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ordinanza 23 marzo 1995; Pres. Salluzzo, Rel. Del Core; ric. Russo

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ordinanza 23 marzo 1995; Pres. Salluzzo, Rel. Del Core; ric. Russo Source: Il Foro Italiano, Vol. 118, No. 7/8 (LUGLIO-AGOSTO 1995), pp. 2271/2272-2275/2276 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23193367 . Accessed: 28/06/2014 10:01 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.238.114.144 on Sat, 28 Jun 2014 10:01:32 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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ordinanza 23 marzo 1995; Pres. Salluzzo, Rel. Del Core; ric. RussoSource: Il Foro Italiano, Vol. 118, No. 7/8 (LUGLIO-AGOSTO 1995), pp. 2271/2272-2275/2276Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23193367 .

Accessed: 28/06/2014 10:01

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2271 PARTE PRIMA 2272

conseguire l'oggetto sociale, che di per sé costituisce causa di

scioglimento di diritto della società, non è stata mai accertata

con propria delibera dal consiglio di amministrazione, cosi co

me disposto dall'art. 2449 c.c.».

La configurazione dell'irregolarità operata dai ricorrenti è priva di fondamento ed il procedimento avviato dagli stessi rappre senta un uso non appropriato dello strumento di controllo pre visto dall'art. 2409, come lo stesso p.m. ha lasciato intendere

chiedendo il rigetto del ricorso.

Giova sottolineare che l'art. 2449 al 5° comma prevede a ca

rico degli amministratori unicamente l'obbligo di pubblicità con

cernente la delibera consiliare di accertamento di alcune cause di scioglimento (1, 2, 4, 6) previste dall'art. 2448. L'articolo

invocato non prevede anche l'obbligo a carico degli ammini

stratori di accertare lo scioglimento della società.

Invero, il codice non prevede l'ipotesi che gli amministratori

non provvedano a constatare il verificarsi della causa di sciogli

mento, né prevede per questa omissione una sanzione specifica: l'art. 2626 c.c. punisce infatti l'omessa pubblicazione ma non

l'omessa deliberazione. Si ritiene, poi, in dottrina che in man

canza di questa delibera del consiglio di amministrazione i sin daci non possano provvedere agli adempimenti pubblicitari a

norma dell'art. 2406: essi possono invece convocare, ai sensi

di questa norma, l'assemblea la quale preliminarmente alle deli

berazioni inerenti alla liquidazione, accerterà il verificarsi dello

scioglimento. Con il principio dell'operatività di diritto di tutte le cause

di scioglimento della società il codice attuale ha inteso disporre il divieto per gli amministratori di intraprendere nuove opera zioni e l'obbligo a carico degli stessi di convocare l'assemblea

per le deliberazioni inerenti alla liquidazione; prima di tali deli berazioni l'assemblea accerterà il verificarsi dello scioglimento, non potendo questo essere, in definitiva, disposto dagli ammi

nistratori.

TRIBUNALE DI CATANIA; ordinanza 23 marzo 1995; Pres.

Salluzzo, Rei. Del Core; ric. Russo.

TRIBUNALE DI CATANIA;

Procedimenti cautelari — Reclamo — Limiti (Cod. proc. civ., art. 669 septies, 669 terdecies).

Provvedimenti di urgenza — Società per azioni — Deliberazioni

del consiglio di amministrazione — Sospensione «ante cau sarti» — Inammissibilità (Cod. civ., art. 2378; cod. proc. civ., art. 700).

Stante la sua natura di revisio prioris istantiae, il reclamo caute

lare non può fondarsi né su nuove circostanze di fatto preesi stenti ma non dedotte né su nuove prove relative a circostan

ze già dedotte. (1)

(1) Il provvedimento affronta la questione relativa al se il reclamo cautelare di cui all'art. 669 terdecies c.p.c. debba essere ricostruito in chiave di azione di impugnativa ovvero di azione di gravame (sul pun to, v. le diverse ricostruzioni prospettate rispettivamente da Trib. Na

poli 25 marzo 1993 e Trib. Milano 15 marzo 1993, Foro it., 1993, I, 1262, con osservazioni di A. Proto Pisani, cui adde i riferimenti conte nuti nella nota di richiami in calce a Trib. Catania, ord. 18 gennaio 1995 e Trib. Napoli, ord. 21 dicembre 1994, id., 1995, I, 1346).

