ordinanza 11 dicembre 1980; Giud. Martella; imp. Rizzo e altriSource: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 2 (FEBBRAIO 1981), pp. 129/130-133/134Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23171393 .
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GIURISPRUDENZA PENALE
processo principale, con la sola eccezione degli atti urgenti; mentre una regola analoga è dettata anche ora dal codice di
procedura civile in relazione ai processi rispetto ai quali è
proposto il regolamento di competenza o di giurisdizione. Il vigente codice di procedura penale invece non prevede
espressamente la sospensione del processo, ma non è dubbio tuttavia che essa sia una conseguenza necessaria del conflitto.
Se si tratta infatti di conflitto negativo, la sospensione del
processo principale deriva dalla natura stessa del conflitto, in
quanto è evidente come nessun atto processuale possa più essere
compiuto, quando uno dei giudici abbia declinato la sua compe tenza e l'altro rifiuti la propria.
Ma anche nel caso di conflitto positivo, come è quello di
specie, la conseguenza non può essere diversa, posto che il
procedimento di conflitto, implicando la devoluzione alla Corte di
cassazione della questione di competenza, comporta necessaria mente la sospensione della funzione giurisdizionale degli organi
giudiziari in contrasto, potendo altrimenti avvenire che l'attività
processuale venga svolta dal giudice che sarà poi dichiarato
incompetente. Se dunque l'introduzione del procedimento incidentale di con
flitto (negativo o positivo) ha per effetto la sospensione del
processo (o dei processi) a cui si riferisce il conflitto, i giudici in
contrasto potranno compiere, da quel momento, soltanto gli atti
urgenti, e ciò in analogia a quanto disposto dagli art. 42 e 57,
rispettivamente per i casi di declinatoria della competenza territo
riale e di rimessione di procedimenti.
D'altra parte, poiché con l'introduzione del procedimento la
Corte di cassazione viene investita in via esclusiva della questione di competenza, è anche evidente che la sua decisione, dirimendo
il contrasto tra i giudici di merito, è essa stessa una pronuncia idonea e sufficiente ad attribuire definitivamente il potere-dovere di continuare il processo al giudice ritenuto competente. Deriva
da ciò che, una volta risolto il conflitto da parte della Corte di
cassazione, il giudice dichiarato incompetente, come non potrebbe mai continuare a svolgere ulteriore attività processuale, così non
può nemmeno emettere una sentenza dichiarativa di incompeten za, in quanto gli effetti connessi a una pronuncia del genere debbono già ritenersi definitivamente prodotti dalla decisione
della Corte di cassazione, mediante l'attribuzione della competen za a uno dei giudici in conflitto e la conseguente trasmissione al
suo ufficio degli atti processuali.
Alla stregua di quanto si è detto, risulta che nella specie il
Pretore di Messina, una volta iniziato il procedimento di conflitto, non poteva continuare l'esperimento dibattimentale, trattandosi di
un'attività che non aveva carattere di urgenza, ma non poteva
neppure emettere la sentenza di incompetenza, posto che in data
precedente (cosi come i difensori avevano documentato) la Corte
di cassazione aveva definitivamente attribuito la competenza al
procuratore della Repubblica di Messina, ordinando la trasmissio
ne al suo ufficio degli atti del processo.
Di conseguenza, la sentenza del pretore è solo apparentemente una sentenza di incompetenza, ma è in realtà un provvedimento che si pone fuori del relativo schema normativo e che è quindi abnorme, posto che già in precedenza, con la decisione di questa corte, il Pretore di Messina era stato privato della competenza a
proseguire il processo. La sentenza impugnata deve essere pertanto annullata senza
rinvio e gli atti trasmessi al procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Messina.
Per questi motivi, ecc.
GIUDICE ISTRUTTORE PRESSO IL TRIBUNALE DI ROMA;
ordinanza 11 dicembre 1980; Giud. Martella; imp. Rizzo e
altri.
