ordinanza 29 settembre 1983; Pres. Chiarolla; imp. MagnoniSource: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 4 (APRILE 1984), pp. 201/202-203/204Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23176062 .
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GIURISPRUDENZA PENALE
bilità della C., ed anzi agli inquirenti consegnate dai geni tori di lei. Cosi pure per quel che attiene il numero delle fiale
della medesima sostanza (534) che è stata incontrovertibilmente
accertata e decisamente non contestata, sulla scorta del computo matematico effettuabile dall'esame delle numerose ricette mediche
che la ragazza si era fatte rilasciare da più sanitari. La conse
guenza è che costei ha detenuto in passato quantità certamente
non modiche di morfina e che, da ultimo, fu sorpresa nella
effettiva disponibilità di ulteriori 80 fiale, contenenti complessivi 1.600 mg. di sostanza attiva.
Del pari oggettivamente incontestabile è che le 543 fiale di
morfina cui fa riferimento il capo /) furono tutte assunte dalla
C. nell'arco di circa un mese (il capo d'imputazione fa ri
ferimento ad un periodo che va dall'I 1 febbraio al 13 marzo
1980). La circostanza si è definita oggettivamente incontestabile,
in quanto le emergenze processuali non offrono elemento alcuno
per potere sia pure sospettare che di quella quantità di droga, solo una minima parte sia stata ceduta dalla prevenuta a terze
persone. Il quadro clinico e psicologico che di lei si traccia nella
perizia tossicologica, unitamente alle dichiarazioni dei sanitari che
la C. ebbero in cura, offrono di costei l'immagine sconvol
gente e penosa di una giovane tanto intensamente dedita all'as
sunzione di droga, da sconcertare.
Pertanto ci si trova di fronte alla singolare situazione di
addebitare alla prevenuta la detenzione di notevole quantitativo di stupefacenti, i quali, però, furono interamente consumati dalla
C. medesima.
Per adoperare una terminologia aderente alla vigente normati
va, costei ha illecitamente acquistato e dunque detenuto sostanze
stupefacenti per uso personale non terapeutico.
Ora, non vi è dubbio che ove la quantità di droga fosse stata
« modica », alla C. sarebbe stata riconoscibile la causa di
non punibilità preveduta dalla prima parte del capoverso del
l'art. 80 1. 685/75. Ma il dato oggettivo riconducibile alla quantità non consente il ricorso a tale sorta discriminante.
D'altronde è altrettanto certo che tutto il quantitativo di
morfina che la C. era riuscita ad accumulare, facendo ricorso alla
pluriricettazione, fu da lei consumato.
È ferma opinione del collegio che la fattispecie in esame debba
andare inquadrata nella previsione elaborata nella seconda parte del citato 2° comma dell'art. 80.
Il quale estende la causa di non punibilità ricordata dianzi an
che « a chi abbia a qualsiasi titolo detenuto le sostanze medesime
di cui abbia fatto uso esclusivamente personale ».
Occorre, infatti, addentrarsi in una operazione interpretativa della surriportata disposizione e chiedersi quale sia la ragione
della sua esistenza, del suo inserimento nell'ambito dell'art. 80.
Rimarca, in primo luogo, l'uso che il legislatore ha fatto delle
forme verbali che reggono il dettato normativo. Dopo avere
precisato che non è punibile « chi acquista o comunque detiene »,
passa a considerare la posizione di chi « abbia detenuto ».
La lettera della legge non può considerarsi casuale: ci si
intende chiaramente riferire a situazioni pregresse, caratterizzate
da una specialissima condizione dell'agente, il quale si sia trovato,
antecedentemente al momento dell'accertamento, nella disponibili
tà di sostanze stupefacenti, da lui stesso esaurite in conseguenza
di una completa assunzione personale. Di più: l'inciso, cui si va
facendo riferimento, specifica addirittura che la valutazione deve
andare svincolata dal riferimento alla quantità di droga già
detenuta. Ciò significa l'espressione «le sostanze medesime»;
atteso che con essa si opera un richiamo alla natura delle
sostanze elencate e specificate nel 1° comma (« sostanze stupefa
centi o psicotrope di cui alle prime quattro tabelle dell'art. 12 »)
e non già alla individuazione del concetto di modicità inserito
nella prima parte del capoverso dell'articolo.
