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ordinanza 17 novembre 1980; Pres. Padovani; imp. Naria

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ordinanza 17 novembre 1980; Pres. Padovani; imp. Naria Source: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 9 (SETTEMBRE 1981), pp. 449/450-453/454 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23173067 . Accessed: 25/06/2014 04:53 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 62.122.78.49 on Wed, 25 Jun 2014 04:53:28 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Page 1: ordinanza 17 novembre 1980; Pres. Padovani; imp. Naria

ordinanza 17 novembre 1980; Pres. Padovani; imp. NariaSource: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 9 (SETTEMBRE 1981), pp. 449/450-453/454Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23173067 .

Accessed: 25/06/2014 04:53

Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp

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GIURISPRUDENZA PENALE

CORTE D'ASSISE DI TORINO; ordinanza 17 novembre 1980; Pres. Padovani; imp. Naria.

CORTE D'ASSISE DI TORINO;

Libertà personale dell'imputato — Custodia preventiva — Ter

mini — Prolungamento per effetto del d.l. n. 625/1979 —

Applicabilità ai procedimenti in corso — Questioni non ma

nifestamente infondate di costituzionalità (Cost., art. 3, 13, 25,

27; cod. proc. pen., art. 272; d.l. 15 dicembre 1979 n. 625, misure urgenti per la tutela dell'ordine democratico e della

sicurezza pubblica, art. 10, 11; legge 6 febbraio 1980 n. 15, conversione in legge, con modificazioni, del d. l. 15 dicem

bre 1979 n. 625, art. unico).

Non è manifestamente infondata (e se ne rimette quindi l'esame

alla Corte costituzionale) la questione di costituzionalità del

l'art. 11 d.l. 15 dicembre 1979 n. 625, convertito, con modi

ficazioni, in legge 6 febbraio 1980 n. 15, nella parte in cui pre vede l'applicabilità dell'aumento dei termini massimi della

custodia preventiva introdotta per taluni delitti dall'art. 10 stesso

d. I. anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vi

gore del decreto legge, in riferimento agli art. 3, 1" comma, 13,

1°, 2° e 5° comma, 25, 2° comma, e 27, 2° comma, Cost. (1) Non è manifestamente infondata (e se ne rimette quindi l'esame

alla Corte costituzionale) la questione di costituzionalità del

l'art. 10 d. I. 15 dicembre 1979 n. 625, convertito, con modifi

cazioni, in legge 6 febbraio 1980 n. 15, che prevede il prolun

gamento di un terzo dei termini massimi della custodia pre ventiva per i delitti commessi per finalità di terrorismo (o di

eversione dell'ordine democratico, nonché per quelli previsti dall'art. 416 cod. pen. e per quelli indicati nell'art. 165 ter

cod. proc. pen.), in riferimento agli art. 13, 1°, 2° e 5° comma,

e 27, 2° comma, Cost. (2)

La Corte, ecc. — Premesso: che con istanza depositata in

cancelleria il 17 ottobre 1980 il difensore di fiducia dell'imputato

esponeva che il reato in epigrafe era stato contestato al Naria con

mandato di cattura del 6 ottobre 1976 e che — secondo la

normativa in allora vegliante (art. 272 cod. proc. pen. come

sostituito con legge 7 giugno 1974 n. 220) — il termine massimo

di custodia preventiva era scaduto il 6 ottobre 1980 (due anni per

la fase istruttoria e due anni per la fase dibattimentale di primo

grado, complessivamente quattro anni); che con l'art. 10 legge 6

febbraio 1980 n. 15 s'era disposto il prolungamento di un terzo

dei termini di durata massima di custodia preventiva per taluni

delitti (tra cui quello di omicidio e quelli commessi per finalità di

terrorismo o di eversione dell'ordine democratico), con la conse

guenza — rileva il collegio — che detto termine massimo scadrà

il 6 febbraio 1982 (il prolungamento di un terzo comporta la

massima durata complessiva della custodia preventiva in cinque

anni e quattro mesi se non interviene sentenza di condanna di

primo grado); che con l'art. 11 della menzionata legge n. 15/1980

si è disposto che il precisato art. 10 si applica anche ai procedi

menti in corso alla data dell'entrata in vigore del d. 1. 15 dicem

bre 1979 n. 625 (provvedimento a cui segui, per conversione, la

citata legge n. 15/1980) ovvero dal 17 dicembre 1979: ciò esposto

il difensore del Naria eccepiva l'illegittimità costituzionale dell'art.

