ordinanza 12 marzo 2004, n. 95 (Gazzetta ufficiale, 1 a serie speciale, 17 marzo 2004, n. 11);Pres. Zagrebelsky, Est. Flick; M.T.; interv. Pres. cons. ministri. Ord. App. Milano 25 novembre2002 (G.U., 1 a s.s., n. 13 del 2003)Source: Il Foro Italiano, Vol. 127, No. 5 (MAGGIO 2004), pp. 1323/1324-1331/1332Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23199290 .
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PARTE PRIMA 1324
questa corte in tema di notificazioni, secondo il quale è irragio nevole e lesivo del diritto di difesa che effetti decadenziali di
scendano, a carico delle parti del processo, dal ritardato compi mento di attività riferibili a soggetti diversi.
2. - La questione è inammissibile.
Il dubbio sulla legittimità costituzionale dell'art. 647 c.p.c. che il rimettente sottopone a questa corte si fonda sull'esplicita
premessa che l'opponente a decreto ingiuntivo, in quanto im
possibilitato ad iscrivere a ruolo la citazione il cui originale non
gli sia stato tempestivamente restituito dall'ufficiale giudiziario, subirebbe irragionevolmente gli effetti pregiudizievoli (impro cedibilità dell'opposizione) del ritardo a lui non imputabile; ar
gomentandosi esplicitamente l'impossibilità della tempestiva iscrizione a ruolo dal fatto che l'art. 165 c.p.c. non consentireb
be la costituzione in giudizio dell'attore prima del momento in
cui la notificazione si è perfezionata nei confronti del destinata
rio della notificazione stessa.
Siffatta interpretazione non è, tuttavia, coerente con i principi affermati da questa corte in tema di momento perfezionativo della notificazione (sentenze n. 28 del 2004, Foro it., 2004, I,
645, e n. 477 del 2002, id., 2003, I, 13) in quanto, poiché la no
tificazione si perfeziona per il notificante con la consegna del
l'atto all'ufficiale giudiziario, ne discende che da quel momento
possono essere da lui compiute le attività (tra cui, appunto, l'i
scrizione a ruolo) che presuppongono la notificazione dell'atto
introduttivo del giudizio, ferma restando, in ogni caso, la decor
renza del termine finale dalla consegna al destinatario.
Il rimettente — il quale, pure, non manca di rilevare come la
Corte di cassazione «abbia in generale chiarito la mancanza di
ostacoli normativi ad una costituzione anche prima della notifi
cazione della citazione» — del tutto apoditticamente, assume,
invece, che non può privarsi la parte «del diritto, riconosciutole
dal rito, ad iscrivere la causa a ruolo, sopportandone i costi,
previa verifica della ritualità della notifica», e pertanto si sottrae
all'obbligo di ponderare adeguatamente la possibilità di un'in
terpretazione adeguatrice della norma, ritenendo preclusivo di
tale possibilità l'interesse, di carattere meramente economico, dell'attore a non affrontare le spese d'iscrizione a ruolo prima di aver verificato la ritualità della notificazione.
Il rimettente tralascia così di considerare che la possibilità di
iscrizione a ruolo della causa prima del perfezionamento della
notificazione per il destinatario (con la c.d. velina) è già espli citamente prevista, nel caso di notificazione a mezzo posta, dal
l'art. 5, 3° comma, 1. 20 novembre 1982 n. 890 (notificazioni di
atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse
con la notificazione di atti giudiziari), e non tiene, inoltre, alcun
conto dell'esistenza di una norma, quale quella prevista dall'art.
291 c.p.c., che, in quanto consente all'attore di ottenere alla
prima udienza un termine per rinnovare la notificazione della
citazione viziata da nullità, senza incorrere in alcuna decadenza, di fatto limita il rischio economico dì una inutile iscrizione a ruolo alla sola, marginale ipotesi di notificazione del tutto inesi stente.
Conclusivamente, poiché il rimettente omette sostanzialmente di specificare la ragione per cui sarebbe precluso all'opponente di iscrivere la causa a ruolo dal momento della consegna all'uf
ficiale giudiziario per la notifica dell'originale dell'atto di cita
zione in opposizione e fino alla scadenza del termine decorrente
dal perfezionamento della notifica per il destinatario, la questio ne sollevata risulta priva della necessaria motivazione e, per tanto, inammissibile.
Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara inammissi bile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 647 c.p.c. sollevata, in riferimento agli art. 3 e 24 Cost., dal Tribunale di Terni con l'ordinanza in epigrafe.
Il Foro Italiano — 2004.
CORTE COSTITUZIONALE; ordinanza 12 marzo 2004, n.
95 (Gazzetta ufficiale, la serie speciale, 17 marzo 2004, n.
11); Pres. Zagrebelsky, Est. Fuck; M.T.; interv. Pres. cons,
ministri. Orci. App. Milano 25 novembre 2002 (G.U., la s.s., n. 13 del 2003).
Peculato, concussione, malversazione, percezione indebita di
erogazioni pubbliche — Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato — Rapporto con il reato di truffa —
Questione manifestamente infondata di costituzionalità
(Cost., art. 3, 10; cod. pen., art. 316 ter, 640 bis).
E manifestamente infondata la questione di legittimità costitu
zionale dell'art. 316 ter c.p., il quale si troverebbe in posizio ne di «sostanziale specialità», nonostante la «formale sussi
diarietà», rispetto alla norma di cui all'art. 640 bis c.p., in
riferimento agli art. 3 e IO Cost. (1)
(1)1.- Per un primo commento (in senso critico) al provvedimento in
rassegna, v. O. Forlenza, La Consulta percorre i precedenti della Cas sazione e ribadisce l'esistenza del rapporto di sussidiarietà, in Guida al dir., 2004, fase. 14, 71.
La presente ordinanza affronta il delicato tema dei rapporti fra il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316 ter c.p.) e la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pub bliche (art. 640 bis c.p.).
