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ordinanza 1° giugno 2000; Giud. Nardecchia; Beccalli c. Soc. Genius

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Page 1: ordinanza 1° giugno 2000; Giud. Nardecchia; Beccalli c. Soc. Genius

ordinanza 1° giugno 2000; Giud. Nardecchia; Beccalli c. Soc. GeniusSource: Il Foro Italiano, Vol. 124, No. 4 (APRILE 2001), pp. 1395/1396-1401/1402Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23197015 .

Accessed: 28/06/2014 17:55

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PARTE PRIMA 1396

rato compiuto il settantacinquesimo anno di età, instava per la

reiezione della domanda.

La causa, senza il compimento di alcun atto istruttorio, veniva

assegnata a sentenza allo scadere dei termini per il deposito delle comparse e delle memorie di replica.

Motivi della decisione. — Thema decidendum della controver

sia portata al vaglio di questo giudice è l'esatta interpretazione dell'art. 14 delle condizioni generali della polizza infortuni sti

pulata tra Lenzi Renato e La Previdente assicurazioni.

La clausola intitolata «persone non assicurabili» è del se

guente tenore: «non sono assicurabili a)b) le persone di età

superiore a settantacinque anni. Per quelle che raggiungono tale

limite di età l'assicurazione cessa alla prima scadenza annuale

del premio senza che in contrario possa essere opposto l'even

tuale incasso dei premi scaduti successivamente e che in tal caso

verranno restituiti».

Il successivo art. 19 delle condizioni generali, in sintonia con

la disciplina generale in materia di durata dell'assicurazione

contenuta nel 2° comma dell'art. 1899 c.c., prevede che «in

mancanza di disdetta data da una delle parti con lettera racco

mandata almeno tre mesi prima della scadenza, il contratto è

prorogato per una durata uguale a quella originaria, esclusa la

frazione d'anno ma non superiore a due anni e così successiva

mente».

L'esame congiunto delle espressioni letterali contenute nelle

due clausole consente di ritenere che l'evento costituito dal

compimento del settantacinquesimo anno di età dedotto nel

contratto costituisca non già, come asseriscono gli attori, un

elemento accidentale del negozio giuridico — condizione riso

lutiva — bensì un limite alla prorogabilità del contratto.

Il chiaro ed inequivoco tenore della lett. b) della clausola n.

14 delimita infatti la soglia anagrafica, costituita dal raggiungi mento del settantacinquesimo anno di età, oltre la quale non è

più possibile avvalersi del diritto potestativo di protrarre ulte

riormente gli effetti del contratto altrimenti esercitabile tacita

mente secondo la previsione dell'art. 19 delle condizioni gene rali.

Sostiene parte attrice che l'avere l'istituto di assicurazione

incassato tutti i premi senza mai eccepire la scadenza del con

tratto, pur essendo in grado di verificarla in qualsiasi momento

nel corso di tre anni e senza mai provvedere ai rimborsi, costi

tuisca comportamento idoneo a suscitare un ragionevole e legit timo affidamento circa il perdurare del vincolo contrattuale.

In buona sostanza, secondo la tesi degli istanti, il rapporto contrattuale si sarebbe prorogato per facta concludentia.

Tale assunto, confortato dalle due pronunce di tribunali alle

gate agli atti, non può essere condiviso.

Ed invero, le parti al momento della stipula del contratto han

no espressamente stabilito che per far valere l'efficacia del

contratto «non può essere opposto l'eventuale incasso dei premi scaduti successivamente e che in tal caso detti premi verranno

restituiti».

Pertanto, proprio la situazione fattuale dedotta dagli attori, costituita dal reiterato incasso da parte della assicurazione dei

canoni dopo il raggiungimento del settantacinquesimo anno di

età da parte dell'assicurato, che in astratto può senz'altro inte

grare gli estremi del comportamento concludente indice della

volontà di prorogare il rapporto contrattuale, è stata preventi vamente ed espressamente qualificata dalle parti come vicenda non in grado di rappresentare una tacita deroga al limite tempo rale stabilito per l'esercizio del diritto potestativo di proroga.

Se quindi si vuole attribuire un significato giuridico all'in tento manifestato dalle parti attraverso le espressioni contenute

nella clausola sopra richiamata, perfettamente lecita e regolar mente sottoscritta dall'assicurato, occorre riconoscere che tale

pattuizione escluda, verificatosi l'evento anagrafico dedotto, l'ammissibilità della proroga di fatto.

Essendo priva di effetto, per espressa volontà dei contraenti, la prosecuzione del rapporto per facta concludentia, una modi

fica della clausola sarebbe stata possibile solo attraverso un

nuovo accordo (nuova polizza o appendice di polizza) con il

quale, stante l'aumentata incidenza del rischio assicurativo, sa

rebbe stato sicuramente rideterminato l'entità del premio. Alla luce delle suesposte argomentazioni, deve essere esclusa

l'operatività dell'assicurazione stipulata tra Lenzi Renato e La

Previdente assicurazioni e conseguentemente la domanda va ri

gettata.

Il Foro Italiano — 2001.

TRIBUNALE DI COMO; ordinanza 1° giugno 2000; Giud. Nardecchia; Beccalli c. Soc. Genius.