Ed allora, non vi è dubbio che la legge ha ritenuto di prendere
altresì in considerazione il caso del tossicodipendente, il quale,
procuratasi una quantità non modica di droga (tale da ricondurre
la sua condotta in seno alla previsione dell'art. 7), essa tutta
consumi per le sue necessità ancorché non terapeutiche.
La ratio di tale impostazione appare di palmare evidenza, sol
che si pensi come lo strumento legislativo del 1975 abbia inteso
perseguire e gravemente sanzionare, tra le altre condotte, anche il
fatto di chi, disponendo di quantità non modiche di stupefacenti,
costituisca oggettivo e concreto pericolo per la collettività, in
vista di una sua disponibilità alla cessione a terzi di (parziali)
quantitativi di droga. Ma quando sia provato che l'accumulazione di scorte quel
pericolo non abbia potuto rappresentare, in quanto il tossicodi
pendente esse abbia personalmente ed interamente assunto, il
segnalato pericolo, al quale sostanzialmente la normativa in
parola si informa, è venuto a mancare. Da qui la previsione della
causa di non punibilità per chi « abbia detenuto », ma ne « abbia
fatto uso esclusivamente personale », ancorché la quantità di
stupefacente non possa considerarsi « modica ». Viene a mancare,
cioè, la connotazione offensiva della condotta e dunque la sostan
ziale antigiuridica della medesima.
Che questa sia l'interpretazione corretta dell'inciso di cui si va
discutendo, d'altronde, è autorevolmente sostenuto dalla Suprema corte regolatrice, la quale, da ultimo, con sentenza I sezione 27
gennaio 1982 (udienza del 26 novembre 1981), n. 868, imp. S.,
(Foro it., Rep. 1982, voce Stupefacenti, n. 65), ha affermato che
«l'art. 80, 2° comma, 1. 685/75 prevede la non punibilità di colui
che abbia personalmente consumato tutta la droga che sia riuscito
a procurarsi, prescindendo da ogni riferimento quantitativo, per
ché quel dato di fatto (totale consumo) non lascia adito al rischio
che le sostanze, anche se procurate per uso personale proprio,
possano essere eventualmente cedute a terzi ».
Pare, dunque, al collegio che il conforto offerto dal pensiero della Corte di cassazione sia avallo autorevole alla decisione di
ritenere il fatto ascritto alla C. al capo g) non punibile.
(Omissis)
TRIBUNALE DI MILANO; ordinanza 29 settembre 1983; Pres.
Chiarolla; imp. Magnoni.
TRIBUNALE DI MILANO;
Parte civile — Bancarotta — Azionisti — Danni patrimoniali
e morali — Costituzione — Ammissibilità (Cod. civ., art. 2395;
cod. proc. pen., art. 22; r.d. 16 marzo 19+2 n. 267, disciplina
del fallimento, art. 240).
È ammissibile, nel procedimento per bancarotta fraudolenta, la
costituzione di parte civile di un gruppo di azionisti di due
istituti di credito in liquidazione coatta, al fine di ottenere il
risarcimento del danno patrimoniale, consistente nella mancata
negoziazione dei titoli cagionata dalla falsità dei bilanci, e del
danno morale conseguente al reato. (1)
11 difensore di Pier Sandro Magnoni — con l'adesione dei
difensori degli altri imputati — ha tempestivamente proposto
opposizione alla costituzione di parte civile di alcuni azionisti di
B.P.F. e di B.U., sostenendo che il danno che essi possono
lamentare in quanto azionisti della società di cui fu dichiarato lo
stato di insolvenza, è solo il riflesso di quello eventualmente
arrecato al patrimonio sociale. Nell'ipotesi di liquidazione coatta
amministrativa tutte le azioni per la conservazione e la reintegra
zione del patrimonio sociale sono riservate al commissario liqui
datore al quale l'art. 240 r.d. 16 marzo 1942 n. 267 attribuisce
espressamente l'esercizio dell'azione di risarcimento nel procedi
mento penale per reati di bancarotta, facendo salva solo la azione
individuale del singolo creditore quando manca la costituzione
del liquidatore o quando egli intenda « far valere un titolo di
azione propria personale », che dalla prevalente giurisprudenza
viene considerata un'azione aquiliana, nettamente distinta da
quella di natura contrattuale relativa alla sua posizione di credi
tore della società fallita.
