ordinanza 24 febbraio 2004; Pres. Sole, Rel. Conte; ric. GallinaSource: Il Foro Italiano, Vol. 127, No. 5 (MAGGIO 2004), pp. 299/300-307/308Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23199346 .
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PARTE SECONDA
I
TRIBUNALE DI PALERMO; ordinanza 24 febbraio 2004; Pres. Sole. Rei. Conte; ric. Gallina.
TRIBUNALE DI PALERMO;
Misure cautelari personali — Termini di durata massima —
Annullamento con rinvio — Termini massimi di fase —
Custodia sofferta nelle more del giudizio di cassazione —
Computabilità (Cod. proc. pen., art. 303, 304).
Nell'ipotesi di annullamento con rinvio di ordinanza pronun ciata dal tribunale della libertà in sede di appello cautelare, il termine finale di fase fissato dall'art. 304, 6° comma, c.p.p. va calcolato sommando al periodo di carcerazione subita nel
giudizio di appello non soltanto quello del giudizio di rinvio
ma anche la durata della custodia durante il giudizio di cas
sazione. (1)
II
TRIBUNALE DI BARI; ordinanza 23 febbraio 2004; Pres.
Putignano, Rei. Parisi; ric. Marchisella.
Misure cautelari personali — Termini di durata massima —
Annullamento con rinvio — Termini massimi di fase —
Custodia sofferta nelle more del giudizio di cassazione —
Computabilità (Cod. proc. pen., art. 303, 304).
In caso di annullamento con rinvio, ai fini del calcolo del ter
mine finale di fase ai sensi dell'art. 303, 2° comma, c.p.p., occorre computare non soltanto la carcerazione relativa alla
fase in cui il procedimento risulta pendente, ma anche quella subita nel corso del procedimento di cassazione conclusosi
con il disposto rinvio. (2)
III
TRIBUNALE DI PALERMO; ordinanza 1° agosto 2003; Pres.
Marino, Rei. Conte; ric. Gambino.
Misure cautelari personali — Termini di durata massima —
Annullamento con rinvio — Termini massimi di fase —
Custodia sofferta nelle more del giudizio di cassazione —
Computabilità — Esclusione (Cod. proc. pen., art. 303, 304).
Nel caso di annullamento con rinvio, ai fini del computo dei
termini di fase non deve tenersi conto della custodia subita
durante lo svolgimento del giudizio in Cassazione; ne conse
gue che il termine massimo di fase, in caso di annullamento
con rinvio, va calcolato operando una sommatoria tra il pe riodo di carcerazione patita nel corso del giudizio la cui pro nuncia sìa stata annullata e quello patito nel successivo giu dizio di rinvio. (3)
(1-3) Le pronunce in epigrafe documentano il vivace quadro interpre tativo profilatosi in giurisprudenza a seguito dell'insorgere di un non tra scurabile contrasto, tra gli orientamenti di legittimità e le ottiche fatte
proprie dalla Corte costituzionale, concernente il tema cruciale del com
puto dei termini massimi di custodia cautelare. Il contrasto risulta, adesso, drasticamente ribadito e condotto alle estreme conseguenze da Cass., sez. un., 31 marzo 2004, Pezzella, che sarà riportata in un prossimo fascicolo.
Il sistema dei termini de libertate, stratificatosi nel tempo a seguito di molteplici ristrutturazioni e ascendente alla Grundnorm contenuta nell'art. 13 Cost., si erge su una triplice scansione funzionale: emergo no, anzitutto, i termini massimi di fase stabiliti dall'art. 303 c.p.p., su scettibili di sospensione (art. 304 c.p.p.) e di proroga (art. 305 c.p.p.); a
questi si affianca, in funzione di argine, un sistema di termini massimi
complessivi (art. 303, 4° comma, c.p.p.); v'è, infine, in veste di clau sola garantistica di sistema, un termine finale invalicabile (art. 304, 6° comma, c.p.p.), che pur risente di talune residue sterilizzazioni conven zionali (art. 304, 7° comma, c.p.p.).
Il tema oggetto delle pronunce in epigrafe investe il computo dei termini di fase nell'ipotesi di regressione del procedimento a seguito di annullamento con rinvio: in tal caso, secondo quanto prevede l'art. 303, 2° comma, c.p.p., dalla data del provvedimento che dispone il rinvio decorrono nuovamente i termini previsti dal precedente 1° comma.
Permaneva il dubbio, tuttavia, circa la computabilità, ai fini del cal colo dei termini massimi di fase, della custodia sofferta in pendenza di fasi del giudizio diverse da quella oggetto di regressione: così, con pre cipuo riguardo all'ipotesi di annullamento con rinvio, risultava pacifico che dovesse computarsi la custodia subita nella fase conclusasi con il
Il Foro Italiano — 2004.
I
Con la suddetta impugnazione la difesa del nominato Gallina
lamenta l'avvenuta decorrenza del termine di fase di custodia
cautelare, avendo lo stesso già patito in secondo grado un perio do di custodia cautelare superiore a quello previsto dall'art. 303, 2° comma, c.p.p.
L'appello è fondato e va, pertanto, accolto.
Con l'istanza predetta, invero, il Gallina lamenta l'avvenuta
provvedimento poi annullato, cui occorreva addizionare la privazione di libertà sofferta nella parallela fase di rinvio; ci si chiedeva, invece, se nel computo dovesse o no altresì rientrare la custodia subita in penden za dell'intermedio giudizio di Cassazione conclusosi con l'annulla mento con rinvio del primo decisum.