TRIBUNALE DI COMO;

Società — Società di capitali — Assemblea — Deliberazione — Voto determinante — Violazione del dovere di corret

tezza — Impugnazione — Sospensione — Fattispecie

(Cod. civ., art. 1175, 1375, 2377, 2378). Società — Società di capitali — Assemblea — Deliberazione

già eseguita — Impugnazione — Sospensione — Fattispe cie (Cod. civ., art. 2377, 2378).

Ricorrono giusti motivi per sospendere l'esecuzione di una de

liberazione assembleare di aumento del capitale di una so

cietà, impugnata dal socio dissenziente, quando la delibera

zione sia stata assunta col voto determinante di altro socio in

violazione del principio di correttezza e buona fede che deve

improntare i rapporti tra i soci di una società di capitali

(nella specie, il socio di maggioranza ed amministratore di

una società composta da due soli soci — legati da rapporto

di coniugio, ma in fase di separazione litigiosa — aveva pro

posto e votato un aumento del capitale sociale, idoneo a di

luire la partecipazione dell'altro socio, adducendo necessità

finanziarie della società provocate dalla mancata riscossione

di crediti vantati nei confronti di altra società della quale egli stesso era socio maggioritario). (1)

(1) I. - Sulla possibilità, da tempo riconosciuta in giurisprudenza, di addurre l'eccesso di potere della maggioranza come vizio di legittimità di una deliberazione che altrimenti risulterebbe formalmente valida, v. Cass. 4 maggio 1994, n. 4323, Foro it., 1995, I, 2219 (alla cui nota si rinvia per riferimenti di dottrina e giurisprudenza di epoca anteriore). Nell'occasione la Suprema corte statuì che le deliberazioni dell'assem blea di una società aventi ad oggetto l'aumento del capitale, ove siano frutto di un accordo di maggioranza diretto a realizzare non l'interesse

sociale, ma quello personale dei partecipanti all'accordo medesimo, de siderosi di accentrare nelle proprie mani la disponibilità del capitale azionario per così ridurre la partecipazione percentuale degli altri soci

impossibilitati ad esercitare il diritto di opzione, sono da ritenere vi ziate da eccesso di potere e, pertanto, annullabili ex art. 2377 c.c. Sul tema dell'eccesso di potere, v. anche Cass. 5 maggio 1995, n. 4923, id.,

Rep. 1995, voce Società, n. 901 (per esteso, Società, 1995, 1548, con nota di A. Imbrenda, e Giur. comm., 1996, II, 354, con nota di R. Pa

petti, Alcuni rilievi in tema di perdita del capitale sociale, obblighi in

formativi degli amministratori ed annullabilità della delibera assem bleare di scioglimento e messa in liquidazione della società).

In epoca di poco successiva, Cass. 26 ottobre 1995, n. 11151, Foro

it., Rep. 1996, voce cit., n. 559 (per esteso, Società, 1996, 295, con nota di D. Batti; Giur. comm., 1996, II, 329, con osservazioni di P.G. Jae

ger, C. Angelici, A. Gambino, R. Costi e F. Corsi, Cassazione e con trattualismo societario: un incontro?, e Nuova giur. civ., 1997, I, 449, con nota di M. Amitrano), nel dare fondamento all'impugnazione per eccesso di potere di delibere assembleari di società, ha posto partico larmente l'accento sul principio generale di buona fede, stabilito dal l'art. 1375 c.c. in tema di contratti ma da ritenersi applicabile anche tra i soci durante l'intero arco del rapporto associativo che li lega; né oste rebbe all'operare di tale principio il fatto che i comportamenti scorretti concretamente tenuti dai soci nell'esercizio del voto siano destinati alla formazione di un atto imputabile alla società dotata di autonoma perso nalità giuridica.

II. - Sempre costantemente ribadito è peraltro il monito a non sconfi nare in valutazioni riguardanti il merito imprenditoriale delle scelte

compiute dall'assemblea, che dovrebbe restare rigorosamente estraneo al vaglio giurisprudenziale (da ultimo, in tal senso, Trib. Udine 21 otto bre 1998, Foro it., Rep. 1998, voce cit., n. 577, e Società, 1998, 1452). Donde, tuttavia, le difficoltà pratiche in cui spesso la giurisprudenza si dibatte per discernere, nei singoli casi, gli aspetti insindacabili di tali scelte ed i profili che possono, invece, connotare quelle medesime scelte come indebite prevaricazioni di una maggioranza che abusi dei

propri poteri in danno della minoranza, violando il principio di corret tezza e buona fede. V. al riguardo, tra gli altri, Trib. Milano 9 giugno 1994, Foro it., Rep. 1995, voce cit., n. 605 (per esteso, Giur. comm., 1996, II, 273, con nota di M. Rubino De Ritis, Legittimazione dei soci ex art. 2409 c.c. e «squeezeouts of minority»), che ha ravvisato l'ecces so di potere in una delibera di aumento del capitale intenzionalmente

preordinata a far venir meno la legittimazione dei soci di minoranza a

promuovere il controllo giudiziario ex art. 2409 c.c.; 20 novembre

1995, Foro it., Rep. 1997, voce cit., n. 580, e, per esteso, Giur. comm., 1996, II, 825, che ha stimato affetta da eccesso di potere una delibera zione assembleare di società per azioni con cui era stato stabilito a fa vore di un amministratore un emolumento manifestamente sproporzio nato rispetto alle mansioni di fatto espletate. Ma v. anche, a testimo nianza delle difficoltà di individuazione in concreto del vizio di eccesso di potere, Trib. Monza 20 febbraio 1998, Foro it., Rep. 1998, voce cit.,

