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ordinanza 11 dicembre 1980; Giud. Martella; imp. Rizzo e altri

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ordinanza 11 dicembre 1980; Giud. Martella; imp. Rizzo e altri Source: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 2 (FEBBRAIO 1981), pp. 129/130-133/134 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23171393 . Accessed: 28/06/2014 07:44 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.220.202.31 on Sat, 28 Jun 2014 07:44:57 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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ordinanza 11 dicembre 1980; Giud. Martella; imp. Rizzo e altriSource: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 2 (FEBBRAIO 1981), pp. 129/130-133/134Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23171393 .

Accessed: 28/06/2014 07:44

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GIURISPRUDENZA PENALE

processo principale, con la sola eccezione degli atti urgenti; mentre una regola analoga è dettata anche ora dal codice di

procedura civile in relazione ai processi rispetto ai quali è

proposto il regolamento di competenza o di giurisdizione. Il vigente codice di procedura penale invece non prevede

espressamente la sospensione del processo, ma non è dubbio tuttavia che essa sia una conseguenza necessaria del conflitto.

Se si tratta infatti di conflitto negativo, la sospensione del

processo principale deriva dalla natura stessa del conflitto, in

quanto è evidente come nessun atto processuale possa più essere

compiuto, quando uno dei giudici abbia declinato la sua compe tenza e l'altro rifiuti la propria.

Ma anche nel caso di conflitto positivo, come è quello di

specie, la conseguenza non può essere diversa, posto che il

procedimento di conflitto, implicando la devoluzione alla Corte di

cassazione della questione di competenza, comporta necessaria mente la sospensione della funzione giurisdizionale degli organi

giudiziari in contrasto, potendo altrimenti avvenire che l'attività

processuale venga svolta dal giudice che sarà poi dichiarato

incompetente. Se dunque l'introduzione del procedimento incidentale di con

flitto (negativo o positivo) ha per effetto la sospensione del

processo (o dei processi) a cui si riferisce il conflitto, i giudici in

contrasto potranno compiere, da quel momento, soltanto gli atti

urgenti, e ciò in analogia a quanto disposto dagli art. 42 e 57,

rispettivamente per i casi di declinatoria della competenza territo

riale e di rimessione di procedimenti.

D'altra parte, poiché con l'introduzione del procedimento la

Corte di cassazione viene investita in via esclusiva della questione di competenza, è anche evidente che la sua decisione, dirimendo

il contrasto tra i giudici di merito, è essa stessa una pronuncia idonea e sufficiente ad attribuire definitivamente il potere-dovere di continuare il processo al giudice ritenuto competente. Deriva

da ciò che, una volta risolto il conflitto da parte della Corte di

cassazione, il giudice dichiarato incompetente, come non potrebbe mai continuare a svolgere ulteriore attività processuale, così non

può nemmeno emettere una sentenza dichiarativa di incompeten za, in quanto gli effetti connessi a una pronuncia del genere debbono già ritenersi definitivamente prodotti dalla decisione

della Corte di cassazione, mediante l'attribuzione della competen za a uno dei giudici in conflitto e la conseguente trasmissione al

suo ufficio degli atti processuali.

Alla stregua di quanto si è detto, risulta che nella specie il

Pretore di Messina, una volta iniziato il procedimento di conflitto, non poteva continuare l'esperimento dibattimentale, trattandosi di

un'attività che non aveva carattere di urgenza, ma non poteva

neppure emettere la sentenza di incompetenza, posto che in data

precedente (cosi come i difensori avevano documentato) la Corte

di cassazione aveva definitivamente attribuito la competenza al

procuratore della Repubblica di Messina, ordinando la trasmissio

ne al suo ufficio degli atti del processo.

Di conseguenza, la sentenza del pretore è solo apparentemente una sentenza di incompetenza, ma è in realtà un provvedimento che si pone fuori del relativo schema normativo e che è quindi abnorme, posto che già in precedenza, con la decisione di questa corte, il Pretore di Messina era stato privato della competenza a

proseguire il processo. La sentenza impugnata deve essere pertanto annullata senza

rinvio e gli atti trasmessi al procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Messina.

