ordinanza 23 marzo 1995; Pres. Salluzzo, Rel. Del Core; ric. RussoSource: Il Foro Italiano, Vol. 118, No. 7/8 (LUGLIO-AGOSTO 1995), pp. 2271/2272-2275/2276Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23193367 .
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2271 PARTE PRIMA 2272
conseguire l'oggetto sociale, che di per sé costituisce causa di
scioglimento di diritto della società, non è stata mai accertata
con propria delibera dal consiglio di amministrazione, cosi co
me disposto dall'art. 2449 c.c.».
La configurazione dell'irregolarità operata dai ricorrenti è priva di fondamento ed il procedimento avviato dagli stessi rappre senta un uso non appropriato dello strumento di controllo pre visto dall'art. 2409, come lo stesso p.m. ha lasciato intendere
chiedendo il rigetto del ricorso.
Giova sottolineare che l'art. 2449 al 5° comma prevede a ca
rico degli amministratori unicamente l'obbligo di pubblicità con
cernente la delibera consiliare di accertamento di alcune cause di scioglimento (1, 2, 4, 6) previste dall'art. 2448. L'articolo
invocato non prevede anche l'obbligo a carico degli ammini
stratori di accertare lo scioglimento della società.
Invero, il codice non prevede l'ipotesi che gli amministratori
non provvedano a constatare il verificarsi della causa di sciogli
mento, né prevede per questa omissione una sanzione specifica: l'art. 2626 c.c. punisce infatti l'omessa pubblicazione ma non
l'omessa deliberazione. Si ritiene, poi, in dottrina che in man
canza di questa delibera del consiglio di amministrazione i sin daci non possano provvedere agli adempimenti pubblicitari a
norma dell'art. 2406: essi possono invece convocare, ai sensi
di questa norma, l'assemblea la quale preliminarmente alle deli
berazioni inerenti alla liquidazione, accerterà il verificarsi dello
scioglimento. Con il principio dell'operatività di diritto di tutte le cause
di scioglimento della società il codice attuale ha inteso disporre il divieto per gli amministratori di intraprendere nuove opera zioni e l'obbligo a carico degli stessi di convocare l'assemblea
per le deliberazioni inerenti alla liquidazione; prima di tali deli berazioni l'assemblea accerterà il verificarsi dello scioglimento, non potendo questo essere, in definitiva, disposto dagli ammi
nistratori.
TRIBUNALE DI CATANIA; ordinanza 23 marzo 1995; Pres.
Salluzzo, Rei. Del Core; ric. Russo.
TRIBUNALE DI CATANIA;
Procedimenti cautelari — Reclamo — Limiti (Cod. proc. civ., art. 669 septies, 669 terdecies).
Provvedimenti di urgenza — Società per azioni — Deliberazioni
del consiglio di amministrazione — Sospensione «ante cau sarti» — Inammissibilità (Cod. civ., art. 2378; cod. proc. civ., art. 700).
Stante la sua natura di revisio prioris istantiae, il reclamo caute
lare non può fondarsi né su nuove circostanze di fatto preesi stenti ma non dedotte né su nuove prove relative a circostan
ze già dedotte. (1)
(1) Il provvedimento affronta la questione relativa al se il reclamo cautelare di cui all'art. 669 terdecies c.p.c. debba essere ricostruito in chiave di azione di impugnativa ovvero di azione di gravame (sul pun to, v. le diverse ricostruzioni prospettate rispettivamente da Trib. Na
poli 25 marzo 1993 e Trib. Milano 15 marzo 1993, Foro it., 1993, I, 1262, con osservazioni di A. Proto Pisani, cui adde i riferimenti conte nuti nella nota di richiami in calce a Trib. Catania, ord. 18 gennaio 1995 e Trib. Napoli, ord. 21 dicembre 1994, id., 1995, I, 1346).