La prima delle due norme — introdotta dalla 1. 29 settembre 2000 n. 300 — punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni, salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall'art. 640 bis, chiunque, mediante l'utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o atte stanti cose non vere, ovvero mediante l'omissione di informazioni do vute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanzia
menti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee; il fatto integra un mero illecito amministrativo se la somma percepita è uguale o inferiore a euro 3.999,96. La seconda nor ma — che costituisce una circostanza aggravante del reato di cui al l'art. 640 c.p. (Cass., sez. un.. 26 giugno 2002, Fedi, Foro it., 2002, II, 626) — prevede la reclusione da uno a sei anni se il fatto di cui all'art. 640 riguarda contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre
agevolazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o ero
gati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee. La prevalente giurisprudenza ha ritenuto che tra le due norme vi sia
un rapporto di sussidiarietà, nel senso che perché le condotte descritte dall'art. 316 ter integrino il reato di cui all'art. 640 bis occorre la pre senza di ulteriori comportamenti fraudolenti o maliziosi: ciò che si veri
fica, ad esempio, nel caso del soggetto che abbia creato i documenti falsi che hanno indotto in errore l'ente erogatore (Cass. 2 ottobre 2003, Cassisa, Guida al dir., 2004, fase. 7, 96 (m)). Nello stesso senso, v. Cass. 22 marzo 2002, Morandell, Foro it., Rep. 2002, voce Truffa, n.
18, e, per esteso, Guida al dir., 2002, fase. 37, 50, con nota di G. Ama
to, e Cass. pen., 2003, 1214, con nota di C. Manduchi (nella specie, in
applicazione di tale principio, la corte, respingendo un ricorso del p.m., ha ritenuto che correttamente fosse stata fatta rientrare nelle previsioni dell'art. 316 ter, 2° comma — sanzionata, in ragione dell'entità della somma indebitamente percepita, solo in via amministrativa — la con dotta consistita nella presentazione, a sostegno di una richiesta di con tributo della provincia per l'acquisto di un autoveicolo industriale, di una fattura recante l'indicazione di un prezzo maggiore di quello effet tivo); 30 ottobre 2001, Cogno, Foro it., Rep. 2002, voce cit., n. 20, e, per esteso, Cass. pen., 2003, 2679, con nota critica di N. Madia, secon do cui la norma di cui all'art. 316 ter è destinata a coprire le aree che la
prima lascerebbe libere da sanzione penale, come nel caso del mero mendacio, di per sé non idoneo ad integrare l'ipotesi della truffa; 24 settembre 2001, Temmerle, Foro it.. Rep. 2001, voce cit., n. 20, e, per esteso, Dir. e giustizia, 2001. fase. 44, 40, con nota critica di A. Mil ler.
Si veda, altresì, G.i.p. Trib. Livorno 8 marzo 2002, Foro it.. Rep. 2002, voce Peculato, n. 14, e, per esteso, Foro toscano-Toscana giur., 2002, 262, con nota di M. Mannucci, secondo cui ricorre un rapporto di sussidiarietà e non di specialità tra le disposizioni di cui agli art. 316 ter e 640 bis-, sussidiarietà alla stregua della quale la prima norma può tro vare applicazione solo nel caso in cui possa escludersi l'applicabilità della seconda; ne consegue che l'ambito di operatività dell'art. 316 ter
appare quanto mai incerto e di assai problematica definizione. Nel senso, invece, della sussistenza di un rapporto di specialità tra le
due norme, cfr. Cass. 6 marzo 2003, Carminati, Ced Cass., rv. 224966, la quale ne deduce che, allorché la condotta incriminata sia consistita nella semplice attestazione di fatti non conformi al vero, integrata dal l'art. 316 ter c.p., ed il profitto conseguito dall'agente non raggiunga la
soglia minima di punibilità prevista dall'art. 316 ter, 2° comma, c.p., la condotta contestata non ha più rilievo penale e resta sanzionata solo in via amministrativa.
In dottrina, si pone in senso sostanzialmente adesivo al prevalente
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Ritenuto che con l'ordinanza in epigrafe la Corte d'appello di
Milano ha sollevato, in riferimento agli art. 3 e 10 Cost., que stione di legittimità costituzionale dell'art. 316 ter c.p., ag
giunto dall'art. 4 1. 29 settembre 2000 n. 300 (ratifica ed esecu
zione dei seguenti atti internazionali elaborati in base all'art. K.
3 del trattato sull'Unione europea: convenzione sulla tutela de
gli interessi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles
orientamento della Cassazione, P. Semeraro, Osservazioni in tema di indebita percezione dì erogazioni a danno dello Stato, in Cass, pen., 2001, 2563. In senso contrario, Mannucci, nota a G.i.p. Trib. Livorno 8 marzo 2002, cit., afferma che mentre l'art. 2 1. 23 dicembre 1986 n. 898 sanziona la mera esposizione di dati e notizie false — condotta di per sé effettivamente non integrante la tipicità dell'art. 640 bis — lo stesso non può dirsi per le condotte descritte dall'art. 316 ter, atteso che la
giurisprudenza di legittimità ha da sempre ricondotto al concetto di «artifizi o raggiri» la formazione e allegazione di documenti falsi: con
seguentemente, l'unico margine di applicazione dell'art. 316 ter ri
guarderebbe le sole ipotesi di mendacio contemplate dall'art. 2 1.
898/86. Della stessa opinione è Amato, nota a Cass. 22 marzo 2002, cit., secondo il quale il legislatore, nel cercare di rafforzare la tutela dei
finanziamenti pubblici, ha involontariamente ottenuto l'effetto contra
rio, dal momento che. se si vuole attribuire un concreto spazio di ope ratività al reato di cui all'art. 316 ter, le condotte ivi previste
— che
teoricamente erano già ricomprese nel disposto di cui all'art. 640 bis —
sono adesso sanzionate con pena più lieve. Secondo Manduchi, nota a Cass. 22 marzo 2002, cit., poiché l'art. 316 ter non fa riferimento al l'elemento dell'induzione in errore, tale norma riguarderebbe le ipotesi non rientranti nell'ambito applicativo dell'art. 640 bis proprio per man canza del suddetto requisito, e cioè i casi di approfittamento dell'errore
altrui, i casi di procedure non implicanti alcuna verifica circa la veridi
cità delle dichiarazioni rese dal soggetto attivo e le ipotesi di mere
omissioni (questa, tra l'altro, sembra essere proprio la soluzione indi
cata dalla Corte costituzionale nel provvedimento in epigrafe). In senso
favorevole a tale ultima impostazione, cfr. S. Manacorda, Corruzione
internazionale e tutela penale degli interessi comunitari, in Dir. pen. e
proc., 2001, 422 ss.; in senso contrario, v. B. Bevilacqua, I reati dei
pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Padova, 2003, I, 591 s.
Sul punto, v., altresì, A. Bonfiglioli, in Cass. pen., 2003, 915; M.