Per questi motivi, ecc.

GIUDICE ISTRUTTORE PRESSO IL TRIBUNALE DI ROMA;

ordinanza 11 dicembre 1980; Giud. Martella; imp. Rizzo e

altri.

GIUDICE ISTRUTTORE PRESSO IL TRIBUNALE DI ROMA;

Previdenza sociale — Istituti di patronato — Attribuzione di

personalità giuridica privata mediante legge interpretativa —

Questione non manifestamente infondata di costituzionalità

(Cost., art. 104; d. 1.1. 29 luglio 1947 n. 804, riconoscimento

degli istituti di patronato; legge 27 marzo 1980 n. 112, inter

pretazione autentica delle norme concernenti la personalità

giuridica ed il finanziamento degli istituti di patronato e di

assistenza sociale di cui al d. 1.1. 29 luglio 1947 n. 804, non

ché integrazioni allo stesso decreto).

Non è manifestamente infondata (e se ne rimette quindi l'esame

alla Corte costituzionale) la questione di costituzionalità della

legge 27 marzo 1980 n. 112, che, qualificandosi di interpretazio ne autentica del d. 1.1. 29 luglio 1947 n. 804, ha stabilito che gli istituti di patronato hanno personalità giuridica di diritto priva to, per « eccesso di potere legislativo » e per contrasto con l'art. 104, 1° comma, Cost. (1)

Il Giudice istruttore, ecc. — A) Ritenuto in fatto. — È in corso

presso questo ufficio procedimento penale a carico di Rizzo

Giuseppe, Piazzi Ugo, Feroci Ercole, Drago Giuseppe, Correr

Ruggero (ed altri), imputati del delitto di concorso in peculato continuato pluriaggravato (ex art. 110, 112, n. 1, 81, capov., 314, 61, n. 7, cod. pen.), perché, agendo in concorso tra loro e con altre persone, in numero di più di cinque, ciascuno nella sua

qualità di amministratore dell'istituto di patronato per l'assistenza

sociale, ente pubblico ai sensi del d. 1. 29 luglio 1947 n. 804, ed in

particolare il Rizzo nella sua qualità di presidente dell'I.p.a.s., nonché di presidente dell'E.i.s.s., il Piazzi nella qualità di consi

gliere dell'I.p.a.s. dal 1972, nonché di presidente dell'A.n.co.l., il

Feroci nella sua qualità di revisore dei conti dal 1972 al 1974 e ciò nonostante investito di compiti di amministrazione attiva e, successivamente, dal 18 gennaio 1974 nella sua qualità di capo dei servizi di ragioneria dell'I.p.a.s, con più atti esecutivi del

medesimo disegno criminoso, distraevano, a proprio e altrui van

taggio, ingenti somme di danaro di pertinenza dell'I.p.a.s., dispo nendone per finalità estranee ai fini dell'ente, ovvero, a seconda del ruolo ricoperto, consentendo la detta distrazione:

1) concedendo all'E.i.s.s. (Ente italiano servizio sociale, associa zione privata) ingenti prestiti monetari, pur non rientrando tali

erogazioni tra le finalità statutarie e di legge dell'I.p.a.s., e

operando successivamente a tali erogazioni, anche a mezzo di

artefici contabili, in modo tale da non consentire nemmeno

l'integrale recupero delle somme versate. In modo specifico, a

partire dall'anno 1972 — epoca coincidente con la nomina del

Rizzo a presidente dell'I.p.a.s. — concedendo in varie occasioni

prestiti all'E.i.s.s. per un ammontare, alla data del 26 settembre

1974, di lire 204.547.879, e concedendo ancora, con delibera in data 26 settembre 1974, un ulteriore prestito di lire 145.452.121,

indi, successivamente, non procedendo all'integrale recupero di tali somme, bensì', dopo aver riportato, peraltro in modo non

conforme alle regole di buona amministrazione e contabilità, nelle scritture dell'I.p.a.s. un recupero parziale, adottando la delibera del consiglio di amministrazione del 6 febbraio 1976 con la quale si riconosceva un debito complessivo dell'I.p.a.s. verso l'E.i.s.s. di lire 256.000.000, da iscriversi nel bilancio dell'ente per l'anno 1974 e con riferimento a non dimostrati crediti dell'E.i.s.s. verso

l'I.p.a.s., relativi agli anni dal 1971 al 1975;