I giudici di Catania optano per il primo corno dell'alternativa ponen dosi nell'ottica di evitare, in ipotesi di rigetto del ricorso cautelare, la
completa sovrapposizione — altrimenti inevitabile — tra lo stesso recla mo e la riproposizione dell'istanza ex art. 669 septies c.p.c. (il principio di reclamabilità anche del provvedimento negativo è stato affermato da Corte cost. 23 giugno 1994, n. 253, id., 1994, I, 2005, con nota critica di B. Capponi, Il reclamo avverso il provvedimento cautelare
negativo (il difficile rapporto tra legislatore ordinario e legislatore costi tuzionale), e Giur. it., 1994, I, 409, con nota adesiva di C. Consolo, Il reclamo cautelare e «la parità delle armi» ritrovata).
Il Foro Italiano — 1995.
È inammissibile il ricorso alla tutela urgente al fine di ottenere
la sospensione ante causarci dell'esecuzione di una delibera
del consiglio di amministrazione di una società, sussistendo
il rimedio cautelare tipico di cui al 4° comma dell'art. 2378
c.c. (2)
Va pregiudizialmente rilevato che in questa sede non possono
prendersi in esame i documenti prodotti dalle parti e concernen
ti circostanze già dedotte in prime cure o nuove.
Deve infatti ribadirsi, a riguardo, l'orientamento già espresso da questo tribunale (vedi ord. 24 maggio 1994, in proc. Gea
s.n.c. c/Assicurazioni internazionali s.p.a.) sulla scia di insigne dottrina secondo cui il reclamo è dal legislatore strutturato in
termini di rigorosa revisio prioris istantiae, nel senso, cioè, di
essere finalizzato a provocare un riesame in rito e nel merito
del provvedimento impugnato, onde cogliere gli errores in pro cedendo e in iudicando (non solo di diritto, ma anche di fatto) commessi dallo iudex a quo, con esclusione di qualsivoglia cir
costanza nuova e di nuove prove relative a circostanze già dedotte.
La tesi contraria, oltre a portare a conseguenze ipertrofiche inconciliabili con la snellezza e l'elasticità proprie di questa for
ma di tutela, mal si concilia con l'estrema riduzione dei termini
a difesa rispetto al procedimento ordinario. Del resto, basta
osservare che la produzione fatta in sede di reclamo potrebbe
porre controparte nella necessità di produrre a sua volta docu
menti (come è accaduto nella specie), e cosi di seguito, vanifi
cando il termine di cui all'art. 669 terdecies c.p.c.
L'opinione accolta è, poi, l'unica che evita un illogico con
corso tra reclamo e nuovo ricorso cautelare — specie se si pensa che l'uno va rivolto al giudice diverso individuato secondo i
criteri fissati nel 2° comma dell'art. 669 terdecies, e l'altro allo
stesso organo che ha emanato il provvedimento negativo —, restituendo una coerenza logica e sistematica ai rimedi destinati
a garantire il controllo dei provvedimenti cautelari.
Deve osservarsi, infatti, che la libera riproponibilità dell'i stanza respinta — che nell'impostazione iniziale costituiva l'u
nico rimedio contro il provvedimento negativo — è dall'art.
La soluzione cui perviene il tribunale è conforme a quanto affermato in motivazione da Trib. Napoli, ord. 21 dicembre 1994, cit., che era
partito dalla diversa prospettiva di individuare i limiti di riproponibilità dell'istanza cautelare alla luce del principio di reclamabilità del provve dimento di rigetto.
Tuttavia, de iure condito neppure questa ricostruzione è idonea ad evitare del tutto il concorso dei rimedi di cui rispettivamente agli art. 669 septies e 669 terdecies c.p.c. (per l'ampiezza di tale sovrapposizione alla luce della tesi del reclamo come gravame devolutivo, v., per tutti, Consolo, Il reclamo cautelare e «la parità delle armi» ritrovata, cit.).
È infatti evidente che a fronte della stessa lettera della legge che nel l'art. 669 septies c.p.c., fa riferimento esplicito ai «mutamenti delle circostanze» e nell'art. 669 terdecies c.p.c. ai «motivi sopravvenuti», neanche una lettura il più possibile ampia della prima (tale da sottrarre all'efficacia preclusiva sia i fatti preesistenti all'originario ricorso non ancora allegati sia le nuove argomentazioni, prospettazioni giuridiche e prove attinenti ai fatti già dedotti), e il più possibile ristretta della seconda (tale da non ricomprendere i fatti deducibili ma non dedotti) vale ad escludere la possibilità di esperire entrambi gli strumenti quan tomeno con riferimento ai c.d. fatti sopravvenuti.
