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OMBRE - OK copia · moto, la mia matrigna Susan aveva preferito trasferirsi a New York, dove mio...

Date post: 18-Jul-2020
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J. Fiorentino Ombre
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Page 1: OMBRE - OK copia · moto, la mia matrigna Susan aveva preferito trasferirsi a New York, dove mio padre aveva ricevuto un ingaggio da qualche mese, e io avevo deciso di non andare

J. Fiorentino

Ombre

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©2016 J. Fiorentino ©2016 Elpìs Prima edizione marzo 2016 Stampato in Italia ISBN 978-88-99682-00-2 Immagine di copertina realizzata da: Elpìs www.elpiseditrice.it [email protected]

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1

Bitch please

Ogni giorno sono una stella in città Cammino per le strade come una pistola carica

KEVIN RUDOLF, In The City

Saltai sul cornicione con un leggero balzo felino, senza nes-

suna paura del vuoto che mi separava dal suolo. Avevo i piedi scalzi sul marmo e tutto quello che indossavo

era un paio di jeans, ma non sentivo freddo. Socchiusi gli occhi nell’aria gelida dell’alba e rimasi acco-

vacciato sull’orlo del tetto, in mezzo agli angeli di pietra con cui mi mimetizzavo. Mi avevano paragonato spesso a un angelo, a causa dei capelli quasi bianchi, degli occhi chiarissimi e della mia dannata bellezza.

Guardai giù dal tetto della chiesa in rovina, verso Folklore che si estendeva come una città giocattolo, fatta di piccole pa-lazzine sul mare e case a schiera tutte uguali. La soffitta della chiesa abbandonata di San Murdok era diventata la mia casa temporanea, da quando gli Sparks mi avevano cacciato dall’hotel. Il bello era che non ricordavo nemmeno che cos’avessi fatto per farli infuriare. Stavolta.

Osservai i guardiani di marmo ai miei lati: l’unica differenza tra loro e me era che le statue avevano le ali ed erano corrose dalle piogge acide, mentre io ero perfetto fuori e marcio dentro.

Era inutile: non riuscivo a ricordare niente delle ultime set-timane. Solo una frase mi tornava in mente:

Ogni volta vi incontrate e ogni volta vi dimenticate. Chissà cosa significava.

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È sempre stato così, sarà così per sempre. Non riuscivo a smettere di pensarci, né a ricordare dove

l’avessi sentita. Sbuffai, feci un passo avanti e mi lasciai cadere. Nel vuoto. 1° giorno: «È successa una cosa» disse nonna Trudy. Magari qualcun altro non avrebbe dato importanza a quella

frase, ma io alzai subito lo sguardo dal piatto di cavoletti. Per-ché nella mia vita non succedeva mai niente di interessante.

Era passato quasi un mese da quando i miei genitori si era-no trasferiti a New York, e quasi due settimane da quando la nonna era tornata a Folklore e aveva deciso di stabilirsi a casa nostra. La sua scusa era che non mi vedeva da tempo, cosa ve-ra, ma io sapevo che lo faceva per non lasciarmi sola.

Il giorno prima mi ero svegliata in quell’enorme casa di le-gno grigio, avevo fatto colazione ed ero andata a lavoro, dove avevo impacchettato dolcetti di Candy Hell per sei ore, ero tornata a casa, avevo cenato ed ero andata a dormire. Anche quel giorno mi ero svegliata, avevo fatto colazione, ero andata da Candy Hell, ero tornata a casa e stavo cenando con mia nonna, la donna coi capelli bianchi come zucchero filato.

Tutto identico. Finché lei non disse quella frase. «Forse sono finalmente riuscita a vendere l’appartamento in

Star Street.» Quelle furono le parole che cambiarono tutto. «Ah» dissi posando la forchetta. «Bene.» «Pandora…» Nonna Trudy spinse sul naso gli spessi occhiali

di finta tartaruga, che facevano sembrare i suoi occhi neri e gentili grandi come monete da un dollaro. «Con bene intendi male, vero?»

Pensai che era ingiusto anche solo chiedermelo: volevo quell’appartamento da sempre, e lei lo sapeva. Non potevo an-

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cora permettermelo, ok, ma avevo pensato che continuando a lavorare nel negozio di dolci prima o poi ce l’avrei fatta a paga-re il locale, la luce, il gas e i viveri.

Non che mi dispiacesse stare con la nonna in quella casa degli orrori piena di ragni, davvero… Va bene, forse un po’. Il punto era che avevo quasi diciotto anni e non volevo abitare per sem-pre lì a casa Black. L’anno prima ero uscita dal liceo con dei voti non troppo disastrosi, eppure non avevo fatto domanda per nes-sun college: non sapevo proprio cosa volevo fare arrivata a quel punto un po’ strano e confuso del mio cammino. Ma una cosa la sapevo: volevo scappare dalla monotonia senza fine che era di-ventata la mia vita, in cui non succedeva mai niente.