Pertanto — secondo le osservazioni dell'opponente — per un
verso la disciplina positiva della legittimazione a costituirsi parte
civile nel procedimento penale per bancarotta, conclusivamente
racchiusa nel citato art. 240 1. fall., non attribuisce all'azionista
siffatta legittimazione; per altro verso tutto il danno che egli può
accusare come conseguenza dei fatti di bancarotta, addebitati agli
amministratori, sindaci, direttori e loro concorrenti, è sempre e
soltanto un riflesso del depauperamento da essi cagionato al
patrimonio sociale, in altre parole un danno indiretto.
I difensori delle parti civili hanno contestato questa tesi,
riaffermando con vari argomenti la legittimazione dei loro assisti
ti.
(1) L'ordinanza che si riporta — resa nel corso del processo per
bancarotta fraudolenta instaurata a carico degli amministratori della
Banca privata finanziaria e della Banca unione — riecheggia, sotto il
profilo dell'ammissibilità dell'azione propria dei singoli azionisti per i
danni patrimoniali, Cass. 3 giugno 1980, Brembilla, Foro it., Rep.
1981, voce Bancarotta, n. 50, e la più remota Cass. 12 giugno 1964,
Marino, id., Rep. 1965, voce cit., n. 46. Per contro, non constano
precedenti in ordine al danno morale. Per tale ultimo profilo, in dottrina, Provinciali, Trattato, Milano,
1974, IV, 2742; Antolisei, Manuale, Milano, 1979, IV, 249.
Ulteriori riferimenti in Nuvolone, Fallimento (reati), voce dell'Enei
clopedia del diritto, Milano, 1967, XVI, 500 s.
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PARTE SECONDA
Il p.m. ha espresso parere favorevole all'ammissione della loro costituzione in giudizio.
Per chiarire i termini della questione è bene anzitutto precisare che, fra tutti i diritti che nell'insieme compongono lo status di
socio, quello che sicuramente viene compresso o interamente annullato da fatti di bancarotta fraudolenta (soprattutto per distrazione, senza tuttavia escludere la possibilità che tale tipo di danno sia conseguenza di bancarotta documentale o di bancarotta
impropria) è il diritto alla quota di liquidazione, per la semplice ragione che, atteggiandosi il reato di bancarotta come causa o
concausa del dissesto, il patrimonio netto della società si annulla
o quanto meno risulta nettamente inferiore alla entità che esso
avrebbe avuto se gli amministratori, con la loro condotta crimi
nosa, non avessero cagionato alla società un certo danno.
Ma per il socio l'annullamento o la riduzione del valore della
ipotetica quota di riparto dell'attivo è un danno soltanto mediato in quanto riflesso di quello direttamente arrecato al patrimonio della società, la cui tutela è riservata, ai sensi degli art. 240 1.
fall, e 2394 c.c., all'organo della liquidazione.
Viceversa, per tutte le altre situazioni giuridiche soggettive del socio, che con la dichiarazione di insolvenza vengono cancel late dalla sfera giuridica di questo (diritto di voto, diritto al dividendo deliberato, diritto di opzione negli aumenti di capitale, diritto di impugnativa delle delibere, ecc.) non si può parlare di
una loro violazione come conseguenza della bancarotta, perché essi si trovano normalmente allo stato latente di mera aspettativa e diventano diritti quando si verificano i presupposti immediati
per il loro esercizio (svolgimento dell'assemblea per il voto, formazione di una delibera per la successiva impugnazione; au
mento del capitale per l'opzione e via dicendo).
