ordinanza 21 gennaio 1981; Pres. Campennì, Rel. Marziale; Rippa (Avv. Pomponi) c. I.r.i. (Avv.Savarese, Greco) e R.a.i.-TV (Avv. Geremia, Zoccali, R. Esposito, Nicolò)Source: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 4 (APRILE 1981), pp. 1185/1186-1189/1190Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23172873 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
della richiesta condanna è necessario presupposto: l'accertamento, cioè, della ricorrenza delle condizioni volute dalla legge per la revoca del pagamento. Tale accertamento sicuramente può costi tuire l'oggetto — ove la parte lo richieda — di un'espressa declaratoria di revoca del pagamento, che nel dispositivo della sentenza preceda la formula di condanna (ciò che nella pratica frequentemente avviene); ma tale formale declaratoria non costi tuisce affatto il necessario presupposto processuale della pronunzia di condanna, che può benissimo invece essere emessa sulla sola base di un accertamento incidentale delle circostanze che ne
costituiscono il presupposto logico-giuridico. È quanto di fatto
avviene nella prassi giudiziaria di ogni giorno, in cui normalmente
si emettono, nella forma del decreto ingiuntivo, pronunzie di
condanna che trovano il loro necessario presupposto in fatti e atti
giuridici che il presidente, per l'appunto, accerta ai fini di
legittimare la decisione. Si pensi al caso più frequente, dell'accer
tamento della inadempienza contrattuale per giustificare un'ingiun zione di pagamento del prezzo; ed a quelli, più complessi, dell'accertamento della risoluzione di diritto di un contratto per
giustificare l'ingiunzione di pagamento della relativa penale; o
dell'accertamento dell'inesistenza del debito fiscale, per giustificare
l'ingiunzione diretta a ottenere la restituzione di quanto indebita
mente pagato; o ancora dell'accertamento dell'esecuzione della
controprestazione, nei casi previsti dal 2° comma dell'art. 633. In
conclusione e in termini generali: se è vero che il dispositivo di
una pronunzia di condanna ben può limitarsi a contenere la
condanna stessa, dando per accertate le circostanze che ne costi'
tuiscono il presupposto, non si vede allora perché lo stesso
principio non debba applicarsi all'azione revocatoria fallimentare
di pagamenti, che è anch'essa azione essenzialmente diretta a
conseguire una pronunzia di condanna. E se ciò è esatto, non si
vede allora perché, per tale azione, non debba ammettersi il
ricorso alla procedura monitoria.
4) Un'obiezione più seria, che potrebbe muoversi contro la tesi
qui sostenuta, è quella riguardante la natura della pronunzia di
revoca: se si'ritenesse infatti che la sentenza di revoca sia di na
tura costitutiva, ci si dovrebbe allora dare carico dell'insegnamen
to, unanime in dottrina, per cui non è ammessa la procedura mo
nitoria per l'esercizio di azioni tendenti a pronunzie costitutive.
Sembra tuttavia ragionevole dubitare, allo stato attuale dell'evolu
zione giurisprudenziale, della reale rilevanza di entrambe le
affermazioni.
Anzitutto, se è vero che non può ottenersi per via monitoria
una pronunzia avente efficacia costitutiva (perché l'art. 633 ov
viamente non lo prevede), sembra lecito chiedersi se non possa
ottenersi, per la stessa via, una pronunzia di condanna al paga mento di somme il cui presupposto logico non comporti una
qualche efficacia costitutiva. E la risposta su questo punto è già stata data dalla giurisprudenza in senso positivo, là dove (forse senza pienamente avvertire tutta la portata della affermazione) si
è pacificamente ammessa l'ingiunzione di pagamento dell'intero
debito, ancorché questo fosse stato dilazionato mediante rilascio
di cambiali in parte ancora non scadute, nel presupposto della
decadenza del debitore dal beneficio del' termine.
