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OME ALLA CORTE DI FEDERICO - Universita' degli Studi di ... · A che giovano certi esercizi di...

Date post: 16-Feb-2019
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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II OVVERO PARLANDO E RIPARLANDO DI SCIENZA I PARA-DOXA DELLA DEMOCRAZIA 9 di Piergiorgio Odifreddi DEMOCRAZIA E MATEMATICA 11 di Giuseppe Galasso PARADOSSI E VERITÀ MATEMATICHE IMBARAZZANTI 13 di Nicola Fusco VINCA IL MIGLIORE, PURCHE SIA IL PERDENTE! 15 di Luigi Spina LE VIE MATEMATICHE DELL’EQUITÀ 17 di Achille Basile PARADOSSI E DEMOCRAZIA 19 di Michele Malatesta
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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II OVVERO

PARLANDO E RIPARLANDO DI SCIENZA

I PARA-DOXA DELLA DEMOCRAZIA 9 di Piergiorgio Odifreddi DEMOCRAZIA E MATEMATICA 11 di Giuseppe Galasso PARADOSSI E VERITÀ MATEMATICHE IMBARAZZANTI 13 di Nicola Fusco VINCA IL MIGLIORE, PURCHE SIA IL PERDENTE! 15 di Luigi Spina LE VIE MATEMATICHE DELL’EQUITÀ 17 di Achille Basile PARADOSSI E DEMOCRAZIA 19 di Michele Malatesta

“Siamo in un paese democratico”, si sente spesso dire, come se fosse evidente. I politici a volte mettono in dubbio l'affermazione in una forma debole: disputando, cioè, se veramente il nostro sia un paese democratico.

Ma l'affermazione si può mettere in dubbio in forma forte: negando, cioè, che la democrazia esista.

Gli articoli degli incontri si trovano all’indirizzo

www.comeallacorte.unina.it

Piergiorgio Odifreddi

Piergiorgio Odifreddi è nato a Cuneo il 13 luglio 1950. Si è

laureato in matematica a Torino nel 1973; si è specializzato

presso le Università dell'Illinois nel 1978-79 e della California

nel 1982-83. È stato Visiting Professor di logica matematica

presso le Università di: Novosibirsk (Unione Sovietíca) nel 1982

e 1983; Melbourne (Australia) nel 1989; Pechino (Cina) nel

1992 e 1995 e Nanchino (Cina) nel 1998; Buenos Aires

(Argentina) nel 2001.

Dal 1983 al 2001 è stato Professore Associato presso

l'Università di Torino, dal 2001 al 2008 è stato Professore

Ordinario di Matematica all'Università di Torino, dal 1985 è

Visiting Professor presso l'Università di Cornell (Stati Uniti).

Il suo lavoro scientifico riguarda la logica matematica e, più in particolare, la teoria della calcolabilità, che

studia potenzialità e limitazioni dei calcolatori. Nel 1989 ha pubblicato il primo volume di Classical

Recursion Theory e nel 1999 il secondo. Nel 1990 ha curato Logic and Computer Science. Il suo lavoro

divulgativo esplora le connessioni fra la matematica e le scienze umane, dalla letteratura alla pittura,

dalla musica agli scacchi. Ha vinto il Premio Galileo 1998 per la divulgazione scientifica. Collabora a La

Stampa, Tuttoscienze, Scienza Nuova, Le Scienze, Sapere e La Rivista dei Libri; partecipa alla

trasmissione radiofonica Lampi della Rai. È organizzatore, con Michele Emmer, degli incontri annuali

Matematica e cultura di Venezia. Ha terminato i volumi Dalla Galilea a Galileo, La matematica del '900 e

Labirinti dello spirito, pubblicati da Einaudi.

Titoli e Premi

1973 Laurea in Matematica con 110 e lode, Università di Torino;

1981 Premio dell'American Mathematical Society (1.000 dollari) per l'articolo "Strong Reducibilities'';

1998 Premio Galileo dell'Unione Matematica Italiana (5 milioni di lire) per la divulgazione;

2002 Premio Peano della Mathesis, e Premio Giovanni Maria Pace della Sissa (1500 euro), per C'era

una volta un paradosso; Premio Fiesole per la divulgazione;

2003 Premio Castiglioncello (1500 euro) per C'era una volta un paradosso;

2005 Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana, per motu proprio del Presidente Ciampi

2006 Premio Italgas per la divulgazione;

Bibliografia

Classical recursion Theory, North Holland, 1989; Classical recursion Theory, Volume II, North Holland,