Ma, dal momento in cui la società viene in liquidazione coatta, è chiaro che quei presupposti non potranno più verificarsi e
dunque i fatti di bancarotta, anche se hanno avuto una efficienza
determinante nel dissesto, non sopprimono dei diritti, ma fanno
venire meno delle semplici aspettative.
Dunque, per le conseguenze negative (dei reati di bancarotta) che investono la sfera dei diritti del socio, o non è configurabile un danno in senso tecnico, o si tratta di un danno indiretto,
avvertito, prima che dal socio, dalla stessa società.
Ma queste considerazioni non risolvono completamente la que stione in esame, perché i reati di bancarotta potrebbero essere
causa di un danno che non riguardi propriamente i diritti del
socio, ma che sia in qualche modo connesso alla disponibilità di
titoli azionari.
■In altre parole, per risolvere il problema, occorre stabilire se, oltre alla riduzione o al totale annullamento del valore della
quota di liquidazione, il socio in quanto tale possa astrattamente
risentire un altro danno che sia però conseguenza diretta del
reato di bancarotta.
Orbene la soluzione affermativa discende direttamente dall'art.
2395 c.c., il quale espressamente considera « il diritto » al risar
cimento del danno spettante al singolo socio o al terzo che sono
stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori e richiama tale diritto per escludere che esso
possa soggiacere alla disciplina concernente la responsabilità con
trattuale degli amministratori verso la società e verso i creditori
sociali la cui ultima azione va inquadrata, secondo la migliore
dottrina, nella tipologia dell'azione surrogatoria. Sistema coerente ove si consideri che i diritti della società sono
tutelati con l'azione sociale di responsabilità prevista dall'art.
2393 c.c., che ha natura sicuramente contrattuale; la stessa azione
è proponibile anche da creditori sociali nel limite delle legittima zione surrogatoria loro spettante ai sensi dell'art. 2394 c.c.
L'art. 2395 c.c., invece, si riferisce alla responsabilità degli amministratori per gli atti dolosi o colposi, compiuti nell'esercizio
del loro ufficio, che abbiano danneggiato singoli soci o terzi
« direttamente », nel senso che la lesione deve incidere su diritto
loro pertinente e non su diritto facente parte del patrimonio
sociale, alla cui reintegrazione essi hanno un mero interesse.
Conseguenzialmente, avendo preso in considerazione un diritto
del socio del tutto indipendente da quello della società nei
confronti degli stessi amministratori, in caso di fallimento o di
liquidazione coatta amministrativa l'esercizio della relativa azione
non spetta al curatore del fallimento o al commissario liquidato
re, come invece è previsto dall'art. 2394, 3° comma, c.c. per l'azione « surrogatoria » spettante al creditore sociale.
Ma è ovvio che la semplice previsione legislativa di un
possibile danno cagionato « direttamente » al socio da atti colposi o dolosi compiuti dagli amministratori nell'esercizio del loro
ufficio, non sarebbe del tutto convincente, se non fosse possibile riscontrare fattispecie concrete in cui siffatto danno si verifica.
Una autorevole dottrina ha ricordato in proposito che la norma
in esame (art. 2395 c.c.) venne coniata per la prima volta quale art. 252 del progetto di codice di commercio Asquini e che i
compilatori ebbero sott'occhio la fattispecie, allora dibattuta e
assunta a « caso tipico », del danno cagionato dagli amministrato
ri a terzi con l'indurii alla sottoscrizione o all'acquisto di azioni a
prezzo eccessivo mediante la redazione di bilanci falsi o artificio
si; e vollero disciplinarla richiamando espressamente a carico
degli amministratori l'applicazione del diritto comune, vale a dire
la responsabilità per il fatto illecito di cui all'attuale art. 2043 c.c.