11 della legge medesima per contrasto con gli art. 3, 1" comma,

13, 1°, 2° e 5° comma, 25, 2° comma, 27, 2° comma, Cost.;

chiedeva fosse disposta la trasmissione degli atti alla Corte costi

tuzionale. Il p. m. chiedeva fosse respinta l'istanza in quanto la

questione ex art. 3, 5° comma, Cost, è da dichiarare non rilevante

e comunque manifestamente infondata e in quanto quelle ex art.

13, 25 e 27 Cost, sono da dichiarare manifestamente infondate.

Ritiene questa corte che la questione di legittimità costituziona

le del citato art. 11 sia da dichiarare rilevante e non manifesta

mente infondata per contrasto con gli art. 3, 1° comma, 13, 1°, 2°

e 5° comma, 25, 2° comma, 27, 2° comma, Cost. La questione è

valutata sotto i menzionati profili. Art. 3, 1° comma, Cost. — Il combinato disposto degli art. 10

e 11 d.l. n. 625/1979 convertito in legge n. 15/1980, viola il

precetto che sancisce l'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge.

Qualora un imputato fosse stato incarcerato nell'ottobre 1977,

accusato del reato di omicidio, sarebbe stato scarcerato nell'otto

bre 1979, se l'ordinanza di rinvio a giudizio non fosse stata

depositata entro i due anni dalla cattura. Per contro, qualora il

(1-2) Conforme alla prima massima ed in senso contrario alla

seconda, v. Trib. Padova, ord. 3 maggio 1980, Foro it., 1980, II, 444,

con nota di richiami.

Sull'applicabilità del prolungamento di un terzo dei termini massimi

della custodia preventiva di cui all'art. 10 d.l. n. 625/1979 anche ai

procedimenti in corso per reati commessi anteriormente alla data di

entrata in vigore del citato decreto, v., da ultimo, Cass. 25 febbraio

1981, Verdecchia, in questo fascicolo, II, 423, con nota di richiami.

coimputato per il medesimo fatto — resosi latitante fin dalla emissione del mandato di cattura nei confronti di entrambi gli imputati — fosse stato arrestato nel marzo 1980, maturerebbe nella fase istruttoria il diritto alla scarcerazione automatica soltan to due anni e otto mesi dopo l'arresto; due anni per l'uno, due anni e otto mesi per l'altro, in situazioni identiche, nel fatto, nella

contestazione del reato, nel provvedimento restrittivo della libertà. Tale diverso trattamento è in contrasto con il principio di

eguaglianza; la violazione del dettato costituzionale non sussiste rebbe se il prolungamento dei termini massimi di custodia preven tiva fosse applicato con efficacia futura, e non ai procedimenti in corso.

Rileva il p. m. che la disparità non ricorre e non è quindi rilevante, poiché nel procedimento in esame non vi sono, da una

parte, imputati scarcerati per decorrenza dei termini di scarcera zione preventiva, e, dall'altra, imputati ristretti a seguito di

provvedimenti coercitivi intervenuti dopo l'entrata in vigore della nuova normativa che prolunga i termini della custodia preventiva.

Osserva il collegio che la questione concerne la generalità dei

cittadini, a prescindere dalle specifiche situazioni concernenti più imputati che si possono verificare in un processo in modo che la rilevanza sussiste quando l'imputato attuale subisce trattamento

diseguale da quello adottato per altri imputati in situazioni

analoghe e in altri processi.

Rileva ancora il p. m. che, comunque, la norma transitoria di cui al citato art. 11 consente, per i delitti previsti dagli art. 10

legge n. 15/1980 e 165 ter cod. proc. pen. di emettere provvedi menti restrittivi della libertà personale nei confronti di imputati scarcerati sotto il vigore della legislazione precedente; sempreché — osserva questa corte — riprendendo l'esempio di cui s'è detto, ed ancora perdurando la fase istruttoria, non vi sia stata deten zione protrattasi per due anni. Per detta ipotesi non sarebbe

applicabile l'art. 11, non essendo più in corso la carcerazione

preventiva — per scadenza del termine massimo — regolata dalla

legge processuale vegliante durante i due anni.