«Chi l’ha comprata?» chiesi sbuffando. «Un nome strano: Dexter Costa. Ha telefonato ieri.» Per un momento pensai di dirle che quel nome aveva qual-

cosa di familiare, ma non ricordavo dove l’avevo sentito, così lasciai perdere.

Qualche ora dopo chiusi lo sportello della vecchia Nash Me-tropolitan verdina che aspettava davanti casa e misi i piedi sul cruscotto.

«Sono contenta che tu abbia deciso di accompagnarmi» dis-se la nonna, che indossava un grazioso cappello abbinato all’enorme borsa di lana, con dei fiori cuciti sopra. «Ma così non va bene, cucciola, dovresti disubbidirmi di più: è quello che fanno le ragazze della tua età.»

«Quando mai sono stata come le ragazze della mia età?» rispo-si sorridendo, ma smisi appena incontrai i miei occhi scuri nello specchietto laterale. Mi ero tagliata di nuovo i capelli da sola, e ora una zazzera di ciuffi biondi pendeva appena sopra le spalle.

«E poi sono curiosa di conoscere il tizio che mi sta fregando l’appartamento.»

Allora non avevo idea di quanto mi sarei pentita di quelle parole, mentre mia nonna metteva in moto lungo Evergreen Avenue, verso Star Street.

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Quel piccolo palazzo mi ricordava sempre un castello biz-zarro incastrato tra due alti edifici di mattoni rossi, con una minuscola cancellata ai lati dei gradini, in cima a cui c’era la porta verniciata di azzurro col numero 13 fatto di metallo. Il pianterreno era abitato e aveva i davanzali pieni di vasi di vio-lette, mentre sugli altri due piani le imposte erano in stile del tutto diverso. Mi ricordava una di quelle improbabili case che io e mio padre costruivamo coi LEGO, tanto tempo prima. Forse proprio per questo mi piaceva.

Quando avevo quindici anni ero stata costretta a lasciare Los Angeles per traslocare con tutta la famiglia a Folklore: una città piccola, strana, straordinaria a modo suo. Dopo il terre-moto, la mia matrigna Susan aveva preferito trasferirsi a New York, dove mio padre aveva ricevuto un ingaggio da qualche mese, e io avevo deciso di non andare con loro. Era giusto che ricominciassero, che vivessero la loro vita, soprattutto dopo l’incidente di Amelia.

In realtà i ricordi che circondavano la morte di mia sorella erano ancora annebbiati a causa dello shock. Ricordavo vaga-mente il terremoto, la paura, il viso di mia sorella rigato dal sangue che scendeva dalla fronte al mento. Da quando i miei genitori erano partiti ero rimasta da sola per alcune settimane a villa Black, che in teoria apparteneva a nonna Trudy da gene-razioni – anche se lei ormai viveva a New York. Da alcuni anni la nonna aveva comprato anche uno di quegli appartamenti in Star Street, ma dandolo in affitto non era riuscita a ricavare quel che sperava, così aveva finalmente deciso di rivenderlo.

Da allora non facevo che pensare a quel luogo come alla mia unica via di fuga. Che ora diventava sempre più lontana, per colpa di Dexter Costa.

«Al telefono mi è parso un tipo un po’ eccentrico, se lo vuoi sapere» disse la nonna all’improvviso, mentre rallentava per cer-care parcheggio. «Giovane, vivace, forse un po’ troppo arrogan-te. Ma in fondo al giorno d’oggi… Che caspiterina stanno facendo?»

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La nonna inchiodò dietro un camion parcheggiato di fronte al numero 13. Degli uomini con la divisa gialla dell’agenzia dei traslochi stavano scaricando cose come scatoloni, un giradischi, pezzi di un tavolo da biliardo. Due reggevano una grossa pol-trona zebrata.

«Ehi! Aspettate un momento!» La nonna mise il freno a ma-no, scese dalla macchina e si diresse verso di loro con passo mar-ziale. «Chi vi ha dato il permesso di portare dentro casa una… poltrona di dubbio gusto e tutta quest’altra chincaglieria?»

«Ehm…» Uno degli uomini in divisa controllò la cartelletta che gli pendeva dal collo. «È stato il signor Costa, signora.»

«Ci dev’essere stato un errore, caro: il signor Costa oggi do-veva solo vedere la casa, non avevamo parlato di…»

«Lo dica a lui, signora. Sta arrivando.» Mi voltai sentendo il rombo di un motore e lo stridio delle

ruote sull’asfalto. Un vento spettrale spinse foglie e cartacce lungo il bordo del marciapiede e scosse le chiome autunnali degli alberi nelle aiuole. Per uno stupido momento pensai che quell’atmosfera potesse avere un significato, come se l’intera città volesse mettermi in guardia dall’arrivo di qualcosa.

O di qualcuno. La moto parcheggiò con uno stridore di freni. Era una Ka-

wasaki nera. Il suo cavaliere indossava un casco integrale e scu-ro su cui erano state saldate delle corna nere.