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

È ammissibile la sospensione della deliberazione assembleare

di una società di capitali, ove ricorrano le altre condizioni a

tal fine richieste dalla legge, anche se la deliberazione mede

sima sia già stata eseguita ma ancora continui a manifestare una perdurante efficacia rispetto all'organizzazione della so

cietà ed alle correlative posizioni dei soci (nella specie, tale

perdurante efficacia è stata ravvisata nel fatto che l'eseguito aumento del capitale sociale, modificando la quota di parte

cipazione di uno dei soci, avrebbe avuto concreta incidenza sulla legittimazione all'eventuale futuro esercizio di diritti

sociali riservati a minoranze qualificate). (2)

n. 549, e Società, 1998, 1314, con nota di E. Guffanti, secondo cui, per ravvisare l'eccesso di potere in una deliberazione di aumento del capi tale occorre che la lesione dei diritti del socio di minoranza emerga sia sotto il profilo soggettivo (come intenzionalità del pregiudizio e consa

pevolezza del socio di maggioranza di poter sfruttare una situazione di

illiquidità del socio minoritario), sia sotto il profilo oggettivo (come reale illiquidità del socio di minoranza e sproporzione rilevante tra la sua situazione finanziaria e l'importo da sottoscrivere, nonché sussi stenza di un motivo pretestuoso per l'aumento di capitale); talché, in assenza delle predette condizioni, la mera situazione di difficoltà finan ziaria del socio non costituisce motivo per dichiarare l'illegittimità della delibera. Sulla stessa falsariga, App. Roma 21 aprile 1998, Foro

it., Rep. 1998, voce cit., n. 578, e Società, 1998, 1049, con nota di S.

Fasolino, giudicando di una deliberazione di aumento di capitale con sacrificio del diritto di opzione, ha escluso che i denunciati vizi del

procedimento assembleare fossero chiari sintomi rivelatori di fraudo lenza ed eccesso di potere. Ed ancora, secondo Trib. Milano 28 gennaio 1998, Foro it., Rep. 1998, voce cit., 835, e Società, 1998, 946, con commento parzialmente critico di L. Picone, pur potendosi riconoscere in astratto una situazione di abuso di potere nel caso della delibera di

scioglimento di società quando l'unico motivo del voto del socio di

maggioranza sia quello di ledere fraudolentemente gli interessi degli altri soci, l'accertamento di tale abuso richiede che sia effettivamente

provata la volontà fraudolenta della maggioranza a danno della mino

ranza; mentre per Trib. Torino 29 dicembre 1998, Foro it., Rep. 1999, voce cit., n. 1039, e Giur. it., 1999, 1668, la decisione di mettere in li

quidazione la società che abbia riportato cospicue perdite esprime una valutazione di merito, insindacabile sotto il profilo dell'abuso o del l'eccesso di potere se gli interessi a fondamento delle valutazioni della

maggioranza non si sono trasfusi in una deliberazione illogica e con

traddittoria, consapevolmente pregiudizievole per la società. In linea con i principi affermati da Cass. 11151/95, cit., App. Milano

18 aprile 2000, Società, 2000, 958, con nota adesiva di V. Salafia, ha in vece ravvisato la violazione del generale principio di buona fede in un ca so di indebita sottovalutazione dei dati di bilancio, finalizzata a creare fit tiziamente i presupposti per una ricapitalizzazione che avrebbe consentito di estromettere dalla compagine sociale il socio di minoranza o, co

munque, si sarebbe risolta in danno suo e dei suoi personali creditori. Il che ha indotto la corte milanese ad annullare la deliberazione di riduzione e ricostituzione del capitale assunta dall'assemblea a norma dell'art. 2446 c.c. Ma Trib. Milano 2 giugno 2000, Foro it., 2000, I, 3638 (con nota di L. Enriques, ove ulteriori citazioni in argomento), ha invece negato l'an nullabilità di una deliberazione che abbia comunque una propria auto noma giustificazione, come tale legittimamente valutata dai soci di mag gioranza, non costituendo dunque la finalità di danneggiare gli altri soci l'unica ragione della deliberazione medesima.

III. - Sul rapporto tra la nozione di conflitto di interesse, che con

trappone l'interesse personale del socio a quello della società, e l'ec cesso di potere del socio di maggioranza in danno del socio minoritario, che presuppone invece un contrasto tra interessi entrambi personali, cfr. Trib. Napoli 25 febbraio 1998, id., 1999, I, 1026, con nota di L. Nazzi

cone, cui si rinvia per ulteriori riferimenti.

Quanto all'abuso del diritto di voto, che, in via di principio, potrebbe essere imputabile anche al socio minoritario, oltre agli autori richiamati nella già citata nota di L. Enriques, v. H. Simonetti, Abuso del diritto di voto e regola di buona fede nelle società di capitali, in Nuova giur. civ., 2000, II, 479 ss.