È difficile negare la natura costitutiva di una declaratoria, sia
pure incidentale, di decadenza del debitore dal beneficio del
termine, se si ammette, come è necessario, che sono sentenze
costitutive quelle che costituiscono, modificano, od estinguono
rapporti giuridici (art. 2908): è infatti indubbio che, nell'esempio
citato, il decreto ingiuntivo abbia per suo presupposto il porre nel
nulla le scadenze pattiziamente apposte dalle parti sui titoli.
Pertanto, a meno che non si voglia rovesciare un indirizzo
giurisprudenziale ormai consolidato, si dovrà ammettere, in sede
monitoria, in qualche misura la possibilità di pronunzie costituti
ve, incidentali ed implicite rispetto a quella di condanna.
5) Ugualmente pare lecito dubitare della natura costitutiva della
sentenza di revoca fallimentare del pagamento. La revoca lascia
del tutto inalterato il negozio avvenuto fra il fallito e il terzo,
limitandosi a dichiararne l'inefficacia nei confronti della massa
creditoria.
Non sembra dunque che tale sentenza costituisca, modifichi od
estingua alcun rapporto; la sua efficacia è dichiarativa secondo
un indirizzo che pare prevalente e persuasivo. Gli effetti discen
dono direttamente dalla legge sol che sussistano i presupposti
(cronologia dell'atto, stato di insolvenza peraltro presunto, cono
scenza pure presunta salvo solo prova contraria, ecc.).
Nessuno del resto dubiterebbe della ammissibilità del procedi
mento monitorio per quei casi di revoca in cui, pur ferma la
natura dichiarativa della sentenza, gli accertamenti sono quantita
tivamente e qualitativamente « minori » (ma si è detto come ciò
non abbia rilevanza) come per la revoca degli atti a titolo
gratuito.
Del resto si consideri come, per consolidato insegnamento, la sentenza di revoca fallimentare ha efficacia ex nunc, mentre la sentenza costitutiva tipica, ove la legge non disponga diversamen
te, ha efficacia ex nunc. E ancora si consideri come tutti quegli effetti giuridico-pratici, come la restituzione, il recupero, l'eventua le recupero del tantundem, siano meramente corollari di una de cisione che non diventa costitutiva solo a causa di questa com
plessa e materiale effettuologia. Non sembra quindi si frappongano ostacoli insuperabili, se non
per la novità e per la eccezionalità del caso giudiziario dovute forse unicamente ad una prassi diversa, per ammettere la proce dura monitoria per la domanda di revoca fallimentare.
Per questi motivi, ecc.
TRIBUNALE DI ROMA; ordinanza 21 gennaio 1981; Pres.
Campennì, Rei. Marziale; Rippa (Avv. Pomponi) c. I.r.i. (Avv. Savarese, Greco) e R.a.i.-TV (Avv. Geremia, Zoccali, R.
Esposito, Nicolò).
TRIBUNALE DI ROMA;
Radiotelevisione — Azioni della R.a.i.-TV — Trasferimento di diritto all'I.r.i. — Indennizzo secondo l'ultimo bilancio appro vato — Questione non manifestamente infondata di costituzio nalità (Cost., art. 3, 42; legge 14 aprile 1975 n. 103, nuove nor me in materia di diffusione radiofonica e televisiva, art. 47).
Non è manifestamente infondata (e se ne rimette quindi l'esame alla Corte costituzionale) la questione di costituzionalità dell'art.
47, 2° comma, legge 14 aprile 1975 n. 103, nella parte in cui
dispone che l'indennizzo per il trasferimento di diritto all'I.r.i. delle azioni della società concessionaria dei pubblici servizi di ra
diodiffusione circolare appartenenti a privati non aventi titolo ai
sensi dell'art. 3 stessa legge, è corrisposto secondo il valore
risultante dall'ultimo bilancio approvato alla data di pubblica zione della legge medesima, in riferimento agli art. 3, 1°
comma, e 42, 3" comma, Cost. (1)
Il Tribunale, ecc. — 1. - L'art. 47 legge 14 aprile 1975 n. 103
recante nuove norme in materia di diffusione radiofonica e
televisiva cosi dispone: « Le azioni della società concessionaria
dei pubblici servizi di radiodiffusione circolare appartenenti a
soggetti privati... sono trasferite di diritto all'Istituto per la
ricostruzione industriale con effetto dal 1° dicembre 1974. 11 relativo indennizzo è corrisposto agli aventi diritto secondo il
valore risultante dall'ultimo bilancio approvato alla data di pub blicazione della presente legge ».