Art. 13, 1°, 2° e 5° comma, Cost. — L'art. 11 sopra indicato

viola il principio secondo cui l'assoluto diritto di disporre del

proprio corpo può consentire limitazioni nei soli casi e modi

previsti dalla legge. L'imprescindibile esigenza che il cittadino

sappia a quali restrizioni della libertà può essere assoggettato

qualora violi norme penali deriva, appunto, dalla preminente

qualità del bene tutelato. — « La libertà personale è inviolabile » — art. 13, 1° comma, Cost., e dalla conseguente necessità che

ogni forma in cui la legge prevede possa attuarsi la restrizione

della libertà sia previamente portata a conoscenza del cittadino

con la precisa, tassativa indicazione dei tempi, dei modi, delle

competenze. Ogni sopravvenuta modificazione ira peius si risolve

in norma contro la libertà, poiché vanifica — in danno del

cittadino — la possibilità che questi aveva di preventiva cono

scenza, per tutti i lati, della condizione che legittimavano la sua

cattura e il suo permanere in carcere in attesa del giudizio. L'art.

11 sancisce il peggioramento delle condizioni suddette anche nei

confronti di coloro che violarono la norma penale anteriormente

all'entrata in vigore della legge peggiorativa, prolungando situa

zioni detentive iniziatesi sotto la veglianza di legge più favo

revole.

Viene cosi a violarsi il principio che assicura (2° comma

dell'art. 13 Cost.) all'imputato la previa conoscenza del trattamen

to restrittivo della libertà. Invero, non possono prospettarsi diver

se « dignità » della libertà personale, a seconda che si tratti di

carcerazione preventiva o di esecuzione della pena per sentenza

irrevocabile: l'intangibilità del bene lo pone sul piano dei valori

fondamentali dell'ordinamento, e la previsione costituzionale di

« riserve » di legge ordinaria deve attuarsi con la garanzia mas

sima per il cittadino. Garanzia massima che richiede l'estrema

portata delle norme sulla libertà personale e avvia la replica da

parte di questa corte alle osservazioni svolte dal p. m.

Secondo il parere del p. m., il termine « previsti » usato dal

legislatore costituzionale non si intende nel senso indicato dalla

difesa (previsione del trattamento per ogni aspetto della limitazio

ne), ma soltanto in riferimento agli atti che determinano l'inizio

della carcerazione (e non della sua durata); inoltre, ancora ad

avviso del p.m., se l'art. 13, 5° comma, Cost, demanda alla legge

di stabilire i termini massimi della carcerazione, ciò consente di

ritenere che nella delega è da includere la possibilità di modifica

in peius nei confronti di imputati già in stato di carcerazione

preventiva al momento dell'emanazione della nuova norma.

Trattasi — osserva la corte — di interpretazione restrittiva, che

il rango del bene tutelato, con l'ampiezza riconosciuta dalla

Costituzione, decisamente respinge, se non si vuole compromettere

la volontà del legislatore costituzionale per quei concetti basilari

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PARTE SECONDA

senza i quali la Costituzione della nostra Repubblica sarebbe

diversa. Art. 25, 2° comma, Cost. — Il comma dispone che « Nessuno

può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in

vigore prima del fatto commesso ».

Secondo la difesa, la disposizione è comprensiva di ogni norma

penale, sia sostanziale, cioè, che processuale, cosi da ricondurre

nell'area del divieto di retroattività non solo la legge sostanziale ma anche quella processuale, che, in ipotesi, contenga disposizioni

più svantaggiose per l'imputato.

Obietta il p. m. che, cosi argomentando, la carcerazione preven tiva viene considerata quale misura afflittiva e punitiva nei

confronti dell'imputato, mentre l'intrinseca funzione della carcera

zione preventiva è di carattere cautelare e processuale. Enuncia il

p. m. serie di sentenze della Corte costituzionale da cui si desume

prevalente giurisprudenza che afferma il carattere essenzialmente

processuale della custodia preventiva (sentenze nn. 64/1970, Foro

it., 1970, I, 1284; 96/1970, id., 1970, I, 1853; 135/1972, id., 1972,

I, 3007; 147/1973, id., 1973, I, 2957; 68/1974, id., 1974, I, 948;

246/1975, id., 1976, I, 865). E — ancora ad avviso del p.m. —

l'art. 25, 2° comma, Cost, non può trovare riferimento che a

norme di diritto sostanziale.