Nel corpo di una declaratoria di infondatezza concernente l'art. 303, 4° comma, c.p.p., la Corte costituzionale — secondo una lettura della
pronuncia emersa con insistenza in sede applicativa — pareva inizial mente propendere per la non computabilità della restrizione sofferta du rante il giudizio in Cassazione conclusosi con il rinvio (Corte cost. 18
luglio 1998, n. 292, Foro it., Rep. 1998, voce Misure cautelari perso nali, n. 299). In tal senso si era, peraltro, schierata la giurisprudenza maggioritaria (Cass. 23 marzo 1999, Todesco, id.. Rep. 1999, voce cit., n. 300; 30 marzo 1999, Ostuni, ibid., n. 272; 8 aprile 1999, Della Valle, id., Rep. 2000, voce cit., n. 262; 1 I maggio 1999, Romano, id., Rep. 1999, voce cit., n. 271; 2 giugno 1999, Ambrosino, id.. Rep. 2000, voce
cit., n. 260; 12 luglio 1999, Scotto, id.. Rep. 1999, voce cit., n. 269; 23 novembre 1999, Sanfilippo, id., Rep. 2000, voce cit., n. 257; 2 dicem bre 1999, Macheda, ibid., n. 256; 2 marzo 2000, Pezzella, ibid., n. 254;
contra, invece, Cass. 27 maggio 1999, Villani, id.. Rep. 1999, voce cit., n. 297), confermata dalle sezioni unite (Cass., sez. un., 19 gennaio 2000, Musitano, id., Rep. 2000, voce cit., n. 252).
A fronte del manifestarsi di ulteriori contrasti pur dopo il decisum delle sezioni unite (cfr., in particolare, Cass. 19 marzo 2002, Caterino.
id., Rep. 2002, voce cit., n. 192, che faceva propria la tesi della com
putabilità della custodia sofferta pendente il giudizio in Cassazione), la medesima corte di legittimità nel suo più ampio consesso (Cass., sez.
un., 10 luglio 2002, D'Agostino, ibid., n. 190) sollevava questione di costituzionalità dell'art. 303, 2° comma, c.p.p. «nella parte in cui impe disce di tenere conto, ai fini del computo dei termini massimi di fase stabiliti dal successivo art. 304, 6° comma, dei periodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da quelli in cui il procedi mento è regredito».
Nel dichiarare la manifesta inammissibilità della quaestio, tuttavia, la Corte costituzionale stigmatizzava le modalità di prospettazione del dubbio di costituzionalità, rimarcando come la tesi della necessaria
computabilità, ai fini del calcolo dei termini di fase, anche della custo dia subita in pendenza del giudizio di cassazione fosse l'unica coerente con l'art. 13 Cost., il quale impone di privilegiare la soluzione inter
pretativa che riduca al minimo il sacrificio della libertà personale (Cor te cost. 15 luglio 2003, n. 243, G.U., la s.s., n. 29 del 2003. di seguito confermata da Corte cost. 7 novembre 2003, n. 335, ibid., n. 45 del
2003; per il canone interpretativo secondo cui l'art. 13 Cost, impone al
l'interprete di ricercare la soluzione che riduca al minimo il sacrificio della libertà personale, cfr. Corte cost. 22 novembre 2000, n. 529, Foro it., Rep. 2001, voce cit., n. 190). I termini del delicato contrasto inter venuto tra le due corti sono, peraltro, coloritamente ripercorsi dalla re cente Relazione sulla giurisprudenza delle sezioni unite penali (anni 2002-2003), curata dall'ufficio del massimario della Corte di cassazio ne (red. Leo e Romeo), che si riproduce, di seguito, in parte qua.
La prima su riportata pronuncia s'incanala convintamente nel solco di Corte cost. n. 243 de! 2003, sottoponendo, infatti, a revisione critica il precedente indirizzo (fatto proprio dalla terza pronuncia). Meno con vinta appare, invece, la seconda pronuncia, che pur forzosamente si al linea al solco interpretativo tracciato dalla Corte costituzionale, non
sottacendo, tuttavia, in parte motiva perplessità residue. Per un'analisi del sistema dei termini custodiali, pur nell'ottica pri
vilegiata dei meccanismi sospensivi, cfr., tra gli altri. Conti, La sospen sione dei termini di custodia cautelare. Modelli rigidi e flessibili a
confronto, Padova, 2001. [G. Di Chiara]
* * *
Corte di cassazione - Ufficio del massimario: relazione sulla giu risprudenza delle sezioni unite penali (anni 2002-2003) [estratto in tema di misure cautelari],
(Omissis). 3.1. (Omissis). Si deve infine accennare all'ordinanza 15
luglio 2003, n. 243 (G.U., 1J s.s., n. 29 del 2003), dichiarativa della ma nifesta inammissibilità di una delicatissima questione di legittimità co stituzionale dell'art. 303 c.p.p. riguardante i termini di durata massima della custodia cautelare, sollevata proprio dalle sezioni unite, il 10 luglio 2002 (Foro it., Rep. 2002, voce Misure cautelari personali, n. 190), con ordinanza della quale si diede atto nella relazione dell'anno scorso.
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GIURISPRUDENZA PENALE
decorrenza del termine di fase di secondo grado di custodia
cautelare, avendo lo stesso già patito in secondo grado un perio
do di custodia cautelare superiore a quello previsto dall'art. 303,
2° comma, c.p.p. e chiedendo la scarcerazione «ora per allora».
Va, in via preliminare, rilevato che l'odierno impugnante è
sottoposto a procedimento penale con riferimento ai reati di cui
agli art. 416 bis c.p. e 630, 3° comma, c.p. ed è stato condanna
to, con sentenza del 10 febbraio 1999 della Corte d'assise di
Palermo alla pena di anni trenta di reclusione.
Il successivo giudizio d'appello veniva definito con sentenza
della Corte d'assise d'appello di Palermo del 9 novembre 2000
ma la decisione veniva annullata dalla Corte di cassazione in
data 15 luglio 2002.
Il successivo giudizio d'appello, in sede di rinvio, veniva de
finito con sentenza dell'8 luglio 2003 della Corte d'assise d'ap
pello di Palermo.
Ciò comporta che il termine di fase va determinato, nel caso
in esame, ai sensi dell'art. 303, 1° comma, lett. c), n. 3, in «un
anno e sei mesi, se vi è stata condanna alla pena dell'ergastolo o
della reclusione superiore a dieci anni».