Pellissero, in Legislazione pen., 2001, 1048 ss.; M. Mannucci, Pro
spettive di applicazione dell'art. 316 ter c.p. introdotto dalla I. n. 300
del 2000, in Cass. pen., 2001, 2563; M. Romano, Abusi di finanzia menti comunitari ed indebita percezione di erogazioni a danno dello
Stato, in Dir. pen. e proc., 2002, 271 ss.; I. Criscuolo, Peculato, truffa e indebita erogazione: le differenze di difficile applicazione, in Dir. e
giustizia, 2003, fase. 2, 77. II. - Il giudice a quo era investito, in sede di appello, del processo
penale nei confronti di soggetto imputato dei reati di cui agli art. 640 bis e 483 c.p. per aver conseguito dall'università di Milano, negli anni
1995 e 1996, un «tesserino mensa» ed una borsa di studio in misura
maggiore rispetto a quella effettivamente spettante, mediante artifizi
consistiti in false attestazioni circa la propria situazione patrimoniale e
reddituale. I giudici milanesi hanno ritenuto che il caso di specie rien
trasse nella previsione del nuovo art. 316 ter anziché in quella dell'art.
640 bis: invero, a dispetto dell'inciso contenuto nell'art. 316 ter («sal vo che il fatto costituisca il reato previsto dall'art. 640 bis»), fra le due norme vi sarebbe un rapporto di formale sussidiarietà ma di sostanziale
specialità, dal momento che, in base alla «secolare tradizione interpre tativa vigente in materia di truffa» il falso, nelle sue svariate forme di
rappresentazione (ivi comprese quelle elencate dall'art. 316 ter), rap
presenta nel diritto vivente lo strumento più comune per commettere una truffa. Per ritagliare uno spazio operativo alla nuova figura crimi
nosa, altrimenti condannata all'«ineffettività», la giurisprudenza di le
gittimità si sarebbe indotta a restringere il tradizionale concetto di «arti
fizi o raggiri», escludendo che le condotte indicate nell'art. 316 ter
rientrino in esso: ciò, peraltro, comporterebbe un'ingiustificata dispa rità di trattamento (in violazione dell'art. 3 Cost.) fra coloro che otten
gono contributi, mutui, finanziamenti o altre erogazioni da soggetti, enti o associazioni private mediante l'utilizzo o la presentazione di do
cumenti falsi o attestanti cose non vere — i quali verrebbero puniti con
la sanzione di cui all'art. 640 c.p. — e coloro che pongono in essere la
medesima condotta nei confronti di enti pubblici o comunitari, i quali verrebbero puniti, nei casi più lievi, solo con sanzione amministrativa.
Ciò posto, poiché l'intervento del legislatore mirava, in realtà, ad un
rafforzamento della tutela degli interessi finanziari pubblici e comunita
ri, vi sarebbe, altresì, un contrasto con l'art. 10 Cost., per violazione
degli impegni internazionali cui l'Italia è tenuta ad uniformarsi (la 1. n.
300 del 2000 è stata emanata in esecuzione di una serie di convenzioni
internazionali a tutela degli interessi finanziari delle Comunità euro
pee). Nel caso in cui, viceversa, si voglia estendere al reato di truffa
comune — prosegue il giudice a quo — l'interpretazione ristretta del
concetto di «artifizi o raggiri» (con esclusione, cioè, delle condotte
menzionate dall'art. 316 ter), ciò condurrebbe ugualmente ad una in
giustificata disparità di trattamento, questa volta dal punto di vista della
Il Foro Italiano — 2004.
il 26 luglio 1995, del suo primo protocollo fatto a Dublino il 27
settembre 1996, del protocollo concernente l'interpretazione in
via pregiudiziale, da parte della Corte di giustizia delle Comu
nità europee, di detta convenzione, con annessa dichiarazione, fatto a Bruxelles il 29 novembre 1996, nonché della convenzio
ne relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coin
volti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri
persona offesa, dal momento che sarebbe concessa agli enti pubblici una tutela penale che verrebbe completamente sottratta agli enti privati: sarebbe inaccettabile, invero, una «differenziazione tanto abissale tra
pubblico e privato che arrivasse ad investire non già la misura della pe na, ma la stessa liceità della condotta».
Il giudice delle leggi, nel dichiarare manifestamente infondata la
questione, è partito dalla premessa che le censure avverso l'art. 316 ter sono sostanzialmente coincidenti con quelle mosse all'art. 2 1. 23 di cembre 1986 n. 898, che punisce coloro che, mediante esposizione di dati o notizie falsi, conseguono indebitamente contributi a carico del fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (Feoga), salva l'ap plicazione di una semplice sanzione amministrativa pecuniaria ove la
somma indebitamente percepita non ecceda un determinato importo: tale norma era stata dichiaratamente introdotta proprio allo scopo di evitare che rimanessero impunite condotte difficilmente inquadrabili nella figura della truffa di cui all'art. 640 c.p. Peraltro, una parte della
giurisprudenza, sulla base di un risalente indirizzo secondo cui la sola
menzogna sarebbe stata sufficiente ad integrare il concetto di «artifizi o
raggiri», aveva negato la funzione sussidiaria dell'art. 2 1. 898/86 quali ficandola come norma speciale rispetto a quelle del codice penale; suc
cessivamente, intervenne lo stesso legislatore (art. 73 1. 19 febbraio 1992 n. 142) a sconfessare tale interpretazione introducendo in apertura all'art. 2 1. n. 898 cit., la clausola di sussidiarietà espressa «ove il fatto non configuri il più grave reato previsto dall'art. 640 bis c.p.». In tale contesto la Corte costituzionale (sent. 10 febbraio 1994, n. 25, Foro it., 1994, I, 1627) ha dichiarato infondata la questione di legittimità del
predetto art. 2, sollevata in riferimento all'art. 3 Cost., in quanto il reato in questione è destinato ad operare esclusivamente negli spazi non co
perti dagli art. 640 e 640 bis c.p. Sulla base di analogo ragionamento, la corte afferma, nella decisione
in rassegna, il carattere sussidiario e residuale dell'art. 316 ter rispetto all'art. 640 bis, come risulta sia dall'interpretazione letterale della
norma (in virtù della clausola di sussidiarietà espressa), sia da quella finalistica: invero, nel corso dei lavori parlamentari relativi alla 1. 300/00 (la quale, in esecuzione, tra l'altro, della convenzione di
Bruxelles sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, ha introdotto la norma in questione) è emersa la preoccupazione che
talune delle fattispecie di frode identificate dalla convenzione — che
comprendevano condotte di falso in senso lato e di silenzio antidovero
so, senza che al tempo stesso fosse previsto il requisito dell'induzione in errore del soggetto passivo — potessero non rientrare nella sfera di
operatività dell'art. 640 bis; proprio per rispondere a tali esigenze è
stato introdotto il reato di cui all'art. 316 ter. Pertanto — conclude la
corte — è evidente che tale ultima norma sia volta ad assicurare agii interessi da essa considerati una tutela aggiuntiva e complementare ri
spetto a quella già offerta dall'art. 640 bis c.p., coprendo gli eventuali
spazi al di sotto della soglia di punibilità di tale norma, spazi la cui
concreta entità — correlata alla più o meno ampia sfera di operatività riconosciuta al delitto di truffa, avuto riguardo sia all'elemento degli «artifizi o raggiri», sia al requisito dell'induzione in errore — spetta al
l'interprete identificare, ma sempre nel rispetto dell'inequivoca voca
zione sussidiaria della norma di cui all'art. 316 ter.