I giudici di Catania optano per il primo corno dell'alternativa ponen dosi nell'ottica di evitare, in ipotesi di rigetto del ricorso cautelare, la

completa sovrapposizione — altrimenti inevitabile — tra lo stesso recla mo e la riproposizione dell'istanza ex art. 669 septies c.p.c. (il principio di reclamabilità anche del provvedimento negativo è stato affermato da Corte cost. 23 giugno 1994, n. 253, id., 1994, I, 2005, con nota critica di B. Capponi, Il reclamo avverso il provvedimento cautelare

negativo (il difficile rapporto tra legislatore ordinario e legislatore costi tuzionale), e Giur. it., 1994, I, 409, con nota adesiva di C. Consolo, Il reclamo cautelare e «la parità delle armi» ritrovata).

Il Foro Italiano — 1995.

È inammissibile il ricorso alla tutela urgente al fine di ottenere

la sospensione ante causarci dell'esecuzione di una delibera

del consiglio di amministrazione di una società, sussistendo

il rimedio cautelare tipico di cui al 4° comma dell'art. 2378

c.c. (2)

Va pregiudizialmente rilevato che in questa sede non possono

prendersi in esame i documenti prodotti dalle parti e concernen

ti circostanze già dedotte in prime cure o nuove.

Deve infatti ribadirsi, a riguardo, l'orientamento già espresso da questo tribunale (vedi ord. 24 maggio 1994, in proc. Gea

s.n.c. c/Assicurazioni internazionali s.p.a.) sulla scia di insigne dottrina secondo cui il reclamo è dal legislatore strutturato in

termini di rigorosa revisio prioris istantiae, nel senso, cioè, di

essere finalizzato a provocare un riesame in rito e nel merito

del provvedimento impugnato, onde cogliere gli errores in pro cedendo e in iudicando (non solo di diritto, ma anche di fatto) commessi dallo iudex a quo, con esclusione di qualsivoglia cir

costanza nuova e di nuove prove relative a circostanze già dedotte.

La tesi contraria, oltre a portare a conseguenze ipertrofiche inconciliabili con la snellezza e l'elasticità proprie di questa for

ma di tutela, mal si concilia con l'estrema riduzione dei termini

a difesa rispetto al procedimento ordinario. Del resto, basta

osservare che la produzione fatta in sede di reclamo potrebbe

porre controparte nella necessità di produrre a sua volta docu

menti (come è accaduto nella specie), e cosi di seguito, vanifi

cando il termine di cui all'art. 669 terdecies c.p.c.

L'opinione accolta è, poi, l'unica che evita un illogico con

corso tra reclamo e nuovo ricorso cautelare — specie se si pensa che l'uno va rivolto al giudice diverso individuato secondo i

criteri fissati nel 2° comma dell'art. 669 terdecies, e l'altro allo

stesso organo che ha emanato il provvedimento negativo —, restituendo una coerenza logica e sistematica ai rimedi destinati

a garantire il controllo dei provvedimenti cautelari.

Deve osservarsi, infatti, che la libera riproponibilità dell'i stanza respinta — che nell'impostazione iniziale costituiva l'u

nico rimedio contro il provvedimento negativo — è dall'art.

La soluzione cui perviene il tribunale è conforme a quanto affermato in motivazione da Trib. Napoli, ord. 21 dicembre 1994, cit., che era

partito dalla diversa prospettiva di individuare i limiti di riproponibilità dell'istanza cautelare alla luce del principio di reclamabilità del provve dimento di rigetto.

Tuttavia, de iure condito neppure questa ricostruzione è idonea ad evitare del tutto il concorso dei rimedi di cui rispettivamente agli art. 669 septies e 669 terdecies c.p.c. (per l'ampiezza di tale sovrapposizione alla luce della tesi del reclamo come gravame devolutivo, v., per tutti, Consolo, Il reclamo cautelare e «la parità delle armi» ritrovata, cit.).