1999; Il Vangelo secondo la Scienza, Einaudi, 1999; La matematica del Novecento, Einaudi, 2000; Il

computer di Dio, Cortina, 2000; C'era una volta un paradosso, Einaudi, 2001; La repubblica dei numeri,

Cortina, 2002; Zichicche, Dedalo, 2003; Il diavolo in cattedra. La logica matematica da Aristotele a Kurt

Gödel, Einaudi, 2003; Divertimento geometrico - Da Euclide ad Hilbert, 2003, Bollati Boringhieri; Le

menzogne di Ulisse. L'avventura della logica da Parmenide ad Amartya Sen, Longanesi, 2004; Il

matematico impertinente, Longanesi, 2005; Penna, pennello, bacchetta: le tre invidie del matematico,

Laterza, 2005; Idee per diventare matematico, Zanichelli, 2005; Incontri con menti straordinarie,

Longanesi, 2006; Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), Longanesi, 2007.

COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Potenzialità e limiti della ragione

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

I PARA-DOXA DELLA DEMOCRAZIA Piergiorgio Odifreddi Professore di Logica matematica Università degli Studi di Torino Tratto da ‘C’era una volta un paradosso. Storie di verità ed illusioni rovesciate’ (Giulio Einaudi Editore/2001)

Winston Churchill diceva che la

democrazia è la peggiore forma di governo, a

parte tutte le altre che sono state provate. Ma

sapeva che il miglior argomento contro la

democrazia sono cinque minuti di conversazione

con un elettore (o con un politico). George

Bernard Shaw definiva la democrazia come

l’assicurazione di non essere governati meglio di

quanto ci meritiamo. E aggiungeva che l’avvento

della democrazia aveva sostituito la nomina di

pochi corrotti con l’elezione di molti

incompetenti. Gustave Flaubert identificava il

sogno della democrazia nell’elevazione del

proletariato allo stesso livello di stupidità

raggiunto dalla borghesia. Bertrand Russel

precisava che gli eletti non possono essere più

stupidi dei loro elettori.

Sembra dunque che la democrazia abbia

i suoi problemi, per risolvere i quali sono state

avanzate alcune paradossali proposte letterarie.

Ad esempio, Il parlamento di Jorge Luis Borges

suggerisce che, per ottenere una rappresentanza

veramente rappresentativa, un’elezione debba

eleggere tutti gli elettori. All’estremo opposto,

Diritto di voto di Isaac Asimov ritiene sufficiente

che alle elezioni venga interpellato un solo

votante, purché sufficientemente

rappresentativo. Infine Noi di Evgenij Zamjatin

propone che si considerino come veramente

democratiche soltanto le votazioni palesi e

unanimi.

Queste provocazioni letterarie si possono

facilmente accantonare con un sorriso. Non così

quelle logiche e matematiche la cui rimozione è

meno agevole. I paradossi della democrazia

sono infatti svariati e subdoli, come sapevano

già gli antichi. Ad esempio, si può instaurare una

dittatura in maniera legale? Se sì, la libertà

potrebbe avere i giorni contati; se no, è limitata

già ora. Oppure, si può eliminare l’articolo che

permette le revisioni costituzionali? Se sì, il

potere di revisione è in pericolo; se no, è

incompleto.

Forse il più ovvio dei paradossi della

democrazia è una semplice variazione sul tema

del sorite, sul quale torneremo in seguito:

poiché nelle elezioni con molti elettori non

succede mai che il vincitore vinca per un solo

voto di differenza, nessun singolo voto è

determinante. Dunque, tanto vale non andare a

votare.

Gli ulteriori paradossi che andiamo ad

enunciare riguardano invece la pratica della vita

democratica, una volta che si sia deciso di

andare comunque a votare. Non è infatti per

niente chiaro come (o addirittura se) si possano

determinare gli eletti, o distribuire i seggi, in

maniera logicamente soddisfacente (…).

Siamo così ritornati al punto di partenza:

che le persone razionali non avrebbero motivi

per andare a votare. Ma se solo gli irrazionali

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Potenzialità e limiti della ragione

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

votano, non possiamo poi stupirci né dei risultati

delle votazioni, né della conseguente serie di

apprezzamenti sulla democrazia con la quale

abbiamo iniziato il discorso. Per finirlo con una

parola buona dobbiamo ammettere che un

vantaggio la democrazia ce l’ha: ora si contano

tutti i voti, mentre una volta solo i Conti

votavano.

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DEMOCRAZIA E MATEMATICA Giuseppe Galasso Professore Emerito di Storia moderna Università degli Studi di Napoli Federico II

A che giovano certi esercizi di logica? Sul

piano della teoria e del metodo, possono servire

a molte cose, come, ad esempio, a precisare le

condizioni per cui un problema ha senso. E

proprio quest’ultimo fine le osservazioni di

Odifreddi sembrano, invece, mancare del tutto.