Il verbo « punire » — conclude sul punto il p. m. — adottato

per sancire l'irretroattività della legge, si riferisce alla « pena »

con esclusione della detenzione per carcerazione preventiva, che

non può essere anticipazione della pena stessa, perché l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva (art. 27,

2° comma, Cost.).

Se v'è differenza tra gli istituti (carcerazione preventiva e

carcerazione per esecuzione della pena) — obietta la corte — sta

di fatto che, in entrambi i casi, v'è restrizione totale della libertà.

Varie possono essere le determinazioni della ratio della custodia

preventiva: evitare l'inquinamento della prova, assicurare la pre senza dell'imputato durante l'istruttoria e il dibattimento, garanti re la collettività che lo stato di libertà dell'imputato non ponga in

pericolo le esigenze di tutela dei cittadini. Ma la Corte di

cassazione (Cass. 23 giugno 1969, Canta, id., Rep. 1971, voce

Libertà personale dell'imputato, n. 44) ebbe ad affermare che la

carcerazione preventiva non evita soltanto il pericolo di alterazio

ne delle prove: essa assicura « l'attuazione dell'eventuale senten

za di condanna dell'imputato ». Quindi assicura l'esecuzione della

pena, con tutti i conseguenti riflessi concernenti la corrispettività e l'intimidazione della pena stessa. V'è, di conseguenza, medesi

mezza, per quanto si riferisce alla sostanziale finalità, dei due

istituti, tanto che viene riconosciuta fungibilità fra detenzione per custodia preventiva ed esecuzione di pena (art. 137 cod. pen.). E

l'ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975 n. 354) prevede,

appunto in considerazione di detta conversione, che sezioni di

case di arresto o di reclusione possono essere istituite rispettiva mente presso le case di custodia (preventiva) mandamentali e

circondariali (art. 59, 60 e 61 citato ord. penit.). I principi direttivi e le condizioni generali contenuti nell'ordinamento peni tenziario includono nella dizione « detenuti » sia imputati che

condannati. Norme giuridiche e norme amministrative che, sul

piano reale, dal punto di vista dell'imputato, giungono a pareg

giare custodia preventiva ed esecuzione della pena per condanna

definitiva, lasciando nel campo della pura teoria la differenza

sotto il profilo del diritto penale materiale e del diritto processua le. Ciò posto, vista la carcerazione preventiva, quale sofferenza

subita in anticipazione dall'imputato, al pari della pena da espiare

dopo la condanna definitiva, appare conseguente l'affermazione

che l'art. 11 in questione viola il principio stabilito dall'art. 25, 2°

comma, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine previa lege

penali), norma che, peraltro, non distingue tra disciplina sostanzia

le e disciplina processuale. Art. 27, 2° comma, Cost. — L'imputato non è considerato

colpevole sino alla condanna definitiva. Detto principio di non

colpevolezza, di cui all'art. 27 Cost., postula l'esigenza che ogni restrizione della libertà personale non fondata sulla pena, da

eseguire per condanna definitiva, urta contro il dettato costituzio

nale.

Si afferma, tuttavia, che il periculum libertatis può incidere

contemporaneamente sia sul processo (pericolo dell'inquinamento della prova) sia sulla sicurezza sociale (pericolo che l'imputato lasciato in libertà commetta altri reati): necessità di cautela, e

per il processo e per la collettività, che giustificano il sacrifìcio della libertà dell'imputato, con preventiva indicazione dei limiti massimi di custodia preventiva.

Può obiettarsi che l'inquinamento delle prove potrebbe inqua drarsi nel diritto di difesa (nemo tenetur se detegere) e che la tutela della collettività meglio sarebbe raggiunta dalla prevenzione generale (anziché speciale) della criminalità.

Ma, pur riconoscendo la sussistenza dei « pericoli » sopra indicati, il conseguente restringimento della libertà personale deve trovare attuazione in modo che la durezza della privazione in danno dell'imputato sia quanto meno temperata da normativa che rechi propensione per l'imputato detenuto, presunto innocente.

