COME ALLA CORTE DI FEDERICO II OVVERO
PARLANDO E RIPARLANDO DI SCIENZA
I PARA-DOXA DELLA DEMOCRAZIA 9 di Piergiorgio Odifreddi DEMOCRAZIA E MATEMATICA 11 di Giuseppe Galasso PARADOSSI E VERITÀ MATEMATICHE IMBARAZZANTI 13 di Nicola Fusco VINCA IL MIGLIORE, PURCHE SIA IL PERDENTE! 15 di Luigi Spina LE VIE MATEMATICHE DELL’EQUITÀ 17 di Achille Basile PARADOSSI E DEMOCRAZIA 19 di Michele Malatesta
“Siamo in un paese democratico”, si sente spesso dire, come se fosse evidente. I politici a volte mettono in dubbio l'affermazione in una forma debole: disputando, cioè, se veramente il nostro sia un paese democratico.
Ma l'affermazione si può mettere in dubbio in forma forte: negando, cioè, che la democrazia esista.
Piergiorgio Odifreddi
Piergiorgio Odifreddi è nato a Cuneo il 13 luglio 1950. Si è
laureato in matematica a Torino nel 1973; si è specializzato
presso le Università dell'Illinois nel 1978-79 e della California
nel 1982-83. È stato Visiting Professor di logica matematica
presso le Università di: Novosibirsk (Unione Sovietíca) nel 1982
e 1983; Melbourne (Australia) nel 1989; Pechino (Cina) nel
1992 e 1995 e Nanchino (Cina) nel 1998; Buenos Aires
(Argentina) nel 2001.
Dal 1983 al 2001 è stato Professore Associato presso
l'Università di Torino, dal 2001 al 2008 è stato Professore
Ordinario di Matematica all'Università di Torino, dal 1985 è
Visiting Professor presso l'Università di Cornell (Stati Uniti).
Il suo lavoro scientifico riguarda la logica matematica e, più in particolare, la teoria della calcolabilità, che
studia potenzialità e limitazioni dei calcolatori. Nel 1989 ha pubblicato il primo volume di Classical
Recursion Theory e nel 1999 il secondo. Nel 1990 ha curato Logic and Computer Science. Il suo lavoro
divulgativo esplora le connessioni fra la matematica e le scienze umane, dalla letteratura alla pittura,
dalla musica agli scacchi. Ha vinto il Premio Galileo 1998 per la divulgazione scientifica. Collabora a La
Stampa, Tuttoscienze, Scienza Nuova, Le Scienze, Sapere e La Rivista dei Libri; partecipa alla
trasmissione radiofonica Lampi della Rai. È organizzatore, con Michele Emmer, degli incontri annuali
Matematica e cultura di Venezia. Ha terminato i volumi Dalla Galilea a Galileo, La matematica del '900 e
Labirinti dello spirito, pubblicati da Einaudi.
Titoli e Premi
1973 Laurea in Matematica con 110 e lode, Università di Torino;
1981 Premio dell'American Mathematical Society (1.000 dollari) per l'articolo "Strong Reducibilities'';
1998 Premio Galileo dell'Unione Matematica Italiana (5 milioni di lire) per la divulgazione;
2002 Premio Peano della Mathesis, e Premio Giovanni Maria Pace della Sissa (1500 euro), per C'era
una volta un paradosso; Premio Fiesole per la divulgazione;
2003 Premio Castiglioncello (1500 euro) per C'era una volta un paradosso;
2005 Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana, per motu proprio del Presidente Ciampi
2006 Premio Italgas per la divulgazione;
Bibliografia
Classical recursion Theory, North Holland, 1989; Classical recursion Theory, Volume II, North Holland,
1999; Il Vangelo secondo la Scienza, Einaudi, 1999; La matematica del Novecento, Einaudi, 2000; Il
computer di Dio, Cortina, 2000; C'era una volta un paradosso, Einaudi, 2001; La repubblica dei numeri,
Cortina, 2002; Zichicche, Dedalo, 2003; Il diavolo in cattedra. La logica matematica da Aristotele a Kurt
Gödel, Einaudi, 2003; Divertimento geometrico - Da Euclide ad Hilbert, 2003, Bollati Boringhieri; Le
menzogne di Ulisse. L'avventura della logica da Parmenide ad Amartya Sen, Longanesi, 2004; Il
matematico impertinente, Longanesi, 2005; Penna, pennello, bacchetta: le tre invidie del matematico,
Laterza, 2005; Idee per diventare matematico, Zanichelli, 2005; Incontri con menti straordinarie,
Longanesi, 2006; Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), Longanesi, 2007.