«Chi è, Satana?» bisbigliai. Il ragazzo scese di sella e si sfilò il casco. Un giubbotto di pelle

nera, capelli d’oro pallido, corti e spettinati ad arte, e un sorriso arrogante sulle labbra. Inutile mentirsi: non avevo mai visto un ragazzo così bello. Sembrava quasi finto. Il modo in cui si muo-veva urlava al mondo: bitch please, io posso fare tutto quello che voglio.

Sentii una voglia incontrollabile di dargli fuoco. «Dexter Costa?» La nonna marciò verso di lui con tutta la sua

furia. «Sono Gertrude Black, la proprietaria dell’appartamento.»

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«Incantato» rispose il ragazzo, stringendole la mano con ca-lore. La sua voce era amichevole, rilassata, ma con qualcosa di… tagliente che non riuscii a spiegarmi.

La cosa che mi infastidì di più era che in qualche modo tut-to di lui mi era familiare. Scoprii che lo stavo fissando in cerca di un qualche difetto, inutilmente. Lui se ne accorse e ruotò gli occhi su di me, sempre sorridendo: erano sottili, di un azzurro quasi trasparente.

Non ricambiai il sorriso. I ragazzi mi erano sempre stati in-differenti, e quando qualcuno mi fissava – anche solo per sba-glio – mi sentivo inadeguata. Le attenzioni erano un fastidio fi-sico per me, per questo mi coprivo più che potevo con dei ma-glioni sformati e lasciavo che i capelli mi finissero sul viso, na-scondendomi dal resto del mondo.

La nonna si schiarì la gola, un po’ meno arrabbiata. «Potrebbe spiegarmi perché ha detto a quegli uomini di por-

tare dentro al mio appartamento una poltrona che sembra una zebra?»

«Perché è la mia poltrona preferita» rispose lui, le mani in ta-sca e l’aria di chi davvero non capisce. O se ne frega di capire.

«D’accordo, ma… Quella è una scimmia?» La nonna quasi strillò fissando la gabbia a campana che era appena passata da-vanti a noi, trasportata da uno degli addetti: dentro c’era una palletta di pelo marrone, quasi più simile a uno scoiattolo, ep-pure era indubbiamente un primate.

«Certo che no» rispose Dexter con un tono di seta. «È un Uistitì pigmeo, nome scientifico Cebuella pygmaea. Io la chiamo Little Jack.»

«Caro signor Costa…» «Dexter, la prego.» «Dexter. Perché questi signori stanno scaricando la sua roba

adesso? Non voleva vedere la casa? E magari comprarla? La gente fa così, di solito, prima di trasferirsi in quelle che sono ancora

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proprietà altrui.» La nonna usò una voce velata, ma io capii che era veramente sul punto di esplodere come una teiera.

«Non ho bisogno di vederla» disse Dexter. «La porta era aperta e così ho già dato un’occhiata dentro.»

Com’è possibile che la porta fosse aperta?, pensai. «Riguardo all’acquisto…» Il ragazzo fece scivolare le lunghe

dita sotto il giubbotto da motociclista e prese un foglio. «Qui c’è il compromesso: manca solo la sua firma. Se la cifra non va bene, mi dica qual è la sua richiesta: i soldi non sono un problema.»

Nonna Trudy spiegazzò il foglio, si aggiustò gli occhiali di finta tartaruga e per poco non rimase a bocca aperta. Mi chiesi quale somma spropositata ci fosse scritta su quel pezzo di carta.

La nonna fissò Dexter con tanto d’occhi. «Ma… chi è lei, esattamente?» «Questa» rispose il ragazzo con un sorriso smagliante «è

una domanda complicata.» «M-mi dia un momento per pensarci» balbettò la nonna,

tutta allegra d’un tratto, e mentre si allontanava urtò degli sca-toloni impilati sul marciapiede. Mi feci avanti per evitare che crollassero, ma non riuscii a sostenere il peso del baule di legno in cima, che si schiantò ai miei piedi.

Mi chinai per raccogliere la roba che si era sparsa sul mar-ciapiede: libri, vestiti, un frustino fucsia, una scacchiera, degli strani tubicini di metallo lunghi come matite e ancora libri, così consumati che sembrava fossero stati letti decine di volte.

«Ci conosciamo?» chiese Dexter. Anche lui era inginocchia-to di fronte a me, intento a raccogliere la sua roba e gettarla nel baule a casaccio. «Hai un’aria familiare, principessa.»

«Mi chiamo Pandora» risposi. Eppure anch’io avevo pensa-to che lui fosse familiare.

Poi mi accorsi di cosa avevo appena preso da terra: uno sti-letto dalla lama sottile e l’impugnatura a croce di metallo. Sparsi in mezzo agli oggetti comuni c’erano altri pugnali, alcu-ni shuriken giapponesi, un’ascia e perfino una stella del matti-

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no: qualcosa mi diceva che non erano giocattoli o oggetti da esposizione, ma armi vere, a giudicare dal fatto che sfiorando il pugnale mi graffiai subito con la punta.