* * *
La soluzione prescelta dalla Corte costituzionale suscita alcune per
plessità. I giudici della Consulta, invero, hanno salvato la norma di cui all'art.
316 ter dalla declaratoria di incostituzionalità sostenendo che essa
avrebbe un ambito di operatività diverso da quello dell'art. 640 bis, an
dando a coprire condotte meno gravi e rafforzando, così, la tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee; con riguardo ai concreti
profili differenziali fra i due reati, la corte sembra fare riferimento al
requisito dell'induzione in errore (del tutto assente nel corpo dell'art.
316 ter) e a quello degli «artifizi o raggiri» (non espressamente con
templato dalla norma de qua, che menziona alcune condotte tipiche: omissione di informazioni dovute, presentazione di documenti falsi,
ecc.). In ordine al primo profilo, dunque, la corte sembra suggerire che il
reato di cui all'art. 316 ter è configurabile in tutti i casi in cui l'eroga zione sia ingiustamente conseguita dall'imputato — mediante la com
missione di una delle condotte ivi previste — senza che da esse sia de
rivata l'induzione in errore di taluno, il che potrebbe avvenire nel caso
di procedure interamente automatizzate. Ma non si può fare a meno di osservare che, al momento, non ap
paiono esistenti meccanismi di tal genere, atteso che nell'ambito delle
procedure per la concessione di contributi, mutui, finanziamenti o ana
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PARTE PRIMA 1328
dell'Unione europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997 e della
convenzione Ocse sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali
stranieri nelle operazioni economiche internazionali, con annes
so, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997. Delega al governo per la
disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giu ridiche e degli enti privi di personalità giuridica), che — sotto la rubrica «indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato»
loghe erogazioni da parte di enti pubblici o comunitari vi sono sempre uno o più soggetti che. in ultima analisi, debbono effettuare una valuta zione sulla domanda avanzata dall'interessato al fine di verificare se essa possieda i requisiti previsti dalla legge.
Ma vi è di più. Deve ritenersi, invero, che il requisito dell'induzione in errore, pur formalmente non contenuto nell'art. 316 ter, sia peraltro insito nella condotta descritta dalla norma in questione, proprio perché presupposto del reato è l'inganno in cui cade il pubblico impiegato chiamato a valutare le domande e la documentazione prodotta a sup porto delle stesse da parte dei richiedenti le erogazioni: in questo senso si sono espressamente pronunciate le sezioni unite della Cassazione (sent. 24 gennaio 1996, Panigoni, Foro it., 1996, II, 273, con nota di A.
Ferraro) che, a proposito del reato di cui all'art. 2 1. 898/86 (in tutto e
per tutto analogo a quello di cui all'art. 316 ter, come riconosciuto nel l'ordinanza in epigrafe), hanno affermato che «il contrasto [di giuris prudenza] non riguarda certamente la sussistenza o meno, nel reato di cui all'art. 2 1. 898/86, degli estremi 'induzione in errore', 'ingiusto profitto', 'altrui danno' caratteristici del delitto di truffa ma erronea mente ritenuti dall'impugnata sentenza 'del tutto assenti dal dettato dell'art. 2 . . .'; laddove invece tale norma sostanzialmente li prevede, essendo evidente che l'esposizione di dati falsi è funzionale all'indu zione in errore dell'Aima e che il conseguimento indebito dei contribu ti, conseguente all'attività ingannatoria dell'esposizione di dati falsi e all'induzione in errore, costituisce 'ingiusto profitto' con danno del l'Aima» (in questo senso, v. Bevilacqua, op. cit., 591 s.).
Dunque, tale strada non appare utilmente percorribile. Quanto al requisito degli «artifizi o raggiri», parimenti indicato dalla
corte come possibile criterio d'individuazione della sfera applicativa dell'art. 316 ter, non si può non convenire con il giudice a quo sul fatto che la presentazione o l'utilizzo di documenti falsi (a differenza della
semplice esposizione di dati o notizie falsi di cui all'art. 2 1. 898/86) integri, per «secolare tradizione interpretativa», un vero e proprio arti fizio ai fini della commissione del reato di truffa (anzi, probabilmente l'artifizio più comune in tal senso). Parimenti, deve ritenersi che anche «l'omissione di informazioni dovute», in base al pacifico orientamento
giurisprudenziale in materia, possa configurare un artifizio idoneo ad
integrare il reato di truffa (benché in dottrina siano stati sollevati molti dubbi sul punto): v., per tutte, Cass. 10 aprile 2000, Salerno, Foro it.. Rep. 2002, voce Truffa, n. 14, secondo cui l'artificio o il raggiro richie sti per la sussistenza del reato di truffa possono consistere anche nel silenzio maliziosamente serbato su alcune circostanze da parte di chi abbia il dovere di farle conoscere. Ebbene, non pare revocabile in dub bio che il soggetto che intenda richiedere ad un ente pubblico o comu nitario una delle erogazioni menzionate nell'art. 316 ter abbia il dovere
giuridico di dichiarare l'eventuale presenza di cause — a lui note —
ostative alla concessione dell'erogazione. Pertanto, sembra che l'unica ipotesi in cui possa trovare applicazione
l'art. 316 ter, in luogo del più grave reato di cui all'art. 640 bis, sia
quella della mera esposizione di dati o notizie falsi (contemplata dal l'art. 2 1. 898/86); in questo senso si è espresso anche Mannucci, nota a G.i.p. Trib. Livorno 8 marzo 2002, cit. Invero, per costante giuris prudenza, la menzogna può costituire raggiro idoneo ai fini della truffa solo se accompagnata da ulteriori circostanze suscettibili di rafforzare le dichiarazioni mendaci (v., per tutte, Cass. 3 giugno 1997. Milano, Foro it., 1999, II, 130, con nota di P. La Spina, la quale afferma che qualora il soggetto agente, allo scopo di conseguire un'erogazione pub blica, non si sia limitato ad esporre dati e notizie falsi, ma li abbia raf forzati mediante altri subdoli accorgimenti, quali la formazione e utiliz zazione di falsi documenti, ricorreranno gli estremi del delitto punito dall'art. 640 bis c.p.; qualora, invece, il soggetto si sia limitato ad esporre dati non veritieri, troverà applicazione la norma sussidiaria contenuta nell'art. 2 1. 898/86).