(2) In senso contrario all'ampliamento dei limiti di impugnabilità del le delibere consiliari al di là dell'ipotesi di cui air art. 2391 (conflitto di interessi), v., da ultimo, Trib. Lecce 2 maggio 1991, Foro it., Rep. 1992, voce Società, n. 506, e Società, 1992, 63; Pret. Milano, ord. 1°
luglio 1990, Foro it., 1991, I, 1932. Per l'ammissibilità dell'impugnazione anche da parte del socio ex art.
2377 e 2379 c.c., v. invece Trib. Reggio Emilia 22 maggio 1990, id., Rep. 1992, voce cit., n. 507, e Arch. civ. 1992, 180; Cass. 24 gennaio 1990, n. 420, Foro it., 1990, I, 1551.
In giurisprudenza, la tesi della inammissibilità della tutela urgente anche ante causam in tema di sospensione delle delibere assembleari è sicuramente prevalente: v., da ultimo, Trib. Napoli, ord. 11 giugno 1993, id., 1994, I, 236, anche se non sono mancate voci discordi: in tal senso, v. Trib. Bologna 15 settembre 1992, Giur. it., 1994, J, 2, 829, con nota di A. Musso.
Sull'applicabilità del nuovo rito cautelare ai provvedimenti di sospen sione delle delibere assembleari sia pure nei limiti della pendenza del relativo giudizio di merito, v. Trib. Reggio Calabria, ord. 9 maggio 1994, Foro it., 1994, I, 2524, con nota di richiami, cui adde, Trib. Torino, ord. 18 gennaio 1993, Giur. it., 1994, I, 2, 140, con nota di G. Frus, Prime estensioni del procedimento cautelare uniforme a prov vedimenti cautelari disciplinati dal codice civile.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
669 septies voluta come indiscriminata, con uno spettro di alle
gazioni omnibus (sopravvenienze fattuali, deduzione di nuove
ragioni in fatto e in diritto, e di nuove prove). Trattasi, quindi, di un rimedio generalissimo sol che si consideri che l'efficacia
preclusiva alla riproponibilità si limita alla sola mera riproposi zione argomentativa (ora spendibile in sede di gravame), con
conseguente operatitività del ne bis in idem limitata all'identità
del corredo probatorio ed argomentativo. Da un punto di vista concettuale, un buon coordinamento
fra reclamo e riproponibilità postula quindi che nel primo (sot
toposto a termini decadenziali alquanto ristretti) si possano de
durre soltanto nuove argomentazioni (in fatto e in diritto), in
stretta chiave di revisione del primo giudizio. In sede di ripro posizione dell'istanza possono invece trovare spazio le soprav venienze fattuali e le nuove prove su circostanze già dedotte.
Tale netta delimitazione dell'area di operatività e di incidenza
dei due rimedi consente di superare ogni problematica e ogni inconveniente relativamente a coesistenze e concorsi.
Tutt'al contrario, l'operatività su piani sostanzialmente ana
loghi del procedimento a seguito di reclamo e di quello promos so con la riproposizione dell'istanza respinta, ove accompagna ta dalla possibile sovrapponibilità delle allegazioni (nel senso,
cioè, di riconoscere in entrambi i casi la possibilità di dedurre
i nova), comporterebbe fatalmente il rischio di reciproche inter ferenze.
D'altra parte, la sopra prospettata soluzione in punto di coor
dinamento del reclamo con la libera riproponibilità della do
manda cautelare, non è scalfita dalla previsione dell'ultimo com
ma dell'art. 669 terdecies. È vero che in dottrina si è talora
affermato che l'apertura del reclamo ai nova — ovvero alla
deduzione di nuovi fatti e di nuove prove relativamente a fatti
già allegati — discende necessariamente (come il meno è ricom
preso nel più) dalla possibilità, aperta dalla previsione in paro
la, di far valere in sede di gravame anche «motivi sopravvenu ti». L'argomento non sembra tuttavia risolutivo. Tra l'una e
l'altra affermazione non sussiste, infatti, un nesso logico neces
sario, ben potendo le nuove allegazioni e le nuove prove non
essere ricomprese tra i motivi di reclamo, nonostante che in
sede di gravame possano essere fatti valere mutamenti delle cir
costanze. Ciò che è dimostrato dal fatto che la stessa introdu
zione di un appello tendenzialmente chiuso ai nova, operato dalla 1. n. 353 del 1990, non esclude la libera deducibilità in secondo grado di ragioni della domanda o di eccezioni basate
su fatti extraprocessuali sopravvenuti ed incidenti sulla stessa
materia del contendere.