Alzai gli occhi sul ragazzo e vidi che mi fissava. Durò solo un attimo, poi lui fece un sorriso perfetto.

«Grazie dell’aiuto, Pandora.» Mi prese gentilmente lo stilet-to per metterlo a posto, insieme alle ultime cose, chiuse il baule e si alzò.

«Signora Black» si rivolse a mia nonna «se non c’è altro l’aspetto lunedì mattina dal notaio, per concludere.»

L’appartamento era suo. Lo odiai con tutte le mie forze. Aveva vinto. 2° giorno: Era già buio quando uscii dal negozio alla fine del mio tur-

no. Il locale era piccolo e carino, con la vetrina piena di mera-viglie coperte di glassa azzurra e zuccherini colorati, la porta finto antica sotto la graziosa insegna CANDY HELL dentro un muffin gigante.

Pioveva e non avevo l’ombrello, perciò io e il mio zaino era-vamo già zuppi dopo pochi passi. Stavo ascoltando Goodnight And Go di Imogen Heap con gli auricolari premuti nelle orec-chie e il cappuccio della felpa sollevato, quando guardai verso un lampione del vicolo lungo Church Street. Mi sembrò di ve-dere piccole luci che ronzavano intorno alla cima, troppo grandi per essere lucciole o altri insetti.

Le ignorai di proposito: mi capitava spesso di immaginare cose che esistevano solo nel mio mondo personale. Allen lo di-ceva sempre.

In quel momento mi mancò così tanto che sentii una fitta fi-sica al petto, e per poco non andai a sbattere contro la persona che stava ferma sul marciapiede, con un ombrello nero e gran-de aperto sopra di noi.

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Mi fermai. Il ragazzo biondo non disse niente, continuò a sorridere e a

porgermi l’ombrello, immobile, a pochi passi dall’ingresso del negozio. Portava il solito giubbotto di pelle, un anello di metal-lo all’orecchio e un cappello di lana nero da cui uscivano alcuni ciuffi di capelli quasi bianchi.

Pensai che fosse il ragazzo più strano che avessi mai incon-trato. Cosa ci faceva lì?

Ripresi a camminare e lo superai, come se non lo avessi visto. «Ehi!» Lui mi tallonò subito. «Ti sembra carino ignorare

qualcuno che ti ha aspettato per due ore sotto la pioggia?» Notai che si stava bagnando, pur di riparare me con

l’ombrello. «Pandora, giusto? Se la smetti di correre, vorrei fare due

chiacchiere con te.» «Vedi quell’autobus in fondo alla strada?» risposi. «È

l’ultimo che passa oggi e non voglio perderlo.» «Posso accompagnarti in moto.» Ti conosco a malapena e ho dei buoni motivi per credere che tu sia un

criminale armato: col cavolo che salgo sulla tua moto! Ma dissi solo: «No, grazie.» Avevo raggiunto l’autobus e stavo per salire. Una mano era

già sul bordo della porta, un piede ancora sul marciapiede ri-coperto di foglie secche.

Eppure qualcosa mi spingeva a restare dove mi trovavo. «Come facevi a sapere dove lavoro?» Il ragazzo si limitò a guardarmi inespressivo, senza rispondere. «Mi hai seguita?» incalzai. «Te lo ha detto mia nonna?» «Nessuna delle due.» Capii che non mi avrebbe dato spiegazioni, così saltai sul

gradino dell’autobus, ma Dexter mi seguì un attimo prima del-la chiusura delle porte. Ripiegò l’ombrello gocciolante e si sfilò

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il cappello, mentre io mi reggevo a un palo per non cadere ad ogni sobbalzo della vettura.

«Sono venuto per chiederti un favore» riprese, spingendo indietro i capelli umidi di pioggia, cosa che lo rese ancora più attraente in quel modo che trovavo così irritante. «Preferirei che non parlassi a nessuno di quello che hai visto.»

Capii che si riferiva alle armi, e se voleva nasconderle signi-ficava che avevo ragione: erano vere. E lui ci teneva che restas-se un segreto.

«Non so di che parli» mentii. «Io credo di sì. Ieri. Il baule.» «Ah, intendi il frustino? In effetti sarebbe imbarazzante.» Ca-

pii che desideravo farlo arrabbiare, chissà perché. Lui mi fissò in silenzio finché non decisi di rispondere seriamente. «Non lo so.»

«Significa no?» «Significa che ci devo pensare.» Non mi ero mai trovata in

una situazione del genere. Dexter Costa era pericoloso? Lui rise, una reazione che poteva significare tutto oppure

niente. Perché il suo sorriso mi è così familiare? «Non volevo arrivare a questo…» Infilò una mano in tasca,

allarmandomi, però lui estrasse solo il cellulare. «…ma tu non mi lasci scelta. Ho fatto delle ricerche sul tuo conto e ho sco-perto anch’io delle cose… interessanti.»