(1) Non constano precedenti editi in termini. Sul principio della chiarezza e della precisione del bilancio cfr.,
tra le altre, da ultimo Cass. 9 febbraio 1979, n. 906, Foro it., 1980, I, 1121, con nota di richiami di G. Marziale. In dottrina, da ultimo, sulla rappresentatività del bilancio sociale cfr. Jaeger, Il bilancio d'esercizio delle società per azioni. Problemi giuridici, Milano, 1980; Libonati, Bilancio delle società, voce del Novissimo digesto, ap pendice, 1979.
La motivazione dell'ord. del Tribunale di Roma evoca, oltre il bilancio comunemente denominato « ordinario », gli altri bilanci « re
datti in particolari momenti della vita sociale »: sul bilancio della
S.i.p. che tanto interessa o ha interessato le cronache — a tal pro posito cfr., per un aggiornamento sulle travagliate vicende conseguenti alla determinazione delle tariffe telefoniche, Cons. Stato, Sez. V, 13 febbraio 1981, n. 40, in questo fascicolo, III, 209, con nota di richiami — cfr. Trib. Roma 29 marzo 1980, Foro it., 1980, II, 326, con nota di richiami di G. Marziale, secondo cui integra gli estremi deL reato di false comunicazioni sociali, di cui all'art. 2621, n. 1, cod. civ., la fraudolenta esposizione di dati non veritieri nel bilancio
tipo predisposto da un'impresa concessionaria di un pubblico servizio
telefonico al fine di ottenere l'adeguamento delle tariffe e dei canoni
per i servizi previsti dalla concessione: tale documento, infatti, pur differenziandosi dal bilancio di esercizio, non costituisce un bilancio
ideale sganciato da qualsiasi riferimento alla situazione concreta della
società (sì da doversi considerare un'astratta ipotesi di studio) ma è
invece riferito, anche se a livello di previsione, all'andamento della
gestione delia società. In tema di indennizzo cfr., con riferimento ai vincoli urbanistici,
Corte cost. 30 gennaio 1980, n. 5, id., 1980, I, 274, con nota di
C. M. Barone, e a col. 605, con nota di U. Morello, e annotata
da vari autori ricordati nella nota di richiami ad App. Roma, ord.
1° dicembre 1980, id., 1981, I, 258, che ha rimesso alla corte la
questione di costituzionalità degli art. 1, 2 e 3 legge 29 luglio 1980
n. 385, emanata a seguito della sent. n. 5,/1980; e, da ultimo, Corte
cost. 10 febbraio 1981, n. 15, in questo fascicolo, I, 942, con nota
di Bellantuono, L'indennizzo del coltivatore estromesso per soprav
venuta edificabilità del fondo: una decisione interlocutoria della Corte
costituzionale?
Il Foro Italiano — 1981 — Parte /-76.
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PARTE PRIMA 1188
L'attore (cui era stato offerto dall'I.r.i., per le n. 162.689 azioni delle quali era titolare, un indennizzo di lire 94.216.941, calcolato su di un valore unitario per azione di lire 579.123, di poco superiore a quello nominale) prospetta il dubbio che la norma
sopra indicata sia in contrasto con gli art. 3, 42 e 43 Cost., sotto il
duplice profilo che i criteri in essa stabiliti condurrebbero alla determinazione di un indennizzo irrisorio (come tale non rispon dente ai principi sanciti dagli art. 42, 3° comma, e 43 Cost.) e
determinerebbero, di conseguenza, una ingiustificata discrimina zione in danno dei soggetti privati da essa contemplati, con violazione del principio di eguaglianza.