2) riconoscendo in favore dell'A.n.co.l. (Associazione nazionale

comunità di lavoro, associazione privata « promotrice » del

l'I.p.a.s.) con la delibera del consiglio di amministrazione del 6

febbraio 1976 un credito complessivo di lire 270.000.000, da

iscriversi nel bilancio 1974 dell'I.p.a.s., con riferimento a crediti dell'A.n.co.l. relativi al periodo 1971-1975; ciò, nonostante la

somma contabilmente risultante a credito dell'A.n.co.l., sulla base

degli estratti conto, fosse di gran lunga inferiore e nonostante

mancasse, anche in relazione a tali minori somme, idonea docu

mentazione delle spese asseritamente sostenute dall'A.n.co.l. a

favore dell'I.p.a.s.;

(1) L'ordinanza è sintomatica della inquietudine dei giudici di fronte alla invadenza del potere legislativo, che tenta di « cambiare le carte in tavola » in processi in corso ricorrendo aWéscamotage della legge interpretativa: già le sezioni unite della Cassazione, con sent. 1° ottobre 1980, n. 5330, Foro it., 1980, I, 2402, con nota di richiami e osservazioni di C. M. Barone, hanno negato alla legge n. 112 del 1980 il carattere interpretativo da essa attribuitosi in contrasto con la costante

giurisprudenza (che ha sempre riconosciuto natura pubblicistica agli istituti di patronato) ivi richiamata in nota, fra cui Cass. 29 maggio 1979, n. 3117, integralmente riprodotta nella motivazione della ordinan

za, ma che qui si omette in quanto può leggersi in Foro it., 1979, I, 2012.

Le sezioni unite e il giudice istruttore fanno cenno in motivazione ai

lavori preparatori della legge, da cui risulta l'intento dei proponenti di

sottrarre i dirigenti di un istituto all'accusa di peculato, che è appunto

quella che forma oggetto del procedimento penale nel corso del quale è stata pronunciata l'ordinanza qui riportata.

Di essa ha dato notizia anche la stampa quotidiana (v. « Il

Messaggero » del 27 dicembre 1980), che non ha mancato di sottolinea

re quell'intento. Per vicende relative a procedimenti per peculato a carico di imputati

di cui pure si è occupata la stampa, v. Cass. 5 agosto 1980, ric.

Rovelli, 3 giugno 1980, ric. Squitieri, 22 maggio 1980, ric. Caltagi

rone, in questo fascicolo, II, 108.

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PARTE SECONDA

3) riconoscendo in favore della DCV (Deutcher Caritasver

band) con la delibera del consiglio di amministrazione del 6

febbraio 1976 un credito complessivo di lire 1.715.000.000 come

contropartita per asserite spese sostenute dalla DCV per conto

dell'I.p.a.s. all'estero e iscrivendo tale posta debitoria nel bilancio

dell'I.p.a.s. per il 1974; ciò pur non essendo stata rinvenuta

alcuna dimostrazione delle asserite spese sostenute dalla DCV in

favore o per conto dell'I.p.a.s.; elevando poi, nella stessa situazio

ne di assoluta carenza di documenti giustificativi, la posta debito

ria, nello stato patrimoniale dell'I.p.a.s. al 31 dicembre 1976, a

lire 2.153.320.251;