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Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II
I PARA-DOXA DELLA DEMOCRAZIA Piergiorgio Odifreddi Professore di Logica matematica Università degli Studi di Torino Tratto da ‘C’era una volta un paradosso. Storie di verità ed illusioni rovesciate’ (Giulio Einaudi Editore/2001)
Winston Churchill diceva che la
democrazia è la peggiore forma di governo, a
parte tutte le altre che sono state provate. Ma
sapeva che il miglior argomento contro la
democrazia sono cinque minuti di conversazione
con un elettore (o con un politico). George
Bernard Shaw definiva la democrazia come
l’assicurazione di non essere governati meglio di
quanto ci meritiamo. E aggiungeva che l’avvento
della democrazia aveva sostituito la nomina di
pochi corrotti con l’elezione di molti
incompetenti. Gustave Flaubert identificava il
sogno della democrazia nell’elevazione del
proletariato allo stesso livello di stupidità
raggiunto dalla borghesia. Bertrand Russel
precisava che gli eletti non possono essere più
stupidi dei loro elettori.
Sembra dunque che la democrazia abbia
i suoi problemi, per risolvere i quali sono state
avanzate alcune paradossali proposte letterarie.
Ad esempio, Il parlamento di Jorge Luis Borges
suggerisce che, per ottenere una rappresentanza
veramente rappresentativa, un’elezione debba
eleggere tutti gli elettori. All’estremo opposto,
Diritto di voto di Isaac Asimov ritiene sufficiente
che alle elezioni venga interpellato un solo
votante, purché sufficientemente
rappresentativo. Infine Noi di Evgenij Zamjatin
propone che si considerino come veramente
democratiche soltanto le votazioni palesi e
unanimi.
Queste provocazioni letterarie si possono
facilmente accantonare con un sorriso. Non così
quelle logiche e matematiche la cui rimozione è
meno agevole. I paradossi della democrazia
sono infatti svariati e subdoli, come sapevano
già gli antichi. Ad esempio, si può instaurare una
dittatura in maniera legale? Se sì, la libertà
potrebbe avere i giorni contati; se no, è limitata
già ora. Oppure, si può eliminare l’articolo che
permette le revisioni costituzionali? Se sì, il
potere di revisione è in pericolo; se no, è
incompleto.
Forse il più ovvio dei paradossi della
democrazia è una semplice variazione sul tema
del sorite, sul quale torneremo in seguito:
poiché nelle elezioni con molti elettori non
succede mai che il vincitore vinca per un solo
voto di differenza, nessun singolo voto è
determinante. Dunque, tanto vale non andare a
votare.
Gli ulteriori paradossi che andiamo ad
enunciare riguardano invece la pratica della vita
democratica, una volta che si sia deciso di
andare comunque a votare. Non è infatti per
niente chiaro come (o addirittura se) si possano
determinare gli eletti, o distribuire i seggi, in
maniera logicamente soddisfacente (…).
Siamo così ritornati al punto di partenza:
che le persone razionali non avrebbero motivi
per andare a votare. Ma se solo gli irrazionali
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votano, non possiamo poi stupirci né dei risultati
delle votazioni, né della conseguente serie di
apprezzamenti sulla democrazia con la quale
abbiamo iniziato il discorso. Per finirlo con una
parola buona dobbiamo ammettere che un
vantaggio la democrazia ce l’ha: ora si contano
tutti i voti, mentre una volta solo i Conti
votavano.
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DEMOCRAZIA E MATEMATICA Giuseppe Galasso Professore Emerito di Storia moderna Università degli Studi di Napoli Federico II
A che giovano certi esercizi di logica? Sul
piano della teoria e del metodo, possono servire
a molte cose, come, ad esempio, a precisare le
condizioni per cui un problema ha senso. E
proprio quest’ultimo fine le osservazioni di
Odifreddi sembrano, invece, mancare del tutto.
Beninteso, la democrazia ha i suoi problemi (e
quali!) anche di teoria. Lo si è sempre saputo. Il
fin troppo citato motto di Churchill, che, in
sostanza, definisce la democrazia come il meno
peggio di tutti i regimi conosciuti, è un motto
paradossale solo in apparenza. In realtà, è frutto
di semplice realismo e buon senso, ed è del tutto
compatibile coi più grandi principii ideali per cui
la democrazia è sentita e pensata come valore,
benché innumerevoli scettici le imputino proprio
di mancare di profonde basi e motivazioni ideali.