Com'è noto, l'attuale disciplina dei termini di durata massi
ma della custodia cautelare si fonda sulla distinzione tra termini
di fase, fissati con riguardo a ciascuna fase o grado del proce
dimento, termini complessivi, dati dalla somma dei diversi ter
mini di fase, e termini massimi o finali, che segnano limiti as
solutamente invalicabili anche nel caso di proroga o sospensio
ne dei termini di fase o dei termini complessivi. Ai sensi del 6° comma dell'art. 304 c.p.p., il termine finale,
rapportato alla durata complessiva della custodia cautelare, è
pari ai termini previsti dall'art. 303, 4° comma, aumentati della
metà, ovvero, se più favorevole, ai due terzi della pena tempo
ranea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza.
L'invalicabilità di detto limite si desume anche dalla disposi
La delicatezza della questione nasceva, oltre che dalla sua intrinseca
difficoltà, dalla circostanza che sull'argomento, dopo la sentenza co
stituzionale 18 luglio 1998, n. 292 (id., Rep. 1998, voce cit., n. 299), vi
erano state varie decisioni della stessa Corte costituzionale (si allude a
Corte cost. n. 214 del 2000, id., 2000, I, 3391, e n. 529 del 2000, id..
Rep. 2001, voce cit., n. 190), tutte attestate su un'interpretazione non in
linea con i principi affermati da sez. un. 19 gennaio 2000, Musitano,
id.. Rep. 2000, voce cit., n. 252 (la quale era stata chiamata a comporre
contrasti insorti sull'interpretazione dell'art. 303 c.p.p. proprio in se
guito alla citata sentenza 292/98), nonché interventi legislativi di segno
tendenzialmente «compensativo» degli effetti che in particolar modo
una delle successive ordinanze del giudice delle leggi (la n. 529 del
2000, cit.) avrebbero potuto determinare sulle misure cautelari in corso
di esecuzione. La consapevolezza della complessità del problema, anche per le pre
se di posizione della dottrina (la quale, pressoché unanime, aveva ac
colto sfavorevolmente le reiterate pronunce della Consulta), ha ripetu
tamente indotto il primo presidente della corte a sottoporlo nuovamente
al vaglio delle sezioni unite.
All'udienza del 28 febbraio 2001 un primo ricorso (in proc. De Ste
fano) era stato però dichiarato inammissibile per sopravvenuta rinuncia
all'impugnazione. Altro ricorso, fissato per l'udienza del 27 marzo
2002, in proc. De Feo, fu dichiarato inammissibile per intempestività.
Infine, era stato fissato il ricorso D'Agostino per l'udienza del 10 lu
glio 2002, nella quale le sezioni unite, con ordinanza depositata il 25
luglio successivo (id., Rep. 2002, voce cit., n. 190), avevano rimesso
gli atti alla Consulta, ritenendo non manifestamente infondata la que stione di legittimità costituzionale dell'art. 303, 2° comma, c.p.p. nella
parte in cui, al fine del computo del doppio del termine di fase rilevante
— anche per il caso di regressione del procedimento — come limite in
valicabile della custodia cautelare ex art. 304, 6° comma, non consente
di computare periodi di carcerazione relativi ad altre fasi processuali. 11 tono insolitamente polemico dell'ordinanza 243/03 con cui la
Corte costituzionale ha definito il procedimento, optando per una sorta
di diktat interpretativo che per tanti versi lascia perplessi, sia sul tema
specifico che le sezioni unite avevano posto, sia sul piano più generale
della delimitazione delle sfere di attribuzione istituzionali tra giudici
ordinari e giudice delle leggi, certamente costituisce un fatto nuovo
nella storia dei rapporti tra le due alte corti, i quali avevano conosciuto
momenti di tensione solo in epoca ormai remota.
Naturalmente l'episodio non può mettere a repentaglio il dialogo tra
le istituzioni interessate, ma potrebbe determinare non semplici pro
blemi per la certezza del diritto, ove dovesse perdurare, in questo come
in altri settori dell'interpretazione, l'insistenza della Corte costituzio
nale per scelte formalmente non vincolanti, se non per il giudice a quo,
e quindi oggettivamente «deboli», in luogo di decisioni di illegittimità
costituzionale, che hanno, com'è noto, efficacia erga omnes. (Omissis)
Il Foro Italiano — 2004.
zione dettata dal 7° comma dello stesso art. 304, che — nel pre
vedere che nel computo dei termini di cui al 6° comma, salvo
che per il limite relativo alla durata complessiva della custodia
cautelare, non si tiene conto dei periodi di sospensione di cui al
1° comma, lett. b) — sancisce a contrario che, ai fini del com
puto dei termini finali, si deve tenere conto anche dei periodi di
sospensione, con esclusione di quelli concernenti la sopravve
nuta mancanza di assistenza difensiva per uno o più imputati.
Così come delineata, non appare, ad avviso del collegio, di
scutibile che la norma serva, in un certo senso, a «blindare» i
termini di custodia cautelare, determinando un tetto massimo
oltre il quale la carcerazione preventiva non possa essere appli
cata.
Tale prospettazione del resto ha trovato conferma in alcune
significative decisioni della Corte costituzionale (18 luglio
1998, n. 292, Foro it., Rep. 1998, voce Misure cautelari perso
nali, n. 299; 28 luglio 2000, n. 397, id., Rep. 2001, voce cit., n.
191, e 22 novembre 2000, n. 529, ibid., n. 190), in cui si affer ma che l'art. 304, 6° comma, assolve la funzione di «individua
re il limite estremo, superato il quale il permanere dello stato
coercitivo si presuppone essere sproporzionato in quanto ecce
dente gli stessi limiti di tollerabilità del sistema».
Ne deriva, pertanto, che «fungendo da meccanismo di chiusu
ra della disciplina dei termini, la previsione di cui qui si tratta
era e resta autonoma rispetto al corpo dell'articolo nel quale si
trova inserita».
Venendo, nel caso specifico, al problema del regresso, va ri
cordato che la vicenda è stata affrontata dalle sezioni unite della
Suprema corte che, con decisione del 19 gennaio 2000, Musita
no (id., Rep. 2000, voce cit., n. 252), hanno affermato che i ter
mini di fase non devono tenere conto dei termini di svolgimento
del giudizio in Cassazione, dovendosi, pertanto, decorrere ex
novo, nel caso di annullamento della pronuncia di primo grado,
da tale momento il termine di fase in questione.