Infine, anche il richiamo da parte dell'art. 669 terdecies al
l'art. 738 c.p.c. conferma l'opinione espressa posto che que st'ultima disposizione normativa prevede, quale unica istrutto
ria possibile, l'assunzione di sommarie informazioni, per di più rimessa alla discrezionalità del giudice del reclamo. (Omissis)
L'eccezione di difetto di legittimazione della Russo ad impu
gnare il deliberato consiliare è viziata in radice da una errata
lettura dell'indirizzo giurisprudenziale su cui si pretende fon
darla (Cass. 420/90, Foro it., 1990, I, 1551). Nella citata sen tenza (che riproduce la n. 3544 del 21 maggio 1988, id., Rep. 1988, voce Società, n. 503) il Supremo collegio si riferisce infat
ti ai limiti soggettivi all'impugnazione delle delibere consiliari
da parte del socio, individuandoli nell'ipotesi in cui le delibere
adottate siano discrezionali e contrastino con l'interesse sociale,
e riconoscendo in questo caso al socio una tutela soltanto indi
retta, realizzabile unicamente attraverso la sollecitazione o l'in
tervento degli organismi sociali e il ricorso a disposizioni diver
se da quelle relative all'impugnazione delle delibere.
Nel caso di specie si verte invece nella diversa ipotesi dell'im
pugnazione di una delibera del consiglio di amministrazione da
parte di uno dei suoi componenti il quale la ritiene lesiva di
una sua posizione di diritto soggettivo ovverosia del potere-dovere di procedere individualmente ad atti di ispezione e controllo
fatto discendere dall'art. 2392, 2° comma, c.c.
Parimenti infondata è la seconda delle eccezioni sollevate dal
la società reclamata la quale poggia sulla tesi — propugnata da una dottrina di minoranza — che l'esercizio della vigilanza deve intendersi collegiale in quanto solo l'osservanza del meto
do collegiale giustificherebbe il vincolo solidale e, in ultima ana
lisi, l'addossamento di una responsabilità per colpa altrui.
Appare infatti preferibile l'opinione più diffusa in dottrina,
secondo la quale il potere-dovere di intervento spetta singolar
II Foro Italiano — 1995.
mente anche ai componenti del consiglio di amministrazione, condividendone le principali linee argomentative, che possono cosi sintetizzarsi: a) l'art. 2392 non prevede una responsabilità senza colpa e per fatto altrui in deroga ai principi generali; non
è invero sufficiente che si verifichi un danno alla società, occor
rendo invece che questo sia conseguenza dell'inadempimento degli amministratori ad un loro obbligo, nel caso specifico l'obbligo di intervento; b) la solidarietà sancita dalla norma riguarda gli amministratori colpevoli per aver commesso l'atto illegittimo o per non averlo prevenuto; per essi la responsabilità non si
basa sulla partecipazione all'atto illegittimo ma sul diverso tito
lo della violazione del dovere di intervento, rilevando solo nei
rapporti interni la questione dell'imputabilità dell'atto; e) che
la solidarietà tra gli amministratori non escluda la natura perso nale della responsabilità, risultando pertanto pienamente com
patibile con il riconoscimento della natura individuale del dove
re di intervento e in genere di vigilanza, è provato dallo stesso
art. 2392 nella parte in cui riconosce all'amministratore non
colpevole il diritto di dissociarsi: è ovvio, infatti, che per eserci
tare tale facoltà i componenti del collegio devono essere indivi
dualmente in grado di conoscere e valutare l'andamento sociale
per dissociarsi nelle forme di legge. Di ben diverso spessore, e sostanzialmente fondata, è l'ecce
zione di inammissibilità del ricorso alla tutela innominata stante l'esistenza di una tutela cautelare tipica (art. 2378, 4° comma,
c.c.). È noto come l'esigenza di colmare la lacunosa e incompleta
disciplina codicistica relativa al procedimento di formazione delle
delibere consiliari abbia suggerito il ricorso a criteri sistematici analogici desunti in particolare dalla puntuale regolamentazione dell'omologo fenomeno assembleare o fondati sui principi ge nerali dell'ordinamento giuridico. Si è infatti considerato che
la disciplina del consiglio di amministrazione, in quanto organo
collegiale, può essere integrata, ove risulti in qualche modo man
chevole, con i principi che governano in generale gli organi col
legiali ed in primo luogo l'organo assembleare.