Viceversa, in presenza dell'utilizzo di documenti falsi per ottenere le erogazioni di cui all'art. 316 ter — scartata la possibilità di far leva sul requisito dell'induzione in errore — l'interprete si trova di fronte al l'alternativa di ritenere configurabile il reato di cui alla predetta norma, con evidente violazione del principio di uguaglianza rispetto ai casi in cui la medesima condotta è commessa in danno di privati (essendo pu nita con la più grave pena di cui all'art. 640); oppure ritenere sussi stente il reato di cui all'art. 640 bis, disapplicando sic et simpliciter la norma di cui all'art. 316 ter.
Al fine di evitare le suddette incertezze interpretative, si sarebbe po tuta seguire la strada della declaratoria di parziale incostituzionalità dell'art. 316 ter quanto meno in relazione alla condotta di utilizzazione o presentazione di documenti falsi, integrante, per definizione, il con cetto di «artifizi o raggiri» di cui all'art. 640 c.p. [A. Fanelli]
Il Foro Italiano — 2004.
— punisce, con la reclusione da sei mesi a tre anni, «chiunque
mediante l'utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di do
cumenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l'o
missione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre
erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o
erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità euro
pee»; prevedendo, altresì, l'applicazione di una semplice san
zione amministrativa pecuniaria quando la somma indebita mente percepita è pari o inferiore ad un determinato importo;
che il giudice a quo premette di essere investito, in grado di
appello, del processo penale nei confronti di persona imputata del reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni
pubbliche, di cui all'art. 640 bis c.p. (oltre che di quello di cui
all'art. 483 c.p.), per aver conseguito dall'università degli studi
di Milano, negli anni 1995 e 1996, benefici ed erogazioni (in particolare un «tesserino mensa» ed una borsa di studio) di en tità maggiore rispetto a quella ad essa effettivamente spettante, tramite «artifizi» consistiti in false attestazioni circa la propria situazione patrimoniale e reddituale: reato per il quale era stata
pronunciata, in primo grado, sentenza di condanna appellata dall'imputato;
che, ad avviso del rimettente, il fatto per cui si procede rien trerebbe attualmente nella previsione del nuovo art. 316 ter c.p.: donde la necessità di stabilire quale rapporto intercorra tra tale
previsione sanzionatoria e la norma incriminatrice di cui all'art.
640 bis c.p., oggetto dell'imputazione; che, secondo il giudice a quo, la «formale sussidiarietà» del
l'art. 316 ter rispetto all'art. 640 bis c.p. — risultante dalla
clausola di riserva con cui la prima norma si apre («salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall'art. 640 bis») — si scon
trerebbe con la «secolare tradizione interpretativa» per cui il fal
so, nelle sue diverse manifestazioni (comprese quelle descritte nell'art. 316 ter), rappresenta la forma più comune e tipica di estrinsecazione degli «artifizi o raggiri», costitutivi del delitto di
truffa; che a fronte di tale «insanabile contraddizione» tra «formale
sussidiarietà» e «sostanziale specialità» della norma impugnata, la giurisprudenza di legittimità si sarebbe indotta — onde rita
gliare uno spazio operativo alla nuova figura criminosa, altri menti condannata ali
' « ineffetti vità» — a restringere il tradizio
nale concetto di «artifizi o raggiri», escludendo che le condotte indicate nell'art. 316 ter c.p. rientrino in esso;
che alla stregua di tale orientamento, peraltro, l'imputato nel
giudizio a quo dovrebbe essere assolto, dato che il fatto a lui ascritto non risulterebbe punibile né ai sensi dell'art. 640 bis
c.p., per assenza — in tesi — dell'artifizio o raggiro; né in base all'art. 316 ter c.p., trattandosi di fatto commesso in data ante riore a quella di entrata in vigore di tale norma;
che a parere del rimettente, tuttavia, l'art. 316 ter c.p. viole rebbe l'art. 10 Cost., in quanto la nuova disposizione
— intro dotta al dichiarato scopo di rafforzare la tutela penale degli inte ressi finanziari delle Comunità europee, in attuazione di specifi ci obblighi internazionali — avrebbe prodotto il risultato esat tamente opposto, facendo sì che condotte in precedenza pacifi camente integrative dell'ipotesi criminosa di cui all'art. 640 bis
c.p. beneficino oggi del più mite trattamento sanzionatorio pre figurato dalla norma impugnata;
che inoltre — essendo la fattispecie di cui all'art. 640 bis c.p. uno «sviluppo» della «figura base di truffa» prevista dall'art. 640 c.p., tanto da essere considerata quale semplice circostanza
aggravante di tale reato — occorrerebbe chiedersi se il concetto
più ristretto di «artifizio o raggiro», elaborato a proposito del l'art. 640 bis c.p., valga anche in rapporto alla figura generale di cui all'art. 640 c.p.;
che peraltro, qualunque risposta si dia a tale interrogativo, si avrebbe una «palese irrazionalità di disciplina», atta a porre l'art. 316 ter c.p. in contrasto con l'art. 3 Cost.;
che, in particolare, ove si ritenga che l'anzidetta nozione ri stretta di «artifizio o raggiro» non si estende alla fattispecie «comune» di truffa di cui all'art. 640 c.p., si profilerebbe una
ingiustificata disparità di trattamento della truffa in danno di ente pubblico o comunitario rispetto a quella commessa in dan no di un soggetto privato: chi ottiene erogazioni da un privato mediante documenti falsi, difatti, sarebbe comunque punibile ai sensi dell'art. 640 c.p. (al pari di chi, allo stesso fine, si avvalga di altri artifizi o raggiri); mentre nel caso dell'ente pubblico o
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
comunitario, detta tipologia di condotta costituirebbe «il discri
mine per un rilevante mutamento della sanzione», che diverreb
be addirittura solo amministrativa nei casi più lievi (art. 316 ter, 2° comma, c.p.);
che ove si ritenga, invece, che il concetto più ristretto di «arti
fizio o raggiro» vale anche per la truffa comune — soluzione,
peraltro, priva di qualsiasi riscontro nel «diritto vivente» — si
determinerebbe una disparità di trattamento di segno opposto: in
danno, cioè, dell'offeso «privato»; che in quest'ultima prospettiva, difatti, si accorderebbe agli
enti pubblici e comunitari una tutela penale (quella contro le
frodi commesse mediante utilizzazione di falsa documentazio
ne) della quale sarebbero -— in tesi — completamente privi i
soggetti privati: assetto, questo, inaccettabile sul piano costitu
zionale, in quanto — a fronte di fatti identicamente lesivi della
sfera patrimoniale — la natura pubblica o privata della persona
offesa potrebbe ragionevolmente influire solo sulla misura della
pena, ma non sulla stessa liceità penale della condotta;
che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il presi dente del consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'av
vocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questio ne sia dichiarata inammissibile o infondata.