4) saldando, con fondi dell'I.p.a.s numerose fatture pertinenti all'A.n.co.l. (ad esempio, in epoca recente, la fattura n. 4 del 2

gennaio 1979 ditta Guesba di lire 699.960; fattura n. 179 del 6

marzo 1979 ditta Guesba di lire 849.300); nonché consentendo

che personale dipendente dall'I.p.a.s. e da questo retribuito pre stasse il proprio lavoro, in via esclusiva o limitatamente al lavoro

straordinario, per l'A.n.co.l. (ad esempio, salvo successive integra

zioni, tali Garnero Antonio dal 1° luglio 1975 al 31 dicembre

1977; Spurio Schiavoni Patrizia dal 1° ottobre 1975 a tutt'oggi, Nucciarelli Margherita dal 1° aprile 1976 al 31 agosto 1976);

nonché saldando, con fondi dell'I.p.a.s., spese per trasferte e

missioni sostenute da dipendenti e funzionari dell'E.i.s.s. e del

l'A.n.co.l.; nonché, ancora, saldando, con esclusivi fondi del

l'I.p.a.s., le spese, ammontanti a circa 100 milioni, relative ad

un convegno, tenuto insieme all'A.n.co.l. e alla DCV, in Roma

nell'aprile 1975 presso l'hotel Villa Pamphili;

5) costituendo, con delibera del consiglio di amministrazione

del 18 febbraio 1972, il c. d. «ufficio organizzazione e sviluppo»

ed assegnando allo stesso, con facoltà di amministrazione indi

pendente dal bilancio dell'I.p.a.s., fondi, dal 1973 al 1978, per

complessive lire 475.000.000, fondi amministrati direttamente dal

l'A.n.co.l. senza pratica possibilità di controllo circa la risponden za dell'uso dei fondi all'interesse e alla funzione dell'I.p.a.s. ovvero dell'interesse dell'A.n.co.l.;

6) costituendo in favore del presidente dell'I.p.a.s., Rizzo Giu

seppe, una posizione assicurativa presso gli enti previdenziali, pur nel difetto del presupposto di legge della esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, escluso dalla carica ricoperta dal Rizzo.

Reato permanente, tuttora in corso;

7) erogando, con fondi dell'I.p.a.s., in favore del Rizzo, anche

lo stipendio a questo attribuito come presidente dell'E.i.s.s. (lire 680.000 mensili, fino all'anno 1977).

Detto addebito è stato contestato ai nominati imputati con

mandato di cattura; agli stessi, a seguito delle acquisite risultanze

istruttorie, è stato concesso il beneficio della libertà provvisoria.

In pendenza del presente giudizio, è entrata in vigore la legge 27 marzo 1980 n. 112, intitolata come di «interpretazione auten

tica delle norme concernenti la personalità giuridica e il finanzia

mento degli istituti di patronato e di assistenza sociale di cui al

decreto legislativo del capo provvisorio dello Stato 29 luglio 1947

n. 804, nonché integrazioni allo stesso decreto», legge che all'art.

1 dispone: « gli istituti di patronato e di assistenza sociale

costituiti ai sensi dell'art. 2 d. 1. capo provvisorio dello Stato 29

luglio 1947 n. 804 hanno personalità giuridica di diritto privato».

Il p.m. in sede, tenuto conto della sopravvenienza di detta

legge, con requisitoria del 13 novembre 1980, ha sottolineato che

la nuova normativa « impone una radicale riconsiderazione della

qualificazione giuridica dei fatti contestati agli imputati», cosi

motivando: « l'originaria imputazione di peculato per distrazione, non trova più fondamento normativo, essendo stata esclusa la

natura di ente pubblico riconosciuta ai patronati, e quindi al

l'I.p.a.s., dalla costante giurisprudenza delle supreme magistrature. Orbene, se non può essere del tutto obliterato il rilievo che, nella

mancanza di una espressa previsione di legge circa la natura

pubblica o privata degli enti in questione, la natura pubblicistica era stata riconosciuta in via giurisprudenziale, sulla base di un