«In che senso ricerche?» «Pandora Black, diciassette anni, nata il 13 Gennaio» elencò

leggendo dal monitor. «Lavori da poco in un negozio di dolci di nome Candy Hell e abiti al numero 23 di Evergreen Avenue. Conduci una vita tutta casa e doveri, senza ragazzi, né diverti-menti, né avventure di sorta.»

«Che… Fammi vedere quel telefono!» Cercai di prender-glielo, ma fu velocissimo a sollevare la mano e toglierlo dalla mia portata.

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«Tua madre, Elisabeth Black, è morta subito dopo la tua nascita» continuò.

Mi fermai e lo guardai, seria. «Sei nata a Los Angeles, ma quando avevi quattordici anni

tu, tua sorella, tuo padre e la tua matrigna vi siete trasferiti nel Connecticut, nella piccola città di Folklore. Cioè qui. Tua so-rella Amelia è stata una vittima del terremoto di quest’estate. Da allora il papà e la matrigna si sono trasferiti a New York, e anche tu progetti di andarci.»

Lo ascoltavo con la bocca socchiusa: un’espressione non molto intelligente, ma chi se ne importava adesso. Come faceva a sapere che sarei andata a New York? Non lo avevo ancora nemmeno deciso!

«Tuo padre Stephen è un attore» continuò il ragazzo. «Il genere di padre sempre impegnato e lontano da casa. Attual-mente recita in un programma per bambini che va in onda la mattina presto: i… Twinkitubbies?»

«Abbassa la voce!» Mi guardai intorno. L’ultima cosa che volevo era che al lavoro cominciassero a chiamarmi la figlia dei Twinkitubbies, ma sull’autobus c’erano solo due vecchietti che leggevano il New York Times e ci ignoravano.

«Ormai è chiaro, hai parlato con mia nonna.» Nessun altro sapeva del lavoro di papà.

«Ti ho già detto di no.» Sbuffai, confusa quanto irritata. L’autobus si fermò. «Devo scendere qui.» Il ragazzo mi bloccò per un braccio, e io mi liberai con uno

strattone. «Non mi lascio ricattare da te» gli dissi in faccia. La sua espressione era imperscrutabile. «Posso darti qualcosa in cambio» propose all’improvviso.

«Dimmi cosa ti serve. Favori, oppure soldi. Magari molti soldi.» «Cosa? No! Non mi serve niente, grazie.»

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«Ci deve pur essere qualcosa che vuoi» disse, fissandomi con quegli occhi color acquamarina. «Qualcosa che sia davvero importante per te.»

La cosa più importante per me. Quelle parole mi ricordaro-no una sensazione lontana: come un sogno che ti ha lasciato nel petto un alone di paura, e che al contempo ti ha meraviglia-to, ma che hai comunque finito per dimenticare.

Ma certo. Come avevo fatto a non pensarci? «L’appartamento» dissi. «Cosa?» «Signorina, deve scendere?» masticò l’autista del bus insie-

me alla gomma. Ormai sapeva che quella era la mia fermata, prendevo lo stesso autobus tutte le sere.

«Un momento» dissi, poi continuai rivolta a Dexter. «L’appartamento al numero 13 di Stars Street, quello in cui andrai ad abitare.» Non potevo chiedergli di lasciarmelo, so-prattutto perché non potevo permettermi di mantenerlo da so-la. Non del tutto, almeno. «Dividiamolo.»

Il ragazzo sgranò gli occhi. «Signorina?» mi richiamò il conducente. «Lo so, lo so» dissi in fretta e tornai a fissare Dexter. Che

stava sorridendo. «Tu vorresti vivere con me?» chiese. «Voglio vivere in quell’appartamento. È un problema?» Lui scosse la testa divertito, ma non riuscii a capire cosa si-

gnificasse. «Signorina?» «Affare fatto» rispose Dexter. Mi strinse la mano e io ricambiai la stretta, poi saltai giù

dall’autobus e camminai senza guardarmi indietro. Era appena avvenuto qualcosa di diverso nella mia vita.

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2

Coinquilino

Pensavi che queste strade

Fossero d’oro, invece Sono sporche e tetre

HOLLYWOOD UNDEAD, Been To Hell

3° giorno: Così mi ritrovai a trascinare un trolley con dentro i miei libri

e uno zaino coi vestiti verso la porta azzurra del numero 13 di Star Street.

La nonna aveva preso la notizia abbastanza bene. «Speravo che saresti tornata a New York con me, cucciola»

aveva ammesso. Gliene avevo parlato quella mattina, mentre eravamo sedute in cucina, io in pigiama e lei in accappatoio spugnoso, davanti a due tazze di cioccolata calda. «Sei proprio sicura che sia quello che vuoi?»

Sapevo che se fossi andata a vivere a Star Street non ci sa-rebbero più state la mia stanza, le mie abitudini, quelle pareti con la carta da parati strappata, così rassicuranti e familiari. Ironico: stavo parlando proprio delle pareti da cui avevo sem-pre voluto scappare.

Alla fine ero riuscita a convincerla che quasi diciotto anni erano abbastanza per andare a convivere con un quasi scono-sciuto, e cominciai a scrivere una lista intitolata Cose da portare in cui erano elencati vestiti, scarpe, cappotti, cerotti, torcia e qua-derni per scrivere.