2. - La formulazione dell'art. 47 legge 14 aprile 1975 n. 103 è
tale, ad avviso del collegio, da giustificare più di un dubbio in ordine alla sua conformità ai principi della Carta costituzionale, anche se per ragioni non in tutto coincidenti con quelle prospet tate dalla difesa dell'attore.
Circa la rilevanza di tali dubbi ai fini del decidere è sufficiente osservare che essi investono i criteri che sono stati seguiti per la determinazione dell'indennizzo delle cui congruità e legittimità si
controverte nel presente giudizio. Più complesso discorso richiede l'indagine relativa alla non
manifesta infondatezza, anche se il relativo esame va contenuto in
questa sede entro i limiti di una prima, sommaria delibazione, essendo riservata ogni più approfondita verifica circa l'effettiva sussistenza delle ragioni di incostituzionalità alla cognizione della Corte costituzionale.
3. - Per il secondo comma della norma in questione l'indennizzo va corrisposto secondo il valore risultante dall'ultimo bilancio ap provato alla data di pubblicazione della legge (17 aprile 1975).
A quella data l'ultimo bilancio approvato dai soci era quello relativo all'esercizio chiuso al 31 dicembre 1973 ed è pertanto evidente, nonostante l'indeterminatezza della formula adottata (non si precisa infatti di quale bilancio si tratti), che il legislatore abbia inteso riferirsi ai valori risultanti dal bilancio di esercizio, Questo è certamente il più importante ma non è l'unico « bilan cio » preso in considerazione dalla normativa in tema di società: infatti, accanto ad esso, che viene comunemente denominato « ordinario » se ne redigono, in particolari momenti della vita sociale, altri come, ad esempio, quello finale di liquidazione (art. 2453 cod. civ.), quello di fusione (art. 2502, 2° comma, cod. civ.), quello di rilevazione delle perdite ai fini della riduzione del
capitale (art. 2446, 1° comma, cod. civ.), tanto per citare i più significativi.
4. - Per tutti i bilanci vale il principio che essi debbano essere veritieri e tale principio è espressamente sancito per quello di esercizio dall'art. 2423, 2° comma, cod. civ., il quale dispone che da esso « devono risultare con chiarezza e precisione la situazio ne patrimoniale della società e gli utili conseguiti o le perdite sofferte ».
Senonché, come è stato ormai definitivamente chiarito, la no zione di verità del bilancio è una nozione relativa, strettamente condizionata alla funzione che il bilancio stesso è destinato ad assolvere.
Per quello di esercizio questa consiste nell'esigenza di accertare l'entità degli utili distribuibili, senza però che sia intaccata la
garanzia per i creditori sociali (rappresentata dall'esistenza, nel
patrimonio sociale, di attività corrispondenti almeno all'ammanta re del capitale e delle riserve indisponibili) e senza che sia
compromessa la redditività dell'impresa. Ciò spiega perché il legislatore si sia preoccupato di stabilire
dei limiti massimi di valutazione non superabili, salvo che in casi eccezionali (« prezzo di costo » per le immobilizzazioni e per i beni immateriali: nn. 1 e 3 dell'art. 2425 cod. civ.; « minor
prezzo tra quello di acquisto o di costo e quello desunto dall'an damento del mercato alla chiusura dell'esercizio » per le materie
prime e le merci: n. 2 dello stesso articolo) e non pure dei limiti
minimi; perché anche la valutazione, già cosi prudenzialmente calcolata (prezzo di costo) degli immobili, debba essere ridotta
per ogni esercizio, in proporzione del loro deperimento e del consumo per la quota corrispondente all'esercizio stesso, mediante
l'iscrizione, al passivo, di un fondo di ammortamento; perché, infine, in detto bilancio non trovino espressione componenti pa trimoniali che pure esplicano nell'organizzazione interna dell'a zienda un rilievo decisivo sia per la produzione dell'utile che per il conseguimento dell'oggetto sociale (ad esempio concessioni am
ministrative, segreti industriali, brevetti ottenuti senza esborso di somme: art. 2425, n. 3, cod. civ.) ovvero entità che possono avere anche un notevole valore economico come l'avviamento, quando non sia stata pagata una somma a tale titolo nell'acquisto dell'a zienda cui si riferisce (art. 2427 cod. civile).