Beninteso, la democrazia ha i suoi problemi (e

quali!) anche di teoria. Lo si è sempre saputo. Il

fin troppo citato motto di Churchill, che, in

sostanza, definisce la democrazia come il meno

peggio di tutti i regimi conosciuti, è un motto

paradossale solo in apparenza. In realtà, è frutto

di semplice realismo e buon senso, ed è del tutto

compatibile coi più grandi principii ideali per cui

la democrazia è sentita e pensata come valore,

benché innumerevoli scettici le imputino proprio

di mancare di profonde basi e motivazioni ideali.

Peggio di tutte anche per la democrazia,

sono, comunque, le critiche fondate su

paralogismi, ossia su ragionamenti non validi dal

punto di vista logico, pur se di una verità hanno

l’apparenza. Atteniamoci anche noi alla sostanza

pratica delle cose. Nel famoso paradosso di

Zenone il pie’ veloce Achille non raggiunge mai

la tartaruga, perché in teoria lo spazio di

vantaggio di quest’ultima è divisibile, senza

limiti, in frazioni che lo rendono irriducibile per

questa via. Nella vita, ossia nella storia, noi

sappiamo, però, che Achille passa subito in

vantaggio al primo passo della sua rincorsa.

Quel paradosso ha un certo ufficio logico, ma è

del tutto inane, anzi è ridicolo se si vuole

giudicare la gara tra Achille e la tartaruga. Così:

è più importante che i cittadini (in democrazia, i

sovrani) conservino la facoltà e il potere di

modificare i loro ordinamenti o che sia

formalmente completo o incompleto questo

diritto-potere? E ci si chiede se si possa o non si

possa instaurare democraticamente una

dittatura. La storia ci dice che da sempre la via

democratica alla dittatura è stata possibile E con

ciò? Il problema non è mai stato logico, bensì

sempre politico. E fuori della politica non se ne

capisce di più; anzi, non si capisce più nulla.

Sul piano politico si è detto che quel che

conta in democrazia è l’azione delle classi

dirigenti, delle élites, dei grandi e piccoli gruppi

organizzati, che orientano, condizionano e

manovrano il corpo elettorale. O che i poteri

formali costituiti per la via democratica delle

elezioni contano ben poco rispetto ai grandi e

piccoli gruppi di potere e d’interesse che

agiscono dietro e al di sopra di loro. O che le

elezioni sono ‘ludi cartacei’ al servizio di una

gigantesca mistificazione ideologica.

Votano solo gli irrazionali? Bene. Ma in

ogni democrazia vota quasi sempre più del 50%

degli elettori. Vuol dire che ovunque la

maggioranza degli uomini è irrazionale? Ma, se è

così, non se ne può disconoscere il diritto a

governare. Il mio voto è sempre marginale

perché non si vincono mai le elezioni per un solo

voto? Pura idiozia. Non si può mai sapere in

anticipo quale sarà il fatidico voto che dà la

maggioranza. E poi non è lo stesso se si vince

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per un voto o per un milione di voti. Dopo tutto,

l’aritmetica conta (e quanto!) anche in politica,

ma non lungo il sentiero di paralogismi privi di

senso storico e pratico, bensì come un potente,

primigenio e indispensabile ausilio e strumento

della vita intellettuale, morale e civile delle

comunità umane. La vita, cioè, in cui la

democrazia è un valore e una tecnica che i

sofismi e le ‘agudezas’ di matematici e non

matematici non valgono né a rafforzare, né a

contestare.

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PARADOSSI E VERITÀ MATEMATICHE IMBARAZZANTI Nicola Fusco Professore di Analisi matematica Università degli Studi di Napoli Federico II

Fin dagli albori della sua storia la

matematica si è imbattuta in paradossi e

antinomie di ogni genere che l’hanno portata a

rivedere e approfondire certi concetti

fondamentali, svolgendo quindi un ruolo positivo

nello sviluppo di questa scienza.

La matematica moderna non fa

eccezione. In particolare la teoria della

probabilità è una fonte quasi inesauribile di

verità matematiche che spesso vanno contro

l’intuizione o il senso comune di ciascuno di noi.