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La mia matrigna Susan non mi avrebbe mai permesso di andare, ma per fortuna non era lì: trovavo un po’ strano che né lei né papà chiamassero da un mese intero, ma non avevo certo intenzione di lamentarmi.

La verità era che non mi mancavano. Non dovetti nemmeno suonare, perché sulla soglia incontrai

l’anziana inquilina del piano terra, che rientrava con un’abbondante busta di cibo per gatti.

Mi fece entrare e mi sorrise. Il trolley si incastrò più volte lungo la stretta scala in cima alla quale si trovava la porta del mio nuovo appartamento. Solo che, quando bussai, ad aprirmi fu un tipo con la testa rasata pieno di tatuaggi.

Dentro la musica era così alta che sentivo ronzare le pareti. Dovevo aver sbagliato indirizzo, pensai nel panico, mentre lui mi squadrava dalla testa ai piedi. Poi disse:

«Sandman, è arrivata.» «Falla entrare» rispose la voce di Dexter. Ero già stata in quell’appartamento: l’odore buono del pa-

vimento di legno, la carta da parati a fiori del piccolo soggiorno che in fondo diventava una cucina senza porta, poco più gran-de di una cabina telefonica… tutte quelle cose mi erano fami-liari. Tutto il resto era un disastro.

Appena entrata fui assordata da Sexy And I Know It di LMFAO e rischiai di inciampare nei libri, una marea di libri sparsi al suolo insieme a cose come un mappamondo, un flip-per, un pianoforte che chissà come era passato dalla porta, un giradischi antico, alcune tele che contenevano bei paesaggi la-sciati a metà, un orologio a pendolo, la testa di un bisonte im-pagliato, la gabbia di Little Jack – vuota –, lampade di dubbio gusto e una piccola scala a chiocciola con le ruote che serviva a raggiungere i ripiani più alti delle librerie.

Dexter si trovava sprofondato sulla poltrona zebrata, con addosso i pantaloni del pigiama a scacchi rossi e una t-shirt bianca. Aveva una stecca di legno in mano, mentre osservava

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attentamente l’uomo coi tatuaggi fare la sua mossa su un tavolo da biliardo.

Il ragazzo biondo non alzò nemmeno lo sguardo quando entrai, ma le persone con lui sì.

«Potevi dirci che aspettavi una ragazza, Evan» disse una donna dalle gambe chilometriche, seduta sul bracciolo della poltrona; aveva lunghissimi capelli ramati, la pelle arancione per le troppe lampade e un vestito dorato, quasi più corto degli slip. «Ci saremmo tolti dai piedi.»

«Non è una ragazza» la corresse il ragazzo biondo. «Io sono una ragazza» risposi confusa. «E… credevo che ti

chiamassi Dexter.» «So che sei una ragazza» sbuffò Evan, o Dexter, o qualunque

fosse il suo vero nome. «Non una ragazza in quel senso, però.» «Tocca a te, Sandman» disse un’altra tizia anoressica e mol-

to simile alla prima, che fumava una sigaretta e indossava abiti attillati altrettanto dorati.

Sembravano tutti presi dalla loro partita e nessuno mi calco-lò più. Lo ammetto, non mi ero aspettata quell’accoglienza, e per un attimo mi chiesi se non sarebbe stato meglio uscire da lì, sbattermi la porta alle spalle e non tornare mai più in quel po-sto assurdo.

Invece presi un bel respiro e dissi: «Dove metto la mia roba?» Evan si sedette sul bordo del tavolo da biliardo, con un bal-

zo agile, e si piegò in avanti per prendere la mira con la stecca. «Pensavo che potresti sistemarti nella stanza in cima alle

scale. La dieci in buca d’angolo.» Uno schiocco e la palla finì in buca.

«Mi spieghi come fai a vincere sempre?» borbottò il tipo coi tatuaggi.

«Semplice: io so fare tutto.» Quando Evan le aveva chiamate scale aveva esagerato, dato

che si trattava di pochi gradini che salivano nella parete, quasi

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una fenditura che portava a… uno sgabuzzino. Mi ritrovai a fissare un’aspirapolvere e alcuni scatoloni illuminati da una lampadina che dondolava da un filo di cavi sul soffitto della stanza minuscola.

Lasciai il trolley, più che altro perché mi cadde di mano, e marciai di sotto.

«Non dormirò nello sgabuzzino!» Si voltarono tutti a guardarmi, chi seduto sul tavolo da bi-

liardo, chi sulla poltrona zebrata, chi sulle pile di libri. «Dormi dove ti pare, allora.» Evan era rilassato come al soli-

to. «Le altre stanze sono il bagno, la cucina e poi c’è la mia camera. Se volevi dormire con me bastava chiedere.»

Trattenni un ringhio esasperato. No, dovevo calmarmi, non avrei fatto il suo gioco.