I limiti apportati da tali disposizioni al principio della verità di bilancio di esercizio, sancito nell'art. 2423 cod. civ., sono tali e
tanti da alterare — come è stato opportunamente sottolineato —
la portata del principio stesso.
L'espressione « situazione patrimoniale » adoperata nell'art.
2423, 2° comma, cod. civ. viene cosi' ad assumere un significato convenzionale che non si identifica con la nozione di patrimonio in senso giuridico e nemmeno con quella di patrimonio in senso
economico. E ciò porta a ritenere che quello risultante dal bilancio di esercizio non sia l'effettivo valore del patrimonio sociale ma la somma netta dei valori imposti dalla legge ai vari beni che lo compongono (e neppure a tutti, come si è visto) in
base a criteri meramente formali e prudenziali, al fine precipuo di
evitare che la distribuzione degli utili a chiusura dell'esercizio si
risolva in una lesione di quei valori (capitali e riserve) che debbono rimanere a garanzia dei creditori sociali.
5. - Se questo è il significato delle valutazioni espresse dal
bilancio di esercizio può essere legittimo il dubbio che il riferi
mento a tale documento contabile, ai fini della determinazione
dell'indennizzo da corrispondere per il trasferimento coattivo
all'I.r.i. delle azioni della R.a.i. appartenenti a soggetti privati, non sia razionalmente giustificato e sia quindi lesivo del principio di eguaglianza formale sancito nell'art. 3, 1° comma, Cost.
Come noto, detto principio ha assunto ormai il ruolo di una
clausola generale, che consente di esplicare un controllo molto
penetrante sulla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti
aventi forza di legge, verificando non solo che essi non operino discriminazioni vietate dalla disposizione in esame (e, cioè, « di
stinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche, di condizioni personali e sociali ») ma anche la ragione volezza della normativa dettata, ragionevolezza da controllare non
solo alla stregua della logica interna della normativa stessa (che vieta al legislatore di differenziare e di equiparare situazioni che
egli ha in altra occasione ritenuto equivalenti o, all'opposto,
diverse, sempreché, beninteso, non esistano ragioni apprezzabili che possano, caso per caso, giustificare la differenziazione o la
equiparazione sulle singole ipotesi) ma anche ab externo, valutan
do concretamente l'adeguatezza dei motivi che hanno indotto il
legislatore ordinario a differenziare (o ad equiparare) la disciplina di determinate situazioni.
Orbene, se è indubbio che l'indennizzo da corrispondere al
l'espropriato non deve costituire necessariamente una integrale riparazione per la perdita subita, rappresentando il massimo di
contributo e di riparazione che nell'ambito degli scopi di generale interesse la pubblica amministrazione può garantire all'interesse
privato (Corte cost. n. 61 del 1957, Foro it., 1957, I, 941), è
altrettanto certo che la sua misura deve essere riferita al valore del bene determinato dalle sue caratteristiche essenziali e dalla sua destinazione economica, poiché solo in tal modo l'indennità
può costituire un « serio » ristoro per l'espropriato (Corte cost. n. 5 del 1980, id., 1980, I, 273).
6. - Le valutazioni espresse nel bilancio di esercizio, per quanto si è detto, sono finalizzate non già alla rilevazione della reale consistenza del patrimonio sociale ma al ben diverso scopo di evitare la distribuzione di utili che potrebbero compromettere la redditività dell'impresa e l'integrità del capitale sociale. Appare pertanto evidente che esse non sono idonee ad esprimere l'effetti vo valore del bene espropriato e, quindi, a fungere da presuppo sto per il calcolo della indennità di espropriazione.
Di qui il dubbio che la norma in esame, la quale fa invece a tali valutazioni esclusivo riferimento equiparando cosi situazioni che sono tra loro notevolmente diverse, sia priva di ragionevole giustificazione e sia, conseguentemente, costituzionalmente illegit tima.