Considerato che i dubbi di legittimità costituzionale dell'art.
316 ter c.p., formulati dalla corte d'appello rimettente, risultano
sostanzialmente coincidenti — quanto alla premessa fondante
— con quelli in passato sollevati, in riferimento al solo art. 3
Cost., riguardo alla previsione punitiva di cui all'art. 2 1. 23 di
cembre 1986 n. 898 (conversione in legge, con modificazioni,
del d.l. 27 ottobre 1986 n. 701, recante misure urgenti in mate
ria controlli degli aiuti comunitari alla produzione dell'olio di
oliva. Sanzioni amministrative e penali in materia di aiuti co
munitari nel settore agricolo): norma che — punendo con la re
clusione da sei mesi a tre anni chi, mediante esposizione di dati
o notizie falsi, consegue indebitamente contributi a carico del
fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (Feoga), salva l'applicazione di una semplice sanzione amministrativa
pecuniaria ove la somma indebitamente percepita non ecceda un
determinato importo — è del tutto omologa, per ratio e struttu
ra, a quella oggi sottoposta a scrutinio;
che il citato art. 2 1. n. 898 del 1986 era infatti finalizzato —
secondo quanto si affermava nella relazione alla proposta di
legge e come emergeva, altresì, dai lavori parlamentari — a raf
forzare la tutela penale delle sovvenzioni comunitarie, evitando,
in specie, che potesse rimanere impunito chi ottenesse indebite
erogazioni dal Feoga mediante la mera esposizione di dati o no
tizie falsi: e ciò a fronte della «constatata riluttanza, nella prati ca amministrativa ed in quella giudiziaria», a far rientrare detta
condotta nel paradigma degli «artifizi o raggiri», richiesti ai fini
della configurabilità del delitto di truffa, di cui all'art. 640 c.p.
(cfr. sentenza di questa corte n. 25 del 1994, Foro it., 1994, I,
1627); che la funzione sussidiaria che, nell'intenzione del legisla
tore, la fattispecie era destinata ad assolvere rispetto alla truffa — e, poi, rispetto alla truffa aggravata per il conseguimento di
erogazioni a carico dello Stato, di enti pubblici o delle Comu
nità europee, di cui all'art. 640 bis c.p., successivamente intro
dotto dall'art. 2 1. 19 marzo 1990 n. 55 (nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione della pericolosità sociale) — venne tut
tavia negata da una parte della giurisprudenza, che qualificò, vi
ceversa, l'art. 2 1. n. 898 del 1986 come norma speciale — e
dunque prevalente, nel caso di concorso apparente —
rispetto a
quelle del codice penale; che tale tesi si fondava, in specie, sul rilievo che, secondo un
risalente indirizzo giurisprudenziale, la sola menzogna sarebbe
stata già di per sé sufficiente, in via generale, ad integrare il
concetto di «artifizi o raggiri», onde il fatto sanzionato dall'art.
2 1. n. 898 del 1986 sarebbe rientrato pieno iure nel perimetro
applicativo dell'art. 640 c.p. (e poi dell'art. 640 bis c.p.), se non
fosse stato per gli elementi specializzanti costituiti dalla specifi cità del soggetto passivo e dalla natura del profitto conseguito
dall'agente: prospettiva nella quale, peraltro, la norma de qua — con eterogenesi dei fini — avrebbe di fatto determinato un
indebolimento della tutela delle sovvenzioni comunitarie, riser
vando, in pratica, un trattamento sanzionatorio più mite —
tenuto conto dei livelli delle pene edittali e della prevista de
gradazione della violazione in semplice illecito amministrativo,
Il Foro Italiano — 2004.
al di sotto di un determinato importo — a fatti altrimenti sog
getti alla più severa sanzione comminata dalle norme del codice
penale; che il legislatore ritenne, quindi, di dover sconfessare aper
tamente tale interpretazione, aggiungendo in apertura dell'art.