GIUDICE ISTRUTTORE PRESSO IL TRIBUNALE DI ROMA;
Previdenza sociale — Istituti di patronato — Attribuzione di
personalità giuridica privata mediante legge interpretativa —
Questione non manifestamente infondata di costituzionalità
(Cost., art. 104; d. 1.1. 29 luglio 1947 n. 804, riconoscimento
degli istituti di patronato; legge 27 marzo 1980 n. 112, inter
pretazione autentica delle norme concernenti la personalità
giuridica ed il finanziamento degli istituti di patronato e di
assistenza sociale di cui al d. 1.1. 29 luglio 1947 n. 804, non
ché integrazioni allo stesso decreto).
Non è manifestamente infondata (e se ne rimette quindi l'esame
alla Corte costituzionale) la questione di costituzionalità della
legge 27 marzo 1980 n. 112, che, qualificandosi di interpretazio ne autentica del d. 1.1. 29 luglio 1947 n. 804, ha stabilito che gli istituti di patronato hanno personalità giuridica di diritto priva to, per « eccesso di potere legislativo » e per contrasto con l'art. 104, 1° comma, Cost. (1)
Il Giudice istruttore, ecc. — A) Ritenuto in fatto. — È in corso
presso questo ufficio procedimento penale a carico di Rizzo
Giuseppe, Piazzi Ugo, Feroci Ercole, Drago Giuseppe, Correr
Ruggero (ed altri), imputati del delitto di concorso in peculato continuato pluriaggravato (ex art. 110, 112, n. 1, 81, capov., 314, 61, n. 7, cod. pen.), perché, agendo in concorso tra loro e con altre persone, in numero di più di cinque, ciascuno nella sua
qualità di amministratore dell'istituto di patronato per l'assistenza
sociale, ente pubblico ai sensi del d. 1. 29 luglio 1947 n. 804, ed in
particolare il Rizzo nella sua qualità di presidente dell'I.p.a.s., nonché di presidente dell'E.i.s.s., il Piazzi nella qualità di consi
gliere dell'I.p.a.s. dal 1972, nonché di presidente dell'A.n.co.l., il
Feroci nella sua qualità di revisore dei conti dal 1972 al 1974 e ciò nonostante investito di compiti di amministrazione attiva e, successivamente, dal 18 gennaio 1974 nella sua qualità di capo dei servizi di ragioneria dell'I.p.a.s, con più atti esecutivi del
medesimo disegno criminoso, distraevano, a proprio e altrui van
taggio, ingenti somme di danaro di pertinenza dell'I.p.a.s., dispo nendone per finalità estranee ai fini dell'ente, ovvero, a seconda del ruolo ricoperto, consentendo la detta distrazione:
1) concedendo all'E.i.s.s. (Ente italiano servizio sociale, associa zione privata) ingenti prestiti monetari, pur non rientrando tali
erogazioni tra le finalità statutarie e di legge dell'I.p.a.s., e
operando successivamente a tali erogazioni, anche a mezzo di
artefici contabili, in modo tale da non consentire nemmeno
l'integrale recupero delle somme versate. In modo specifico, a
partire dall'anno 1972 — epoca coincidente con la nomina del
Rizzo a presidente dell'I.p.a.s. — concedendo in varie occasioni
prestiti all'E.i.s.s. per un ammontare, alla data del 26 settembre
1974, di lire 204.547.879, e concedendo ancora, con delibera in data 26 settembre 1974, un ulteriore prestito di lire 145.452.121,
indi, successivamente, non procedendo all'integrale recupero di tali somme, bensì', dopo aver riportato, peraltro in modo non