(2) I. - Sui requisiti perché possa adottarsi il provvedimento cautela re di sospensione, in generale, e sul rapporto tra il procedimento ipotiz zato al riguardo dall'art. 2378, 4° comma, c.c. e quello ex art. 700

c.p.c., v. i riferimenti contenuti nella nota redazionale a Trib. Roma 18 marzo 1996, Foro it., 1997, I, 3434, nonché, a proposito del carattere cautelare del provvedimento di sospensione e della necessaria ricorren za tanto del fumus boni iuris quanto del periculum in mora, Trib. Tori no 29 dicembre 1998, id., Rep. 1999, voce Società, n. 793, e Giur. it., 1999, 1668, e Trib. Milano 26 marzo 1997, Foro it., Rep. 1998, voce

cit., n. 594, e Giur. it., 1998, 299. Che il rimedio previsto dal citato art. 2378 sia assorbente, rispetto agli strumenti cautelari contemplati in li nea generale dal codice di rito, è ancora, da ultimo, ribadito da Trib.

Como 11 febbraio 1999, Foro it., Rep. 1999, voce cit., n. 813, e Giur.

it., 1999, 1881, con osservazioni di G. Cottino. Tuttavia, atteso il ca rattere residuale dello strumento approntato dall'art. 700 c.p.c., Trib. Milano 20 gennaio 1998, Foro it., Rep. 1998, voce cit., n. 598, e So

cietà, 1998, 811, con nota adesiva di S. Fasolino, ha ritenuto proponi

li. Foro Italiano — 2001.

Con atto di citazione notificato il 14 aprile 2000 Pierluigia Beccalli conveniva in giudizio, dinanzi a questo tribunale, la

Genius s.r.l.

L'attrice, titolare di una quota pari al trenta per cento del ca

pitale sociale, deduceva quanto appresso. In data 4 febbraio 2000 l'amministratore unico di Genius,

Donato Brenna, marito della Beccalli e titolare del restante set

tanta per cento del capitale, inviava all'attrice una raccomandata

avente ad oggetto la convocazione di un'assemblea straordinaria

per deliberare un aumento di capitale, «.. .per esigenze società

bile un ricorso d'urgenza, ai sensi di detta norma, quando non sussistano i

presupposti per l'applicazione della misura prevista dall'art. 2378 c.c., e

cioè, in particolare, nelle more della proposizione della domanda di an nullamento della deliberazione societaria i cui effetti potrebbero essere immediatamente pregiudizievoli per il ricorrente. Nel medesimo senso

appare orientato anche Trib. Ancona 15 giugno 1998, Foro it., Rep. 1998, voce Provvedimenti di urgenza, n. 118, e Società, 1998, 1336.

II. - Quanto ai gravi motivi che possono giustificare la sospensione dell'efficacia della deliberazione impugnata, è da segnalare, di recente, Trib. Santa Maria Capua Vetere 23 marzo 1999, Foro it., Rep. 1999, voce Società, n. 792, e Società, 1999, 1360, secondo cui dovrebbe darsi

prevalenza alla valutazione dell'irreparabilità del danno che patirebbe il socio impugnante se la deliberazione fosse prima integralmente ese

guita e poi, all'esito del giudizio di merito, eventualmente rimossa; ma —

sempre a giudizio del tribunale campano — neppure dovrebbe, su

bordinatamente, essere del tutto omessa una valutazione comparativa di

questo pregiudizio con l'interesse della società e dei terzi. Più espliciti, nel senso della necessità di bilanciare tali contrapposti interessi, ap paiono invece Trib. Bari 18 maggio 1999, Giur. comm., 2000, II, 152, con osservazioni critiche di A. Arrigoni, Note sulla sospensione delle

deliberazioni assembleari di nomina degli amministratori di s.p.a.; Trib. Catania 12 agosto 1997, Foro it., Rep, 1998, voce cit., n. 593, e,

per esteso, Società, 1998, 188, adesivamente commentato da E. Bona

vera; Trib. Milano 26 marzo 1997, cit.; Trib. Pavia 22 febbraio 1996, Foro it., Rep. 1998, voce cit., n. 595, e, per esteso, Giur. it., 1998, 299, e Trib. Roma 18 marzo 1996, cit.

III. - Come anche la pronuncia qui riportata dimostra, va sempre più affievolendosi la portata della tradizionale affermazione secondo cui la

sospensione potrebbe esser disposta dal giudice, in via cautelare, solo per quelle deliberazioni che già non abbiano avuto esecuzione. Prende piede, invece, l'orientamento secondo cui può disporsi la sospensione quando la

deliberazione, pur avendo già avuto esecuzione, sia ancora idonea a pro durre effetti per l'avvenire: così Trib. Milano 1° febbraio 1999, Foro it.,

Rep. 1999, voce cit., n. 1058, e Società, 1999, 847, con nota parzialmente critica di G.U. Tedeschi, ha sospeso la deliberazione con la quale l'as semblea aveva disposto il promuovimento dell'azione di responsabilità nei confronti di un liquidatore nominato dal medesimo tribunale ai sensi dell'art. 2409 c.c., quantunque l'azione fosse ormai stata promossa: e ciò in quanto detta deliberazione è stata considerata una condizione dell'a zione di responsabilità, destinata a permanere sino alla decisione della

causa, e quindi idonea a produrre effetti che non si erano esauriti nel me ro atto di promuovimento dell'azione. Nello stesso senso, con riferimento ad un'analoga deliberazione riguardante un amministratore revocato, v. anche Trib. Milano 26 luglio 1997, Foro it., Rep. 1998, voce cit., n. 626, e Giur. it., 1998, 93, che ha esteso gli effetti della sospensione anche alla

conseguenziale deliberazione di nomina di un nuovo amministratore in

luogo di quello revocato; nonché Trib. Milano 25 luglio 1998, Foro it.,

Rep. 1999, voce cit., n. 794, e Giur. it., 1999,1676, a giudizio del quale è consentito sospendere deliberazioni che, disponendo operazioni sul capi tale sociale, sacrifichino senza valide ragioni di interesse sociale il diritto

d'opzione dei soci di minoranza.