Un esempio è il paradosso dei due

bambini. Se un amico vi dice che, dopo aver

avuto un primo figlio maschio, sua moglie è di

nuovo incinta, penserete che la probabilità che

ora gli nasca una femmina sia del 50%. In effetti

è così. Se invece un amico che non vedevate da

tempo vi racconta che ha due figli e che uno dei

due si chiama Marco e vi chiedete quale è la

probabilità che l’altro figlio sia una femmina, la

risposta stavolta non è il 50%, ma più alta, circa

il 67%. Non è possibile? Eppure un piccolo

schema con tutte le combinazioni di sessi nelle

coppie con due figli porta subito alla soluzione

giusta.

Un altro esempio sconcertante è il

paradosso di Monty Hall, dal nome del

conduttore di un quiz show americano durante il

quale fu sollevata la questione. Nel gioco, al

concorrente veniva chiesto di aprire una porta

scelta fra tre. Dietro due di queste c’era come

premio una capra e dietro una sola una lussuosa

automobile. Il concorrente sceglieva la porta,

diciamo la numero 1, e poi il conduttore,

sapendo cosa c’era dietro ogni porta, ne apriva

una seconda, mettiamo fosse la 2, dietro la

quale c’era una capra. Poi veniva la domanda

fatidica: ‘tieni la porta che hai già scelto o la

cambi con la terza?’” La maggior parte delle

persone pensa che in ogni caso la probabilità di

vincere sia la stessa. Eppure, una corretta analisi

porta alla conclusione, apparentemente

paradossale, che se si cambia porta si vince due

volte su tre, se ci si tiene quella già scelta si ha

solo una probabilità su tre di vincere!

Un caso di verità matematiche

francamente imbarazzanti (almeno per i

matematici) è fornito dai cosiddetti Teoremi di

Gödel, il matematico tedesco che li scoprì nel

secolo scorso. Detta alla buona, questi risultati

dimostrano che, contrariamente a quanto

suggerito dal senso comune e a quanto creduto

fino ad allora, in matematica non esistono solo

affermazioni vere e dimostrabili, come ‘un

quadrato ha tutti gli angoli uguali’, o

affermazioni false, come ‘due più due fa cinque’,

ma ci sono affermazioni che non sono né vere,

né false, semplicemente, ci ha detto Gödel,

indecidibili. Teoremi cioè che i matematici

possono, con un atto di fede, decidere di

accettare o rifiutare senza che la cosa porti ad

alcuna conseguenza disastrosa. Veramente

imbarazzante per degli uomini di scienza!

Ma queste sono giusto curiosità

intellettuali, magari interessanti e carine, senza

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risvolti pratici? Beh, non è proprio così. Ci sono

verità matematiche contrarie alla nostra

intuizione di cui faremmo bene a tener conto

nella realtà.

Una ce la fornisce la teoria dei giochi. Il

teorema che ha reso famoso il grande

matematico John Nash afferma che in un ‘gioco’

nel quale ognuno dei giocatori cerca di fare il

meglio per sé si giunge sempre ad una

situazione di stallo, detta equilibrio di Nash,

nella quale nessuno può migliorare più la propria

condizione e raggiunta la quale il ‘gioco’ finisce.

Niente di sorprendente, si dirà. Purtroppo molto

spesso accade che il guadagno finale di ogni

giocatore (tenete conto che ognuno ha cercato

di ottenere il massimo per sé) sia nettamente

inferiore a quello che essi avrebbero avuto se

all’inizio avessero deciso di collaborare tutti

insieme.

Questa è certamente una verità

matematica scomoda. Peccato che non ne

abbiano tenuto conto i protagonisti dei giochi

finanziari che ci hanno portato all’attuale crisi

economica e quelli dei giochi geopolitici che

hanno acceso tante guerre in giro per il mondo.

Post Scriptum: se siete troppo pigri per risolvere

i due paradossi da soli, andate su Wikipedia e

digitate ‘paradosso dei due bambini’ e ‘problema

di Monty Hall’. Troverete la soluzione spiegata in

modo chiaro e semplice.

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VINCA IL MIGLIORE, PURCHE SIA IL PERDENTE! Luigi Spina Professore di Filologia classica Università degli Studi di Napoli Federico II

Avercela, un’opinione! A me vengono in

mente solo sondaggi. Non riesco a pensare se

non in percentuali: voglio qualcosa al 57%, non

la voglio al 33%, sono indeciso al 10%. Voi

direte: semplice, fai prevalere la maggioranza.

La maggioranza di me? E a quale parte

corrisponde? Qual è, gramscianamente, il suo

blocco anatomico o neurologico? E la mia

ombra? Vorrà anche lei governare le mie scelte ?