2 1. n. 898 del 1986 — con l'art. 73 1. 19 febbraio 1992 n. 142
(disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'ap
partenenza dell'Italia alle Comunità europee. Legge comunita
ria per il 1991) — una clausola di sussidiarietà espressa, volta
ad escludere l'operatività della previsione punitiva nel caso di
configurabilità del delitto di cui all'art. 640 bis c.p. («ove il
fatto non configuri il più grave reato previsto dall'art. 640 bis
c.p »); che — sul presupposto che l'art. 2 1. n. 898 del 1986 si po
nesse comunque in rapporto di specialità rispetto agli art. 640 e
640 bis c.p., con il conseguente irrazionale effetto sopra eviden
ziato — la norma venne sottoposta a scrutinio di costituzionalità
per contrasto con l'art. 3 Cost.: questione che la corte dichiarò
tuttavia infondata, rilevando come — alla luce della inequivoca ratio della disposizione impugnata e del successivo intervento
del legislatore del 1992 — la disposizione stessa fosse destinata
ad operare esclusivamente negli spazi non già «coperti» dalle
citate norme del codice (cfr. sentenza n. 25 del 1994 e ordinanza
n. 433 del 1998, id., Rep. 1999, voce Agricoltura, n. 70); che l'odierno giudice a quo pone, analogamente, a base dei
propri dubbi di legittimità costituzionale del nuovo art. 316 ter
c.p. l'assunto per cui la norma denunciata avrebbe in pratica as
sicurato un trattamento sanzionatorio più favorevole a fatti di
indebita percezione di contributi a danno dello Stato, di enti
pubblici o delle Comunità europee: fatti che — al lume della
«tradizionale» lettura giurisprudenziale del concetto di «artifizi
o raggiri» — ricadrebbero «pacificamente» nella sfera punitiva
della truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pub
bliche, di cui all'art. 640 bis c.p.; che anche in questo caso va peraltro osservato, in senso con
trario, che il carattere sussidiario e «residuale» dell'art. 316 ter
c.p. rispetto all'art. 640 bis c.p. — a fronte del quale la prima
norma è destinata a colpire unicamente fatti che non rientrino
nel campo di operatività della seconda — costituisce un dato
normativo assolutamente inequivoco; che la chiara lettera della disposizione impugnata
— la quale esordisce anch'essa con una clausola di salvezza dell'art. 640
bis c.p. — si coniuga infatti puntualmente sia con la finalità ge
nerale del provvedimento legislativo che ha introdotto la dispo sizione stessa, sia con l'obiettivo specifico della sua introduzio
ne;
che, quanto al primo profilo, l'art. 316 ter è stato infatti inse
rito nel codice penale dalla 1. 29 settembre 2000 n. 300, nel
quadro delle misure di adeguamento dell'ordinamento italiano
agli obblighi derivanti dalla convenzione sulla tutela degli inte
ressi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26
luglio 1995: convenzione il cui art. 2 imponeva agli Stati mem
bri di punire le frodi lesive dei predetti interessi — quali defi
nite dall'art. 1 — con sanzioni penali «effettive, proporzionate e
dissuasive», comprensive, almeno nei casi di «frode grave», di
pene privative della libertà personale che possano comportare
l'estradizione; salva la facoltà di stabilire sanzioni di natura non
penale per le frodi «di lieve entità», riguardanti un importo to
tale inferiore a 4.000 Ecu; che la norma censurata non era peraltro prevista dall'origina
rio disegno di legge governativo di ratifica della suddetta con
venzione, nella convinzione — esplicitata nella relazione — che
l'art. 640 bis c.p. fosse già sufficiente a soddisfare gli obblighi comunitari in parola, segnatamente per quanto atteneva alle fro
di «in materia di spese», delineate dall'art. 1, lett. a), primo e
secondo trattino, dello strumento;
che nel corso dei lavori parlamentari, è emersa tuttavia la
preoccupazione che talune delle fattispecie di frode identificate
dalla convenzione — le quali comprendevano non soltanto con
dotte di falso in senso lato («utilizzo o ... presentazione di di
chiarazioni o di documenti falsi, inesatti o incompleti»), ma an
che di mero silenzio antidoveroso («mancata comunicazione di
un'informazione in violazione di un obbligo specifico»), senza
che al tempo stesso fosse previsto il requisito dell'induzione in
errore del soggetto passivo, caratterizzante il paradigma della
truffa — potessero in realtà non rientrare nella sfera di operati
vità del citato art. 640 bis c.p.;
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PARTE PRIMA 1332
che onde evitare una eventuale inadempienza, per tal aspetto, agli obblighi comunitari — scartata l'idea iniziale di aggiungere all'art. 640 bis c.p. un ulteriore comma, che riconducesse
espressamente alla fattispecie della truffa aggravata le condotte descritte nella convenzione — si è optato per la soluzione di co niare una nuova disposizione sanzionatoria —
quella, appunto, dell'art. 316 ter c.p.
— modellata (anche per quanto attiene alla
preliminare clausola di salvezza dell'art. 640 bis c.p.) sulla fal
sariga dell'art. 2 1. n. 898 del 1986, e che riproduce quasi alla
lettera, quanto alla descrizione della condotta sanzionata, la formula dell'art. 1 della convenzione: disposizione che — nel comminare sanzioni più miti di quelle previste dall'art. 640 bis
c.p. — è peraltro eloquentemente indicativa dell'intento legis
lativo di reprimere, con essa, fatti di minore gravità, sul piano del disvalore di condotta, rispetto a quelli attinti dalla norma
principale; che appare dunque evidente — alla luce tanto del dato nor
mativo, quanto della ratio legis — come l'art. 316 ter c.p. sia volto ad assicurare agli interessi da esso considerati una tutela
aggiuntiva e «complementare» rispetto a quella già offerta dal l'art. 640 bis c.p., «coprendo», in specie, gli eventuali margini di scostamento —
per difetto — del paradigma punitivo della truffa rispetto alla fattispecie della frode «in materia di spese», quale delineata dall'art. 1 della convenzione: margini la cui concreta entità — correlata alle più o meno ampie «capacità di
presa» che si riconoscano al delitto di truffa, avuto riguardo sia all'elemento degli «artifizi o raggiri», in qualunque forma rea
lizzati, sia al requisito dell'induzione in errore — spetta all'in
terprete identificare, ma sempre nel rispetto della inequivoca vocazione sussidiaria della norma oggi sottoposta a scrutinio;
che. in altre parole, rientra nell'ordinario compito interpreta tivo del giudice accertare, in concreto, se una determinata con dotta formalmente rispondente alla fattispecie delineata dall'art. 316 ter c.p. integri anche la figura descritta dall'art. 640 bis c.p., facendo applicazione, in tal caso, solo di quest'ultima previsio ne punitiva;
che — nella prospettiva della natura meramente sussidiaria e residuale della norma impugnata — è ben vero che l'art. 316 ter
c.p. si presta, nell'intenzione del legislatore, a reprimere taluni
comportamenti che, se posti in essere in danno di soggetti pri vati — o anche di soggetti pubblici, quando non si discuta del l'indebita erogazione di sovvenzioni — restano privi di sanzio ne: ma ciò senza che ne derivi affatto la lesione dell'art. 3 Cost, ventilata dal rimettente, posto che — come correttamente osser va l'avvocatura generale dello Stato — la previsione di una tu tela penale rafforzata, anche quanto ad ampiezza, delle finanze
pubbliche e comunitarie contro le frodi, rispetto alla generalità degli altri interessi patrimoniali, costituisce ragionevole eserci zio di discrezionalità legislativa, tenuto conto della specialità dell'interesse offeso, nonché del carattere «minore» delle viola zioni di cui si discute (evidenziato anche dall'applicazione di una semplice sanzione amministrativa al di sotto di una certa
soglia), rispetto a quelle integrative del delitto di truffa; che, alla luce di quanto precede, resta ovviamente esclusa an
che l'ipotizzata violazione dell'art. 10 Cost.; e ciò a prescindere da ogni possibile rilievo circa la pertinenza del parametro evo cato e dalla circostanza che la convenzione sulla protezione de
gli interessi finanziari delle Comunità europee non imponeva agli Stati membri — come il giudice a quo sembra supporre —
un inasprimento delle sanzioni penali anteriormente previste per le violazioni in parola, ma solo la comminatoria di sanzioni ri
spondenti ai requisiti stabiliti all'art. 2 della convenzione stessa:
requisiti il cui rispetto, da parte della legislazione nazionale, il rimettente non pone affatto in discussione;
che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente in fondata.