conforme alle regole di buona amministrazione e contabilità, nelle scritture dell'I.p.a.s. un recupero parziale, adottando la delibera del consiglio di amministrazione del 6 febbraio 1976 con la quale si riconosceva un debito complessivo dell'I.p.a.s. verso l'E.i.s.s. di lire 256.000.000, da iscriversi nel bilancio dell'ente per l'anno 1974 e con riferimento a non dimostrati crediti dell'E.i.s.s. verso
l'I.p.a.s., relativi agli anni dal 1971 al 1975;
2) riconoscendo in favore dell'A.n.co.l. (Associazione nazionale
comunità di lavoro, associazione privata « promotrice » del
l'I.p.a.s.) con la delibera del consiglio di amministrazione del 6
febbraio 1976 un credito complessivo di lire 270.000.000, da
iscriversi nel bilancio 1974 dell'I.p.a.s., con riferimento a crediti dell'A.n.co.l. relativi al periodo 1971-1975; ciò, nonostante la
somma contabilmente risultante a credito dell'A.n.co.l., sulla base
degli estratti conto, fosse di gran lunga inferiore e nonostante
mancasse, anche in relazione a tali minori somme, idonea docu
mentazione delle spese asseritamente sostenute dall'A.n.co.l. a
favore dell'I.p.a.s.;
(1) L'ordinanza è sintomatica della inquietudine dei giudici di fronte alla invadenza del potere legislativo, che tenta di « cambiare le carte in tavola » in processi in corso ricorrendo aWéscamotage della legge interpretativa: già le sezioni unite della Cassazione, con sent. 1° ottobre 1980, n. 5330, Foro it., 1980, I, 2402, con nota di richiami e osservazioni di C. M. Barone, hanno negato alla legge n. 112 del 1980 il carattere interpretativo da essa attribuitosi in contrasto con la costante
giurisprudenza (che ha sempre riconosciuto natura pubblicistica agli istituti di patronato) ivi richiamata in nota, fra cui Cass. 29 maggio 1979, n. 3117, integralmente riprodotta nella motivazione della ordinan
za, ma che qui si omette in quanto può leggersi in Foro it., 1979, I, 2012.
Le sezioni unite e il giudice istruttore fanno cenno in motivazione ai
lavori preparatori della legge, da cui risulta l'intento dei proponenti di
sottrarre i dirigenti di un istituto all'accusa di peculato, che è appunto
quella che forma oggetto del procedimento penale nel corso del quale è stata pronunciata l'ordinanza qui riportata.
Di essa ha dato notizia anche la stampa quotidiana (v. « Il
Messaggero » del 27 dicembre 1980), che non ha mancato di sottolinea
re quell'intento. Per vicende relative a procedimenti per peculato a carico di imputati
di cui pure si è occupata la stampa, v. Cass. 5 agosto 1980, ric.
Rovelli, 3 giugno 1980, ric. Squitieri, 22 maggio 1980, ric. Caltagi
rone, in questo fascicolo, II, 108.
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PARTE SECONDA
3) riconoscendo in favore della DCV (Deutcher Caritasver
band) con la delibera del consiglio di amministrazione del 6
febbraio 1976 un credito complessivo di lire 1.715.000.000 come
contropartita per asserite spese sostenute dalla DCV per conto
dell'I.p.a.s. all'estero e iscrivendo tale posta debitoria nel bilancio
dell'I.p.a.s. per il 1974; ciò pur non essendo stata rinvenuta