Sempre in argomento, sono anche da segnalare Trib. Napoli 15 otto

bre, e 29 giugno 1998, Foro it., Rep. 1999, voce cit., nn. 966-968, e So

cietà, 1999, 710 e 714, con osservazioni di M.C. Cardarelli, che han no ritenuto ammissibile la sospensione della deliberazione approvativa del bilancio di esercizio argomentando dal fatto che tale deliberazione, benché non abbia bisogno di atti di esecuzione in senso stretto, certa mente non esaurisce i suoi effetti nel momento in cui viene adottata. Le

medesime pronunce si sono anche soffermate sui rapporti tra l'istituto

in esame e le regole dettate dal codice di rito in tema di procedimento cautelare uniforme, ribadendo la necessità di procedere all'audizione

degli amministratori e dei sindaci prima di adottare la richiesta misura

cautelare (sul che v. anche Trib. Ravenna 12 gennaio 1998, Foro it.,

Rep. 1998, voce cit., n. 597, e Società, 1998, 468). La seconda delle

due citate pronunce del tribunale napoletano, in particolare, ha confer

mato l'orientamento secondo cui, avverso il provvedimento di sospen sione, è ammissibile il reclamo previsto dall'art. 669 terdecies c.p.c. Su

quest'ultimo punto, cfr. anche, nel medesimo senso, Trib. Catania 12

agosto 1997, cit. In dottrina, cfr. A. Pisani Massamormile, La sospensione della deli

bera di assemblea di s.p.a. ed il nuovo modello di procedimento cau

telare, in Riv. dir. comm., 1997,1, 871 ss. [R. Rordorf]

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PARTE PRIMA 1400

rie», da sessanta milioni di lire a centonovantanove milioni di

lire. Alla data prefissata del 15 febbraio 2000, alla presenza del

solo socio Brenna, rappresentante il settanta per cento del capi tale sociale, veniva approvato l'aumento di capitale.

Detta delibera aveva il solo scopo di deprimere i diritti del

socio di minoranza, diluendone la partecipazione in Genius.

Tanto premesso la Beccalli chiedeva che la delibera impu

gnata fosse sospesa e quindi dichiarata invalida, nulla e/o an

nullabile in quanto assunta per una causa «... non solo indeter

minata ma extrasociale, anzi per una causa che ha il solo scopo di deprimere la partecipazione del socio di minoranza impeden

dogli con tale delibera l'esercizio di diritti qualificati». Instauratosi il contraddittorio la società contestava in toto le

affermazioni di controparte, sostenendo che le ragioni che giu stificavano l'aumento di capitale si rinvenivano nel fatto che la

società II rubinetto s.n.c., locataria dell'unico cespite di pro

prietà della società, non era in grado di pagare l'affitto, di talché

la Genius, che non dispone di altri proventi, non era a sua volta

in grado di far fronte alle scadenze di un mutuo contratto con la

Cra i cui ratei trimestrali ammontano a circa ventisei milioni di

lire. Motivazioni ribadite dall'amministratore unico, sentito all'u

dienza del 17 maggio 2000. Appare opportuno, ai fini del decidere, svolgere una breve

premessa di fatto, tale da consentire una più immediata com

prensione dei fatti di causa. La Genius s.r.l., costituita in data 17

ottobre 1997 con quote (allora) paritarie tra i coniugi Beccalli e

Brenna, aveva il solo scopo di acquistare un capannone indu

striale, il che avvenne il 15 settembre 1998 per il prezzo di un

miliardo e seicentocinquanta milioni di lire. In detto capannone ha sede la società II rubinetto di Brenna

Donato & C. s.n.c., il cui capitale appartiene per il novantotto

per cento al Brenna e per il due per cento alla Beccalli.

Tra II rubinetto e Genius è stato stipulato un contratto di lo

cazione, che prevede il pagamento di un canone di centoventi

milioni annui alla proprietaria. Va infine aggiunto che l'odierna attrice ha recentemente in

tentato una causa per separazione personale dei coniugi, con ad

debito al Brenna.

Ciò premesso, va innanzitutto affermato che il vizio denun

ciato non attiene al contenuto della deliberazione, né alla sua

motivazione, dato che il legislatore non ha prescritto, a differen

za che in altre ipotesi (come, ad esempio, in tema di esuberanza del capitale o di esclusione del diritto d'opzione) la preventiva esternazione delle ragioni che ispirino l'adozione della delibera medesima.

Illegittimità che riguarda una deliberazione che si assume

pregiudizievole della posizione del socio all'interno della com

pagine sociale, che abbia abusivamente alterato il precedente assetto dell'azionariato.

Aumento di capitale che si denuncia deliberato in danno della

minoranza, in cui l'effettivo prodursi del danno consegue e di

pende dalla condizione economica del singolo socio, dalla sua

incapacità a sottoscrivere le nuove azioni o quote. La neutralità dell'interesse sociale impedisce qui di far ricor

so alla disciplina del conflitto d'interessi che richiede, come è

noto, un potenziale danno derivante alla società dalla delibera zione impugnata.