Seguendo il dictum delle sezioni unite, pertanto, il termine
massimo di fase, nel caso di annullamento da parte della Corte
di cassazione, andrebbe calcolato operando una sommatoria tra
il periodo di carcerazione patita nel corso del giudizio la cui
pronuncia è stata annullata e quello patito nel successivo giudi
zio di rinvio. Alla stregua di tale orientamento, questo tribunale ha più
volte avvalorato detta interpretazione, ritenendola assolutamente
congrua e, soprattutto, rispettosa del dettato dell'art. 303, 2°
comma, c.p.p. Si era infatti ritenuto che, aderendo a diverse soluzioni, sa
rebbe stata operata una sorta di abrogazione implicita del 2°
comma dell'art. 303 c.p.p., secondo cui «Nel caso in cui, a se
guito di annullamento con rinvio da parte della Corte di cassa
zione o per altra causa, il procedimento regredisca a una fase o a
un grado di giudizio diversi ovvero sia rinviato ad altro giudice,
dalla data del provvedimento che dispone il regresso o il rinvio
ovvero dalla sopravvenuta esecuzione della custodia cautelare
decorrono di nuovo i termini previsti dal 1° comma relativa
mente a ciascuno stato e grado del procedimento».
Non ignora, tuttavia, il collegio che, con recentissima deci
sione 15 luglio 2003, n. 243, la Corte costituzionale ha ribadito
che «ben due ordinanze di questa corte avevano ribadito come
costituzionalmente vincolata, in forza del valore espresso dal
l'art. 13 Cost., l'interpretazione secondo cui la custodia cautela
re perde efficacia allorquando la sua durata abbia superato un
periodo pari al doppio del termine stabilito per la fase presa in
considerazione, anche nei casi di regressione del procedimento
(ordinanza n. 214 del 2000, id., 2000, I, 3391) e non avevano
mancato di avvertire che l'orientamento seguito è il solo coe
rente con l'art. 13 Cost., il quale impone di privilegiare la solu
zione interpretativa che riduca al minimo il sacrificio della li
bertà personale». La corte, invero, nel dichiarare la manifesta infondatezza
della questione relativa alla legittimità costituzionale — solle
vata anche dalle sezioni unite della Cassazione — dell'art. 303,
2° comma, c.p.p., «nella parte in cui impedisce di computare ai
fini dei termini massimi di fase determinati dal successivo art.
304, 6° comma, i periodi di detenzione sofferti in una fase o in
un grado diversi da quelli in cui il procedimento è regredito», ha
sottolineato che «per affermare la soluzione posta a base dell'o
dierna questione, le ordinanze di rimessione non adducono una
lettura degli art. 303, 2° comma, e 304, 6° comma, c.p.p. con
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PARTE SECONDA
dotta alla stregua della sola legislazione ordinaria, ma muovono
proprio da una interpretazione dei principi costituzionali che
presiedono la materia, subordinando però il principio di propor zionalità all'appagamento delle esigenze della fase processuale e riducendo il principio del minor sacrificio della libertà perso nale ad una sorta di 'credito di libertà' spendibile nelle eventuali
fasi successive», criticando la posizione assunta dal giudice ri
mettente che, «oltre ad apparire perplessa (in una motivazione
tutta protesa, nella sostanza, a dimostrare l'infondatezza della
questione, il denunciato contrasto si riduce ad un laconico 'for
se'»). La Consulta ha espresso l'esplicito invito al «rispetto delle
reciproche attribuzioni, come se a questa corte fosse consentito
affermare i principi costituzionali soltanto attraverso sentenze
caducatone e le fosse negato, in altri tipi di pronunce, interpre tare le leggi alla luce della Costituzione», richiamando diverse
pronunce già rese, a partire dal 1998 sulla stessa materia (v. ord.
429/99, id.. Rep. 2000, voce cit., n. 251; 529/00, cit.; 214/00, cit.).
In altri termini il giudice delle leggi, ribadendo l'interpreta zione dell'art. 304, 6° comma, c.p.p. precedentemente offerta
nell'ord. 292/98, cit., ha inteso non solo confermare che i prin
cipi allora espressi avevano efficacia dirimente anche per la vi
cenda relativa al computo dei termini in caso di regresso che
aveva originato la questione di legittimità costituzionale solle
vata dalle sezioni unite, ma anche confutare il principio, pari menti esposto dal giudice rimettente, secondo il quale «la pro
porzionalità dei termini di custodia cautelare non può razional
mente prescindere dalle attività previste nella singola fase, du
rante la quale deve essere consentito, permanendo la custodia, il
compimento di specifici atti processuali, con la conseguenza che
imputare alla fase in cui il procedimento regredisce l'intervallo
in cui non era dato svolgere le attività proprie di quella fase si
gnificherebbe scardinare l'assetto delle esigenze che erano state
contemperate». La soluzione, peraltro, non ha trovato un avallo da parte delle
sezioni unite, cui la questione era stata rimessa nuovamente
dalla Corte costituzionale con la sentenza in questione, ma sol
tanto in quanto, nelle more, la sentenza di condanna patita dal
l'impugnante era divenuta definitiva (r.g. 30768/01, ric. D'Ago
stino, ud. 26 novembre 2003, n. sez. 27/2003). Va poi ricordato che la Corte costituzionale, ancora in epoca
successiva — ord. 7 novembre 2003, n. 335 — ha ribadito il
proprio indirizzo.
Non può, invero, discutersi come, nel caso in esame, l'inter
pretazione fornita dalla Corte costituzionale, peraltro ribadita in
ulteriori e recenti pronunce sempre relative alla medesima que stione, attesa l'autorevolezza della fonte, importi, ad avviso del
collegio, una rivisitazione del precedente orientamento anche di
questo tribunale.