alcuna dimostrazione delle asserite spese sostenute dalla DCV in
favore o per conto dell'I.p.a.s.; elevando poi, nella stessa situazio
ne di assoluta carenza di documenti giustificativi, la posta debito
ria, nello stato patrimoniale dell'I.p.a.s. al 31 dicembre 1976, a
lire 2.153.320.251;
4) saldando, con fondi dell'I.p.a.s numerose fatture pertinenti all'A.n.co.l. (ad esempio, in epoca recente, la fattura n. 4 del 2
gennaio 1979 ditta Guesba di lire 699.960; fattura n. 179 del 6
marzo 1979 ditta Guesba di lire 849.300); nonché consentendo
che personale dipendente dall'I.p.a.s. e da questo retribuito pre stasse il proprio lavoro, in via esclusiva o limitatamente al lavoro
straordinario, per l'A.n.co.l. (ad esempio, salvo successive integra
zioni, tali Garnero Antonio dal 1° luglio 1975 al 31 dicembre
1977; Spurio Schiavoni Patrizia dal 1° ottobre 1975 a tutt'oggi, Nucciarelli Margherita dal 1° aprile 1976 al 31 agosto 1976);
nonché saldando, con fondi dell'I.p.a.s., spese per trasferte e
missioni sostenute da dipendenti e funzionari dell'E.i.s.s. e del
l'A.n.co.l.; nonché, ancora, saldando, con esclusivi fondi del
l'I.p.a.s., le spese, ammontanti a circa 100 milioni, relative ad
un convegno, tenuto insieme all'A.n.co.l. e alla DCV, in Roma
nell'aprile 1975 presso l'hotel Villa Pamphili;
5) costituendo, con delibera del consiglio di amministrazione
del 18 febbraio 1972, il c. d. «ufficio organizzazione e sviluppo»
ed assegnando allo stesso, con facoltà di amministrazione indi
pendente dal bilancio dell'I.p.a.s., fondi, dal 1973 al 1978, per
complessive lire 475.000.000, fondi amministrati direttamente dal
l'A.n.co.l. senza pratica possibilità di controllo circa la risponden za dell'uso dei fondi all'interesse e alla funzione dell'I.p.a.s. ovvero dell'interesse dell'A.n.co.l.;
6) costituendo in favore del presidente dell'I.p.a.s., Rizzo Giu
seppe, una posizione assicurativa presso gli enti previdenziali, pur nel difetto del presupposto di legge della esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, escluso dalla carica ricoperta dal Rizzo.
Reato permanente, tuttora in corso;
7) erogando, con fondi dell'I.p.a.s., in favore del Rizzo, anche
lo stipendio a questo attribuito come presidente dell'E.i.s.s. (lire 680.000 mensili, fino all'anno 1977).
Detto addebito è stato contestato ai nominati imputati con
mandato di cattura; agli stessi, a seguito delle acquisite risultanze
istruttorie, è stato concesso il beneficio della libertà provvisoria.
In pendenza del presente giudizio, è entrata in vigore la legge 27 marzo 1980 n. 112, intitolata come di «interpretazione auten
tica delle norme concernenti la personalità giuridica e il finanzia
mento degli istituti di patronato e di assistenza sociale di cui al
decreto legislativo del capo provvisorio dello Stato 29 luglio 1947
n. 804, nonché integrazioni allo stesso decreto», legge che all'art.
1 dispone: « gli istituti di patronato e di assistenza sociale
costituiti ai sensi dell'art. 2 d. 1. capo provvisorio dello Stato 29
luglio 1947 n. 804 hanno personalità giuridica di diritto privato».