Peggio di tutte anche per la democrazia,
sono, comunque, le critiche fondate su
paralogismi, ossia su ragionamenti non validi dal
punto di vista logico, pur se di una verità hanno
l’apparenza. Atteniamoci anche noi alla sostanza
pratica delle cose. Nel famoso paradosso di
Zenone il pie’ veloce Achille non raggiunge mai
la tartaruga, perché in teoria lo spazio di
vantaggio di quest’ultima è divisibile, senza
limiti, in frazioni che lo rendono irriducibile per
questa via. Nella vita, ossia nella storia, noi
sappiamo, però, che Achille passa subito in
vantaggio al primo passo della sua rincorsa.
Quel paradosso ha un certo ufficio logico, ma è
del tutto inane, anzi è ridicolo se si vuole
giudicare la gara tra Achille e la tartaruga. Così:
è più importante che i cittadini (in democrazia, i
sovrani) conservino la facoltà e il potere di
modificare i loro ordinamenti o che sia
formalmente completo o incompleto questo
diritto-potere? E ci si chiede se si possa o non si
possa instaurare democraticamente una
dittatura. La storia ci dice che da sempre la via
democratica alla dittatura è stata possibile E con
ciò? Il problema non è mai stato logico, bensì
sempre politico. E fuori della politica non se ne
capisce di più; anzi, non si capisce più nulla.
Sul piano politico si è detto che quel che
conta in democrazia è l’azione delle classi
dirigenti, delle élites, dei grandi e piccoli gruppi
organizzati, che orientano, condizionano e
manovrano il corpo elettorale. O che i poteri
formali costituiti per la via democratica delle
elezioni contano ben poco rispetto ai grandi e
piccoli gruppi di potere e d’interesse che
agiscono dietro e al di sopra di loro. O che le
elezioni sono ‘ludi cartacei’ al servizio di una
gigantesca mistificazione ideologica.
Votano solo gli irrazionali? Bene. Ma in
ogni democrazia vota quasi sempre più del 50%
degli elettori. Vuol dire che ovunque la
maggioranza degli uomini è irrazionale? Ma, se è
così, non se ne può disconoscere il diritto a
governare. Il mio voto è sempre marginale
perché non si vincono mai le elezioni per un solo
voto? Pura idiozia. Non si può mai sapere in
anticipo quale sarà il fatidico voto che dà la
maggioranza. E poi non è lo stesso se si vince
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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Potenzialità e limiti della ragione
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per un voto o per un milione di voti. Dopo tutto,
l’aritmetica conta (e quanto!) anche in politica,
ma non lungo il sentiero di paralogismi privi di
senso storico e pratico, bensì come un potente,
primigenio e indispensabile ausilio e strumento
della vita intellettuale, morale e civile delle
comunità umane. La vita, cioè, in cui la
democrazia è un valore e una tecnica che i
sofismi e le ‘agudezas’ di matematici e non
matematici non valgono né a rafforzare, né a
contestare.
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PARADOSSI E VERITÀ MATEMATICHE IMBARAZZANTI Nicola Fusco Professore di Analisi matematica Università degli Studi di Napoli Federico II
Fin dagli albori della sua storia la
matematica si è imbattuta in paradossi e
antinomie di ogni genere che l’hanno portata a
rivedere e approfondire certi concetti
fondamentali, svolgendo quindi un ruolo positivo
nello sviluppo di questa scienza.
La matematica moderna non fa
eccezione. In particolare la teoria della
probabilità è una fonte quasi inesauribile di
verità matematiche che spesso vanno contro
l’intuizione o il senso comune di ciascuno di noi.
Un esempio è il paradosso dei due
bambini. Se un amico vi dice che, dopo aver
avuto un primo figlio maschio, sua moglie è di
nuovo incinta, penserete che la probabilità che
ora gli nasca una femmina sia del 50%. In effetti
è così. Se invece un amico che non vedevate da
tempo vi racconta che ha due figli e che uno dei
due si chiama Marco e vi chiedete quale è la
probabilità che l’altro figlio sia una femmina, la
risposta stavolta non è il 50%, ma più alta, circa
il 67%. Non è possibile? Eppure un piccolo
schema con tutte le combinazioni di sessi nelle
coppie con due figli porta subito alla soluzione
giusta.