Preventiva indicazione dei limiti massimi di carcerazione preven tiva e non modificabilità di tali limiti, in danno dell'imputato nel

corso della carcerazione, appaiono i rimedi che assicurano il minimo mitigamento della sofferenza imposta al giudicabile, dete nuto per misure cautelari. Il prolungamento dei termini massimi

stabilito nel corso della carcerazione preventiva compromette

pesantemente detto temperamento e riaccende il contrasto con il

dettato costituzionale della presunzione di non colpevolezza. La conoscenza preventiva della massima durata della custodia

preventiva, in altre parole, non accompagnata dall'intangibilità dei termini nel corso della carcerazione, porta a squilibrio troppo oneroso per l'imputato, scoprendo manifesta violazione dell'art.

27, 2° comma, Cost.

Ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del citato art. 11, come proposta dalla

difesa, questa corte ritiene, d'ufficio, rilevante e non manifesta mente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 della citata legge n. 15/1980 per contrasto con gli art. 13, 2°

e 5° comma, 27, 2° comma, Cost.

Art. 13, 1°, 2° e 5° comma, 27, 2° comma, Cost. — La que stione si pone in relazione ai termini come prolungati dall'art.

10 citato, prospettandosi non infondato il dubbio che la legge n.

15/80 abbia travalicato quei ragionevoli limiti senza l'osservanza dei quali la legge si pone in contrasto con il principio costituzio

nale della presunzione di non colpevolezza dell'imputato, va

nificando il controllo che la Costituzione demanda alla legge di

operare (secondo ragione) circa i limiti massimi della carcerazione

preventiva. I criteri dettati dalla Convenzione europea per la salvaguardia

dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali sono stati recepi ti dal nostro ordinamento con legge 4 agosto 1955 n. 848.

L'art. 5, par. 3, della Convenzione prescrive che ogni persona arrestata o detenuta deve essere tradotta al più presto davanti al

giudice e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragione vole (dans un délai raisonnable). Secondo i responsi della Commis

sione europea dei diritti dell'uomo (22 marzo 1958, Ann. II pp.

211-213, n. 297; 8 gennaio 1959, Ann. II p. 347, n. 222; 4 gennaio

1960, Ann. Ili p. 185, n. 530) il carattere «ragionevole» o

« irragionevole » del periodo di tempo che intercorre fra l'arresto

e il giudizio viene valutato non in abstracto, ma in base ai dati

concreti, quali la complessità del procedimento e le iniziative

processuali assunte dal detenuto (quest'ultimo caso è fuori del

nostro sistema processuale penale). Con il prolungamento dei

termini di custodia preventiva, e tenendo conto di tutte le fasi e

di tutti i gradi del procedimento, dall'istruttoria al giudizio di

cassazione, la carcerazione preventiva per i reati più gravi può

protrarsi per il periodo di dieci anni e otto mesi, e cioè per un

arco di tempo che presenta pesantissima estensione, al di là delle

previsioni della Carta europea. Ma, soprattutto, la fase che mag

giormente mette in evidenza il contrasto dell'art. 10 citato con

l'art. 27, 2° comma, Cost., è quella relativa agli atti preliminari al

giudizio e al giudizio di primo grado, ovvero dal deposito dell'ordinanza di rinvio a giudizio alla sentenza di condanna di

primo grado. Se, invero, l'istruttoria per i più gravi reati richiede tempi

normalmente maggiori di espletamento, e se la condanna in grado

d'appello riduce l'area di presunzione di innocenza, l'intervallo

intercorrente tra la chiusura dell'istruzione e il processo di primo

grado è « tempo morto », in cui non si svolgono attività proces suali. Le carte processuali rimangono giacenti in attesa di passare sui banchi del primo giudice dibattimentale, e il periodo di due

anni e otto mesi — per i reati più gravi — pur considerando la

durata del dibattimento, rimane intervallo di attesa, non giu stificabile per l'attività processuale prevista né per intervenute

affermazioni di responsabilità da parte del giudice dibattimentale.

A meno che non si voglia rinvenire giustificazione nella crisi di

efficienza dell'amministrazione della giustizia, che ha — tra l'altro — per conseguenza l'affollamento dei ruoli di udienza per carenza

di organici e l'impossibilità di addivenire a tempestive (« ragio nevoli ») fissazioni dei processi per il dibattimento. Ma tutto ciò

completamente esula dal sistema che parrebbe adottato dal vigen te ordinamento normativo, e cioè in correlazione alle varie fasi e

gradi del procedimento, tenuto conto delle esigenze istruttorie e del restringimento dell'area di presunzione di non colpevolezza per l'intervento d'una prima condanna.