L'esempio non si discosta molto dalla situazione concreta in cui
potrebbero essersi trovati i soci della Banca privata finanziaria o
della Banca unione, che di fronte a bilanci costantemente in
attivo, ma — secondo le tesi accusatorie — falsi e sostanzialmen
te in perdita, si astennero dal negoziare i titoli in loro possesso
(prima del totale azzeramento del loro valore) proprio perché tratti in inganno da quelle comunicazioni sociali non veritiere che
oggi sono prospettate come fatti di bancarotta ai sensi dell'art.
23, 2° comma, 1. fall, e dell'art. 2621 c.c.
Quindi, per concludere su questo punto deve riconoscersi che
un caso concreto di danno materiale diretto per i singoli soci è
sicuramente configurable quanto meno in relazione al reato di
cui agli articoli ora richiamati.
È però doveroso aggiungere per completezza che la mancata
previsione — nella legge fallimentare — della legittimazione del
socio o del terzo a costituirsi parte civile per i danni direttamen
te loro derivati da reati di bancarotta, non significa affatto che
egli non ne sia legittimato, derivando tale legittimazione dalle
norme ordinarie di cui agli art. 185 c.p. e 2043 c.c.
La esplicita previsione contenuta nell'art. 240, 2° commma, 1.
fall., della legittimazione attribuita al creditore quando manca la
costituzione del curatore o quando intende far valere un titolo di
azione propria personale ha una sua giustificazione. Nella prima ipotesi (quando manca la costituzione del curatore)
si tratta di fattispecie analoga all'azione surrogatoria di cui all'art.
2394 c.c. con una disciplina parzialmente difforme per il fatto
che, quando si è in presenza di un mero fallimento, il creditore
non può sostituirsi al curatore inattivo, mentre, se si è verificata
una bancarotta fraudolenta, l'inerzia del curatore è condizione
della legittimazione del creditore.
Nella seconda ipotesi (quando il creditore intende far valere un
titolo di azione propria personale) si tratta invece della normale
azione aquiliana già riconosciutagli, oltre che dai principi genera
li, anche dall'art. 2395 c.c.
Malgrado la equivalenza (sotto questo profilo) delle due norme
(2395 c.c. e 240 1. fall.), la ripetizione in sede di legislazione fallimentare si è resa necessaria per evitare una interpretazione letterale dell'art. 240 1. fall, nella parte in cui consentiva ai
creditori di « costituirsi parte civile nel procedimento penale per bancarotta fraudolenta quando manca la costituzione del curato
re », con la conseguenza assurda che la presenza in giudizio del
curatore potesse ostacolare la costituzione del creditore che voles
se agire per un danno « diretto » del tutto indipendente dal
credito verso la società.
Oltre che per le considerazioni fin qui svolte, la ammissibilità
della costituzione di parte civile dei soci azionisti discende altresì
con assoluta certezza dalla configurabilità di un danno non
materiale risarcibile ai sensi dell'art. 185 c.p., anche in relazione
ai reati di bancarotta.
In primo luogo va osservato che il danno morale, generalmente considerato come sofferenza psichica, non può essere risentito da
una persona giuridica in quanto tale e quindi non rientra nella
sfera di interessi tutelati dall'azione risarcitoria del curatore o del
commissario liquidatore. Viceversa l'evento giuridico integrante il reato di bancarotta,
con tutte le conseguenze di ordine materiale che esso comporta a
scapito del piccolo azionista, che per avventura avesse investito
tutti o gran parte dei suoi risparmi in titoli della società fallita, non passa certo senza lasciare segni di amarezza, di sdegno, di
sconforto nell'animo del soggetto che ne è vittima.
Questa è effettiva sofferenza morale, non meno di quella derivante dai reati contro la persona, ed essendo conseguenza diretta del delitto di bancarotta è suscettibile di risarcimento e di
tutela mediante la costituzione di parte civile.
Per tutte queste ragioni deve essere ritenuta ammissibile in
generale la costituzione in giudizio degli azionisti della società
fallita o dichiarata insolvente ai sensi dell'art. 195 1. fall. (Omis
sis)
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