Visti gli art. 26, 2° comma, 1. 11 marzo 1953 n. 87 e 9, 2° comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara la manife sta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del l'art. 316 ter c.p., sollevata, in riferimento agli art. 3 e 10 Cost., dalla Corte di appello di Milano con l'ordinanza indicata in epi grafe.
Il Foro Italiano — 2004.
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 9 marzo 2004, n. 85
(Gazzetta ufficiale, la serie speciale, 17 marzo 2004, n. 11); Pres. Zagrebelsky, Est. Vaccarella; Cioppa e altri (Avv.
Palma) c. Min. interno. Comune di Bellona (Avv. Romano). Orci. Tar Campania 23 gennaio 2003 (G.U., la s.s., n. 28 del
2003).
Elezioni — Elezioni comunali — Contenzioso — Giudizio davanti alla magistratura amministrativa — Prova testi moniale — Inutilizzabilità — Questione inammissibile di costituzionalità (Cost., art. 3, 24, 111; cod. civ., art. 2700; cod. pen., art. 479; d.p.r. 16 maggio 1960 n. 570, t.u. delle
leggi per la composizione e l'elezione degli organi delle am ministrazioni comunali, art. 83/11).
È inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di legitti mità costituzionale dell'art. 83/11. 5° comma, d.p.r. 16 mag gio 1960 n. 570, nella parte in cui. non derogando ai sistemi
probatori ordinari del giudizio avanti alle magistrature am
ministrative, limita, in materia elettorale, alle sole risultanze documentali i poteri istruttori fruibili per la definizione del
merito, escludendo in particolare l'utilizzabilità della prova testimoniale, in riferimento agli art. 3, 24 e 111 Cost. (1)
( I ) Nel caso di specie i ricorrenti deducevano che si sarebbero verifi cate gravi irregolarità: alla fine della prima giornata di votazione in
quanto al momento della chiusura del seggio, riscontrata la mancanza di una scheda vidimata, per ritrovare la stessa il presidente aveva pro ceduto all'apertura dell'urna e, quindi, aveva esaminato le schede vo tate, finché, trovata una scheda bianca, l'aveva prelevata e inserita tra le schede non votate. Di ciò non veniva fatta menzione nel verbale, ma i ricorrenti avevano tentato di provare la suddetta circostanza mediante dichiarazioni sottoscritte da due persone.
La Corte costituzionale rileva l'erroneità del presupposto interpreta tivo del giudice a quo, secondo cui la verità di circostanze non risul tanti dal verbale delle operazioni elettorali può essere provata con strumenti diversi dalla querela di falso, osservando come, nella specie, l'efficacia di piena prova dell'attestazione contenuta nel verbale può essere posta in discussione solo attraverso la querela di falso ai sensi dell'art. 2700 c.c., per cui la questione sollevata risulta essere priva di rilevanza per la risoluzione del giudizio a quo.
In ordine ai mezzi attraverso i quali è possibile contestare la veridi cità di un verbale di operazioni elettorali, v. Cons. Stato, sez. V, 6
maggio 1995. n. 724, Foro it.. Rep. 1995, voce Elezioni, n. 210. secon do cui l'autenticità delle firme in un verbale di operazioni elettorali può essere contestata solo mediante il procedimento della querela di falso, dato che il verbale è atto pubblico, nel senso stretto e specifico definito dall'art. 2699 c.c. e che, a norma del successivo art. 2700, l'atto pub blico fa prova, fino a querela di falso, della provenienza dell'atto stesso dal pubblico ufficiale che figura averlo formato; 30 marzo 1994, n. 216, id.. Rep. 1994, voce cit., n. 58, secondo cui il valore di atto fidefacente del verbale delle operazioni elettorali non può essere invocato per con trastare i risultati dell'accertamento istruttorio, disposto dal giudice, atteso che la regola posta dall'art. 2700 c.c. — secondo cui «l'atto pub blico fa piena prova, fino a querela di falso» dei «fatti che il pubblico ufficiale attesta ... da lui compiuti» — che non serve quando vi sia dif formità tra due originali dello stesso atto pubblico, neppure vale, quan do tra i fatti attestati vi sia contrasto tale da rendere impossibile la loro contemporanea verità, ad impedire la ricostruzione dei fatti che dia spiegazione degli errori compiuti dal pubblico ufficiale e men che me no a tener per vera, ai fini dell'annullamento delle operazioni compiute, l'inspiegabilità dei fatti che viceversa siano pienamente spiegati da al tre constatazioni e accertamenti.
Nel senso che la certificazione medica, in relazione alla diagnosi in essa riportata che attesti un impedimento a votare, non riveste l'effica cia probatoria dell'atto pubblico e perciò non fa fede fino a querela di falso, potendo essere discrezionalmente valutata dal presidente del seg gio elettorale, v. Tar Molise 16 febbraio 1991, n. 13, id., Rep. 1991, voce cit., n. 93; 13 luglio 1990, il. 195, id., Rep. 1990, voce cit., n. 103; Tar Campania, sez. II, 30 aprile 1987, n. 108, id.. 1988, III. 119, con nota di richiami.
Sugli estremi integranti il delitto di falsità ideologica in atto pubblico di cui all'art. 479 c.p., v. Cass. 9 maggio 2001, Annunziata, id., 2002, II. 123. con nota di richiami; 16 gennaio 2001, Graziani, id.. 2001. II, 403, con nota di richiami.
Per l'affermazione secondo cui nel giudizio elettorale, la prova te stimoniale non è ammissibile e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà non possono essere lo strumento surrettizio per introdurvela, v. Cons. Stato, sez. V, 26 giugno 2000, n. 3631, id., Rep. 2000, voce cit.. n. 164; Tar Campania 16 luglio 1998. n. 2425, id.. Rep. 1999, voce cit., n. 172; Tar Molise 11 luglio 1995, n. 185, id.. Rep. 1995. voce cit., n. 194.
La Corte costituzionale (sent. 30 marzo 1992, n. 140, id., 1992, I,
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