Appare, dalle svolte considerazioni, che i termini massimi di carcerazione preventiva attualmente veglianti, specie per i reati

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GIURISPRUDENZA PENALE

più gravi, non adeguano, in modo rigoroso e coerente, la discipli na processuale della libertà personale dell'imputato ai principi costituzionali (art. 13, 1°, 2° e 5° comma, 27, 2° comma), trascurando le indicazioni della citata Convenzione europea.

Il ritorno ai termini massimi veglianti antecedentemente all'en trata in vigore del d. 1. 15 dicembre 1979 n. 625, riporterebbe, quindi, la normativa concernente la custodia preventiva entro limiti consoni agli indicati precetti della Costituzione, prevalenti sulle esigenze processualistiche e sulle ragioni di controllo e di difesa sociale.

Per questi motivi, ecc.

TRIBUNALE DI PERUGIA; sentenza 18 febbraio 1981; Giud. istr. Miriano; imp. Intraligi ed altri.

TRIBUNALE DI PERUGIA;

Stupefacenti e sostanze psicotrope — Coltivazione di modica

quantità — Reato — Insussistenza (Legge 22 dicembre 1975 n. 685, disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope; pre venzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodi

pendenza, art. 28, 71, 80).

Non costituisce reato la coltivazione di modiche quantità di

canapa indiana per uso personale non terapeutico. (1)

(1) Non constano precedenti editi sulla questione specifica. In tema di coltivazione di cannabis indica, Trib. Oristano 4 febbraio

1981, imp. Casu + altri 3, inedita, ha assolto i coltivatori, con la formula perché il fatto non sussiste, basandosi su considerazioni strettamente scientifiche: la perizia effettuata sulle piantine di canapa sequestrata aveva, infatti, rilevato un valore del THC pari a 0,8, e quindi senza poteri stupefacenti (dato che per avere poteri stupefacenti il THC, o tetraidrocannabinolo deve avere un valore minimo pari ad 1; v. Mari, Tossicologia clinica e forense, 1980).

Nel senso che non è manifestamente infondata, in riferimento all'art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli art. 26 e 28 legge 22 dicembre 1975 n. 685, i quali vietano la coltivazione di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti o psicotrope, sanzionandola con pena corrispondente a quella prevista per la fabbri cazione illecita delle sostanze, e senza quindi discriminare l'ipotesi della coltivazione di poche piante per uso personale (analogamente a quanto previsto per la detenzione), con conseguente disparità di trattamento tra coltivatore e detentori (nel raffronto con gli art. 71, 72 ed 80) v. Trib. Catania 3 dicembre 1979, Foro it., Rep. 1980, voce Stupefacenti, n. 43.

La sentenza in epigrafe prende in considerazione un aspetto partico lare che la legge 685/1975 trascura: l'applicazione della causa di non punibilità prevista dall'art. 80 nel caso di produzione di sostanze stupefacenti in modica quantità e per uso personale non terapeutico (sulla nozione di modica quantità e sua individuazione v. da ultimo, tra le tante, Cass. 10 maggio 1979, Paini, ibid., n. 39; 27 giugno 1979, Fortunato, ibid., n. 37; 18 aprile 1979, De Pastas, ibid., n. 40; 11 aprile 1979, Oberti, ibid., n. 33; 18 dicembre 1978, Santarosa, id., Rep. 1979, voce cit., n. 16; 6 dicembre 1978, Gullo, ibid., n. 18; 23 maggio 1978, Sandri, ibid., n. 27; Trib. Viterbo 16 febbraio 1979, ibid., n. 38; Trib. Venezia 6 giugno 1978, ibid., n. 41: Cass. 8 novembre 1978, Perilli, ibid., n. 20; 30 marzo 1978, Ercolani, ibid., n. 28; Trib. Roma 28 maggio 1979, id., 1980, II, 265, con nota di richiami). In questo senso cfr. la proposta di legge n. 2175 (presentata il 9 dicembre 1980) di iniziativa di Rodotà, Francese Angela e Crucianelli, VIII legislatura, la quale per quanto riguarda la canapa indiana ed i suoi derivati ne propone il monopolio di Stato e la possibilità di una limitata coltiva zione-produzione per uso personale fino ad una quantità massima determinata da una commissione di nomina ministeriale, offrendo cosi l'opportunità al consumatore di droghe leggere di sottrarsi al mercato nero degli stupefacenti. Cfr. ancora la proposta n. 1982 (presentata il 28 agosto 1980) di iniziativa di Tagliabue ed altri, Vili legislatura, che, opponendosi alla liberalizzazione del mercato della cannabis indica o all'intervento statale che lo regoli, per evitare che l'Italia divenga un centro internazionale di consumo e di commercio, e che l'uso legalizza to della sostanza arrivi ai livelli dell'alcool e del tabacco, propone, ferma restando la non punibilità di chi detiene modiche quantità di droga, di studiare una soluzione analoga per chi coltiva piantine di canapa indiana.