rilievo pubblicistico delle « funzioni » affidate in via esclusiva ai

patronati, con la conseguenza che, sul piano teorico-dottrinario,

non sarebbe preclusa una ricerca in ordine alla possibilità di

configurare egualmente l'ipotesi del peculato, posta la natura

pubblicistica della funzione svolta dai vari dipendenti degli istituti

di patronato (il problema del c. d. pubblico funzionario di fatto),

tuttavia, sul piano concreto sembra al requirente che la volontà del legislatore, chiaramente espressa nella legge interpretativa, di

ricondurre nell'ambito del diritto privato l'organizzazione e il

funzionamento dei patronati sia un dato di fatto (e giuridico) tale

che l'interprete e il giudice non possano non tenerne conto, avventurandosi nel piano della speculazione giuridico-teorica, tan

to più nell'ambito di una istruttoria penale, volta ad accertare la

violazione di norme di comportamento che devono essere prefissa te per legge. Tale considerazione ovviamente non implica un

apprezzamento di favore nei confronti dell'operato del legislatore, che ha atteso più di trenta anni per interpretare autenticamente

una norma, e per di più in pendenza di un procedimento penale instaurato sulla base dei risultati della interpretazione giurispru denziale della norma stessa. Ma la critica per le scelte del

legislatore attiene all'ambito del giudizio politico, che non deve

comportare il fuorviamento del potere giurisdizionale ».

Concludendo la sua requisitoria, il p.m. ha chiesto che agli imputati si contestasse l'ipotesi criminosa di concorso in appro

priazione indebita continuata pluriaggravata (ex art. 110, 112, n.

1, 646, 61, nn. 7 e 11, e 81, capov., cod. pen.) diversa in fatto e in diritto da quella di peculato in precedenza contestata.

B) Osserva in diritto. — Prima di procedere oltre nel giudizio, ritiene questo giudice istruttore di sollevare d'ufficio questione di

legittimità costituzionale della legge 27 marzo 1980 n. 112, per:

Bl) - Eccesso di potere legislativo; B2) - Contrasto con l'art. 104, 1° comma, Cost.

Bl) - La giurisprudenza della Corte suprema di cassazione si è

sempre uniformemente espressa, nel riconoscere la natura di enti

pubblici non economici degli istituti di patronato costituiti ai

sensi del d. 1. capo provvisorio dello Stato 29 luglio 1947 n. 804, e

ciò a partire dal 1958, allorché, con sentenza a sezioni unite (n. 960 del 22 marzo 1958, Foro it., 1959, I, 206) si poneva in rilievo

che, in sostanza, gli istituti di patronato e di assistenza sociale

hanno la funzione precisa di integrare e di rendere più funzionale

l'attività degli enti pubblici, come l'I.n.p.s., l'I.n.a.i.l., l'I.n.a.m.,

ecc. nella fase della concreta realizzazione della previdenza e

dell'assistenza sociale obbligatoria.

La successiva sentenza (Sez. un. n. 734 del 4 aprile 1964, id.,

1964, I, 940) evidenziava che gli istituti di patronato hanno

carattere pubblico, in quanto « come risulta dall'art. 1 del citato

decreto istituzionalmente perseguono uno scopo di carattere pub blico, che è quello di provvedere in via esclusiva all'assistenza e

alla tutela dei lavoratori e dei loro aventi causa, per il consegui mento in sede amministrativa delle prestazioni di qualsiasi genere

previste da leggi, statuti e contratti regolanti la previdenza e la

quiescenza, nonché alla rappresentanza dei lavoratori davanti agli

organi di liquidazione di dette prestazioni o a collegi di concilia zione. Ora, se si consideri che le suindicate prestazioni dovute in

base agli statuti o ai contratti si limitano sempre a sostituire o a

integrare quelle dovute a norma di legge, delle quali non possono mai essere quantitativamente inferiori, deve riconoscersi che lo

scopo istituzionale degli enti suindicati ha, nella sua parte princi pale ed assistenziale, carattere complementare e integrativo delle

finalità di previdenza e di assistenza sociale la cui natura pubbli ca è universalmente ritenuta per avere lo Stato, in adempimento del precetto contenuto nell'art. 38 Cost., reso obbligatorio il con

seguimento di esse mediante imposizione di particolari contributi

e la creazione di appositi enti pubblici destinati a realizzarle, come l'I.n.a.i.l., l'I.n.p.s., l'I.n.a.m.».