Né il divieto di comportamento abusivo può essere ricollega to, comunque, all'obbligo di perseguire col voto l'interesse, sia

pur mediato, della compagine sociale.

Obbligo in cui la natura e l'oggetto della prestazione assumo no contorni così mutevoli ed ondivaghi, a seconda della pro spettiva, istituzionalistica o contrattualistica, che si predilige, da rasentare l'assoluta indeterminatezza.

Indeterminatezza che si riscontra nel frequente utilizzo, da

parte dei sostenitori di tale orientamento, di formule stereotipa te, che individuano la patologia della delibera come una devia zione dell'atto dallo scopo economico pratico del contratto di società.

Deviazione che nell'ipotesi d'aumento di capitale, stante l'in

sindacabilità, da parte del giudice, delle scelte di politica eco nomica compiute dalla società, sfuggirebbe, nella quasi totalità dei casi, ad ogni controllo di legittimità.

L'abuso denunciato va piuttosto ricondotto alla violazione del

principio di correttezza, da intendersi come comportamento leale, tale da non far prevalere interessi personali, estranei al

rapporto sociale, per danneggiare gli altri soci.

Il Foro Italiano — 2001.

Questo giudice ritiene preferibile riferirsi al canone della cor

rettezza e non al tradizionale canone della buona fede, perché

quest'ultimo appare finalizzare il singolo voto al c.d. interesse

sociale.

E generalmente acquisito che non esiste un obbligo giuridico a carico del singolo socio, come tale coercibile o, comunque, fonte di obblighi risarcitori, di votare esclusivamente nell'inte

resse comune.

Il diverso criterio della correttezza è capace di discriminare

tra interessi perseguibili e non, senza però imporre il vincolo di

perseguire il solo interesse comune.

La rilevanza dei canoni di buona fede e correttezza, la cui

inosservanza nell'espressione del singolo voto, se determinante,

può condurre all'annullamento di una delibera, è stata recente

mente affermata dalla Suprema corte (Cass. 26 ottobre 1995, n.

11151, Foro it., Rep. 1996, voce Società, n. 559). Il ragionamento della corte regolatrice si sviluppa logica

mente partendo dalla considerazione che l'art. 1375 c.c. obbliga «... ciascuna parte (di) tenere quei comportamenti che, a pre scindere dagli obblighi espressamente assunti con il contratto

siano idonei a soddisfare le legittime aspettative dell'altra par te», principio applicabile a tutti i contratti, ivi compresi i con

tratti plurilaterali e con comunione di scopo.

All'applicazione di tale principio alle società di capitali non è di ostacolo la personalità giuridica, la quale non impedisce il

persistere di un vincolo di natura contrattuale, né il carattere di

manifestazione di volontà proprio delle determinazioni di voto

che i soci prendono nel corso del rapporto sociale e che si so

stanziano nel voto assembleare.

Secondo la Cassazione il voto in assemblea può assimilarsi

«... all'attività esecutiva che il citato art. 1375 è destinato a di

sciplinare»; ciò perché l'attuazione del contratto di società ri

chiede la collaborazione delle parti, che diventa un vero e pro

prio obbligo. Tale conclusione viene confermata dal riconoscimento del ca

rattere non eccezionale dell'art. 2373 c.c., che conferma la «...

esigenza che i rapporti all'interno della società si realizzino at

traverso comportamenti coerenti con gli scopi per i quali il con

tratto sociale è stato stipulato».

Questo giudice, pur ritenendo condivisibile l'impostazione testé riferita, osserva che non può trascurarsi neppure la regola di correttezza che l'art. 1175 c.c. impone a tutti coloro che siano

parti di un rapporto obbligatorio, indipendentemente dall'origi ne contrattuale, tanto più che la stessa corte ritiene che l'art.

1375 c.c. costituisca «... una specificazione di un più generale

principio di solidarietà che abbraccia tutti i rapporti giuridici

obbligatori, di origine non contrattuale, vincolando le parti al

dovere di lealtà e rispetto della sfera altrui (art. 1175 c.c.)». Osservazione che peraltro non cancella le già evidenziate, a

parere di questo giudice, differenze che paiono sussistere tra il

principio di buona fede e il principio di correttezza, applicati alla materia della patologia del singolo voto che si tramuta in

patologia della delibera assunta con il concorso determinante del voto medesimo.

Il punto nodale della costruzione sta nella difficoltà di distin

guere ciò che attiene al rapporto tra i singoli soci, ed è quindi

sviluppo del consenso iniziale, e ciò che attiene all'impresa,

quale autonomo centro d'interessi, con il quale comunque i so

ci si trovano a dover rapportarsi. Confine che necessariamente va rintracciato nell'assemblea,

nella sua duplice natura di organo dell'impresa e di sintesi con

flittuale della volontà dei singoli, il cui «prodotto» costituirebbe

l'attività esecutiva del contratto iniziale.