Una volta era più semplice, voglio dire prima

della DOXA. Prima della DOXA c’era la doxa,

l’opinione che si formava nel corso degli anni e si

assestava nell’età matura. Poche opinioni, ma

buone. Poco importa che il mondo cambiasse. Le

opinioni rimanevano solide, attaccate alla

persona come il granchio allo scoglio. Allora,

quando c’era la doxa, il 57% aveva un’opinione,

il 33% aveva l’opinione contraria, il 10% era

indeciso. Era facile che la maggioranza avesse la

vittoria. In genere, parlo sempre di allora, la

minoranza, un po’ per passare il tempo, un po’

per non morire, rifletteva finalmente sulle sue

opinioni. Fu durante una di queste riflessioni che

fu scoperto il paradosso (parà dòxan: c’è sempre

stato, in ogni minoranza, qualcuno che

conosceva bene il greco, o che, semplicemente,

era greco): è possibile, si scoprì, pensare

qualcosa che metta in luce meandri segreti nelle

stesse opinioni consolidate, superandone il

meccanismo, qualcosa che, svelando trame

logiche impensate, funzioni come una sorta di

prodigio. Non a caso Cicerone voleva che i latini

li chiamassero admirabilia. Il paradosso è

dunque l’arma dell’opinione minoritaria, quella

che trasforma la realtà di fatto in una realtà

virtuale, in una realtà che funziona con… l’altra

faccia dell’opinione maggioritaria. Ad esempio:

solo chi ha perso è il vero vincitore… morale.

Quanto tempo è passato da allora, quanti elogi

paradossali, come quello della mosca, del fumo

o di Tersite – e altri nomi non ne faccio! Oggi,

nel tempo della DOXA (anche se ora ha molti

nomi differenti, sempre DOXA rimane), si

potrebbe solo scoprire il paradosso dei sondaggi;

ma ci vorrebbe una minoranza capace di

riflettere. Ormai, invece, ciascuno di noi pensa,

al proprio interno, per sondaggi. Ci vorrebbe una

scelta radicale, starei per dire paradossale.

Proviamo a riflettere: i sondaggi di opinione

sono diventati, necessariamente, l’opinione dei

sondaggi. Anche un sondaggio che rivelasse che

l’80% delle persone non crede, non si fida dei

sondaggi, dimostrerebbe solo che il 100% ha

risposto, fideisticamente, a quel sondaggio.

Basterebbe, allora, non rispondere più ai

sondaggi. Sciopero generale delle risposte,

proclamato da tutte le sigle sindacali,

associazioni ONLUS, no-profit, COBAS e chi più

ne sa più ne metta. Non vogliamo più delegare

a nessuno la rappresentanza delle nostre

opinioni. Vogliamo esprimerle direttamente.

Attraverso il voto? E il paradosso della

democrazia? Quando il popolo si chiamava

demos e il potere kratos era facile parlare di

democrazia, ora fra populismo, popolari, poteri

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forti, potentati – e di nuovo chi più ne sa più ne

metta – a volte si dubita perfino che esista una

democrazia. E pensare che Cicerone descrisse i

Paradossi degli Stoici ispirandosi a Catone

l’Uticense. Perché, spiegava, quando Catone

interveniva in Senato toccava argomenti

profondi, filosofici, lontani certo dall’oratoria

giudiziaria e politica, ma che riusciva a rendere

accessibili e verificabili dal popolo stesso. E poi

dice che uno si butta sull’antico!

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LE VIE MATEMATICHE DELL’EQUITÀ Achille Basile Professore di Matematica per l’economia Università degli Studi di Napoli Federico II

Solo recentemente, ieri per noi che

abbiamo ‘una certa età’, in un’epoca remota del

secolo scorso agli occhi dei nostri più giovani

dottorandi, all’epoca appena nati, un antico

verdetto (Talmud, Ketubot 93a) ha trovato una

spiegazione che ne sostiene e spiega le

prescrizioni.

Una sentenza atta a fare giustizia, per

duemila anni è apparsa incomprensibile.

La storia è questa. Un temerario sposa

tre donne e in ciascun contratto di matrimonio

promette alla sposa una somma dal proprio

lascito. Non promette la stessa somma. Forse

per il fascino declinante col tempo, fatto sta che

promette alla seconda il doppio che alla prima e

alla terza il triplo della somma promessa alla

prima moglie.

La lettura col caffè del mattino di cose

troppo complicate su un quotidiano, mi rendo

conto, può rovinare la giornata. Allora

tranquillizzo subito: il numero più grande che

scriverò sarà 300 e non importa capire 300 cosa.

Formule non ve ne saranno.