La qualifica di enti pubblici non economici è stata ulteriormen te ribadita dalla Suprema corte nei confronti degli enti di patro nato e per ultimo, con sentenza a sezioni unite n. 3117 del 29

maggio 1979 {id., 1979, I, 2012), che ha affermato non potersi non

riconoscere natura pubblica all'istituto di patronato per l'assisten za sociale (I.p.a.s.), cosi motivando: (omissis)

È, peraltro, da sottolineare, che la qualificazione e definizione

dell'I.p.a.s., quale ente pubblico, risulta pacificamente recepita anche dai competenti organi collegiali dell'ente stesso. Così, a titolo esemplificativo, in sede di esame di proposta di transazione delle cause fra l'I.p.a.s. e certi signori Coluccia e Mangeli, il

comitato esecutivo dell'ente, nella seduta del 30 giugno 1975, si

esprimeva in tal modo: « in relazione alla ventilata possibilità di

esaminare un progetto di transazione delle cause promosse contro

l'I.p.a.s. dai signori Coluccia e Mangeli di Lecce, il comitato

esprime l'avviso di non potere valutare nel merito le relative

proposte, in quanto non ritiene che l'istituto, quale ente pubblico,

possa aderire ad una formula di compromesso su questioni di

diritto che debbono essere ancora riconosciute dalle competenti autorità giurisdizionali ».

In sede di consiglio di amministrazione, nella seduta del 28

luglio 1976 ove, fra l'altro, si trattava di adottare norme di

comportamento in presenza di aumento del canone di locazione

delle sedi occupate dall'ente nel territorio nazionale, l'I.p.a.s. è

definito « una pubblica amministrazione ».

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GIURISPRUDENZA PENALE

Pur non essendosi mai dubitato, come si è rilevato (quantome no nella giurisprudenza della Corte di cassazione ed anche delle

altre magistrature superiori: cfr. il parere n. 623 dell'8 luglio 1953

emesso dalla II sezione del Consiglio di Stato) della natura di

enti pubblici non economici degli istituti di patronato e della

conseguente natura pubblicistica del rapporto di impiego dei

dipendenti, è intervenuta la legge 27 marzo 1980 n. 112, che,

qualificandosi di « interpretazione autentica », ha stabilito che

detti istituti hanno personalità giuridica di diritto privato. Con

segue che la legge interpretativa, enunciando un apprezzamento

interpretativo di un precetto anteriore (di cui, per definizione, « fa intendere il senso »), non può non avere efficacia retroattiva; in particolare, con riferimento al procedimento penale in corso, si

ha che, essendosi attribuita agli istituti di patronato personalità giuridica di diritto privato, i soggetti che ne hanno la rappresen tazione o l'amministrazione, non rivestono la « qualità » di pub blici ufficiali o di incaricati di pubblico servizio, « qualità », che, come è noto, è indispensabile perché si abbia il delitto di peculato (ex art. 314 cod. pen.); sicché, ove si siano verificate (come nella

fattispecie sostiene l'ipotesi accusatoria) appropriazioni o distra zioni di somme appartenenti all'ente, da parte di chi, per ragione del suo ufficio o servizio aveva il possesso di tali somme, non

può piti configurarsi tale delitto (punibile con la reclusione da 3 a

10 anni e con la multa non inferiore a lire 40.000), bensì, eventualmente (come rilevato e ritenuto dal p.m.) la meno grave

fattispecie criminosa dell'appropriazione indebita (la cui sanzione, all'art. 646 cod. pen. è stabilita nella reclusione fino a tre anni e

nella multa fino a lire 400.000).