Un altro esempio sconcertante è il
paradosso di Monty Hall, dal nome del
conduttore di un quiz show americano durante il
quale fu sollevata la questione. Nel gioco, al
concorrente veniva chiesto di aprire una porta
scelta fra tre. Dietro due di queste c’era come
premio una capra e dietro una sola una lussuosa
automobile. Il concorrente sceglieva la porta,
diciamo la numero 1, e poi il conduttore,
sapendo cosa c’era dietro ogni porta, ne apriva
una seconda, mettiamo fosse la 2, dietro la
quale c’era una capra. Poi veniva la domanda
fatidica: ‘tieni la porta che hai già scelto o la
cambi con la terza?’” La maggior parte delle
persone pensa che in ogni caso la probabilità di
vincere sia la stessa. Eppure, una corretta analisi
porta alla conclusione, apparentemente
paradossale, che se si cambia porta si vince due
volte su tre, se ci si tiene quella già scelta si ha
solo una probabilità su tre di vincere!
Un caso di verità matematiche
francamente imbarazzanti (almeno per i
matematici) è fornito dai cosiddetti Teoremi di
Gödel, il matematico tedesco che li scoprì nel
secolo scorso. Detta alla buona, questi risultati
dimostrano che, contrariamente a quanto
suggerito dal senso comune e a quanto creduto
fino ad allora, in matematica non esistono solo
affermazioni vere e dimostrabili, come ‘un
quadrato ha tutti gli angoli uguali’, o
affermazioni false, come ‘due più due fa cinque’,
ma ci sono affermazioni che non sono né vere,
né false, semplicemente, ci ha detto Gödel,
indecidibili. Teoremi cioè che i matematici
possono, con un atto di fede, decidere di
accettare o rifiutare senza che la cosa porti ad
alcuna conseguenza disastrosa. Veramente
imbarazzante per degli uomini di scienza!
Ma queste sono giusto curiosità
intellettuali, magari interessanti e carine, senza
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Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II
risvolti pratici? Beh, non è proprio così. Ci sono
verità matematiche contrarie alla nostra
intuizione di cui faremmo bene a tener conto
nella realtà.
Una ce la fornisce la teoria dei giochi. Il
teorema che ha reso famoso il grande
matematico John Nash afferma che in un ‘gioco’
nel quale ognuno dei giocatori cerca di fare il
meglio per sé si giunge sempre ad una
situazione di stallo, detta equilibrio di Nash,
nella quale nessuno può migliorare più la propria
condizione e raggiunta la quale il ‘gioco’ finisce.
Niente di sorprendente, si dirà. Purtroppo molto
spesso accade che il guadagno finale di ogni
giocatore (tenete conto che ognuno ha cercato
di ottenere il massimo per sé) sia nettamente
inferiore a quello che essi avrebbero avuto se
all’inizio avessero deciso di collaborare tutti
insieme.
Questa è certamente una verità
matematica scomoda. Peccato che non ne
abbiano tenuto conto i protagonisti dei giochi
finanziari che ci hanno portato all’attuale crisi
economica e quelli dei giochi geopolitici che
hanno acceso tante guerre in giro per il mondo.
Post Scriptum: se siete troppo pigri per risolvere
i due paradossi da soli, andate su Wikipedia e
digitate ‘paradosso dei due bambini’ e ‘problema
di Monty Hall’. Troverete la soluzione spiegata in
modo chiaro e semplice.
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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Potenzialità e limiti della ragione
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VINCA IL MIGLIORE, PURCHE SIA IL PERDENTE! Luigi Spina Professore di Filologia classica Università degli Studi di Napoli Federico II
Avercela, un’opinione! A me vengono in
mente solo sondaggi. Non riesco a pensare se
non in percentuali: voglio qualcosa al 57%, non
la voglio al 33%, sono indeciso al 10%. Voi
direte: semplice, fai prevalere la maggioranza.
La maggioranza di me? E a quale parte
corrisponde? Qual è, gramscianamente, il suo
blocco anatomico o neurologico? E la mia
ombra? Vorrà anche lei governare le mie scelte ?