In realtà sembra doversi riconoscere che i rapporti tra soci di

società di capitale possono avere anche un'origine non contrat

tuale e, come tali, possono non ricadere nelle disposizioni dedi

cate alla esecuzione e validità dei contratti, ma essere discipli nati da una propria normativa, che trae origine dalle norme ge nerali e speciali relative ai diversi tipi di organizzazione societa

ria. In sostanza, in base al sistema giuridico vigente, se appare

corretto utilizzare la norma sull'esecuzione secondo buona fede del contratto, la stessa non può considerarsi l'unica norma ap plicabile, ma deve essere coordinata ed integrata dalle altre norme e principi propri dell'ordinamento, di cui sono espressio ne gli art. 1175 e 2373 c.c., al fine di riconoscere l'esistenza, anche per le deliberazioni assembleari di un principio generale di buona fede o di correttezza nel senso indicato, dalla cui ap

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Page 5: ordinanza 1° giugno 2000; Giud. Nardecchia; Beccalli c. Soc. Genius

GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

plicazione scaturisce il divieto di abuso nell'esercizio del voto.

Di conseguenza la deliberazione assembleare assunta con il

voto determinante abusivo è annullabile, perché non presa in

conformità della legge, secondo il dettato dell'art. 2377 c.c.

Tale sindacato deve rispettare comunque i limiti imposti dalla

legge al giudice, il quale non può mai sindacare il merito delle

scelte gestionali, dovendosi pur sempre limitare ad un controllo

di legittimità. Alla luce dei principi testé esposti, va analizzato il fumus boni

iuris dell'istanza di sospensione avanzata dall'attrice.

L'amministratore unico di Genius, Donato Brenna, all'udien

za del 17 maggio 2000 ha espressamente dichiarato che l'au

mento di capitale è stato giustificato dalla necessità di far fronte

alle rate del mutuo contratto con la Cra, non essendo altrimenti

possibile far fronte a tale obbligazione alla luce dell'inadempi mento dell'affittuaria II rubinetto.

Dagli atti di causa emergono però alcune circostanze che di

mostrano come tale motivazione, apparentemente inappuntabile,

perché assunta nell'interesse della società, sia in realtà frutto

della volontà determinante del socio Brenna di approfittare della

mancanza di liquidità, a lui ben nota, della ricorrente, per diluir

ne la partecipazione sociale.

Giova ricordare che la presunta inadempiente affittuaria, cau

sa esclusiva della denunciata carenza di liquidità di Genius, la

società II rubinetto, è amministrata anch'essa dal Brenna, che

detiene il novantotto per cento del capitale sociale.

Né appare ininfluente rammentare che tra le parti è in corso

un giudizio di separazione personale dinanzi al Tribunale di

Monza, in cui i coniugi si sono reciprocamente addebitati la

colpa del fallimento della loro unione.

Da ultimo va sottolineato che negli atti di causa non vi è la

pur minima prova del fatto che Genius abbia in qualche modo

cercato di ottenere da II rubinetto il pagamento dell'affitto.

Circostanze che, analizzate nel loro insieme, danno corpo alla

fondatezza della tesi della ricorrente circa la preordinazione dell'aumento di capitale alla sua estromissione da Genius.

Ciò posto, va analizzato il requisito del periculum in mora, da

valutarsi anche con riferimento alla sussistenza dei «gravi moti

vi» di cui all'art. 2378 c.c. Questo giudice non ignora certo la problematica relativa alla

stessa ammissibilità della sospensione di una delibera che, come

quella oggetto di causa, abbia già avuto esecuzione.

Pare condivisibile comunque quell'orientamento che acce

dendo ad una concezione più lata del termine esecuzione, am

mette la sospensione di tutte le delibere che, se pur non abbiso

gnevoli di specifica ulteriore attività esecutiva, continuino a

manifestare una perdurante efficacia rispetto all'organizzazione societaria ed alle correlative posizioni dei soci, non già in via di

mero riflesso, quanto di diretta incidenza sul funzionamento de

gli organi (cfr., da ultimo, in questo senso, Trib. Milano 25 lu

glio 1998, id., Rep. 1999, voce cit., n. 794). Diretta incidenza che può senz'altro riscontrarsi, nel caso di

specie, con riferimento ai poteri di controllo connessi alla quota di partecipazione sociale, dato che, ad esempio, la paralisi degli effetti della delibera impugnata non farebbe venir meno la le

gittimazione della ricorrente all'esercizio del potere di denuncia

ex art. 2409 c.c.

Né può dirsi che la comparazione degli interessi in gioco,

quelli della maggioranza, quelli della minoranza, quelli della

società e quelli dei terzi, sia d'ostacolo alla concessione del

provvedimento cautelare richiesto.

Invero la Genius è una società che non svolge alcuna attività

imprenditoriale, ad eccezione dell'affitto del capannone, non ha

rapporti con terzi al di fuori della banca mutuante e della locata

ria Il rubinetto, società per la quale, stante l'intreccio societario,

non si pongono certo problemi di tutela dell'affidamento del

terzo.

Il Foro Italiano — 2001.

TRIBUNALE DI GENOVA; sentenza 4 maggio 2000; Giud. Casalino; Bernardi (Avv. Bastreri) c. Soc. Karaté Kai (Avv.

Rispoli).

TRIBUNALE DI GENOVA;

Danni in materia civile — Sport — Arte marziale — Eserci

zio dimostrativo — Lesioni personali — Responsabilità (Cod. civ., art. 1218).