A sei anni dall'entrata in vigore della legge n. 685, le continue applicazioni alle quali è stata sottoposta, hanno messo in luce alcune sue lacune o contraddizioni tali da giustificare l'intervento del legislato re quantomeno su due punti fondamentali:

a) stabilire una figura autonoma di reato che sanzioni la condotta di chi detiene quantità non modiche di stupefacenti per uso personale non terapeutico che commini una pena diversa e più lieve rispetto a quella prevista dall'art. 71; infatti nel sistema attuale il giudice si trova conteso dall'alternativa di formulare un giudizio di modicità ex art. 80 e prosciogliere, o condannare il detentore ai sensi dell'art. 71 con pene che sicuramente contrastano con i criteri ed i principi ai quali la legge si era ispirata, cioè di diversificare sotto tutti gli aspetti il drogato dallo spacciatore. A tale proposito è stata sollevata la questione di costituzionalità dell'art. 71, 1° e 4° comma, la quale non è apparsa manifestamente infondata in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui equipara ai fini della pena l'attività del detentore di non modiche

quantità di stupefacenti per uso personale con quella del detentore

Il Giudice istruttore, ecc. — Visti gli atti del procedimento

penale, pendente in sommaria istruzione, contro Intraligi Marco ed altri, come in rubrica imputati. Viste le richieste del p. m. di

proscioglimento dello Stronati, Ranaldi, Branzi e Simonetti per

delle medesime quantità a fine di spaccio (Trib. Macerata, ord. 14 dicembre 1979, Foro it., 1980, II, 532, con nota di richiami). Altre volte si è preferito, anche in presenza di rilevanti quantitativi di stupefacenti, dichiarare la non punibilità ai sensi dell'art. 80, stravol gendo cosi il concetto di «modico»: tra le altre v. App. Torino 8 ottobre 1976, id., 1977, II, 300, che ha considerato tale un quantitativo di 160 grammi di marihuana;

b) per i motivi suesposti il legislatore dovrebbe indicare un criterio

per determinare con sicurezza quale quantitativo sia da considerare modico o perlomeno qual'è la dose massima che si può detenere, cosi come è indicato all'art. 43, ove si fa divieto al medico di prescrivere dosi in quantità superiore a quelle necessarie per una cura della durata di otto giorni.

Per la determinazione del concetto di modico, cfr. la proposta di

legge Zanone-Altissimo, n. 2140, VIII legislatura (presentata il 26 novembre 1980) ed il disegno di legge Malagodi-Fassino, n. 1191, VIII

legislatura (comunicato il 27 novembre 1980) che all'art. 1 dichiara non punibile chi detiene o acquista sostanze stupefacenti che non eccedano le quattro dosi massime giornaliere, e demanda ad un successivo decreto del ministero della sanità lo stabilire quale sia la dose massima giornaliera assumibile delle varie sostanze stupefacenti; ugualmente cfr. la proposta di legge di Tagliabue ed altri, cit., ove, sub art. 28; «... il ministro della sanità indica con proprio decreto la

quantità di sostanza stupefacente o psicotropa che in base alle ricerche o alle acquisizioni dell'Istituto superiore di sanità risultano mediamente assunte dal soggetto tossicomane nel corso di una settimana . .. »; cosi la proposta di legge (presentata il 26 settembre 1980) d'iniziativa di