Non varrebbe osservare in contrario che, in fondo, l'art. 47
legge 14 aprile 1975 n. 103 si richiama ai criteri stabiliti in via
generale dall'art. 2437 per la determinazione della quota del socio recedente alla società per azioni. Sono note, infatti, le critiche mosse dalla dottrina a tale disposizione di indubbio sfavore per il
recedente, che ha portato alla pratica disapplicazione dell'istituto del recesso nelle società di capitali, tanto che in sede di riforma
(progetto De Gregorio, art. 21) è stata prospettata l'opportunità di fare ricorso al criterio, indubbiamente più equo, del valore netto effettivo del patrimonio sociale.
7. - Le considerazioni che precedono inducono a dubitare, altresì, della conformità della norma in esame ai principi sanciti dall'art. 42, 3° comma, Cost, per quanto concerne la determinazione della indennità di esproprio.
Se, invero, nel bilancio di esercizio anche gli immobili debbono essere valutati al prezzo di costo (il quale, per giunta, deve essere ridotto in ogni esercizio in proporzione del loro deperimento e del loro consumo mediante l'iscrizione al passivo di una quota di ammortamento) e se, come si è già posto in rilievo, non tutte le entità suscettibili di valutazione economica possono in esso trova
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
re espressione, non è arbitrario supporre che un indennizzo
commisurato alle valutazioni risultanti da detto documento conta
bile possa risultare meramente « simbolico » e, quindi, non ri
spondente ai principi sanciti dalla norma costituzionale sopra richiamata.
L'indennità, infatti, deve rappresentare un serio ristoro del
pregiudizio risultante dall'espropriazione, secondo quanto afferma
to dalla Corte costituzionale fin dalla sentenza n. 61 del 1957 e
poi ribadito in numerose, successive occasioni. E proprio partendo da tali premesse, la stessa corte non ha esitato a dichiarare
l'illegittimità di norme che facevano riferimento a criteri di valutazione non idonei a determinare in una misura congrua il
predetto indennizzo (sent. n. 67 del 1959, n. 91 del 1963, n. 22
del 1965, n. 63 del 1970, n. 155 del 1972, n. 145 del 1973, n. 155
del 1976, n. 5 del 1980, id., 1960, I, 1; id., 1963, I, 1090; id.,
1965, I, 585; id., 1970, I, 1541; id., 1972, I, 2345; id., 1975, I,
2341; id., 1976, I, 2767; id., 1980, I, 273). Sarebbe vano richiamarsi alle sentenze n. 58 del 1974 (id., 1978,
I, 957) en. 115 del 1969 (id., 1969, I, 2013) per infirmare la vali
dità di tali conclusioni.
Con la prima di tali decisioni la corte ha ritenuto la legittimità costituzionale della legge 4 febbraio 1958 n. 158 che ragguaglia al
valore .venale del terreno considerato come agricolo, indipenden temente dalla sua eventuale edificazione, l'indennità di esproprio
per le aree necessarie all'attuazione di opere nella zona industriale
e nel porto fluviale di Padova. Ma in quel caso la espropriazione
riguardava terreni che avevano destinazione agricola ed è pertanto evidente che nella commisurazione dell'indennizzo non potesse tenersi conto dell'incremento di valore derivante dall'esecuzione
dell'opera di pubblica utilità o delle opere di urbanizzazione
connesse con la sua realizzazione.
Con la sentenza n. 115 del 1969 è stato escluso ogni contrasto
con gli art. 42 e 43 Cost, del sistema adottato dagli art. 5 legge 6
dicembre 1962 n. 1643 e 2 d. pres. 25 febbraio 1963 n. 138 per la
determinazione degli indennizzi da corrispondere alle imprese
assoggettate a trasferimento all'E.n.el. a seguito della nazionalizza
zione delle imprese esercenti le industrie elettriche.