Ciò premesso e rilevato, ritiene il giudice istruttore che la legge « interpretativa » in riferimento si appalesi in chiaro contrasto sia

con le esigenze razionali del diritto, sia con i principi costituzio

nali.

Come è noto, presupposto dell'interpretazione autentica è un'in

certezza circa il significato normativo del precetto legislativo: incertezza che, rendendo possibile una pluralità di interpretazioni

divergenti, ostacola il comportamento a cui debbono uniformarsi i

destinatari del precetto medesimo.

Tale problema, come si è avuto modo di rilevare, in subiecta

materia non si è mai posto né mai esistito, stante l'assoluta

uniformità della giurisprudenza nel ritenere gli istituti di patrona to enti pubblici non economici e l'« inerzia » dello stesso legisla

tore, che ha sentito la necessità di fissare l'« apprezzamento

interpretativo » del d. 1. 29 luglio 1947 n. 804, dopo oltre 30 anni

dalla sua emanazione. Peraltro, ciò si evince anche dai lavori

preparatori della legge interpretativa: la ferma opposizione alla

approvazione del disegno di legge manifestatasi anche in forma

ostruzionistica (v. il gran numero di emendamenti presentati alla

Camera dal deputato Galli, nonché gli interventi al Senato dei

senatori Pistoiese e Marchio), in quanto si ravvisava in esso

l'esclusivo intento di sottrarre i dirigenti dell'istituto di patronato

alla imputazione di peculato, ha trovato le sue motivazioni più strettamente giuridiche proprio nella rilevata « assurdità di una

interpretazione autentica che interviene dopo tanti anni dalla

entrata in vigore della legge ». Detta natura interpretativa appare,

altresì, chiaramente disattesa dall'art. 5 della legge, nel momento

in cui fa salve « le posizioni giuridiche ed economiche acquisite dal personale dipendente dagli istituti di patronato e di assistenza

sociale in riferimento ai benefici maturati in base alle norme

vigenti per il personale degli enti pubblici ».

Alla stregua di tali rilievi, si appalesa fondato il sospetto che il legislatore si sia reso inosservante dei precetti rivoltigli dalla Costituzione, sia concretati in norme giuridiche, ovvero

desumibili da principi generali, la cui violazione configura l'ecces

so di potere legislativo. « Eccesso di potere » che, come è noto,

in diritto amministrativo, è quel vizio di legittimità incidente sulla

parte discrezionale dell'attività, e si verifica allorché l'autorità

amministrativa si avvalga del potere di adottare un provvedimen to per un fine diverso da quello specifico per il quale il potere stesso fu conferito.

Tale vizio appare configurabile sul piano legislativo, come

autorevolmente sostenuto in dottrina, allorché vi sia l'illegittimità

del fine, in quanto diverso da quello costituzionalmente previsto, e può desumersi dall'indagine sui comportamenti seguiti per la

formazione della volontà legislativa e dell'eventuale divergenza

delle sue disposizioni in relazione alla situazione di fatto cui si

intendeva provvedere, e ciò allo scopo di poter rilevare indizi o

presunzioni sufficienti a far ritenere o fondatamente sospettare la

non congruenza del fatto stesso rispetto al fine. Con riferimento

alla fattispecie in esame, ove, in sede di sindacato costituzionale,

si desumesse dalle contraddizioni fra parte e parte dello stesso

testo normativo, oppure fra questo e le circostanze di pubblico interesse (asseritamente ritenute esistenti) che hanno determinato il legislatore alla interpretazione « autentica » della norma, l'elu

sione del fine prescritto (cioè, il far venire meno l'incertezza del

significato normativo del precetto) si evidenzierebbe la « irragio nevolezza » della statuizione e conseguentemente dovrebbe inferir

sene la illegittimità costituzionale sotto la specie della presunzione del contrasto con tale pubblico interesse, e cioè sotto la specie,

appunto, dell'eccesso di potere.