Il p.m. in sede, tenuto conto della sopravvenienza di detta
legge, con requisitoria del 13 novembre 1980, ha sottolineato che
la nuova normativa « impone una radicale riconsiderazione della
qualificazione giuridica dei fatti contestati agli imputati», cosi
motivando: « l'originaria imputazione di peculato per distrazione, non trova più fondamento normativo, essendo stata esclusa la
natura di ente pubblico riconosciuta ai patronati, e quindi al
l'I.p.a.s., dalla costante giurisprudenza delle supreme magistrature. Orbene, se non può essere del tutto obliterato il rilievo che, nella
mancanza di una espressa previsione di legge circa la natura
pubblica o privata degli enti in questione, la natura pubblicistica era stata riconosciuta in via giurisprudenziale, sulla base di un
rilievo pubblicistico delle « funzioni » affidate in via esclusiva ai
patronati, con la conseguenza che, sul piano teorico-dottrinario,
non sarebbe preclusa una ricerca in ordine alla possibilità di
configurare egualmente l'ipotesi del peculato, posta la natura
pubblicistica della funzione svolta dai vari dipendenti degli istituti
di patronato (il problema del c. d. pubblico funzionario di fatto),
tuttavia, sul piano concreto sembra al requirente che la volontà del legislatore, chiaramente espressa nella legge interpretativa, di
ricondurre nell'ambito del diritto privato l'organizzazione e il
funzionamento dei patronati sia un dato di fatto (e giuridico) tale
che l'interprete e il giudice non possano non tenerne conto, avventurandosi nel piano della speculazione giuridico-teorica, tan
to più nell'ambito di una istruttoria penale, volta ad accertare la
violazione di norme di comportamento che devono essere prefissa te per legge. Tale considerazione ovviamente non implica un
apprezzamento di favore nei confronti dell'operato del legislatore, che ha atteso più di trenta anni per interpretare autenticamente
una norma, e per di più in pendenza di un procedimento penale instaurato sulla base dei risultati della interpretazione giurispru denziale della norma stessa. Ma la critica per le scelte del
legislatore attiene all'ambito del giudizio politico, che non deve
comportare il fuorviamento del potere giurisdizionale ».
Concludendo la sua requisitoria, il p.m. ha chiesto che agli imputati si contestasse l'ipotesi criminosa di concorso in appro
priazione indebita continuata pluriaggravata (ex art. 110, 112, n.
1, 646, 61, nn. 7 e 11, e 81, capov., cod. pen.) diversa in fatto e in diritto da quella di peculato in precedenza contestata.
B) Osserva in diritto. — Prima di procedere oltre nel giudizio, ritiene questo giudice istruttore di sollevare d'ufficio questione di
legittimità costituzionale della legge 27 marzo 1980 n. 112, per:
Bl) - Eccesso di potere legislativo; B2) - Contrasto con l'art. 104, 1° comma, Cost.
Bl) - La giurisprudenza della Corte suprema di cassazione si è
sempre uniformemente espressa, nel riconoscere la natura di enti
pubblici non economici degli istituti di patronato costituiti ai
sensi del d. 1. capo provvisorio dello Stato 29 luglio 1947 n. 804, e
ciò a partire dal 1958, allorché, con sentenza a sezioni unite (n. 960 del 22 marzo 1958, Foro it., 1959, I, 206) si poneva in rilievo
che, in sostanza, gli istituti di patronato e di assistenza sociale
hanno la funzione precisa di integrare e di rendere più funzionale
l'attività degli enti pubblici, come l'I.n.p.s., l'I.n.a.i.l., l'I.n.a.m.,
ecc. nella fase della concreta realizzazione della previdenza e
dell'assistenza sociale obbligatoria.
La successiva sentenza (Sez. un. n. 734 del 4 aprile 1964, id.,
1964, I, 940) evidenziava che gli istituti di patronato hanno
carattere pubblico, in quanto « come risulta dall'art. 1 del citato
decreto istituzionalmente perseguono uno scopo di carattere pub blico, che è quello di provvedere in via esclusiva all'assistenza e
alla tutela dei lavoratori e dei loro aventi causa, per il consegui mento in sede amministrativa delle prestazioni di qualsiasi genere
previste da leggi, statuti e contratti regolanti la previdenza e la
quiescenza, nonché alla rappresentanza dei lavoratori davanti agli
organi di liquidazione di dette prestazioni o a collegi di concilia zione. Ora, se si consideri che le suindicate prestazioni dovute in
base agli statuti o ai contratti si limitano sempre a sostituire o a
integrare quelle dovute a norma di legge, delle quali non possono mai essere quantitativamente inferiori, deve riconoscersi che lo
scopo istituzionale degli enti suindicati ha, nella sua parte princi pale ed assistenziale, carattere complementare e integrativo delle
finalità di previdenza e di assistenza sociale la cui natura pubbli ca è universalmente ritenuta per avere lo Stato, in adempimento del precetto contenuto nell'art. 38 Cost., reso obbligatorio il con
seguimento di esse mediante imposizione di particolari contributi
e la creazione di appositi enti pubblici destinati a realizzarle, come l'I.n.a.i.l., l'I.n.p.s., l'I.n.a.m.».