In base a tale sistema l'indennità di esproprio viene commisura
ta, per le società non quotate in borsa (è questo il caso della
R.a.i.), all'importo del capitale netto dei bilanci relativi agli esercizi chiusi al 31 dicembre 1960, rettificati peraltro in base ad
alcuni coefficienti. La decisione di non fondatezza è stata giu stificata dalla corte con l'affermazione che trattavas'i di bilanci
compilati in base a norme particolari, quelle di cui alla legge 4
marzo 1958 n. 191, le quali consentivano alle imprese di contabi
lizzare plusvalenze anche oltre i limiti di quelle ammesse agli effetti fiscali e quindi di esprimere in bilancio valori più aderenti
alla reale consistenza del patrimonio sociale di quelli risultanti da
un normale bilancio di esercizio, che invece, come si è visto, costituisce l'unico punto di riferimento dell'art. 47, 2° comma,
legge 14 aprile 1975 n. 103.
Sono pertanto ampiamente giustificati, oltre che rilevanti, i
dubbi circa la legittimità costituzionale della norma indicata, in
riferimento agli art. 3, 1° comma, e 42, 3° comma, Cost., nella
parte in cui detta norma dispone che l'indennizzo per il trasferi
mento all'I.r.i. delle azioni della società concessionaria dei pubbli ci servizi di radiodiffusione circolare appartenenti a privati, non
aventi titoli ai sensi dell'art. 3 stessa legge, è corrisposto secondo il valore risultante dall'ultimo bilancio approvato alla data di
pubblicazione della legge. Per questi motivi, ecc.
TRIBUNALE DI ROMA; sentenza 6 dicembre 1980; Pres. Pai
misano, Est. Ferrara; ric. Soc. Genghini ed altri.
Liquidazione coatta amministrativa — Amministrazione straor
dinaria delle grandi imprese in crisi — Società sottoposta ad
effettiva unicità di direzione rispetto ad altra già ammessa alla
procedura — Assoggettabilità — Differente composizione de
gli organi amministrativi — Irrilevanza — Fattispecie (D. 1.
30 gennaio 1979 n. 26, provvedimenti urgenti per l'ammini
strazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, art. 3,
4; legge 3 aprile 1979 il. 95, conversione in legge, con modifi
cazioni, del d. 1. 30 gennaio 1979 n. 26, art. unico).
E soggetta alla procedura di amministrazione straordinaria delle
grandi imprese in crisi la società che, rispetto ad altra già ammessa alla medesima procedura, risulti sottoposta ad effettiva unicità di direzione, non essendo rilevante a tal fine la diversa
composizione dei rispettivi organi amministrativi (nella specie,
il presidente del consiglio di amministrazione della società posta per prima in amministrazione straordinaria, statutariamente in
vestito di poteri amplissimi, tali da farlo ritenere, nonostante la formale collegialità dell'organo amministrativo, unico dominus della società stessa, nonché titolare di oltre il 90% delle
azioni, possedeva altresì l'89,75% del capitale della seconda
società e ne influenzava la condotta degli amministratori,
dipendenti della prima società e da quest'ultima retribuiti per 10 svolgimento dei loro compiti amministrativi, a tal punto che costoro firmavano atti già predisposti, dei quali neppure conoscevano il contenuto). (1)
11 Tribunale, ecc. — Svolgimento del processo. — Con sentenza in data 25 giugno 1980 (Foro it., 1980, I, 2005) questo tribunale
dichiarava il fallimento della s.p.a. Genghini, di Genghini Mario e della s.p.a. G.a.m.
Con successiva sentenza del 17 settembre 1980 (id., 1980, I, 2593) il tribunale dichiarava, a norma degli art. 1 e 4 legge n. 95 del 1979 e dell'art, unico legge 13 agosto 1980 n. 445, che la s.p.a. Genghini era soggetta alla procedura di amministrazione straordi naria delle grandi imprese in crisi; conseguentemente il ministro
per l'industria ed il commercio disponeva, per la citata società, la
procedura di amministrazione straordinaria, nominando commissa rio il dott. Eugenio Plaja.