Una volta era più semplice, voglio dire prima
della DOXA. Prima della DOXA c’era la doxa,
l’opinione che si formava nel corso degli anni e si
assestava nell’età matura. Poche opinioni, ma
buone. Poco importa che il mondo cambiasse. Le
opinioni rimanevano solide, attaccate alla
persona come il granchio allo scoglio. Allora,
quando c’era la doxa, il 57% aveva un’opinione,
il 33% aveva l’opinione contraria, il 10% era
indeciso. Era facile che la maggioranza avesse la
vittoria. In genere, parlo sempre di allora, la
minoranza, un po’ per passare il tempo, un po’
per non morire, rifletteva finalmente sulle sue
opinioni. Fu durante una di queste riflessioni che
fu scoperto il paradosso (parà dòxan: c’è sempre
stato, in ogni minoranza, qualcuno che
conosceva bene il greco, o che, semplicemente,
era greco): è possibile, si scoprì, pensare
qualcosa che metta in luce meandri segreti nelle
stesse opinioni consolidate, superandone il
meccanismo, qualcosa che, svelando trame
logiche impensate, funzioni come una sorta di
prodigio. Non a caso Cicerone voleva che i latini
li chiamassero admirabilia. Il paradosso è
dunque l’arma dell’opinione minoritaria, quella
che trasforma la realtà di fatto in una realtà
virtuale, in una realtà che funziona con… l’altra
faccia dell’opinione maggioritaria. Ad esempio:
solo chi ha perso è il vero vincitore… morale.
Quanto tempo è passato da allora, quanti elogi
paradossali, come quello della mosca, del fumo
o di Tersite – e altri nomi non ne faccio! Oggi,
nel tempo della DOXA (anche se ora ha molti
nomi differenti, sempre DOXA rimane), si
potrebbe solo scoprire il paradosso dei sondaggi;
ma ci vorrebbe una minoranza capace di
riflettere. Ormai, invece, ciascuno di noi pensa,
al proprio interno, per sondaggi. Ci vorrebbe una
scelta radicale, starei per dire paradossale.
Proviamo a riflettere: i sondaggi di opinione
sono diventati, necessariamente, l’opinione dei
sondaggi. Anche un sondaggio che rivelasse che
l’80% delle persone non crede, non si fida dei
sondaggi, dimostrerebbe solo che il 100% ha
risposto, fideisticamente, a quel sondaggio.
Basterebbe, allora, non rispondere più ai
sondaggi. Sciopero generale delle risposte,
proclamato da tutte le sigle sindacali,
associazioni ONLUS, no-profit, COBAS e chi più
ne sa più ne metta. Non vogliamo più delegare
a nessuno la rappresentanza delle nostre
opinioni. Vogliamo esprimerle direttamente.
Attraverso il voto? E il paradosso della
democrazia? Quando il popolo si chiamava
demos e il potere kratos era facile parlare di
democrazia, ora fra populismo, popolari, poteri
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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Potenzialità e limiti della ragione
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forti, potentati – e di nuovo chi più ne sa più ne
metta – a volte si dubita perfino che esista una
democrazia. E pensare che Cicerone descrisse i
Paradossi degli Stoici ispirandosi a Catone
l’Uticense. Perché, spiegava, quando Catone
interveniva in Senato toccava argomenti
profondi, filosofici, lontani certo dall’oratoria
giudiziaria e politica, ma che riusciva a rendere
accessibili e verificabili dal popolo stesso. E poi
dice che uno si butta sull’antico!
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LE VIE MATEMATICHE DELL’EQUITÀ Achille Basile Professore di Matematica per l’economia Università degli Studi di Napoli Federico II
Solo recentemente, ieri per noi che
abbiamo ‘una certa età’, in un’epoca remota del
secolo scorso agli occhi dei nostri più giovani
dottorandi, all’epoca appena nati, un antico
verdetto (Talmud, Ketubot 93a) ha trovato una
spiegazione che ne sostiene e spiega le
prescrizioni.
Una sentenza atta a fare giustizia, per
duemila anni è apparsa incomprensibile.
La storia è questa. Un temerario sposa
tre donne e in ciascun contratto di matrimonio
promette alla sposa una somma dal proprio
lascito. Non promette la stessa somma. Forse
per il fascino declinante col tempo, fatto sta che
promette alla seconda il doppio che alla prima e
alla terza il triplo della somma promessa alla
prima moglie.
La lettura col caffè del mattino di cose
troppo complicate su un quotidiano, mi rendo
conto, può rovinare la giornata. Allora
tranquillizzo subito: il numero più grande che
scriverò sarà 300 e non importa capire 300 cosa.
Formule non ve ne saranno.
300 è quanto promesso dal meschino
all’ultima moglie; ben più del lascito che,
probabilmente una morte prematura ferma a
200 (cancellate dalle labbra quel sorrisetto
malizioso e concentratevi un momento).
Si capisce che cosa succede: le vedove si
rivolgono ad un saggio per ottenere quanto
giusto.
Ecco la prescrizione, sotto forma di una
regola che si applica in tre casi.