300 è quanto promesso dal meschino

all’ultima moglie; ben più del lascito che,

probabilmente una morte prematura ferma a

200 (cancellate dalle labbra quel sorrisetto

malizioso e concentratevi un momento).

Si capisce che cosa succede: le vedove si

rivolgono ad un saggio per ottenere quanto

giusto.

Ecco la prescrizione, sotto forma di una

regola che si applica in tre casi.

Se il lascito vale 100, ciascuna vedova

(le vedove reclamerebbero 100, 200 e 300)

riceve un terzo del tutto. Se il lascito vale 200,

la prima riceve 50 e le altre due 75 ciascuna. Se

il lascito vale 300 alle vedove vanno nell’ordine

50, 100 e 150.

Perché queste strane regole? Quale

ragionamento le sostiene? Perché non prevale

sempre la proporzione diretta come nell’ultimo

caso?

Affrontiamo una situazione più semplice.

Se il nostro, meno spavaldamente, si fosse

fermato a due matrimoni, allora potremmo

proporre il seguente principio di divisione

(Talmud, Bava Metzia 2a): la prima vedova, la

quale reclama solo 100, non partecipi alla

divisione dei secondi 100 che sarebbero pertanto

destinati alla sola seconda vedova; si ripartisca

poi in parti uguali la prima parte del lascito dal

momento che entrambe le vedove lo reclamano

per intero.

Insomma, la prima vedova avrebbe 50 e

la seconda 150.

Ma vediamo che cosa accadrebbe se

questo principio fosse applicato alle coppie di

vedove che si possono formare a partire da tre.

Dunque, a fronte delle rivendicazioni di 100, 200

e 300, il lascito va diviso in tre parti P, S e T che

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assommano a 200. Formiamo la coppia della

prima e terza vedova (nulla cambierebbe con

prima e seconda) esse si dividono P+T (ciò che il

Talmud prescrive pari a 50+75). Secondo il

nostro ragionamento, riconosciamo subito alla

terza vedova la differenza, se c’è, tra P+T e 100

(nel caso in specie 25) e visto che i restanti 100

sono reclamati per intero da entrambe le

signore, beh… allora li dividiamo in parti uguali.

Con la coppia della seconda e della terza

vedova, non si forma un eccesso di S+T rispetto

a 200 (che è sia la quota che entrambe almeno

reclamano sia il lascito), quindi non viene

riconosciuto nulla a priori alla terza vedova e la

ripartizione di S+T non può che avvenire in parti

uguali ed S coinciderà con T. Si capisce che

l’unica possibile soluzione è proprio 50, 75 e 75.

Analogamente si capisce che lo stesso

ragionamento sulle tre coppie di vedove porta a

50, 100 e 150 se il lascito è 300 o ad un terzo,

un terzo, un terzo nel caso del lascito pari a 100.

Problemi più generali di quello visto qui

hanno una soluzione perfettamente individuabile

sulla base del principio di ragionamento

presentato. Adattando le celebri parole di Pierre

de Fermat: ‘dispongo di una meravigliosa

dimostrazione di quanto affermo, fornitami da

Robert Aumann e Michael Maschler, ma non

entra nello spazio troppo stretto che ho sul

giornale’ e poi… il caffè sarà finito nel frattempo.

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PARADOSSI E DEMOCRAZIA Michele Malatesta Professore di Logica Università degli Studi di Napoli Federico II

Sotto il nome di ‘paradossi’ sono

ammucchiate, ai giorni nostri, le cose più

disparate: le contraddizioni generate dalla

confusione linguistica; certi aforismi che sotto

l’apparente falsità dicono cose vere come una

celebre legge di Murphy: ‘Le variabili non

mutano mai le costanti sì’; le antinomie. Qui

interessano queste ultime e ad esse ci si riferisce

usando il termine ‘paradosso’. Oggi si conta un

numero enorme di paradossi ed è difficile una

loro classificazione data l’eterogeneità degli

universi di discorso ai quali si riferiscono.

Nonostante siano state proposte varie

classificazioni – come per es. paradossi veridici e

falsidici (Quine), antinomie negative e positive

(Aimonetto) – conserva ancora piena validità la

distinzione fatta nel 1925 da Frank Plumton

Ramsey tra paradossi sintattici e semantici. I

primi violano le regole della sintassi; i secondi

nascono dalla confusione dei vari livelli

linguistici: linguaggio oggetto, metalinguaggio,

metametalinguaggio, ecc.

Facciamo due esempi relativi ai

paradossi sintattici: (i) ‘Luca è napoletano; ogni

napoletano è campano; dunque Luca è

campano’; (ii) ‘questa fragola è rossa; rosso è

un colore; dunque questa fragola è un colore’.