Andai al frigo, per capire com’era la situazione dal punto di vista viveri. Vuoto, eccetto per qualche scatola di cibo cinese e per la scimmia, che schizzò fuori non appena aprii lo sportello.

«Vuoi giocare con noi, Black? …Ehi, dove vai?» chiese Evan quando gli passai davanti, diretta alla porta. Non mi ero neanche tolta il cappotto da quando avevo messo piede lì.

«A fare la spesa. Non c’è nemmeno lo zucchero» dissi. «È stato un piacere conoscerti» mi salutò allegramente una

delle ragazze, sventolando una mano piena di smalto coi bril-lantini. Per un attimo mi sembrò che avesse le dita lunghe il dop-pio e coperte di piccoli rampicanti verdi, con tanto di foglioline e baccelli… ma l’attimo dopo mi accorsi che non era vero.

Forse avevo dormito poco. «Vengo con te» decise Evan. «Devo giusto andare in un posto.» «Cosa? Ci lasci così?» miagolò l’altra ragazza. «Quando finite chiudete la porta» rispose Evan. «Sai che sei in pigiama, vero?» chiese l’uomo coi tatuaggi. Evan sembrò accorgersene solo allora, ma scrollò le spalle,

prese il giubbotto di pelle dall’appendiabiti a muro e mi seguì.

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«Non hai nemmeno le scarpe» dissi guardando i suoi piedi nudi che si muovevano sul marciapiede.

«Dovevo mettermi le mie pantofole coniglietto?» «Cammina lontano da me: sei imbarazzante.» «Non ho davvero delle pantofole simili» ridacchiò Evan.

«Sai cos’è strano?» «Tu?» «È strano che l’ho capito solo nel momento in cui mi hai

chiesto di dividere l’appartamento.» Mi fermai. «Che cosa hai capito?» Si fermò anche lui e sollevò una mano, con indice e medio

alzati. «Che ora ho due cose che tu vuoi, mentre tu solo una. Ab-

biamo barattato il tuo silenzio con metà del mio appartamento, ma io ho ancora queste informazioni.» Mi mostrò il suo costo-sissimo cellulare. «Soprattutto quella del tuo Twinki-papà.»

«Vuoi abbassare la voce?!» In quel momento un suono squillante mi fece saltare in aria.

Mi guardai in giro, ma c’era solo un gatto bianco seduto sul tet-to di una macchina: doveva aver fatto suonare l’allarme.

Anche Evan guardò il gatto, quasi con sospetto. Io sospirai e ripresi l’argomento.

«Cosa vuoi in cambio, uomo dei patti?» Evan mi sorrise in modo sornione e aprì bocca per rispon-

dere, ma si bloccò così. «Non lo so ancora.» Come avevo fatto a finire con un idiota simile come coinquilino? «Ma ci penserò.» Mi sventolò il cellulare sotto il naso, matu-

ro come un dodicenne, poi lo fece scivolare in tasca. «Tanto per cominciare potresti darmi una mano. Farmi da spalla.»

«Spalla?» ripetei confusa. «Come Robin e Batman?» «Chi?»

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«Vuoi dire che non conosci Batman?» Lo guardai e mi bloccai: non indossava più il pigiama, ma uno smoking bianco d’altri tempi, con tanto di nastro di velluto nero al collo e scar-pe eleganti. «Come hai fatto?»

«Andiamo, Robin» disse, evitando di rispondere e assumen-do una camminata da perfetto dandy con le mani in tasca.

«No, ora mi dici come hai fatto!» Stavolta ero io a inseguirlo. Inseguivo un idiota super elegante in mezzo alla piazza principa-le della città, mentre i passanti si voltavano a guardarci incuriosi-ti. Le strade erano intasate di foglie rosso sangue e vicino alle porte delle case cominciavano ad accumularsi le zucche intaglia-te, segno che mancava una settimana ad Halloween.

«Dove stai andando?» gli dissi dietro, mentre attraversava-mo il piccolo parco col gazebo che da dopo il terremoto era ancora circondato dai cartelli LAVORI IN CORSO, come molti altri edifici. «Il supermercato è dalla parte opposta.»

«Giusto, ma ti ho detto che devo andare in un posto, prima» rispose Evan.

«Che succede lì?» Di solito era raro trovare qualcuno in li-breria, mentre ora una fila di persone coi libri in mano occupa-va tutto il marciapiede e si accalcava sulla porta del negozio.

Ovunque erano appesi manifesti con la copertina di un nuovo libro, su cui spiccava il protagonista: un ragazzo prati-camente perfetto, con i capelli biondo pallido, disteso su un tappeto di rose come se dormisse, con addosso degli abiti otto-centeschi bianchi e una corona rovesciata lì vicino.

«Evan, quel personaggio… sembri tu» dissi stupita. «Perché sono io.» Lo guardai senza capire, ma Evan si diresse da quella parte,

evitò la fila e andò dritto all’entrata. Dove fu bloccato da un buttafuori grosso come un gorilla.