La qualifica di enti pubblici non economici è stata ulteriormen te ribadita dalla Suprema corte nei confronti degli enti di patro nato e per ultimo, con sentenza a sezioni unite n. 3117 del 29
maggio 1979 {id., 1979, I, 2012), che ha affermato non potersi non
riconoscere natura pubblica all'istituto di patronato per l'assisten za sociale (I.p.a.s.), cosi motivando: (omissis)
È, peraltro, da sottolineare, che la qualificazione e definizione
dell'I.p.a.s., quale ente pubblico, risulta pacificamente recepita anche dai competenti organi collegiali dell'ente stesso. Così, a titolo esemplificativo, in sede di esame di proposta di transazione delle cause fra l'I.p.a.s. e certi signori Coluccia e Mangeli, il
comitato esecutivo dell'ente, nella seduta del 30 giugno 1975, si
esprimeva in tal modo: « in relazione alla ventilata possibilità di
esaminare un progetto di transazione delle cause promosse contro
l'I.p.a.s. dai signori Coluccia e Mangeli di Lecce, il comitato
esprime l'avviso di non potere valutare nel merito le relative
proposte, in quanto non ritiene che l'istituto, quale ente pubblico,
possa aderire ad una formula di compromesso su questioni di
diritto che debbono essere ancora riconosciute dalle competenti autorità giurisdizionali ».
In sede di consiglio di amministrazione, nella seduta del 28
luglio 1976 ove, fra l'altro, si trattava di adottare norme di
comportamento in presenza di aumento del canone di locazione
delle sedi occupate dall'ente nel territorio nazionale, l'I.p.a.s. è
definito « una pubblica amministrazione ».
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GIURISPRUDENZA PENALE
Pur non essendosi mai dubitato, come si è rilevato (quantome no nella giurisprudenza della Corte di cassazione ed anche delle
altre magistrature superiori: cfr. il parere n. 623 dell'8 luglio 1953
emesso dalla II sezione del Consiglio di Stato) della natura di
enti pubblici non economici degli istituti di patronato e della
conseguente natura pubblicistica del rapporto di impiego dei
dipendenti, è intervenuta la legge 27 marzo 1980 n. 112, che,
qualificandosi di « interpretazione autentica », ha stabilito che
detti istituti hanno personalità giuridica di diritto privato. Con
segue che la legge interpretativa, enunciando un apprezzamento
interpretativo di un precetto anteriore (di cui, per definizione, « fa intendere il senso »), non può non avere efficacia retroattiva; in particolare, con riferimento al procedimento penale in corso, si
ha che, essendosi attribuita agli istituti di patronato personalità giuridica di diritto privato, i soggetti che ne hanno la rappresen tazione o l'amministrazione, non rivestono la « qualità » di pub blici ufficiali o di incaricati di pubblico servizio, « qualità », che, come è noto, è indispensabile perché si abbia il delitto di peculato (ex art. 314 cod. pen.); sicché, ove si siano verificate (come nella
fattispecie sostiene l'ipotesi accusatoria) appropriazioni o distra zioni di somme appartenenti all'ente, da parte di chi, per ragione del suo ufficio o servizio aveva il possesso di tali somme, non
può piti configurarsi tale delitto (punibile con la reclusione da 3 a
10 anni e con la multa non inferiore a lire 40.000), bensì, eventualmente (come rilevato e ritenuto dal p.m.) la meno grave
fattispecie criminosa dell'appropriazione indebita (la cui sanzione, all'art. 646 cod. pen. è stabilita nella reclusione fino a tre anni e
nella multa fino a lire 400.000).