Anche chi non ha mai studiato logica si rende

conto che mentre la prima inferenza è corretta,

la seconda non lo è. Fin qui nulla di male: si

tratterebbe, nel secondo caso, soltanto di un

ameno giochetto linguistico. La tragedia ha

luogo quando, costruendo la teoria delle classi,

ci si trova tra le mani la seguente antinomia: la

classe di tutte le classi contiene se stessa come

elemento se e solo se non contiene se stessa

come elemento. Come risolvere l’antinomia?

Ritorniamo agli esempi di sopra: ‘napoletano’,

‘campano’ sono predicati di individui e pertanto

dello stesso tipo; ‘rosso’ è predicato di individuo;

‘colore’ è predicato di un predicato, e pertanto

non si può predicare di un individuo, essendo di

tipo diverso. ‘Luca appartiene alla classe dei

napoletani’ e ‘Luca appartiene alla classe dei

campani’ sono espressioni formulate

correttamente, ma ‘la classe dei napoletani

appartiene alla classe dei napoletani’

assolutamente no. Analogamente ‘questa fragola

appartiene alla classe delle cose rosse’ è

un’espressione formulata correttamente, ma

‘questa fragola appartiene alla classe dei colori’

non lo è, ed a maggior ragione non lo è

l’espressione ‘la classe dei colori appartiene alla

classe dei colori’. La classe di tutte le classi –

chiarirà Russell – non può essere un elemento

della classe, proprio come l’insieme dei libri di

una biblioteca non è un libro della biblioteca.

Proprio perché vengono violate le regole della

sintassi logica si generano le antinomie

sintattiche: basta scrivere correttamente e le

antinomie sintattiche scompaiono come per

incanto.

Come esempio di antinomie semantiche

prendiamo il Mentitore. Il paradosso ha una

lunga storia e nell’antichità costituì un vero

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Potenzialità e limiti della ragione

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

rompicapo tanto da produrre effetti addirittura

tragici, come ci testimonia un’epigrafe tombale,

riportata da Ateneo di Naucrati: ‘O viandante io

sono Filita: l’argomento chiamato il Mentitore e

le profonde meditazioni notturne mi condussero

alla morte’ (Dipnosofisti, IX, 401 E). Il

celeberrimo paradosso ha avuto varie

formulazioni. In Aulo Gellio troviamo: ‘se mento

e dico di mentire, mento o dico il vero?’ (Nottes

Atticae, XVIII, ii, 10); Alessandro di Afrodisia

riporta il seguente testo “chi dice ‘mento’, mente

e dice la verità contemporaneamente” (In

Sophisticos Elenchos, 171, 18). Vi può essere

anche una formulazione più semplice: ‘tutto ciò

che io dico è falso’.

Le antinomie semantiche si risolvono

distinguendo i livelli linguistici. A tal proposito

facciamo, in via preliminare, un esempio. Siano

due enunciati formulati in simboli matematici:

(�1) ‘2+2=4’; (�1) ‘2+2 =3’. Ci domandiamo: i

due enunciati sono veri o sono falsi? Nel primo

caso otteniamo un nuovo enunciato (�2)

“‘2+2=4’ è vero”; anche nel secondo otteniamo

un nuovo enunciato (�2) “‘2+2 =3’ è falso”. Ma

che cosa succede se andiamo a valutare anche

quest’ultimo enunciato? Otteniamo un ulteriore

enunciato (�3) «“‘2+2 =3’ è falso” è vero», cioè

che è vero che ‘2+2 =3’ è falso. Ora gli enunciati

(�1) e (�1) appartengono al linguaggio oggetto;

gli enunciati (�2) e (�2) appartengono al

metalinguaggio; l’enunciato (�3) al

metametalinguaggio. L’antinomia del Mentitore

si risolve attraverso l’analisi logica dei livelli

linguistici. Si deve chiedere ai fautori della

menzogna: quando asserisci ‘mento’ qual è

l’universo di discorso cui ti riferisci? Alfred Tarski

ha avuto buon gioco nel mostrare come il

Mentitore nasca dalla sovrapposizione e dalla

confusione di linguaggio e metalinguaggio e

pertanto come possa essere neutralizzato

distinguendo i due livelli linguistici.