È infatti evidente che a fronte della stessa lettera della legge che nel l'art. 669 septies c.p.c., fa riferimento esplicito ai «mutamenti delle circostanze» e nell'art. 669 terdecies c.p.c. ai «motivi sopravvenuti», neanche una lettura il più possibile ampia della prima (tale da sottrarre all'efficacia preclusiva sia i fatti preesistenti all'originario ricorso non ancora allegati sia le nuove argomentazioni, prospettazioni giuridiche e prove attinenti ai fatti già dedotti), e il più possibile ristretta della seconda (tale da non ricomprendere i fatti deducibili ma non dedotti) vale ad escludere la possibilità di esperire entrambi gli strumenti quan tomeno con riferimento ai c.d. fatti sopravvenuti.

(2) In senso contrario all'ampliamento dei limiti di impugnabilità del le delibere consiliari al di là dell'ipotesi di cui air art. 2391 (conflitto di interessi), v., da ultimo, Trib. Lecce 2 maggio 1991, Foro it., Rep. 1992, voce Società, n. 506, e Società, 1992, 63; Pret. Milano, ord. 1°

luglio 1990, Foro it., 1991, I, 1932. Per l'ammissibilità dell'impugnazione anche da parte del socio ex art.

2377 e 2379 c.c., v. invece Trib. Reggio Emilia 22 maggio 1990, id., Rep. 1992, voce cit., n. 507, e Arch. civ. 1992, 180; Cass. 24 gennaio 1990, n. 420, Foro it., 1990, I, 1551.

In giurisprudenza, la tesi della inammissibilità della tutela urgente anche ante causam in tema di sospensione delle delibere assembleari è sicuramente prevalente: v., da ultimo, Trib. Napoli, ord. 11 giugno 1993, id., 1994, I, 236, anche se non sono mancate voci discordi: in tal senso, v. Trib. Bologna 15 settembre 1992, Giur. it., 1994, J, 2, 829, con nota di A. Musso.

Sull'applicabilità del nuovo rito cautelare ai provvedimenti di sospen sione delle delibere assembleari sia pure nei limiti della pendenza del relativo giudizio di merito, v. Trib. Reggio Calabria, ord. 9 maggio 1994, Foro it., 1994, I, 2524, con nota di richiami, cui adde, Trib. Torino, ord. 18 gennaio 1993, Giur. it., 1994, I, 2, 140, con nota di G. Frus, Prime estensioni del procedimento cautelare uniforme a prov vedimenti cautelari disciplinati dal codice civile.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

669 septies voluta come indiscriminata, con uno spettro di alle

gazioni omnibus (sopravvenienze fattuali, deduzione di nuove

ragioni in fatto e in diritto, e di nuove prove). Trattasi, quindi, di un rimedio generalissimo sol che si consideri che l'efficacia

preclusiva alla riproponibilità si limita alla sola mera riproposi zione argomentativa (ora spendibile in sede di gravame), con

conseguente operatitività del ne bis in idem limitata all'identità

del corredo probatorio ed argomentativo. Da un punto di vista concettuale, un buon coordinamento

fra reclamo e riproponibilità postula quindi che nel primo (sot

toposto a termini decadenziali alquanto ristretti) si possano de

durre soltanto nuove argomentazioni (in fatto e in diritto), in

stretta chiave di revisione del primo giudizio. In sede di ripro posizione dell'istanza possono invece trovare spazio le soprav venienze fattuali e le nuove prove su circostanze già dedotte.

Tale netta delimitazione dell'area di operatività e di incidenza

dei due rimedi consente di superare ogni problematica e ogni inconveniente relativamente a coesistenze e concorsi.

Tutt'al contrario, l'operatività su piani sostanzialmente ana

loghi del procedimento a seguito di reclamo e di quello promos so con la riproposizione dell'istanza respinta, ove accompagna ta dalla possibile sovrapponibilità delle allegazioni (nel senso,

cioè, di riconoscere in entrambi i casi la possibilità di dedurre

i nova), comporterebbe fatalmente il rischio di reciproche inter ferenze.