Con ricorsi depositati, rispettivamente, il 29 ottobre, il 31
ottobre ed il 4 novembre 1980, alcuni dipendenti della s.p.a. G.a.m., il commissario governativo della s.p.a. Genghini e la medesima s.p.a. G.a.m. chiedevano che il tribunale dichiarasse la citata società soggetta alla procedura di amministrazione straordi
naria, ai sensi dell'art. 3 legge 95/1979. I ricorrenti fondavano la loro richiesta sul presupposto che
soggetto alla procedura della c.d. legge « Prodi » fosse anche
l'imprenditore Genghini Mario in quanto controllante sia della
s.p.a. Genghini, sia della s.p.a. G.a.m. (art. 3, 1° comma, lett. a e
b, legge cit.). Senonché il tribunale, con decreto del 19 novembre 1980 (id., 1981, I, 266), respingeva le domande dirette a far
confluire nella procedura di amministrazione straordinaria l'im
presa Genghini e, quindi, annullava il presupposto logico-giuridico al verificarsi del quale sarebbe stato conforme a diritto affermare
che anche la s.p.a. G.a.m. era assoggettabile alla procedura specia le. Tuttavia, il collegio riteneva di far uso dei poteri di ufficio
conferitigli dalla legge e disponeva ulteriori attività istruttorie al
fine di accertare, per gli effetti previsti dalla lett. c dell'art. 3
della più volte citata legge, se la s.p.a. Genghini e la s.p.a. G.a.m.
avessero la medesima direzione.
Esperiti gli accertamenti mediante l'escussione dei tre compo nenti il consiglio di amministrazione della s.p.a. G.a.m. e l'acqui sizione di documenti relativi alla s.p.a. Genghini, la questione veniva rimessa al collegio per la decisione.
Motivi della decisione. — I tre componenti del consiglio di
amministrazione della s.p.a. G.a.m., Bozza Michelangelo, Pozzar
Alessandro, Cosimelli Guerrino, interrogati dal giudice delegato il
22 novembre 1980, hanno dichiarato di aver assunto tale carica
dietro invito di Genghini Mario e dei suoi più diretti collaborato
ri, dott. Pennacchi e dott. Valbonesi; hanno esposto che essi
erano, all'atto dell'assunzione della carica dipendenti della s.p.a.
Genghini, il quale aveva i suoi uffici amministrativi in Roma - via
Pio IV (uno, in particolare, Cosimelli Guerrino, ha affermato che
fu invitato dal Valbonesi, capo contabile della società per azioni
Genghini, ad assumere l'incarico perché « in quel momento c'era
penuria di amministratori »); hanno soggiunto che percepivano per tale attività, sotto forma di aumento di retribuzione o di « parcel la», un modesto compenso suppletivo, rispetto a quello di presta tori d'opera in favore della s.p.a. Genghini; hanno dichiarato che, nella qualità assunta, agivano sotto le direttive del Genghini o dei
suoi due collaboratori menzionati, firmando atti già predisposti,
(1) Non constano precedenti in termini. In dottrina vedi sul punto: Alessi, L'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, in
Fallimento, 1979, 349; Bonsignori, L'amministrazione straordinaria delle
grandi imprese in crisi, Padova, 1980, 124 e 128; Jaeger, I « gruppi »
tra diritto interno e prospettive comunitarie, in Giur. comm., 1980, I, 920; Maffei Alberti, in Nuove leggi civ., 1979, 744-745; Minervini, L'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, in Giur.
comm., 1979, I, 621; M. Sandulli, L'« amministrazione straordinaria» delle imprese in crisi, Napoli, 1979, 96; Sbisà, Il gruppo di società nell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (criteri di individuazione), in Giur. comm., 1980, I, 274-275.
La società cui si riferisce la decisione che si riporta fa parte del « gruppo » Genghini, per le cui vicende giudiziarie, in relazione
all'assoggettamento di talune sue imprese alla procedura prevista dalla
legge n. 95/1979, vedi, oltre alle sentenze citate in motivazione, anche
App. Roma 4 febbraio 1981, Foro it., 1981, I, 517; Trib. Roma 19
novembre 1980, id., 1981, I, 266.
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