Se il lascito vale 100, ciascuna vedova
(le vedove reclamerebbero 100, 200 e 300)
riceve un terzo del tutto. Se il lascito vale 200,
la prima riceve 50 e le altre due 75 ciascuna. Se
il lascito vale 300 alle vedove vanno nell’ordine
50, 100 e 150.
Perché queste strane regole? Quale
ragionamento le sostiene? Perché non prevale
sempre la proporzione diretta come nell’ultimo
caso?
Affrontiamo una situazione più semplice.
Se il nostro, meno spavaldamente, si fosse
fermato a due matrimoni, allora potremmo
proporre il seguente principio di divisione
(Talmud, Bava Metzia 2a): la prima vedova, la
quale reclama solo 100, non partecipi alla
divisione dei secondi 100 che sarebbero pertanto
destinati alla sola seconda vedova; si ripartisca
poi in parti uguali la prima parte del lascito dal
momento che entrambe le vedove lo reclamano
per intero.
Insomma, la prima vedova avrebbe 50 e
la seconda 150.
Ma vediamo che cosa accadrebbe se
questo principio fosse applicato alle coppie di
vedove che si possono formare a partire da tre.
Dunque, a fronte delle rivendicazioni di 100, 200
e 300, il lascito va diviso in tre parti P, S e T che
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assommano a 200. Formiamo la coppia della
prima e terza vedova (nulla cambierebbe con
prima e seconda) esse si dividono P+T (ciò che il
Talmud prescrive pari a 50+75). Secondo il
nostro ragionamento, riconosciamo subito alla
terza vedova la differenza, se c’è, tra P+T e 100
(nel caso in specie 25) e visto che i restanti 100
sono reclamati per intero da entrambe le
signore, beh… allora li dividiamo in parti uguali.
Con la coppia della seconda e della terza
vedova, non si forma un eccesso di S+T rispetto
a 200 (che è sia la quota che entrambe almeno
reclamano sia il lascito), quindi non viene
riconosciuto nulla a priori alla terza vedova e la
ripartizione di S+T non può che avvenire in parti
uguali ed S coinciderà con T. Si capisce che
l’unica possibile soluzione è proprio 50, 75 e 75.
Analogamente si capisce che lo stesso
ragionamento sulle tre coppie di vedove porta a
50, 100 e 150 se il lascito è 300 o ad un terzo,
un terzo, un terzo nel caso del lascito pari a 100.
Problemi più generali di quello visto qui
hanno una soluzione perfettamente individuabile
sulla base del principio di ragionamento
presentato. Adattando le celebri parole di Pierre
de Fermat: ‘dispongo di una meravigliosa
dimostrazione di quanto affermo, fornitami da
Robert Aumann e Michael Maschler, ma non
entra nello spazio troppo stretto che ho sul
giornale’ e poi… il caffè sarà finito nel frattempo.
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PARADOSSI E DEMOCRAZIA Michele Malatesta Professore di Logica Università degli Studi di Napoli Federico II
Sotto il nome di ‘paradossi’ sono
ammucchiate, ai giorni nostri, le cose più
disparate: le contraddizioni generate dalla
confusione linguistica; certi aforismi che sotto
l’apparente falsità dicono cose vere come una
celebre legge di Murphy: ‘Le variabili non
mutano mai le costanti sì’; le antinomie. Qui
interessano queste ultime e ad esse ci si riferisce
usando il termine ‘paradosso’. Oggi si conta un
numero enorme di paradossi ed è difficile una
loro classificazione data l’eterogeneità degli
universi di discorso ai quali si riferiscono.
Nonostante siano state proposte varie
classificazioni – come per es. paradossi veridici e
falsidici (Quine), antinomie negative e positive
(Aimonetto) – conserva ancora piena validità la
distinzione fatta nel 1925 da Frank Plumton
Ramsey tra paradossi sintattici e semantici. I
primi violano le regole della sintassi; i secondi
nascono dalla confusione dei vari livelli
linguistici: linguaggio oggetto, metalinguaggio,
metametalinguaggio, ecc.
Facciamo due esempi relativi ai
paradossi sintattici: (i) ‘Luca è napoletano; ogni
napoletano è campano; dunque Luca è
campano’; (ii) ‘questa fragola è rossa; rosso è
un colore; dunque questa fragola è un colore’.