D'altra parte, la sopra prospettata soluzione in punto di coor

dinamento del reclamo con la libera riproponibilità della do

manda cautelare, non è scalfita dalla previsione dell'ultimo com

ma dell'art. 669 terdecies. È vero che in dottrina si è talora

affermato che l'apertura del reclamo ai nova — ovvero alla

deduzione di nuovi fatti e di nuove prove relativamente a fatti

già allegati — discende necessariamente (come il meno è ricom

preso nel più) dalla possibilità, aperta dalla previsione in paro

la, di far valere in sede di gravame anche «motivi sopravvenu ti». L'argomento non sembra tuttavia risolutivo. Tra l'una e

l'altra affermazione non sussiste, infatti, un nesso logico neces

sario, ben potendo le nuove allegazioni e le nuove prove non

essere ricomprese tra i motivi di reclamo, nonostante che in

sede di gravame possano essere fatti valere mutamenti delle cir

costanze. Ciò che è dimostrato dal fatto che la stessa introdu

zione di un appello tendenzialmente chiuso ai nova, operato dalla 1. n. 353 del 1990, non esclude la libera deducibilità in secondo grado di ragioni della domanda o di eccezioni basate

su fatti extraprocessuali sopravvenuti ed incidenti sulla stessa

materia del contendere.

Infine, anche il richiamo da parte dell'art. 669 terdecies al

l'art. 738 c.p.c. conferma l'opinione espressa posto che que st'ultima disposizione normativa prevede, quale unica istrutto

ria possibile, l'assunzione di sommarie informazioni, per di più rimessa alla discrezionalità del giudice del reclamo. (Omissis)

L'eccezione di difetto di legittimazione della Russo ad impu

gnare il deliberato consiliare è viziata in radice da una errata

lettura dell'indirizzo giurisprudenziale su cui si pretende fon

darla (Cass. 420/90, Foro it., 1990, I, 1551). Nella citata sen tenza (che riproduce la n. 3544 del 21 maggio 1988, id., Rep. 1988, voce Società, n. 503) il Supremo collegio si riferisce infat

ti ai limiti soggettivi all'impugnazione delle delibere consiliari

da parte del socio, individuandoli nell'ipotesi in cui le delibere

adottate siano discrezionali e contrastino con l'interesse sociale,

e riconoscendo in questo caso al socio una tutela soltanto indi

retta, realizzabile unicamente attraverso la sollecitazione o l'in

tervento degli organismi sociali e il ricorso a disposizioni diver

se da quelle relative all'impugnazione delle delibere.

Nel caso di specie si verte invece nella diversa ipotesi dell'im

pugnazione di una delibera del consiglio di amministrazione da

parte di uno dei suoi componenti il quale la ritiene lesiva di

una sua posizione di diritto soggettivo ovverosia del potere-dovere di procedere individualmente ad atti di ispezione e controllo

fatto discendere dall'art. 2392, 2° comma, c.c.

Parimenti infondata è la seconda delle eccezioni sollevate dal

la società reclamata la quale poggia sulla tesi — propugnata da una dottrina di minoranza — che l'esercizio della vigilanza deve intendersi collegiale in quanto solo l'osservanza del meto

do collegiale giustificherebbe il vincolo solidale e, in ultima ana

lisi, l'addossamento di una responsabilità per colpa altrui.

Appare infatti preferibile l'opinione più diffusa in dottrina,

secondo la quale il potere-dovere di intervento spetta singolar

II Foro Italiano — 1995.

mente anche ai componenti del consiglio di amministrazione, condividendone le principali linee argomentative, che possono cosi sintetizzarsi: a) l'art. 2392 non prevede una responsabilità senza colpa e per fatto altrui in deroga ai principi generali; non

è invero sufficiente che si verifichi un danno alla società, occor

rendo invece che questo sia conseguenza dell'inadempimento degli amministratori ad un loro obbligo, nel caso specifico l'obbligo di intervento; b) la solidarietà sancita dalla norma riguarda gli amministratori colpevoli per aver commesso l'atto illegittimo o per non averlo prevenuto; per essi la responsabilità non si

basa sulla partecipazione all'atto illegittimo ma sul diverso tito

lo della violazione del dovere di intervento, rilevando solo nei

rapporti interni la questione dell'imputabilità dell'atto; e) che

la solidarietà tra gli amministratori non escluda la natura perso nale della responsabilità, risultando pertanto pienamente com

patibile con il riconoscimento della natura individuale del dove

re di intervento e in genere di vigilanza, è provato dallo stesso

art. 2392 nella parte in cui riconosce all'amministratore non

colpevole il diritto di dissociarsi: è ovvio, infatti, che per eserci

tare tale facoltà i componenti del collegio devono essere indivi

dualmente in grado di conoscere e valutare l'andamento sociale

per dissociarsi nelle forme di legge. Di ben diverso spessore, e sostanzialmente fondata, è l'ecce

