla, se non desiderarlo». Parlava di noi? Viviamo e lavoriamo in una cit-tà in cui, per sopravvivere, dobbiamo scendere a compromessi con quelle stesse tremende ingiustizie che tentiamo di combat-tere con le nostre rivendicazioni? Un amico che ho visto quel-la sera mi ha chiesto ironicamente: «Contro cosa protestate?». Poi, scoppiando a ridere, ha aggiunto: «Contro cosa non pro-testate?». Era una frase stupida?

Sono tentato di dire di sì. Da sabato, è stato più difficile per me rimanere a guardare, andare avanti con i miei dubbi su quello che gli occupanti di Liberty Plaza stanno ottenendo, o potrebbero aver ottenuto o potranno ottenere in futuro. Non sappiamo ancora esattamente quali saranno le nostre richieste. Uno dei membri del nostro gruppo, nel discutere i criteri per redigere una buona petizione, ha osservato che agli americani piace «ottenere qualcosa» al di là delle azioni politiche. Abro-gare, ritirare, vietare. Vogliamo risultati, visibili e misurabili. Ma non abbiamo nessun Mubarak, nessun Gheddafi. Noi sia-

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mo il paese che ha rieletto Bush, che ha salvato le banche, che è in stallo al Congresso per un aumento irrisorio delle tasse. La nostra disoccupazione parziale e il nostro sistema democratico alienante saranno pure molto reali, i motivi che abbiamo per ri-unirci in assemblea saranno pure molto concreti, ma le cause precise del nostro disagio sono ancora lontane; e le loro solu-zioni specifiche, forse, ancora di più.

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Un no, molti sì di Marina Sitrin

Inizierò da dove mi trovo ora: New York. Anche se questa sto-ria comincia prima dell’occupazione e, soprattutto, molto più a sud. Ma partiamo da New York.

Il gruppo organizzatore sul campo era l’Assemblea genera-le di New York. Abbiamo cominciato a incontrarci durante l’estate del 2011, cercando di creare uno spazio il più orizzon-tale e democratico possibile e usando l’assemblea come stru-mento principale.

Abbiamo discusso su quali sarebbero state le nostre rivendi-cazioni e su che cosa avrebbe definito il movimento, ma abbia-mo deciso di non adottare una prospettiva di rivendicazione. Ma allora cosa vogliamo? Per la maggior parte di noi la cosa più importante è aprire spazi di conversazione, di democrazia reale, diretta, partecipativa. Perciò chiediamo solo di essere la-sciati in pace nelle nostre piazze, nei nostri parchi, nelle scuo-le, nei luoghi di lavoro e nei quartieri, per incontrarci, riflettere insieme e decidere in assemblea quali sono le nostre alternative. E una volta aperti questi spazi democratici, saremo in grado di

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Un no, molti sì 25

discutere eventuali richieste da presentare e di individuare chi, secondo noi, potrebbe soddisfarle. O forse, quando ci saranno assemblee in tutto il paese, la questione delle richieste si sarà risolta da sé. Se un giorno diventeremo abbastanza, saremo noi gli unici destinatari delle nostre richieste.

Quelli che hanno partecipato all’Assemblea generale serale in Liberty Plaza ne hanno sicuramente tratto grande ispirazio-ne, forse anche rimanendo un po’ spiazzati dal suo funziona-mento. Da dove vengono le proposte? Come si fa a raggiungere un accordo? Davvero si ascoltano tutti per ore e ore ogni se-ra? Anche quando ci sono più di un migliaio di persone? Può sembrare una situazione poco organizzata, poco chiara, ma sot-to questo mare di persone, in mezzo alle onde del microfono umano, si muove una rete di organizzazioni collegate. Ci siamo divisi in gruppi di lavoro decentrati ma connessi fra loro, che spaziano dai problemi più concreti – come il cibo, le emergen-ze mediche e quelle legali – a questioni come l’arte, l’istruzione, le problematiche femminili, la sicurezza nelle città. È in questi gruppi di lavoro che si realizza l’attività quotidiana di Occupy Wall Street. Pur rimanendo autonomo, in caso di decisioni che riguardano l’intera comunità (per esempio i negoziati con l’uffi-cio del sindaco, o l’uso di soldi per cauzioni ecc.), ogni gruppo presenta proposte al gruppo più ampio, l’Assemblea genera-le. Ogni giorno si organizzano incontri informativi, si cucina e si distribuisce cibo a oltre mille persone, si offre consulen-za legale, si trasmettono video in streaming, ci si prende cura della salute fisica e mentale della gente (abbiamo una squadra di infermieri volontari e psicologi che lavorano con noi). È di-sponibile la traduzione dei discorsi in sette lingue, tra cui il lin-

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guaggio dei segni. L’elenco dei gruppi di lavoro e dei rispettivi incarichi è così lungo che potrebbe riempire un libretto. E ab-biamo appena iniziato.