Ciò premesso e rilevato, ritiene il giudice istruttore che la legge « interpretativa » in riferimento si appalesi in chiaro contrasto sia
con le esigenze razionali del diritto, sia con i principi costituzio
nali.
Come è noto, presupposto dell'interpretazione autentica è un'in
certezza circa il significato normativo del precetto legislativo: incertezza che, rendendo possibile una pluralità di interpretazioni
divergenti, ostacola il comportamento a cui debbono uniformarsi i
destinatari del precetto medesimo.
Tale problema, come si è avuto modo di rilevare, in subiecta
materia non si è mai posto né mai esistito, stante l'assoluta
uniformità della giurisprudenza nel ritenere gli istituti di patrona to enti pubblici non economici e l'« inerzia » dello stesso legisla
tore, che ha sentito la necessità di fissare l'« apprezzamento
interpretativo » del d. 1. 29 luglio 1947 n. 804, dopo oltre 30 anni
dalla sua emanazione. Peraltro, ciò si evince anche dai lavori
preparatori della legge interpretativa: la ferma opposizione alla
approvazione del disegno di legge manifestatasi anche in forma
ostruzionistica (v. il gran numero di emendamenti presentati alla
Camera dal deputato Galli, nonché gli interventi al Senato dei
senatori Pistoiese e Marchio), in quanto si ravvisava in esso
l'esclusivo intento di sottrarre i dirigenti dell'istituto di patronato
alla imputazione di peculato, ha trovato le sue motivazioni più strettamente giuridiche proprio nella rilevata « assurdità di una
interpretazione autentica che interviene dopo tanti anni dalla
entrata in vigore della legge ». Detta natura interpretativa appare,
altresì, chiaramente disattesa dall'art. 5 della legge, nel momento
in cui fa salve « le posizioni giuridiche ed economiche acquisite dal personale dipendente dagli istituti di patronato e di assistenza
sociale in riferimento ai benefici maturati in base alle norme
vigenti per il personale degli enti pubblici ».
Alla stregua di tali rilievi, si appalesa fondato il sospetto che il legislatore si sia reso inosservante dei precetti rivoltigli dalla Costituzione, sia concretati in norme giuridiche, ovvero
desumibili da principi generali, la cui violazione configura l'ecces
so di potere legislativo. « Eccesso di potere » che, come è noto,
in diritto amministrativo, è quel vizio di legittimità incidente sulla
parte discrezionale dell'attività, e si verifica allorché l'autorità
amministrativa si avvalga del potere di adottare un provvedimen to per un fine diverso da quello specifico per il quale il potere stesso fu conferito.
Tale vizio appare configurabile sul piano legislativo, come
autorevolmente sostenuto in dottrina, allorché vi sia l'illegittimità
del fine, in quanto diverso da quello costituzionalmente previsto, e può desumersi dall'indagine sui comportamenti seguiti per la
formazione della volontà legislativa e dell'eventuale divergenza
delle sue disposizioni in relazione alla situazione di fatto cui si
intendeva provvedere, e ciò allo scopo di poter rilevare indizi o
presunzioni sufficienti a far ritenere o fondatamente sospettare la
non congruenza del fatto stesso rispetto al fine. Con riferimento
alla fattispecie in esame, ove, in sede di sindacato costituzionale,
si desumesse dalle contraddizioni fra parte e parte dello stesso
testo normativo, oppure fra questo e le circostanze di pubblico interesse (asseritamente ritenute esistenti) che hanno determinato il legislatore alla interpretazione « autentica » della norma, l'elu
sione del fine prescritto (cioè, il far venire meno l'incertezza del
significato normativo del precetto) si evidenzierebbe la « irragio nevolezza » della statuizione e conseguentemente dovrebbe inferir
sene la illegittimità costituzionale sotto la specie della presunzione del contrasto con tale pubblico interesse, e cioè sotto la specie,
appunto, dell'eccesso di potere.