zione di inammissibilità del ricorso alla tutela innominata stante l'esistenza di una tutela cautelare tipica (art. 2378, 4° comma,

c.c.). È noto come l'esigenza di colmare la lacunosa e incompleta

disciplina codicistica relativa al procedimento di formazione delle

delibere consiliari abbia suggerito il ricorso a criteri sistematici analogici desunti in particolare dalla puntuale regolamentazione dell'omologo fenomeno assembleare o fondati sui principi ge nerali dell'ordinamento giuridico. Si è infatti considerato che

la disciplina del consiglio di amministrazione, in quanto organo

collegiale, può essere integrata, ove risulti in qualche modo man

chevole, con i principi che governano in generale gli organi col

legiali ed in primo luogo l'organo assembleare.

Quanto, più specificamente, all'applicabilità analogica della normativa assembleare alle deliberazioni del consiglio di ammi

nistrazione, si osserva che sia in dottrina come in giurispruden za è ormai prevalso un orientamento ad essa favorevole, essen

dosi ripudiata l'opposta impostazione che si fondava sulla pre sunta eccezionalità degli art. 2377 e 2379 c.c. rispetto ai principi generali di diritto comune in tema di invalidità. In particolare, la Cassazione (vedi sent. 420/90 e 3544/88 cit.) ha sottolineato

che tali norme costituiscono la regola di una determinata cate

goria di atti, bene individuata nell'ambito degli atti giuridici in genere ed aventi una connotazione propria che ne giustifica una disciplina settoriale con riguardo alle fattispecie che ne so no oggetto. Esse, cioè, pongono la regola generale ed oggettiva di una serie di fattispecie costituenti un settore a sé dell'ordina

mento, pur se diramato dal ceppo comune della disciplina degli atti giuridici. Di tale disciplina, che ovviamente le precede, le

norme suddette costituiscono continuazione, applicazione e spe

cificazione, e, come tali, sono caratterizzate da un aspetto di

specializzazione e di «ulteriorità» e non già di contrarietà (e, per ciò, di eccezionalità) rispetto alla disciplina comune.

Sulla scorta delle considerazioni che precedono, se per le deli

berazioni consiliari debbano ritenersi operanti i principi genera li sopradescritti, è agevole concludere che anche per tali delibe

razioni la sospensione dell'esecuzione sia configurabile alle me desime condizioni e nelle stesse ipotesi in cui tale istituto si ritiene

attivabile in materia assembleare.

Ciò posto, va rilevato — ribadendosi un orientamento già emerso in questo tribunale (cfr. ord. 1° marzo 1995, ric. Grillo,

giud. Del Core) — che l'art. 2378 c.c. contempla il procedimen to incidentale di sospensione della deliberazione assembleare quale strumento cautelare tipico, rigidamente condizionato al promo vimento dell'impugnazione della delibera stessa.

Ed invero: la condizione posta per l'ammissibilità dell'impu

gnazione (deposito di un'azione in cancelleria); la possibilità che il presidente possa imporre con decreto che l'opponente presti idonea garanzia per l'eventuale risarcimento dei danni; l'iter

istruttorio imposto al giudice della cautela all'intuitivo scopo di porlo in grado di accertare i reali interessi della società anche

attraverso un confronto con quei soggetti cui spetta il potere di gestirla o comunque il potere di sindacare questa gestione;

e, soprattutto, il fatto che, diversamente da quanto previsto per

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2275 PARTE PRIMA 2276

la tutela atipica, la valutazione dei presupposti per la concessio

ne della misura cautelare in discorso non ha come parametro esclusivo la situazione di diritto soggettivo dedotta dal ricorren

te, dovendosi necessariamente estendere, in un'ottica compara

tiva, ai danni che potrebbero derivare alla società dalla sospen sione dell'esecuzione della deliberazione, integrano tutti caratte ri peculiari del procedimento di impugnazione delle deliberazioni assembleari, i cui canoni — in massima parte comuni all'impu

gnazione delle delibere consiliari — qualificano conseguentemente

quale «nominato» il procedimento di sospensione ivi previsto, che proprio per la sua tipicità non può consentire spazio, se

non con contraddizioni e negazioni intrinseche, al procedimen to cautelare innominato di cui all'art. 700 c.p.c.