La società sportiva ha l'obbligo di garantire con mezzi orga nizzativi idonei l'incolumità fìsica degli allievi e deve, per tanto, organizzare i corsi vigilando sull'attività degli istrutto

ri e sull'andamento delle lezioni, al fine di impedire che ven

gano superati i confini del rischio connaturato all'attività

sportiva stessa (nella specie, si è dichiarata la responsabilità a titolo contrattuale della società sportiva, avente ad oggetto l'esercizio del karate, per le lesioni subite da un'allieva che, invitata durante una lezione a partecipare ad una lotta con

una cintura nera, subiva una mossa, detta gancio, che le ca

gionava la rottura del menisco). (1)

(1) La responsabilità per le lesioni cagionate durante un allenamento di arte marziale ha di recente formato oggetto di interessanti pronunzie, volte ad individuare l'esatto confine fra normale svolgimento dell'atti vità sportiva e responsabilità penale. Da una compiuta rassegna della

giurisprudenza in materia ci esenta ora Cass. 12 novembre 1999, Ber nava (Foro it., 2000, II, 639, con nota di Russo) che, proprio con rife rimento ad una fattispecie di responsabilità per lesioni personali cagio nate durante un allenamento di karate, ha avuto modo di soffermarsi sul rischio consentito nell'attività sportiva e sulle particolari cautele indi

spensabili, nel corso dell'attività di allenamento, allo scopo di garantire l'incolumità dello sportivo. La sentenza approfondisce il principio (successivamente fatto proprio da Cass. 2 dicembre 1999, Rolla, ibid., 321, con nota di Russo, Lesioni sportive, tra illecito sportivo e respon sabilità penale) secondo il quale la responsabilità (penale) dell'atleta va individuata solo nelle ipotesi di volontaria inosservanza delle regole di gara, e precisa chiaramente che l'esercizio sportivo di un'arte mar ziale richiede, nel caso di un allenamento, una maggiore prudenza e cautela nel comportamento dei contendenti, tanto più se vi è una note vole sproporzione fra l'esperienza e la capacità dei contendenti (sul

punto, v. anche Trib. Roma 4 aprile 1996, id., Rep. 1997, voce Respon sabilità civile, n. 163).

Il principio trova sostanzialmente conferma anche nelle decisioni del

giudice civile su istanze di risarcimento promosse ex art. 2043 c.c. (v., sul punto, le differenti conclusioni di Trib. Monza 22 luglio 1997, id.,

Rep. 1998, voce Sport, n. 67, e 5 giugno 1997, ibid., n. 66, entrambe

con nota di Palmieri, Oltre l'agonismo: competizioni sportive e re

sponsabilità civile, in Riv. dir. sport., 1997, 758; e cfr. Pret. Trento 11

maggio 1996, Foro it., Rep. 1997, voce Responsabilità civile, n. 110, con nota di De Marzo, Violazione delle regole del gioco e responsabi lità dell'atleta, in Riv. dir. sport., 1997, 277, che, con riferimento alle lesioni subite nel corso di una partita di calcio, chiarisce come l'inter

vento del giocatore danneggiante, realizzatosi nell'ambito di un'azione del gioco e solo nella concitazione del gioco risoltosi in un evento dan

noso, integri un mero illecito sportivo scriminato, sotto il profilo della

responsabilità del danneggiante, in relazione alle cause di giustificazio ne di cui agli art. 50 e 51 c.p., cui non può conseguire, pertanto, alcuna

responsabilità ai sensi della legge penale e civile). Questo lo sfondo sul quale si staglia la sentenza in rassegna, che tut

tavia si distingue per aver dichiarato la responsabilità a titolo contrat tuale della società sportiva, inadempiente all'obbligazione di vigilare sullo svolgimento corretto delle lezioni e sull'adeguato controllo degli istruttori (la stessa responsabilità degli organizzatori e degli istruttori è stata più frequentemente invocata, in passato, in forza dell'art. 2043 c.c. o, in più rari casi, dell'art. 2050 c.c.; v., sul punto, App. Torino 19 dicembre 1997, id., 1999, 545, con nota di La Notte, e cfr. Trib. Ver celli 11 novembre 1996, Foro it., Rep. 1997, voce cit., n. 155, con os servazioni di Manera, Brevi note sulla responsabilità del maestro di

sci per i danni occorsi all'allievo durante l'esercitazione, in Nuovo

dir., 1997, 207). Gli argomenti fatti propri dal tribunale ligure sembra

no individuare la responsabilità della società per non aver garantito, per il tramite dei propri istruttori, il grado di sicurezza che l'associato po teva lecitamente attendersi nell'apprendimento dell'arte marziale. In

altri termini, l'aver fatto combattere a scopo didattico o dimostrativo

due contendenti di grado e competenza radicalmente diversi, senza

prendere le necessarie cautele e misure di sicurezza al fine di evitare il

rischio di eventi lesivi dell'incolumità personale, è sufficiente a dimo

strare l'inadempimento della società sportiva convenuta alla principale

obbligazione contratta con l'associato: garantire lo svolgimento del

l'attività sportiva nel rispetto dei margini di sicurezza consentiti dalla

stessa attività sportiva. Va da sé che la possibilità di invocare la tutela contrattuale si traduce

nella possibilità, per il danneggiato, di profittare del più lungo termine

di prescrizione; ma è altrettanto indiscutibile che intervenire in via in

terpretativa per individuare il contenuto concreto del contratto (spesso verbale), stipulato fra lo sportivo dilettante e l'associazione sportiva,

può rivelarsi, in alcune occasioni, non semplicissimo. [P. Laghezza]

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