La comunicazione tra i diversi gruppi di lavoro non è anco-ra perfetta, ma continuiamo a migliorare, e con noi, ovviamen-te, crescono e cambiano anche le nostre forme di organizzazione. Vengono costantemente studiate e sperimentate nuove strutture per riuscire a creare uno spazio il più possibile aperto, parteci-pativo e democratico. Ci sforziamo tutti di incarnare l’alternativa che vogliamo realizzare nelle nostre relazioni di tutti i giorni.

Novità e storia

Molti sostengono che ciò che stiamo facendo è una novità. Ve-ro, ma anche falso.

Non si può certo dire che movimenti come il nostro non ab-biano precedenti. Per esempio, «un no, molti sì» è una chiara citazione dell’Ezln del Chiapas, in Messico, un’esperienza na-ta nel 1994 in opposizione al Nafta e a quella che per gli zapa-tisti suonava come una condanna a morte per il loro paese. Il movimento ha stimolato l’immaginario di milioni di persone nel mondo e, alla fine degli anni novanta, la formazione di altri gruppi che si opponevano con modalità simili al potere gerar-chico e all’idea che le decisioni spettassero solo allo stato e non ai singoli individui. Stiamo parlando del Direct Action Net-work negli Stati Uniti – emerso durante le proteste del 1999 a Seattle contro il Wto – dei social forum in Italia e di centinaia di altri casi in tutto il mondo.

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Nel 2001 l’economia argentina è crollata. Il governo non ha saputo fare fronte alla situazione. Ha congelato i conti corren-ti e alle persone non è rimasto altro che scendere in piazza, pri-ma a decine, poi a centinaia, poi a migliaia, infine a centinaia di migliaia. Non sono scese in strada con un partito politico o con gli striscioni, ma con pentole e padelle, cacerolando. Il ritornel-lo di quei giorni era: «¡Que se vayan todos! ¡Que no quede ni uno solo!» (Via tutti! Non deve rimanerne nemmeno uno!). E così è stato: si sono susseguiti cinque governi in due settima-ne. E la gente per strada ha cominciato a guardarsi intorno, ne-gli occhi, a incontrarsi e vedersi per la prima volta. Sono nate assemblee. Per quelle persone capire chi li aveva danneggiati, proprio come state facendo voi, e cercare soluzioni insieme era la cosa più «naturale» del mondo.

In Argentina, in quei primi giorni e settimane di crisi, le per-sone hanno dato vita a centinaia di assemblee di quartiere. I la-voratori hanno occupato i luoghi di lavoro e hanno cominciato a gestirli con riunioni orizzontali, eliminando le gerarchie, i ca-pi, i manager e le differenze di retribuzione. Questa nuova so-lidarietà si è espressa in un nuovo termine, horizontalidad, un rapporto sociale che in quel momento la gente spiegava con un gesto: stendendo in avanti le mani e muovendole avanti e in-dietro a indicare una superficie piana. Alle richieste di maggio-re chiarezza, la gente rispondeva: «Ecco, diciamo che non è questo» unendo le punte delle dita per disegnare un picco. La gente descrive la horizontalidad come un rapporto che contri-buisce a creare novità e che, allo stesso tempo, definisce anche un obiettivo: usare gli strumenti in modo partecipato e orizzon-tale. Si tratta del modo in cui si cambia nel processo di parte-

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cipazione. La gente ha raccontato di come questo nuovo rapporto con la comunità l’abbia cambiata, trasformando l’idea di «io» in relazione al «noi», e quindi anche quella di «noi» in relazione all’«io».

Da quando abbiamo iniziato l’occupa-zione, penso all’Argentina ogni giorno. E penso anche alle altre occupazioni che si stanno organizzando in tutti gli Stati Uni-ti. Queste assemblee si riuniscono e crea-no alternative alla crisi, iniziano a discutere di ciò che vogliamo e di come ottenerlo. Questa è una delle principali caratteristi-che di quel che è successo l’anno scorso in diverse parti del mondo, dall’Egitto alla Spagna. In Spagna dicono: «¡Democracia real ya!». In Grecia hanno ricominciato a usare il greco antico δημοκρατία, demokratia. Presto, spero, nelle nostre piazze, nei nostri parchi, nei quartieri, nelle scuole e negli uffici, tutti quan-ti urleranno la stessa cosa: «Democrazia reale!».

«Non ho detto guarda, ho detto ascolta.»