«Mettiti in fila.» «Certo» rispose il ragazzo, poi mi prese per mano e mi tra-

scinò sotto il braccio del buttafuori.

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«Fermo! Non ha pagato l’ingresso!» gridò questi, ma ormai eravamo stati inghiottiti dalla folla che rimpinzava il piccolo spazio come un tacchino a Natale: quasi tutti erano vestiti con abiti ottocenteschi, giacche a due code, cappelli a cilindro e gonne con strascichi ingombranti in cui rischiai di inciampare ogni due passi.

Uno striscione in alto diceva: SOLO PER OGGI ROGER WINEFIRE FIRMERÀ LE COPIE DEL SUO LIBRO “IL PRINCIPE ADDORMENTATO” VOLUME 6 (I PROVENTI SARANNO UTILIZZATI PER LA RISTRUTTURAZIONE DI FOLKLORE).

Ecco perché quella confusione: l’uscita di un libro. «In che senso…» ripresi seguendolo a fatica, mentre lui con-

tinuava ad avanzare facendosi largo nella calca. «In che senso sei tu?»

«Quando ti ho chiesto di non parlare di quello che avevi vi-sto, a cosa pensavi che mi riferissi?»

«Alle, ehm…» esitai «…armi, no?» «Perché dovrei vergognarmi di avere delle armi?» Fece una

faccia seriamente confusa. «Mi riferivo a questo.» Avevamo guadagnato due posti da cui era visibile l’angolo

della libreria in cui si trovava il tavolo col microfono, dove era seduto Roger Winefire, lo scrittore del libro. Non mi aspettavo che fosse un ragazzo più magro di me, con i capelli rosa frago-la, vari piercing infilzati nelle sopracciglia e nelle orecchie e una maglietta con la testa dei Combichrist. Alle sue spalle si trovava una sagoma di cartone a grandezza naturale del prota-gonista, che era la copia spiccicata di Evan, ma vestito con abiti vittoriani.

«In quel baule ho tutti i volumi de Il Principe Addormentato» spiegò Evan al mio orecchio.

«Continuo a non capire» ammisi però. «Tanto per comin-ciare, perché qualcuno dovrebbe scrivere un libro su di te?»

«Perché sono un figo?» Lo disse come se fosse la risposta più ovvia.

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Mi guardai intorno nervosa. «Non avremmo dovuto entrare così. Scommetto che quel gorilla ci troverà.»

Alla parola scommessa, il ragazzo mi guardò subito. «Cosa ci giochiamo?» Ci pensai su pochissimo. «La camera da letto» risposi. «Se ci

scoprono tu vai a dormire nel ripostiglio.» «Andata.» Cercai di fare attenzione a Winefire, che stava mangiando

uno snack da distributore automatico e aveva l’aria scompiglia-ta di chi si è appena alzato al mattino. Nonostante fosse pieno pomeriggio.

In quel momento una ragazza corpulenta tra il pubblico al-zò la mano e chiese:

«Come mai ha deciso di far finire la storia così?» «Fi fiferisci al faffo…» rispose Winefire con la bocca piena,

poi deglutì. «Ti riferisci al fatto che il protagonista si trasforma in una stella?»

Ma che razza di libro sarebbe?, pensai. «No» disse la ragazza. «Al fatto che dopo muore.» «In che senso muore?» chiese Evan indignato. «Non avevi tutti i volumi?» chiesi. «Tutti tranne l’ultimo!» Aveva parlato a voce abbastanza al-

ta da udirsi sopra il baccano. Winefire, che stava per risponde-re alla domanda spoiler della lettrice, ci notò e si alzò di scatto: fissava soltanto Evan e aveva gli occhi sgranati. Lasciò cadere la merendina e cominciò ad arretrare.

«Tu!» L’attimo dopo il buttafuori afferrò il ragazzo biondo e lo inchiodò al muro. Era seguito da un secondo omone, altret-tanto grosso. «Fuori di qui o ti spacco la faccia.»

«Non serve» intervenni, con uno slancio di coraggio venuto da chissà dove. «Ce ne andiamo.»

Ma Evan stava sorridendo e guardava verso la sedia di Wi-nefire, che ora era sparito.

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«Ti dico io cosa succederà, amore» mormorò rivolto al but-tafuori che lo teneva. «Tra un secondo la persona da cui prendi ordini ti contatterà, ti dirà di lasciarmi andare e tu dovrai farlo. Magari ti chiederà anche di darmi un passaggio a casa.»

I buttafuori lo guardarono come se avessero capito di avere davanti un pazzo. «Io non credo proprio.»

L’uomo staccò una mano dai vestiti di Evan, forse per col-pirlo, ma squillò un cellulare. Dovette prenderlo dalla tasca.

«Pronto?» Mentre ascoltava, continuando a guardare Evan, la faccia del buttafuori si fece prima delusa e poi contratta dalla rabbia. «Sì, signore. Ho capito.» E chiuse la chiamata.

Evan gli fece un gran sorriso da demone. «Abitiamo al numero 13 di Star Street.»


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