Ciò che appare decisivo, ad avviso della Corte costituzionale, è l'inciso «comunque» inserito nel testo dell'art. 304, 6° com
ma, c.p.p., il quale costituisce norma definitiva di sbarramento,
che non può in nessun modo essere superato, neanche nell'ipo tesi prevista dall'art. 303, 2° comma, c.p.p., in cui sia avvenuto
un regresso e debbano decorrere «di nuovo» i termini di custo
dia. Ora, è ben chiaro che l'interpretazione offerta dal giudice
delle leggi dopo l'ulteriore declaratoria di inammissibilità delle
questioni di costituzionalità sollevate dalle sezioni unite e di
quelle che verosimilmente seguiranno su analoghe questioni
proposte da altri giudici di merito — risulta infatti che la stessa
corte, in data 10 dicembre 2003, ha incamerato analoga questio ne sollevata dal Tribunale di Bari e che il 10 febbraio 2004 il
medesimo giudice delle leggi ha deciso altre quattro questioni di
identico tenore, di cui non si conoscono ancora le motivazioni — si pone come l'unica possibile per il giudice ordinario.
D'altra parte, la correttezza costituzionale dell'interpretazio ne resa dal giudice delle leggi non è nemmeno messa in discus
sione dai giudici che hanno fino ad ora continuato a sollevare
ulteriori questioni di costituzionalità relative all'art. 303, 2°
comma, c.p.p. i quali, univocamente, intendono ottenere dalla
Corte costituzionale una caducazione della norma medesima, ritenendola in contrasto con i canoni costituzionali proprio nella
parte in cui non consentirebbe l'estensione del limite invalica
bile rappresentato dall'art. 304, 6° comma, c.p.p. che, invece,
proprio il giudice delle leggi ha ritenuto doversi necessaria
II Foro Italiano — 2004.
mente applicare anche al caso di regresso (v. Trib. Milano, ord.
18 febbraio 2003 - r.o. 451/03; 17 marzo 2003 - r.o. 488/03; 28
febbraio 2003 - r.o. 576/03, tutte e tre esaminate dalla Corte co
stituzionale nell'udienza camerale del 10 dicembre 2003; Trib.
Torino, ord. 11 giugno 2003 - r.o. 841/03, per la quale l'udienza
camerale è stata fissata I'll febbraio 2004). Il che vai quanto dire che appare ormai assolutamente radi
cato il convincimento, anche nei giudici ordinari, che il termine
di fase in caso di regressione del procedimento debba essere
computato tenendo conto del limite invalicabile rappresentato dall'art. 304, 6° comma, c.p.p. che tuttavia non potrebbe trovare
applicazione per effetto del tenore lessicale dell'art. 303, 2°
comma, c.p.p. Se si accede a tale prospettiva, appare allora fuor di dubbio
che non v'è nessuna necessità di indirizzare al giudice delle
leggi questioni di costituzionalità concernenti l'art. 303, 2°
comma, c.p.p. una volta che l'interpretazione, costituzional
mente orientata, delle norme è stata fornita proprio dall'organo
garante della conformità delle leggi ordinarie al quadro dei
principi costituzionali.
Tale considerazione rende vieppiù chiaro che nessuna ulterio
re decisione potrà provenire dal giudice delle leggi che, avendo
offerto la chiave di lettura del precetto — art. 303, 2° comma,
c.p.p. — ha riconosciuto la piena compatibilità della disposizio
ne con i principi costituzionali.
È peraltro pacifico in giurisprudenza che, nel caso in cui la
Corte costituzionale pronunci una sentenza interpretativa di ri
getto, il giudice rimettente può procedere ad una diversa solu
zione interpretativa della norma oggetto della decisione con il
solo limite di non concludere nel senso scartato dalla Corte co
stituzionale.
Ne deriva che, se l'interpretazione della norma denunciata
appaia «l'unica compatibile» con il dettato costituzionale, il
giudice rimettente rimane vincolato alla soluzione adottata sen
za avere alcuna possibilità di sollevare altre questioni di legitti mità costituzionale (cfr. Cass. 16 dicembre 1998, Alagni, id.,
1999, II, 374). Tale principio va completato che la precisazione che ancorché
la sentenza interpretativa di rigetto della Corte costituzionale
non sia munita di efficacia erga omnes, facendo essa sorgere un
vincolo solo nel giudizio a quo, il giudice che, in un diverso
giudizio, intenda discostarsi dall'interpretazione proposta nella
sentenza costituzionale non ha altra alternativa che quella di
sollevare ulteriormente la questione di legittimità, non potendo mai assegnare alla formula normativa un significato ritenuto in
compatibile con la Costituzione.
Orbene, alla luce di tali principi ormai sedimentatisi nella
giurisprudenza di legittimità, ritiene il tribunale che la declara
toria di inammissibilità dell'ulteriore questione di legittimità costituzionale sollevata dalle sezioni unite dell'art. 303, 2°
comma, c.p.p. impedisca la riproposizione della medesima que stione innanzi al giudice delle leggi, rendendo così obbligata la
soluzione interpretativa qui adottata.
Anzi, è vero che le continue rimessioni al giudice delle leggi di questioni che ruotano attorno alla legittimità dell'art. 303, 2°
comma, c.p.p. finiscono col tradire — sospendendo la defini
zione dei procedimenti mentre l'imputato è in vinculis in attesa
della decisione dell'organo costituzionale — quel canone di ef
fettività della giurisdizione che innerva non solo l'ordinamento
costituzionale, ma rappresenta un principio fondamentale affer
mato reiteratamente dalla giurisprudenza comunitaria della
Corte di giustizia e dalla Corte dei diritti dell'uomo dal quale nessun giudice può ormai prescindere.
Proprio con riferimento alla prospettiva sovranazionale, è
convinzione di questo collegio che l'interpretazione offerta
dalla Corte costituzionale del combinato disposto dell'art. 303,
2° comma, c.p. e dell'art. 304, 6° comma, c.p.p. è l'unica che
può preservare il sistema dei termini di custodia cautelare da un
eventuale contrasto con l'art. 5 della convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo.