Il convincimento espresso circa la necessità di subordinare la

richiesta di sospensione della delibera alla condizione dell'avve

nuta sua impugnazione esce rafforzato ove si considerino, con

uno sguardo d'insieme, tutte le norme del diritto delle società.

Di vero, è incontrovertibile che il legislatore ha espressamente perseguito nel campo societario l'obiettivo di ridurre al massi

mo le possibilità di contestazione della validità degli atti della società, anche per quanto riguarda le delibere consiliari; e ciò

ha fatto, soprattutto, creando un sistema particolarmente limi

tato e rigido di impugnazioni ed una serie di ostacoli al suo

concreto esperimento. Ma questo non è l'unico esempio nel cam

po societario di una deroga ai principi generali in tema di inva

lidità; basti pensare infatti alle cause di nullità del contratto

di società, ridotte a casi tassativi previsti dal legislatore (art.

2332) che operano come cause di scioglimento della società.

Del resto alla conclusione sopra accennata (necessità della pre via impugnazione della delibera onde chiederne la sospensione) deve ad avviso del collegio pervenirsi anche partendo da un an

golo visuale ancora più allargato, raffrontando, cioè, le disposi zioni sopra richiamate (art. 700 c.p.c. e 2378, 4° comma, c.c.) con quelle in materia di sospensione dell'esecuzione di atti col

legiali di diritto privato, atti amministrativi o provvedimenti giu diziali.

Da queste ultime disposizioni è dato trarre l'esistenza, nel

nostro ordinamento positivo, di alcuni principi regolanti l'isti tuto della sospensione in tutte le sue applicazioni, il primo, e

più importante, dei quali è quello secondo cui non può essere

sospesa l'esecuzione di un provvedimento se esso non è stato

preventivamente impugnato. Avuto riguardo al cennato principio, non può certo sostener

si in contrario che il nuovo modello di procedimento cautelare

uniforme ammetta la pronuncia del provvedimento di sospen sione ante causam.

D'altronde, anche gli autori i quali sostengono la compatibi lità «a macchia di leopardo» della nuova disciplina del «caute lare» con la vecchia, restano dell'avviso, se non altro per gli strettissimi termini entro i quali l'impugnazione deve essere pro

posta, che il provvedimento cautelare di sospensione della ese

cuzione delle delibere non possa essere richiesto ante causam. In definitiva, deve ritenersi che anche la richiesta di sospen

sione della delibera del consiglio di amministrazione costituisce un diritto potestativo riconosciuto dall'ordinamento positivo sol

tanto a chi abbia già impugnato la delibera consiliare.

Il ricorso presentato ante causam dalla Russo si manifesta,

pertanto, inammissibile. (Omissis)

Il Foro Italiano — 1995.

TRIBUNALE DI ROMA; sentenza 17 febbraio 1995; Pres. Buc

ci, Est. Giuliani; Soc. Walt Disney Co. e Soc. Buena Vista

Home Video (Avv. Verusio, Ansaldo, Rescigno, Beduschi) c. Soc. Cinepatrizia (Avv. Rocchetti, Placco) e Siae (Avv.

Pinna).

TRIBUNALE DI ROMA;

Diritti d'autore — Opera cinematografica — Caduta in pubbli co dominio — Fattispecie (L. 22 aprile 1941 n. 633, protezio ne del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo eserci

zio, art. 25, 32; d.l.lgt. 20 luglio 1945 n. 440, proroga dei termini per la protezione delle opere dell'ingegno e dei pro dotti tutelati dalla 1. 22 aprile 1941 n. 633, art. 1; d.l.c.p.s. 28 novembre 1947 n. 1430, esecuzione del trattato di pace di Parigi tra l'Italia e le potenze alleate ed associate, all. XV,

punto 3; d.p.r. 8 gennaio 1979 n. 19, applicazione della con

venzione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed

artistiche, riveduta da ultimo con atto firmato a Parigi il 24

luglio 1971, art. 1).