Anche chi non ha mai studiato logica si rende
conto che mentre la prima inferenza è corretta,
la seconda non lo è. Fin qui nulla di male: si
tratterebbe, nel secondo caso, soltanto di un
ameno giochetto linguistico. La tragedia ha
luogo quando, costruendo la teoria delle classi,
ci si trova tra le mani la seguente antinomia: la
classe di tutte le classi contiene se stessa come
elemento se e solo se non contiene se stessa
come elemento. Come risolvere l’antinomia?
Ritorniamo agli esempi di sopra: ‘napoletano’,
‘campano’ sono predicati di individui e pertanto
dello stesso tipo; ‘rosso’ è predicato di individuo;
‘colore’ è predicato di un predicato, e pertanto
non si può predicare di un individuo, essendo di
tipo diverso. ‘Luca appartiene alla classe dei
napoletani’ e ‘Luca appartiene alla classe dei
campani’ sono espressioni formulate
correttamente, ma ‘la classe dei napoletani
appartiene alla classe dei napoletani’
assolutamente no. Analogamente ‘questa fragola
appartiene alla classe delle cose rosse’ è
un’espressione formulata correttamente, ma
‘questa fragola appartiene alla classe dei colori’
non lo è, ed a maggior ragione non lo è
l’espressione ‘la classe dei colori appartiene alla
classe dei colori’. La classe di tutte le classi –
chiarirà Russell – non può essere un elemento
della classe, proprio come l’insieme dei libri di
una biblioteca non è un libro della biblioteca.
Proprio perché vengono violate le regole della
sintassi logica si generano le antinomie
sintattiche: basta scrivere correttamente e le
antinomie sintattiche scompaiono come per
incanto.
Come esempio di antinomie semantiche
prendiamo il Mentitore. Il paradosso ha una
lunga storia e nell’antichità costituì un vero
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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Potenzialità e limiti della ragione
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rompicapo tanto da produrre effetti addirittura
tragici, come ci testimonia un’epigrafe tombale,
riportata da Ateneo di Naucrati: ‘O viandante io
sono Filita: l’argomento chiamato il Mentitore e
le profonde meditazioni notturne mi condussero
alla morte’ (Dipnosofisti, IX, 401 E). Il
celeberrimo paradosso ha avuto varie
formulazioni. In Aulo Gellio troviamo: ‘se mento
e dico di mentire, mento o dico il vero?’ (Nottes
Atticae, XVIII, ii, 10); Alessandro di Afrodisia
riporta il seguente testo “chi dice ‘mento’, mente
e dice la verità contemporaneamente” (In
Sophisticos Elenchos, 171, 18). Vi può essere
anche una formulazione più semplice: ‘tutto ciò
che io dico è falso’.
Le antinomie semantiche si risolvono
distinguendo i livelli linguistici. A tal proposito
facciamo, in via preliminare, un esempio. Siano
due enunciati formulati in simboli matematici:
(�1) ‘2+2=4’; (�1) ‘2+2 =3’. Ci domandiamo: i
due enunciati sono veri o sono falsi? Nel primo
caso otteniamo un nuovo enunciato (�2)
“‘2+2=4’ è vero”; anche nel secondo otteniamo
un nuovo enunciato (�2) “‘2+2 =3’ è falso”. Ma
che cosa succede se andiamo a valutare anche
quest’ultimo enunciato? Otteniamo un ulteriore
enunciato (�3) «“‘2+2 =3’ è falso” è vero», cioè
che è vero che ‘2+2 =3’ è falso. Ora gli enunciati
(�1) e (�1) appartengono al linguaggio oggetto;
gli enunciati (�2) e (�2) appartengono al
metalinguaggio; l’enunciato (�3) al
metametalinguaggio. L’antinomia del Mentitore
si risolve attraverso l’analisi logica dei livelli
linguistici. Si deve chiedere ai fautori della
menzogna: quando asserisci ‘mento’ qual è
l’universo di discorso cui ti riferisci? Alfred Tarski
ha avuto buon gioco nel mostrare come il
Mentitore nasca dalla sovrapposizione e dalla
confusione di linguaggio e metalinguaggio e
pertanto come possa essere neutralizzato
distinguendo i due livelli linguistici.
Di natura del tutto diversa, e non certo
riconducibili a quelli sintattici o a quelli semantici
della logica matematica, sono i paradossi
concernenti la democrazia e questi vengono
analizzati da Piergiorgio Odifreddi in C’era una
volta il paradosso – Storie di illusioni e verità
rovesciate, Torino, Einadi 2001. L’Odifreddi,
sebbene deponga spesso l’abito severo del logico
matematico di valore, che egli in effetti è, per
indossare quello del tuttologo superficiale e del
panflettista – cosa che ha luogo perfino in alcuni
capitoli di questo libro – giustamente intitola il
capitolo settimo I para-doxa della democrazia,
(pp. 205-221), quasi a significare che, nel caso
in esame, non si tratta di asserzioni o
dimostrazioni che generano contraddizioni, ma
di asserzioni o anche di argomentazioni che
vanno contro (parà) l’opinione (doxa) corrente.