Se infatti è ormai ius receptum il principio che la detenzione
preventiva si giustifica se ed in quanto sia conforme con la le
gislazione interna ed eviti la possibilità di arbitri — v., sul
punto, Corte eur. diritti dell'uomo 8 novembre 2001, Laumont — è fin troppo chiaro che dopo la presa di posizione della Corte
costituzionale — garante del rispetto dei diritti costituzionali e
fra questi dell'art. 13 Cost. — ogni diversa possibile interpreta
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GIURISPRUDENZA PENALE
zione finirebbe col contrastare irrimediabilmente con la ricor
data disposizione della Cedu che consente le privazioni della li
bertà nei casi, indicati e nei modi previsti dalla legge (v. art. 5,
par. 1, Cedu). Il che è vieppiù dimostrato in modo nitido dalla posizione as
sunta dall'avvocatura dello Stato in seno al procedimento co
stituzionale innescato dalle sezioni unite — e poi definito con la
ricordata ord. 243/03 — che, nel chiedere la declaratoria di
inammissibilità della questione, sostenne come «la questione, avendo ad oggetto la legittimità di una certa interpretazione della norma che, propugnata da una precedente decisione della
Corte di cassazione, è stata espressamente ritenuta non corretta
dall'ordinanza n. 529 del 2000, cit., si ridurrebbe ad un quesito meramente interpretativo, che i rimettenti avrebbero dovuto ri
solvere adottando l'interpretazione conforme a Costituzione, ancorché non condivisa» (v. sempre ord. 243/03).
Dovendo quindi questo tribunale attenersi al principio, più volte ribadito dalla Corte costituzionale, alla stregua del quale il
giudice «ha il dovere di verificare se la norma sia suscettibile di
un'interpretazione conforme a Costituzione» (v. Corte cost.,
ord. n. 279 del 2003, id., 2004,1, 371; n. 19 del 2003; n. 233 del 2002; n. 116 del 2002, id., Rep. 2002, voce Prescrizione penale, n. 16) deve essere — come peraltro già affermato in altre pro nunce rese —
preferita l'interpretazione costituzionalmente
orientata della norma, pena l'inammissibilità della questione. Conclusivamente, anche nel caso di specie il termine finale di
fase fissato dall'art. 304, 6° comma, c.p.p. deve essere calcolato
sommando al periodo di carcerazione subita nel giudizio di ap
pello non soltanto quello di rinvio ma anche la durata della cu
stodia durante il giudizio di cassazione.
Ritiene, pertanto, il collegio assolutamente opportuna una ri
visitazione della questione nel senso prospettato dalla Corte co
stituzionale, considerando l'art. 304, 6° comma, c.p.p. norma di
chiusura dell'ordinamento in tema di custodia cautelare.
Ciò posto va ribadito che, nel caso in questione i termini mas
simi di fase ai sensi dell'art. 304, 2° comma, c.p.p., sono com
misurabili nella durata massima di anni uno e mesi sei, come
ammesso dallo stesso giudice di prime cure, in caso di proroghe, al doppio, ovverosia ad anni tre.
Orbene, nel caso in esame, il termine di fase per l'odierno
impugnante deve ritenersi decorrente dal 10 febbraio 1999, data
in cui è stata pronunciata la sentenza di primo grado, e ritenersi
decorso in data 10 febbraio 2002, a nulla rilevando la circostan
za che l'odierno imputato sia stato nuovamente condannato
dalla corte d'assise d'appello in data 8 luglio 2003.
In considerazione di tali elementi, il termine di fase deve rite
nersi decorso, atteso il dictum della Corte costituzionale, in
detta data, con conseguente diritto del Gallina alla scarcerazione
a decorrere dal 10 febbraio 2002. (Omissis)
II
Con istanza avanzata al giudice di prime cure la difesa ha
chiesto la scarcerazione ai sensi del disposto dell'art. 303, 2°
comma, c.p.p. sul rilievo della protrazione della restrizione in
framuraria da due anni e tre mesi e della fissazione in un anno,
prorogabile per pari durata, del termine massimo di fase della
custodia. Rappresentava, a tal fine, che a seguito della ordinanza
243/03 della Corte costituzionale il superamento del doppio dei
termini di fase doveva ritenersi causa di scarcerazione anche nel
caso, come quello verificatosi per il Marchisella. di regressione del procedimento.
Avverso il provvedimento di rigetto la difesa interponeva istanza di appello ai sensi dell'art. 310 c.p.p. con cui contestava
Yiter motivazionale posto a fondamento della pronuncia. In
particolare evidenziava che la citata pronuncia della Consulta
aveva fugato ogni dubbio residuo circa la necessità di computa re ai fini del disposto del cpv. dell'art. 303 c.p.p. tutta la carce
razione subita, e non solamente i periodi relativi alla medesima
fase in cui il procedimento si trova.
L'appello è fondato e, pertanto, deve essere accolto con ogni
conseguenza di legge.
L'oggetto del gravame riguarda esclusivamente l'interpreta zione della portata dell'art. 303, 2° comma, c.p.p. relativamente
alle modalità del computo dei termini, e cioè se debba essere
sommata la durata di tutta la restrizione ovvero dei soli periodi
Il Foro Italiano — 2004.
riferentisi alla medesima fase in cui si trova il procedimento a
seguito della regressione ai fini del rispetto del termine di cui al
6° comma dell'art. 304 c.p.p. Il rigetto, infatti, verte esclusiva
mente sulla questione indicata dando per acclarata la circostanza
della protrazione della carcerazione del Marchisella da oltre due
anni e della durata massima di fase fissata in un anno.
Operando un revirement rispetto alla consolidata giurispru denza, la Corte di cassazione a seguito della sentenza n. 292 del
1998 della Corte costituzionale (Foro it., Rep. 1998, voce Misu
re cautelari personali, n. 299) ha più volte affermato che la di
mensione normativa della disposizione di cui all'art. 304, 6°
comma, c.p.p. va al di là della disciplina inerente la sospensione dei termini di custodia cautelare — nel cui contesto è pure inse
rita — dovendosi ritenerla vero e proprio meccanismo di chiu
sura del sistema dettato in materia di termini di efficacia delle
misure cautelari.
In merito alla determinazione del meccanismo di calcolo del
suddetto termine ha più volte sostenuto che il disposto dell'art.
303, 2° comma, c.p.p. prevede lo sbarramento e il totale isola
mento di ciascuna singola fase con la conseguenza che, a se
guito di un annullamento o della regressione, ricomincia a de
correre un nuovo e distinto termine sulla cui ampiezza non rile
va né la durata della custodia precedentemente sofferta in altra
fase procedimentale, né le eventualmente disposte sospensioni ai sensi dell'art. 304 c.p.p. Queste ultime rileverebbero ai soli
fini della determinazione della durata massima complessiva ai
sensi del 4° comma dell'art. 303.