In proposito va ricordato e sottolineato che se, in sede di
sindacato di costituzionalità, la Corte costituzionale non può « rifare » la legge scendendo nel merito della decisione del
provvedimento, può certamente controllare la « regolarità » della
formazione dell'atto. Tale controllo ab externo non può se non essere che un controllo di « logicità » così come accade per l'eccesso di potere amministrativo, cioè sulla individuazione di
vizi logici nell'iter formativo della legge: va qui ricordata l'attri
buzione alla Corte costituzionale di poteri istruttori atti a rico
struire i presupposti di fatto sui quali si basa il provvedimento
legislativo; stabilisce infatti l'art. 13 legge 11 marzo 1953 n. 87:
« la corte può disporre l'audizione di testimoni e, anche in
deroga ai divieti stabiliti da altre leggi, il richiamo di atti o
documenti ».
B2) - Dai motivi posti a base della prospettata illegittimità costituzionale della legge 27 marzo 1980 n. 112 per eccesso di
potere legislativo, discendono ulteriori perplessità sulla compatibi lità tra tale norma e l'art. 104, 1° comma, Cost., che stabilisce:
« la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ». E, infatti, la trentennale uniformità delle
magistrature superiori nel riconoscere agli enti di patronato la
natura di enti pubblici non economici, senza che il legislatore sentisse per l'intero arco di tale periodo di tempo la necessità o
l'opportunità di chiarire, con un atto di interpretazione autentica,
il « significato » del precetto ed avallando, così, con la propria inerzia tale interpretazione giurisprudenziale, induce a ritenere
che la specifica destinazione della disposizione legislativa in esa
me sia stata essenzialmente quella di neutralizzare gli effetti delle
decisioni pronunziate dall'autorità giudiziaria, nel procedimento in
corso, nell'esercizio delle sue funzioni giurisdizionali: venendo, in
tal modo, ad incidere sul fondamentale principio della divisione e
coordinazione dei poteri dello Stato. Si rileva e si sottolinea in
proposito che nella vigente Costituzione repubblicana non può trovare ingresso l'« onnipotenza » del legislatore, che non rispon de a nessun aspetto, né normale né anormale, dello Stato costitu
zionale. 11 legislatore, infatti, non si confonde e identifica con lo
Stato, dato che il potere statuale si ripartisce tra l'organo legisla
tivo, giudiziario e amministrativo, ripartizione che, per essere tale,
comporta dei limiti nell'esercizio delle rispettive funzioni e sul cui
corretto esercizio si fonda sia l'autorità dello Stato che la libertà
dei cittadini.
Riepilogando: da quanto sopra rilevato, si evidenzia il sospetto di incostituzionalità della legge 27 marzo 1980 n. 112: 1) per
«eccesso di potere legislativo», in quanto, pur qualificandosi la
legge de qua di interpretazione autentica, tale disposizione appare in contrasto con quella che dovrebbe essere la sua destinazione e
ciò sia perché non ricorre il presupposto consistente nell'incertez
za della legge antecedente e sia perché sotto specie di « interpre tazione » si sono introdotte norme in realtà innovative, per rendere meno appariscente l'innovazione stessa; 2) in riferimento
all'art. 104, 1° comma, Cost, (che statuisce: « la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro
potere ») poiché, per mezzo della retroattività propria della inter
pretazione autentica, appare esercitata dal potere legislativo una
indebita ingerenza nel procedimento in corso e richiamato in
epigrafe, così da minacciare l'indipendenza dell'organo giurisdi zionale.
Per questi motivi, ecc.
TRIBUNALE DI VENEZIA; sentenza 17 settembre 1979; Pres.
F. Moro, Est. Nepi; imp. Bacchini ed altri. TRIBUNALE DI VENEZIA;
Abbandono o interruzione di pubblici uffici o servizi — Seduta
di consiglio comunale — Manifestazione di protesta di un
gruppo di donne — Turbamento — Responsabilità penale —
Sussistenza (Cod. pen., art. 340).
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