In proposito va ricordato e sottolineato che se, in sede di

sindacato di costituzionalità, la Corte costituzionale non può « rifare » la legge scendendo nel merito della decisione del

provvedimento, può certamente controllare la « regolarità » della

formazione dell'atto. Tale controllo ab externo non può se non essere che un controllo di « logicità » così come accade per l'eccesso di potere amministrativo, cioè sulla individuazione di

vizi logici nell'iter formativo della legge: va qui ricordata l'attri

buzione alla Corte costituzionale di poteri istruttori atti a rico

struire i presupposti di fatto sui quali si basa il provvedimento

legislativo; stabilisce infatti l'art. 13 legge 11 marzo 1953 n. 87:

« la corte può disporre l'audizione di testimoni e, anche in

deroga ai divieti stabiliti da altre leggi, il richiamo di atti o

documenti ».

B2) - Dai motivi posti a base della prospettata illegittimità costituzionale della legge 27 marzo 1980 n. 112 per eccesso di

potere legislativo, discendono ulteriori perplessità sulla compatibi lità tra tale norma e l'art. 104, 1° comma, Cost., che stabilisce:

« la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ». E, infatti, la trentennale uniformità delle

magistrature superiori nel riconoscere agli enti di patronato la

natura di enti pubblici non economici, senza che il legislatore sentisse per l'intero arco di tale periodo di tempo la necessità o

l'opportunità di chiarire, con un atto di interpretazione autentica,

il « significato » del precetto ed avallando, così, con la propria inerzia tale interpretazione giurisprudenziale, induce a ritenere

che la specifica destinazione della disposizione legislativa in esa

me sia stata essenzialmente quella di neutralizzare gli effetti delle

decisioni pronunziate dall'autorità giudiziaria, nel procedimento in

corso, nell'esercizio delle sue funzioni giurisdizionali: venendo, in

tal modo, ad incidere sul fondamentale principio della divisione e

coordinazione dei poteri dello Stato. Si rileva e si sottolinea in

proposito che nella vigente Costituzione repubblicana non può trovare ingresso l'« onnipotenza » del legislatore, che non rispon de a nessun aspetto, né normale né anormale, dello Stato costitu

zionale. 11 legislatore, infatti, non si confonde e identifica con lo

Stato, dato che il potere statuale si ripartisce tra l'organo legisla

tivo, giudiziario e amministrativo, ripartizione che, per essere tale,

comporta dei limiti nell'esercizio delle rispettive funzioni e sul cui

corretto esercizio si fonda sia l'autorità dello Stato che la libertà

dei cittadini.

Riepilogando: da quanto sopra rilevato, si evidenzia il sospetto di incostituzionalità della legge 27 marzo 1980 n. 112: 1) per

«eccesso di potere legislativo», in quanto, pur qualificandosi la

legge de qua di interpretazione autentica, tale disposizione appare in contrasto con quella che dovrebbe essere la sua destinazione e

ciò sia perché non ricorre il presupposto consistente nell'incertez

za della legge antecedente e sia perché sotto specie di « interpre tazione » si sono introdotte norme in realtà innovative, per rendere meno appariscente l'innovazione stessa; 2) in riferimento

all'art. 104, 1° comma, Cost, (che statuisce: « la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro

potere ») poiché, per mezzo della retroattività propria della inter

pretazione autentica, appare esercitata dal potere legislativo una

indebita ingerenza nel procedimento in corso e richiamato in

epigrafe, così da minacciare l'indipendenza dell'organo giurisdi zionale.

Per questi motivi, ecc.

TRIBUNALE DI VENEZIA; sentenza 17 settembre 1979; Pres.

F. Moro, Est. Nepi; imp. Bacchini ed altri. TRIBUNALE DI VENEZIA;

Abbandono o interruzione di pubblici uffici o servizi — Seduta

di consiglio comunale — Manifestazione di protesta di un

gruppo di donne — Turbamento — Responsabilità penale —

Sussistenza (Cod. pen., art. 340).

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