In modo particolare è stato ritenuto che la pronuncia della
Consulta citata non abbia inciso sul dettato dell'art. 303, 2°
comma, con la conseguenza che il termine deve essere calcolato
per ciascuna fase alla quale si riferisce, sommando tra loro i vari
periodi di custodia cautelare sofferti nella stessa fase o nello
stesso grado del giudizio, con esclusione dei periodi relativi alle
altre fasi o agli altri gradi (Cass. 11 marzo 1999, Calascibetta,
id., Rep. 1999, voce cit., n. 273; 23 marzo 1999, Todesco, ibid., n. 300; 11 maggio 1999, Romano e altri, ibid., n. 271; 12 luglio
1999, Scotto, ibid., n. 269; 23 settembre 1999, Muollo, ibid., n.
296). Detto orientamento è stato ribadito dalle sezioni unite che,
componendo il contrasto insorto in giurisprudenza sul punto, hanno sancito l'indefettibile necessità di operare, al fine della
verifica del rispetto del termine doppio rispetto a quello di cia
scuna fase di cui all'art. 304, 6° comma, c.p.p., il computo esclusivamente tra i vari periodi di carcerazione fra loro omo
genei, e cioè riferibili alla medesima fase del procedimento
(sentenza 19 gennaio 2000, Musitano, id., Rep. 2000, voce cit., n. 252).
Detto approdo ermeneutico — fatto proprio da successive
pronunce della Suprema corte (25 maggio 2000, Cesarano, ibid.,
n. 253; 2 marzo 2000, Pezzella, ibid., n. 254), ma anche avver
sato da altre (Cass. 23 maggio 2001, Della Corte, id., Rep. 2002,
voce cit., n. 195) — è stato ritenuto condivisibile da questo tri
bunale (ordinanza 593/03 del 16 giugno 2003, ric. Frasheri) sul
rilievo secondo il quale il computo indiscriminato di tutte le fasi
intermedie avrebbe implicato indefettibilmente la perdita della
connotazione endofasica al termine di cui all'art. 303, 2° com
ma, c.p.p. con la conseguenza della introduzione di un nuovo
termine finale plurifasico. La segnalata implicazione veniva ri
tenuta inaccettabile sul piano squisitamente sistematico in
quanto si sarebbe tradotta nell'introduzione nell'impianto codi
cistico un tertium genus di termine — ulteriore e non previsto —
rispetto a quello di fase e complessivo. La soluzione interpretativa proposta, inoltre, si presenta in
perfetta sintonia con la lettera del 2° comma dell'art. 303 c.p.p. la quale prevede che nel caso di regressione o annullamento
«decorrono di nuovo i termini», espressione che lascerebbe in
tendere la sterilizzazione, ai fini del computo del termine di fa
se, della restrizione subita in altro momento del procedimento. Il quadro deve, però, essere oggetto di rivisitazione a seguito
dell'ordinanza della Corte costituzionale del 30 giugno 2003, n.
243, pubblicata sulla G.U. del 23 luglio 2003.
Le sezioni unite (ordinanza 10 luglio 2002, D'Agostino, Foro
it., Rep. 2002, voce cit., n. 190) sottoponevano la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 303, 2° comma, c.p.p. «nella
parte in cui impedisce di computare, ai fini dei termini massimi
di fase determinati dal successivo art. 304, 6° comma, i periodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da quelli
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PARTE SECONDA
in cui il procedimento è regredito». Il giudice a quo dopo avere ribadito che l'interpretazione fatta propria dalle sezioni unite era «l'unica esegeticamente corretta» e che essa rappresentava «una soluzione quantomeno accettabile in relazione agli art. 3 e 13 Cost.» affermava, purtuttavia, che «l'idea di aver fornito un'in
terpretazione costituzionalmente plausibile è oggi da ritenersi
azzardata alla luce dell'ordinanza n. 529 del 2000 della Corte costituzionale (id., Rep. 2001, voce cit., n. 190) e sorge invece il dubbio che il criterio della cumulabilità dei soli segmenti omo
genei contrasti con le norme costituzionali appena richiamate». Nella pronuncia da ultimo menzionata, infatti, la Consulta
aveva evidenziato come la sentenza n. 292 del 1998 avesse già indicato il criterio del cumulo di tutta la detenzione sofferta senza alcuna limitazione proprio in ragione della natura del
provvedimento adottato. Infatti, se non avesse inteso addivenire al menzionato approdo ermeneutico avrebbe dovuto pronunciare un'ordinanza di inammissibilità per irrilevanza della questione atteso che l'interessato comunque non sarebbe stato scarcerato.
Con ordinanza n. 243 del 2003 la Corte costituzionale dichia rava la manifesta inammissibilità della questione sul rilievo se condo il quale «ben due ordinanze (...) avevano però ribadito come costituzionalmente vincolata, in forza del valore espresso dall'art. 13 Cost., l'interpretazione secondo cui la custodia cau telare perde efficacia allorquando la sua durata abbia superato un periodo pari al doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione, anche nei casi di regressione del procedi mento (ordinanza n. 214 del 2000, id., 2000, I, 3391), e non avevano mancato di avvertire che l'orientamento seguito è il solo coerente con l'art. 13 Cost., il quale impone di privilegiare la soluzione interpretativa che riduca al minimo il sacrificio della libertà personale (ordinanza n. 529 del 2000, cit.)».