Quanto, più specificamente, all'applicabilità analogica della normativa assembleare alle deliberazioni del consiglio di ammi
nistrazione, si osserva che sia in dottrina come in giurispruden za è ormai prevalso un orientamento ad essa favorevole, essen
dosi ripudiata l'opposta impostazione che si fondava sulla pre sunta eccezionalità degli art. 2377 e 2379 c.c. rispetto ai principi generali di diritto comune in tema di invalidità. In particolare, la Cassazione (vedi sent. 420/90 e 3544/88 cit.) ha sottolineato
che tali norme costituiscono la regola di una determinata cate
goria di atti, bene individuata nell'ambito degli atti giuridici in genere ed aventi una connotazione propria che ne giustifica una disciplina settoriale con riguardo alle fattispecie che ne so no oggetto. Esse, cioè, pongono la regola generale ed oggettiva di una serie di fattispecie costituenti un settore a sé dell'ordina
mento, pur se diramato dal ceppo comune della disciplina degli atti giuridici. Di tale disciplina, che ovviamente le precede, le
norme suddette costituiscono continuazione, applicazione e spe
cificazione, e, come tali, sono caratterizzate da un aspetto di
specializzazione e di «ulteriorità» e non già di contrarietà (e, per ciò, di eccezionalità) rispetto alla disciplina comune.
Sulla scorta delle considerazioni che precedono, se per le deli
berazioni consiliari debbano ritenersi operanti i principi genera li sopradescritti, è agevole concludere che anche per tali delibe
razioni la sospensione dell'esecuzione sia configurabile alle me desime condizioni e nelle stesse ipotesi in cui tale istituto si ritiene
attivabile in materia assembleare.
Ciò posto, va rilevato — ribadendosi un orientamento già emerso in questo tribunale (cfr. ord. 1° marzo 1995, ric. Grillo,
giud. Del Core) — che l'art. 2378 c.c. contempla il procedimen to incidentale di sospensione della deliberazione assembleare quale strumento cautelare tipico, rigidamente condizionato al promo vimento dell'impugnazione della delibera stessa.
Ed invero: la condizione posta per l'ammissibilità dell'impu
gnazione (deposito di un'azione in cancelleria); la possibilità che il presidente possa imporre con decreto che l'opponente presti idonea garanzia per l'eventuale risarcimento dei danni; l'iter
istruttorio imposto al giudice della cautela all'intuitivo scopo di porlo in grado di accertare i reali interessi della società anche
attraverso un confronto con quei soggetti cui spetta il potere di gestirla o comunque il potere di sindacare questa gestione;
e, soprattutto, il fatto che, diversamente da quanto previsto per
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2275 PARTE PRIMA 2276
la tutela atipica, la valutazione dei presupposti per la concessio
ne della misura cautelare in discorso non ha come parametro esclusivo la situazione di diritto soggettivo dedotta dal ricorren
te, dovendosi necessariamente estendere, in un'ottica compara
tiva, ai danni che potrebbero derivare alla società dalla sospen sione dell'esecuzione della deliberazione, integrano tutti caratte ri peculiari del procedimento di impugnazione delle deliberazioni assembleari, i cui canoni — in massima parte comuni all'impu
gnazione delle delibere consiliari — qualificano conseguentemente
quale «nominato» il procedimento di sospensione ivi previsto, che proprio per la sua tipicità non può consentire spazio, se
non con contraddizioni e negazioni intrinseche, al procedimen to cautelare innominato di cui all'art. 700 c.p.c.