Ed il paradigma politico della società occidentale
dei giorni nostri è la democrazia. L’Odifreddi
riporta vari paradossi. Non mi è possibile in
questa sede discuterli tutti, cosa del resto
superflua, dal momento che lo ha fatto
egregiamente lui. Mi fermerò soltanto su uno.
A p. 206 l’Odifreddi riporta il paradosso
di I. Tammelo: ‘si può instaurare una dittatura in
maniera legale? Se sì, la libertà potrebbe avere i
giorni contati; se no, è limitata già da ora’.
Questo paradosso non prova nulla. Chiariamo
innanzitutto una cosa: la sfera dell’esercizio della
libertà non è mai assoluta; la mia libertà termina
dove comincia quella del mio vicino. La
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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Potenzialità e limiti della ragione
Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II
democrazia garantisce al massimo l’esercizio
della mia libertà nei limiti della mia sfera.
Quanto invece all’atto di scelta individuale,
Tommaso d’Aquino e il Sartre de L’être e le
néant, nonostante la divergenza abissale che
separa le relative prospettive filosofiche, su
questo punto la pensano alla stessa maniera:
ogni uomo è radicalmente libero. Anche chi si
rifiuta di scegliere, sta scegliendo. Io posso
suicidarmi esercitando un atto di libertà, ma
nello stesso istante la mia libertà muore con me.
Analogamente, instaurare una dittatura
legalmente è un atto di libertà, ma è un suicidio
politico collettivo. Soltanto scegliendo, giorno
dopo giorno, la democrazia, scelgo la forma
istituzionale che mi garantisce al massimo
l’esercizio della mia libertà nell’ambito della mia
sfera. Quasi tutti i paradossi esaminati
dall’Odifreddi concernono i difetti e i limiti della
democrazia: non esiste un criterio capace di
razionalizzare il sistema elettorale, non solo per
il problema della scelta dei candidati, ma anche,
e soprattutto, per l’attribuzione dei resti
‘problema che – così si esprimeva Alfonso
Tesauro – ha tormentato, in tutti i tempi e in
tutti i luoghi, scienziati ed uomini politici’.
(Manuale di Diritto Costituzionale, Napoli,
Jovene, 1958, p. 334). I criteri per l’utilizzazione
dei resti, e di conseguenza per l’attribuzione dei
seggi, sono numerosi: sistema del maggiore
quoziente, di Hagenbach-Bischoff, di Hondt, ecc.
Ognuno di essi ha i suoi vantaggi ed i suoi limiti.
Rinunceremo allora alla democrazia perché è
una forma politica imperfetta? Trovatemene una
più perfetta! Giustamente l’Odifreddi dà largo
spazio al teorema di Arrow. Il teorema prova che
scelte coerenti e stabili riguardo ai problemi
concernenti il benessere sociale sono impossibili.
Infatti nell’ipotesi in cui si votino più di due
alternative e che la collettività sia composta di
almeno due votanti, il risultato sarà diverso a
seconda dell’ordine in cui vengono poste le
alternative da votare. Il teorema, come si vede è
ambivalente, dal momento che ha validità tanto
in sede economica quanto in quella politica. Ma
questo che cosa dimostra? Forse che la
democrazia è il peggiore dei sistemi politici? O
forse che ve ne sono dei migliori? Assolutamente
no! Prova soltanto che la democrazia ha dei
limiti. E se la democrazia ha dei limiti,
figuriamoci le altre forme istituzionali!
Nonostante i difetti ed i limiti delle varie
democrazie vi sono delle costanti essenziali e
minimali che sono immanenti in ogni forma
democratica che si dà. Storicamente esse sono:
1) eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla
legge; 2) esercizio universale dell’elettorato
attivo e dell’elettorato passivo; 3) temporaneità
delle cariche; 4) libertà di coscienza e di parola.
Ed è a questa democrazia minimale che nessun
uomo libero potrà mai rinunciare. Non si
dimentichi mai il severo monito di Kant: ‘Chi si
fa verme non si lamenti se un giorno verrà
calpestato’.
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