Ferma restando la indiscutibile valenza delle argomentazioni poste a sostegno dell'opposta soluzione interpretativa, non può non constatarsi che il pronunciamento della Corte costituzionale
(peraltro ribadito nella successiva ordinanza n. 335 del 27 otto bre - 7 novembre 2003) impone l'applicazione del criterio del
computo di tutti i periodi di carcerazione, indipendentemente dalla omogeneità della fase procedimentale cui si riferiscono,
quale unico costituzionalmente compatibile. Il tribunale condivide pienamente le articolate e apprezzabili
argomentazioni con cui il giudice di prime cure ha ritenuto di non adeguarsi al decisum della Consulta a motivo della efficacia non vincolante delle pronunce interpretative di rigetto (anche se la soluzione adottata sia «l'unica compatibile») nei confronti dell'autorità non rimettente, ma ritiene che le peculiari connota zioni della vicenda e gli specifici motivi sviluppati nella pro nuncia del giudice delle leggi non lascino alcun margine all'in
terprete. Già in astratto il principio secondo il quale non è possibile
attribuire alcun effetto vincolante alla decisione di rigetto inter
pretativa trova dei correttivi se è vero che la posizione di vertice ove si colloca la Corte costituzionale fa sì che il giudice ordina rio non possa «sbrigativamente» andare in contrario avviso
avendo, per contro, l'obbligo, anche giuridico, di esplicitare in modo adeguato le ragioni per le quali intende discostarsi dall'o rientamento sì autorevolmente espresso (in questi termini, sez. un. 16 dicembre 1998, Alagni, id., 1999, II, 374).
Il tribunale, pertanto, non avrebbe alcuna alternativa se non
quella di sollevare la questione di legittimità costituzionale che,
proprio perché sorretta dalle argomentazioni sopra esposte —
tutte già scrutinate dalla Corte costituzionale — comporterebbe
ineluttabilmente (e prevedibilmente) una nuova pronuncia di inammissibilità.
Ma proprio le specifiche connotazioni della vicenda impon gono di adeguarsi all'interpretazione proposta dal giudice delle
leggi. Infatti, se è vero che la lettera della legge consente di
ipotizzare due soli approdi ermeneutici tra loro opposti (in que sto senso si sono espresse peraltro le sezioni unite nell'ordinan za di rimessione del luglio 2002) il giudizio di compatibilità co stituzionale dell'uno implica necessariamente l'implicita inco stituzionalità dell'altro. Peraltro, il tenore inequivoco della pro nuncia n. 243 del luglio 2003 lascia pochi margini di incertezza in proposito.
Per tutte le ragioni esposte, il collegio non può non interpreta re la disposizione di cui all'art. 303, 2° comma, c.p.p. nel senso che in caso di regressione debba essere computata tutta la carce razione subita e non solamente quella relativa alla fase in cui il
Il Foro Italiano — 2004.
procedimento risulta pendente, di tal che il Marchisella deve es sere scarcerato ai sensi del combinato disposto degli art. 303, 2°
comma, e 304, 6° comma, c.p.p. Non appare inopportuno annotare, infine, come la stessa rela
zione sulla giurisprudenza delle sezioni unite penali relativa agli anni 2002-2003, pur prospettando perplessità in ordine alla con formità del pronunciamento della Consulta rispetto all'ambito riservato alla Cassazione in merito all'interpretazione della leg ge, ha finito con l'ammettere la connotazione perentoria del
l'interpretazione prospettata dalla Corte costituzionale qualifi candola in termini di «diktat interpretativo».
Ili
(Omissis). Analoghe considerazioni vanno fatte con riferi mento alla lamentata scadenza del termine di fase.
Va, a tal proposito, ricordato che la vicenda in questione è stata affrontata dalle sezioni unite della Suprema corte che, con decisione del 19 gennaio 2000, Musitano (Foro it.. Rep. 2000, voce Misure cautelari personali, n. 252), hanno affermato che i termini di fase non devono tenere conto dei termini di svolgi mento del giudizio in Cassazione, dovendosi, pertanto, decorre re ex novo, nel caso di annullamento della pronuncia di primo grado, da tale momento il termine di fase in questione.
Seguendo il dictum delle sezioni unite, pertanto, il termine massimo di fase, nel caso di annullamento da parte della Corte di cassazione, va calcolato operando una sommatoria tra il pe riodo di carcerazione patita nel corso del giudizio la cui pronun cia è stata annullata e quello patito nel successivo giudizio di rinvio.
In questa linea si colloca la recentissima decisione della Corte
costituzionale, la quale, con pronuncia del 15 luglio 2003, ha ri badito come «quando l'art. 303, 2° comma, c.p.p., fa riferi mento ai termini che decorrono di nuovo, a questi si possono sommare, nel rispetto dell'art. 304, 6° comma, solo entità omo
genee, e cioè i periodi trascorsi nella stessa fase».
Tale interpretazione, invero, proprio per l'autorevolezza della
fonte, deve ritenersi, ad avviso del collegio, assolutamente insu
perabile, con la conseguenza che, nel caso in questione, il ter mine massimo di fase, così come ricavabile dal combinato di
sposto degli art. 303, 2° comma, c.p.p., e 304, 6° comma, c.p.p., non può considerarsi decorso.
Va, a tal proposito, rilevato che, nel caso in questione i termi ni massimi di fase ai sensi dell'art. 304, 2° comma, c.p.p., sono commisurabili nella durata massima di anni uno, come ammesso dallo stesso giudice di prime cure, in caso di proroghe, al dop pio, ovverosia ad anni due.
Orbene, nel caso in esame, operando una somma tra la carce razione patita dal Gambino nel primo giudizio d'appello, la cui
pronuncia è stata annullata (mesi otto, dal 20 giugno 2000, data in cui è stata pronunciata la sentenza di primo grado, al 19 mar zo 2001, data in cui è stata pronunciata la sentenza d'appello) e
quella patita nel nuovo giudizio d'appello, dalla data del regres so (mesi nove e giorni dieci, dal 4 novembre 2002, data in cui è stata pronunciata la sentenza che ha disposto il regresso, al 14
luglio 2003, data di proposizione dell'istanza di revoca), avve nuto in seguito alla pronuncia di annullamento con rinvio da
parte della Corte di cassazione, il termine di due anni non può essere considerato, in atto, superato, avendo lo stesso patito un
anno, cinque mesi e dodici giorni di custodia nella fase d'ap pello.
In considerazione di tali elementi, il termine di fase non deve ritenersi decorso, atteso che, secondo il dictum della Cassazio
ne, nel caso in esame, va operata una sommatoria tra i termini
omogenei di fase patiti dal Gambino nei due diversi gradi di
giudizio d'appello svolti nei suoi confronti. (Omissis)
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