Il convincimento espresso circa la necessità di subordinare la
richiesta di sospensione della delibera alla condizione dell'avve
nuta sua impugnazione esce rafforzato ove si considerino, con
uno sguardo d'insieme, tutte le norme del diritto delle società.
Di vero, è incontrovertibile che il legislatore ha espressamente perseguito nel campo societario l'obiettivo di ridurre al massi
mo le possibilità di contestazione della validità degli atti della società, anche per quanto riguarda le delibere consiliari; e ciò
ha fatto, soprattutto, creando un sistema particolarmente limi
tato e rigido di impugnazioni ed una serie di ostacoli al suo
concreto esperimento. Ma questo non è l'unico esempio nel cam
po societario di una deroga ai principi generali in tema di inva
lidità; basti pensare infatti alle cause di nullità del contratto
di società, ridotte a casi tassativi previsti dal legislatore (art.
2332) che operano come cause di scioglimento della società.
Del resto alla conclusione sopra accennata (necessità della pre via impugnazione della delibera onde chiederne la sospensione) deve ad avviso del collegio pervenirsi anche partendo da un an
golo visuale ancora più allargato, raffrontando, cioè, le disposi zioni sopra richiamate (art. 700 c.p.c. e 2378, 4° comma, c.c.) con quelle in materia di sospensione dell'esecuzione di atti col
legiali di diritto privato, atti amministrativi o provvedimenti giu diziali.
Da queste ultime disposizioni è dato trarre l'esistenza, nel
nostro ordinamento positivo, di alcuni principi regolanti l'isti tuto della sospensione in tutte le sue applicazioni, il primo, e
più importante, dei quali è quello secondo cui non può essere
sospesa l'esecuzione di un provvedimento se esso non è stato
preventivamente impugnato. Avuto riguardo al cennato principio, non può certo sostener
si in contrario che il nuovo modello di procedimento cautelare
uniforme ammetta la pronuncia del provvedimento di sospen sione ante causam.
D'altronde, anche gli autori i quali sostengono la compatibi lità «a macchia di leopardo» della nuova disciplina del «caute lare» con la vecchia, restano dell'avviso, se non altro per gli strettissimi termini entro i quali l'impugnazione deve essere pro
posta, che il provvedimento cautelare di sospensione della ese
cuzione delle delibere non possa essere richiesto ante causam. In definitiva, deve ritenersi che anche la richiesta di sospen
sione della delibera del consiglio di amministrazione costituisce un diritto potestativo riconosciuto dall'ordinamento positivo sol
tanto a chi abbia già impugnato la delibera consiliare.
Il ricorso presentato ante causam dalla Russo si manifesta,
pertanto, inammissibile. (Omissis)
Il Foro Italiano — 1995.
TRIBUNALE DI ROMA; sentenza 17 febbraio 1995; Pres. Buc
ci, Est. Giuliani; Soc. Walt Disney Co. e Soc. Buena Vista
Home Video (Avv. Verusio, Ansaldo, Rescigno, Beduschi) c. Soc. Cinepatrizia (Avv. Rocchetti, Placco) e Siae (Avv.
Pinna).
TRIBUNALE DI ROMA;
Diritti d'autore — Opera cinematografica — Caduta in pubbli co dominio — Fattispecie (L. 22 aprile 1941 n. 633, protezio ne del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo eserci
zio, art. 25, 32; d.l.lgt. 20 luglio 1945 n. 440, proroga dei termini per la protezione delle opere dell'ingegno e dei pro dotti tutelati dalla 1. 22 aprile 1941 n. 633, art. 1; d.l.c.p.s. 28 novembre 1947 n. 1430, esecuzione del trattato di pace di Parigi tra l'Italia e le potenze alleate ed associate, all. XV,
punto 3; d.p.r. 8 gennaio 1979 n. 19, applicazione della con
venzione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed
artistiche, riveduta da ultimo con atto firmato a Parigi il 24
luglio 1971, art. 1).