Alle opere cinematografiche realizzate con i cartoni animati di Walt Disney e pubblicate per la prima volta nel periodo 1934-1937 si applica il termine di tutela di cinquanta anni dalla prima proiezione previsto dal d.p.r. 19/79, cui si ag

giunge la proroga di sei anni prevista dal d.l.lgt. 440/45 e

la sospensione del decorso dei termini per il periodo bellico

di cinque anni e dieci mesi introdotta dal trattato di Parigi (nella specie, è stato convalidato il sequestro e confermata l'inibitoria ex art. 700 c.p.c. concessi su domanda del titolare

del diritto e del distributore esclusivo dei cortometraggi di

Walt Disney nei confronti di chi aveva prodotto e posto in

commercio videocassette riproducenti gli stessi cortometraggi ritenendoli caduti in pubblico dominioj. (1)

Alle opere cinematografiche realizzate con i cartoni animati di Walt Disney e pubblicate per la prima volta nel periodo 1946-1948 si applica il termine di tutela dell'opera di cinquan ta anni dalla prima proiezione di cui al d.p.r. 19/79, sicché

le stesse opere non possono ritenersi cadute in pubblico do

minio, anche indipendentemente dall'applicabilità della pro roga di cui al d.l.lgt. 440/45. (2)

(1-2) La sentenza definisce la vicenda giudiziaria apertasi con le do mande di sequestro ante causarti e di inibitoria ex art. 700 c.p.c. propo ste dalla Walt Disney Company (insieme alla distributrice esclusivista) ed accolte, in via cautelare, da Pret. Roma 11 settembre 1992, Foro

it., Rep. 1993, voce Diritti d'autore, n. 65. Il pretore, decidendo nello stesso senso della riportata decisione di merito, aveva adottato una dif ferente prospettiva d'indagine. Invece di ragionare sull'estensione tem

porale della tutela dell'opera cinematografica realizzata con i cartoni animati di Walt Disney, il pretore muoveva infatti dalla duplicità di tutela di cui gode l'opera cinematografica i cui personaggi s'identifichi no con quelli dei cartoni animati: la prima che attiene ai disegni e la seconda relativa al film. Con il risultato che, fin quando perduri la protezione dei disegni dei personaggi di Walt Disney, non può determi narsi la caduta in pubblico dominio dei film che riproducono gli stessi

disegni nella forma e con le tecniche della cinematografia (la decisione

pretorile si legge per esteso in Dir. autore, 1992, 570, con nota adesiva di Fabiani, La durata di protezione dei cartoni di Watt Disney, e Nuo vo dir., 1993, 186). Nella sentenza del tribunale, affiancata da altre due rese in pari data, fra le stesse parti e con identica motivazione — la diversità è data dall'oggetto del contendere e cioè dalle opere cine

matografiche di produzione Walt Disney, fra cui i famosi film «Bianca neve e i sette nani», «Dumbo» e «Bambi» — l'aspetto relativo alla tutela del disegno rimane deliberatamente in secondo piano, sicché alla riaffermazione dell'autonoma tutelabilità del «cartone animato» come

opera dell'ingegno, resistente alle varie manipolazioni (coloristiche, mu sicali, ecc.) finalizzate alla sua utilizzazione in diversi contesti commer ciali, sono riservate soltanto alcune osservazioni finali.

Sulla cumulabilità dei periodi di proroga ex d.l.lgt. 440/45 e di so

spensione bellica, cfr., da ultimo, nello stesso senso della decisione ri

portata, Cass. 4 settembre 1993, n. 9326, Foro it., 1994, I, 947 (in un caso riguardante un film di Charlie Chaplin, proiettato per la prima volta nel 1931 e trasmesso da un'emittente televisiva nel 1982). La Cas sazione precisa che tale conclusione, condivisa dalla sentenza riportata, «consente di secondare l'evidente intento del legislatore di armonizzare e di rendere omogenee, anche quanto ai temini di durata, le tutele delle

opere dell'ingegno, perché una conclusione diversa porterebbe all'irra

gionevole risultato di applicare, per le sole opere cinematografiche, i due istituti esaminati, ad onta della unificazione del termine di prote zione a cinquanta anni». In precedenza, il Tribunale di Roma, sollecita to in sede penale da produttori statunitensi danneggiati dal fenomeno della pirateria cinematografica, si era già espresso favorevolmente al cumulo: cfr. sent. 12 aprile 1985, id., Rep. 1985, voce cit., n. 38

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