Seppia e altri, n. 2030, VIII legislatura, stabilisce il limite massimo di

quantità non punibile in grammi 10 di canapa indiana, mentre per quan tità maggiori sono previste delle multe. Sempre in tema di modica quan tità di sostanze stupefacenti, secondo Fortuna, Rilievi critici sulla nuova

legge sulla droga, in Giur. merito, 1976, IV, 149 ss., vi sarebbero due diverse accezioni di modicità; una più ristretta (art. 80), ed una più ampia (art. 72); mentre nei casi previsti dall'art. 80 il punto di riferimento per determinare il concetto di modico è dato oltre che dalla quantità, dalle esigenze viziose del consumatore; in riferimento all'art. 72, essendo la sostanza stupefacente destinata allo spaccio, sono da ritenersi modiche quantità quelle che per valore di mercato sono in

grado di assicurare allo spacciatore nell'unità temporale giornaliera i mezzi di sostentamento per sé e per la famiglia.

In senso analogo cfr. anche Palazzo, Note sulla detenzione di sostanze stupefacenti per uso personale non terapeutico, in Riv. dir.

proc. pen., 1976, 216; Sellaroli, Irrazionalità vecchie e nuove nella

disciplina della detenzione di stupefacenti per uso personale, in Giur.

it., 1977, II, 192; Lorè-Stiaccini, Sulle quantità, modiche e non, degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope, in Giust. pen., 1977, I, 190;

Giordano, Le nozioni di « uso personale » e di « modiche quantità »

nella nuova normativa sugli stupefacenti, id., 1980, II, 672; la proposta di legge n. 1852 (presentata il 3 luglio 1980), di iniziativa di Cirino ed

altri, Vili legislatura, p. 7 ss. della relazione introduttiva; ed in

giurisprudenza da ultimo v. Trib. Napoli 14 ottobre 1978, Foro it.,

Rep. 1980, voce cit., n. 45, e in Giust. pen., 1980, II, 186, con nota di

Talia. Si è replicato, al contrario, che la norma prevista dall'art. 72 ha

come scopo quello di sanzionare la condotta di chi detiene modiche

quantità non per uso personale ma a fine di commercio: il criterio di

determinazione della quantità è lo stesso che all'art. 80, cambia

solamente il fine che si propone il detentore: se la droga è destinata

ad uso personale non è punibile, se è destinata all'uso di terzi è

applicabile la pena prevista dall'art. 72, poiché se il legislatore avesse voluto formulare diversi concetti di modicità agli art. 80 e 72 non

avrebbe usato gli stessi termini in entrambi gli articoli di legge. In

questo senso cfr. Passacantando, Note critiche sulla nuova legge in

materia di sostanze stupefacenti, in Giust. pen., 1978, II, 184; Di

Gennaro, La droga, Milano; ed in giurisprudenza da ultimo v. Cass. 10

maggio 1979, Paini, cit. In tema di determinazione di modica quantità di sostanze stupefa

centi, oltre alla dottrina già citata v. Colacci, Brevi appunti sulla

detenzione abusiva di stupefacenti, in Riv. cancelliere, 1977, 118;

Giusti, Sica, Gli stupefacenti e le tossicomanie, Padova, 1979, 173 ss.;

Manera, Sul concetto di « quantità modica » di stupefacenti nella

legge n. 625 del 1975 (nota a Trib. Napoli 4 maggio 1976, Foro it., Rep.

1978, voce cit., n. 48), in Giust. pen., 1978, II, 239; Flick, Droga e

legge penale, Milano, 1979. In dottrina, più in generale, v., da ultimo, Ricciotti, Gli stupe

facenti, Padova, 1981. Per riferimenti, in tema di agevolazione dolosa all'uso di sostanze

stupefacenti v. Cass. 18 aprile 1977, Conversi, Trib. Milano 13 marzo

1978, Foro it., 1979, II, 131, con nota di richiami. Sulla natura di « reati di pericolo » dei delitti concernenti l'acquisto,

la detenzione e la vendita delle c.d. droghe leggere cfr. Trib. Roma 23

aprile 1980, id., 1980, II, 451, con nota di richiami. In tema di uso di gruppo di stupefacenti v. Trib. Firenze 6

novembre 1978, id., 1979, II, 385, con nota di richiami. Sulla inammissibilità della richiesta di referendum abrogativo parzia

le della legge n. 685/1975, v. Corte cost. 13 febbraio 1981, n. 30, id., 1981, I, 917, con nota di richiami e osservazioni di Pizzorusso.

M. ClARDULLO

Il Foro Italiano — 1981 — Parte 11-33.

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