Alle opere cinematografiche realizzate con i cartoni animati di Walt Disney e pubblicate per la prima volta nel periodo 1934-1937 si applica il termine di tutela di cinquanta anni dalla prima proiezione previsto dal d.p.r. 19/79, cui si ag
giunge la proroga di sei anni prevista dal d.l.lgt. 440/45 e
la sospensione del decorso dei termini per il periodo bellico
di cinque anni e dieci mesi introdotta dal trattato di Parigi (nella specie, è stato convalidato il sequestro e confermata l'inibitoria ex art. 700 c.p.c. concessi su domanda del titolare
del diritto e del distributore esclusivo dei cortometraggi di
Walt Disney nei confronti di chi aveva prodotto e posto in
commercio videocassette riproducenti gli stessi cortometraggi ritenendoli caduti in pubblico dominioj. (1)
Alle opere cinematografiche realizzate con i cartoni animati di Walt Disney e pubblicate per la prima volta nel periodo 1946-1948 si applica il termine di tutela dell'opera di cinquan ta anni dalla prima proiezione di cui al d.p.r. 19/79, sicché
le stesse opere non possono ritenersi cadute in pubblico do
minio, anche indipendentemente dall'applicabilità della pro roga di cui al d.l.lgt. 440/45. (2)
(1-2) La sentenza definisce la vicenda giudiziaria apertasi con le do mande di sequestro ante causarti e di inibitoria ex art. 700 c.p.c. propo ste dalla Walt Disney Company (insieme alla distributrice esclusivista) ed accolte, in via cautelare, da Pret. Roma 11 settembre 1992, Foro
it., Rep. 1993, voce Diritti d'autore, n. 65. Il pretore, decidendo nello stesso senso della riportata decisione di merito, aveva adottato una dif ferente prospettiva d'indagine. Invece di ragionare sull'estensione tem
porale della tutela dell'opera cinematografica realizzata con i cartoni animati di Walt Disney, il pretore muoveva infatti dalla duplicità di tutela di cui gode l'opera cinematografica i cui personaggi s'identifichi no con quelli dei cartoni animati: la prima che attiene ai disegni e la seconda relativa al film. Con il risultato che, fin quando perduri la protezione dei disegni dei personaggi di Walt Disney, non può determi narsi la caduta in pubblico dominio dei film che riproducono gli stessi
disegni nella forma e con le tecniche della cinematografia (la decisione
pretorile si legge per esteso in Dir. autore, 1992, 570, con nota adesiva di Fabiani, La durata di protezione dei cartoni di Watt Disney, e Nuo vo dir., 1993, 186). Nella sentenza del tribunale, affiancata da altre due rese in pari data, fra le stesse parti e con identica motivazione — la diversità è data dall'oggetto del contendere e cioè dalle opere cine
matografiche di produzione Walt Disney, fra cui i famosi film «Bianca neve e i sette nani», «Dumbo» e «Bambi» — l'aspetto relativo alla tutela del disegno rimane deliberatamente in secondo piano, sicché alla riaffermazione dell'autonoma tutelabilità del «cartone animato» come
opera dell'ingegno, resistente alle varie manipolazioni (coloristiche, mu sicali, ecc.) finalizzate alla sua utilizzazione in diversi contesti commer ciali, sono riservate soltanto alcune osservazioni finali.
Sulla cumulabilità dei periodi di proroga ex d.l.lgt. 440/45 e di so
spensione bellica, cfr., da ultimo, nello stesso senso della decisione ri
portata, Cass. 4 settembre 1993, n. 9326, Foro it., 1994, I, 947 (in un caso riguardante un film di Charlie Chaplin, proiettato per la prima volta nel 1931 e trasmesso da un'emittente televisiva nel 1982). La Cas sazione precisa che tale conclusione, condivisa dalla sentenza riportata, «consente di secondare l'evidente intento del legislatore di armonizzare e di rendere omogenee, anche quanto ai temini di durata, le tutele delle
opere dell'ingegno, perché una conclusione diversa porterebbe all'irra
gionevole risultato di applicare, per le sole opere cinematografiche, i due istituti esaminati, ad onta della unificazione del termine di prote zione a cinquanta anni». In precedenza, il Tribunale di Roma, sollecita to in sede penale da produttori statunitensi danneggiati dal fenomeno della pirateria cinematografica, si era già espresso favorevolmente al cumulo: cfr. sent. 12 aprile 1985, id., Rep. 1985, voce cit., n. 38
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