Di natura del tutto diversa, e non certo

riconducibili a quelli sintattici o a quelli semantici

della logica matematica, sono i paradossi

concernenti la democrazia e questi vengono

analizzati da Piergiorgio Odifreddi in C’era una

volta il paradosso – Storie di illusioni e verità

rovesciate, Torino, Einadi 2001. L’Odifreddi,

sebbene deponga spesso l’abito severo del logico

matematico di valore, che egli in effetti è, per

indossare quello del tuttologo superficiale e del

panflettista – cosa che ha luogo perfino in alcuni

capitoli di questo libro – giustamente intitola il

capitolo settimo I para-doxa della democrazia,

(pp. 205-221), quasi a significare che, nel caso

in esame, non si tratta di asserzioni o

dimostrazioni che generano contraddizioni, ma

di asserzioni o anche di argomentazioni che

vanno contro (parà) l’opinione (doxa) corrente.

Ed il paradigma politico della società occidentale

dei giorni nostri è la democrazia. L’Odifreddi

riporta vari paradossi. Non mi è possibile in

questa sede discuterli tutti, cosa del resto

superflua, dal momento che lo ha fatto

egregiamente lui. Mi fermerò soltanto su uno.

A p. 206 l’Odifreddi riporta il paradosso

di I. Tammelo: ‘si può instaurare una dittatura in

maniera legale? Se sì, la libertà potrebbe avere i

giorni contati; se no, è limitata già da ora’.

Questo paradosso non prova nulla. Chiariamo

innanzitutto una cosa: la sfera dell’esercizio della

libertà non è mai assoluta; la mia libertà termina

dove comincia quella del mio vicino. La

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Potenzialità e limiti della ragione

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

democrazia garantisce al massimo l’esercizio

della mia libertà nei limiti della mia sfera.

Quanto invece all’atto di scelta individuale,

Tommaso d’Aquino e il Sartre de L’être e le

néant, nonostante la divergenza abissale che

separa le relative prospettive filosofiche, su

questo punto la pensano alla stessa maniera:

ogni uomo è radicalmente libero. Anche chi si

rifiuta di scegliere, sta scegliendo. Io posso

suicidarmi esercitando un atto di libertà, ma

nello stesso istante la mia libertà muore con me.

Analogamente, instaurare una dittatura

legalmente è un atto di libertà, ma è un suicidio

politico collettivo. Soltanto scegliendo, giorno

dopo giorno, la democrazia, scelgo la forma

istituzionale che mi garantisce al massimo

l’esercizio della mia libertà nell’ambito della mia

sfera. Quasi tutti i paradossi esaminati

dall’Odifreddi concernono i difetti e i limiti della

democrazia: non esiste un criterio capace di

razionalizzare il sistema elettorale, non solo per

il problema della scelta dei candidati, ma anche,

e soprattutto, per l’attribuzione dei resti

‘problema che – così si esprimeva Alfonso

Tesauro – ha tormentato, in tutti i tempi e in

tutti i luoghi, scienziati ed uomini politici’.

(Manuale di Diritto Costituzionale, Napoli,

Jovene, 1958, p. 334). I criteri per l’utilizzazione

dei resti, e di conseguenza per l’attribuzione dei

seggi, sono numerosi: sistema del maggiore

quoziente, di Hagenbach-Bischoff, di Hondt, ecc.

Ognuno di essi ha i suoi vantaggi ed i suoi limiti.

Rinunceremo allora alla democrazia perché è

una forma politica imperfetta? Trovatemene una

più perfetta! Giustamente l’Odifreddi dà largo

spazio al teorema di Arrow. Il teorema prova che

scelte coerenti e stabili riguardo ai problemi

concernenti il benessere sociale sono impossibili.

Infatti nell’ipotesi in cui si votino più di due

alternative e che la collettività sia composta di

almeno due votanti, il risultato sarà diverso a

seconda dell’ordine in cui vengono poste le

alternative da votare. Il teorema, come si vede è

ambivalente, dal momento che ha validità tanto

in sede economica quanto in quella politica. Ma

questo che cosa dimostra? Forse che la

democrazia è il peggiore dei sistemi politici? O

forse che ve ne sono dei migliori? Assolutamente

no! Prova soltanto che la democrazia ha dei

limiti. E se la democrazia ha dei limiti,

figuriamoci le altre forme istituzionali!

Nonostante i difetti ed i limiti delle varie

democrazie vi sono delle costanti essenziali e

minimali che sono immanenti in ogni forma

democratica che si dà. Storicamente esse sono:

1) eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla

legge; 2) esercizio universale dell’elettorato

attivo e dell’elettorato passivo; 3) temporaneità

delle cariche; 4) libertà di coscienza e di parola.

Ed è a questa democrazia minimale che nessun

uomo libero potrà mai rinunciare. Non si

dimentichi mai il severo monito di Kant: ‘Chi si

fa verme non si lamenti se un giorno verrà

calpestato’.

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