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Ortiz Presunzioni Rotali Forma Matrimoni Misti

Date post: 25-Dec-2015
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LE PRESUNZIONI GIUDIZIARIE DELLA GIURISPRUDENZA ROTALE IN MATERIA DI FORMA E MATRIMONI MISTI * Miguel A. Ortiz 1. Premessa. Cenno alle presunzioni relative ai matrimoni misti.– 2. La giurisprudenza rotale in tema di forma del matrimonio. La presunzione di correttezza formale e la forma al servizio della verità sul matrimonio. – 3. La presunzione di obbligatorietà: la soppressione della clausola di esenzione per abbandono formale della Chiesa.– 4. Elementi formali richiesti per la validità. La concessione e accettazione della delega.– 5. Un cenno alle presunzioni in tema di forma straordinaria.– 6. Le presunzioni nella supplenza di facoltà (can. 144).– 7. La “invalida convalidazione” e la portata del consenso di chi intende “regolarizzare” un precedente matrimonio civile 1. PREMESSA. CENNO ALLE PRESUNZIONI RELATIVE AI MATRIMONI MISTI La materia che mi è stata affidata per questa ultima relazione dei nostri incontri e per alcuni versi molto amplia e per altri assai limitata. Ampia, perché i canoni riguardanti la forma del matrimonio e i matrimoni misti sono numericamente considerevoli, ma limitata perché le cause di nullità (e conseguentemente l'interessamento diretto della giurisprudenza rotale in merito) sono decisamente scarse. Il motivo va ovviamente cercato negli scarsi requisiti ad validitatem riguardanti la forma e (ancora di più) i matrimoni misti. Dovendo decidere come focalizzare il mio intervento, ho deciso di farlo su alcuni punti relativi alla forma, che è maggioritariamente oggetto della giurisprudenza rotale. Riguardo ai matrimoni misti, possiamo segnalare tre presunzioni (o almeno presentate tali dalla giurisprudenza). La prima riguarda lo stesso presupposto dei matrimoni misti, che è quello di legare “due persone battezzate” (can. 1124). Il can. 1055 § sancisce che il matrimonio tra battezzati è “per ciò stesso” sacramento, per il solo fatto di essere celebrato tra battezzati 1 . Qualche volta la giurisprudenza si è riferita a questa condizione sacramentale del matrimonio tra battezzati riferita ai matrimoni misti. In realtà, si tratta più che di una presunzione, di una dimensione dello stesso matrimonio: se valido, il matrimonio tra battezzati è sacramento, * Pubblicato in AA.VV., Presunzioni e matrimonio, Città del Vaticano 2012, 339-370. 1 Ci siamo occupati dell'argomento in Sacramento y forma del matrimonio. El matrimonio canónico celebrado en forma no ordinaria, Pamplona 1995, 309-319. Cfr. gli interventi dei card. Höffner e Ratzinger durante la Plenaria del 1981, a sostegno del carattere sacramentale dei matrimoni dei protestanti, indipendentemente della considerazione come sacramentali o meno da parte degli acattolici: “numquam excludimus quod tale matrimonium inter partem catholicam et protestanticam sit sacramentum; sed hoc valet etiam si partis protestanticae mens est non esse sacramentum; obiective est sacramentum, et fuit semper doctrina” (card. Höffner, in PONTIFICIUM CONSILIUM DE LEGUM TEXTIBUS INTERPRETANDIS, Acta et documenta Pontificiae Commissionis Codici Iuris Canonici Recognoscendo, Congregatio Plenaria Diebus 20-29 octobris 1981 habita , Typ. Pol. Vat. 1991, 458); “si nos dicimus exclusionem sacramentalitatis invalidare sacramentum, ego praevideo eos dicere in suis publicationibus nos nunc matrimonia mixta quasi impossibilia reddere, quia exclusio sacramentalitatis a parte protestantica ea invalida faceret” (card. Ratzinger, in ibid.). Cfr. anche S. BERLINGÒ, I matrimoni misti: la disciplina canonica (can. 1124-1129) , in AA.VV. (a cura di P.A. Bonnet-C. Gullo), Diritto matrimoniale canonico, vol. III, Città del Vaticano 2005, 169-184; J. KOWAL, Comunione ecclesiastica e diritto matrimoniale, in Ibid., 185-206; S. VILLEGGIANTE, Dispensabilità dalla forma di celebrazione del matrimonio e problemática inerente all'abbandono della fede con atto formale (can. 1124) , in Ibid., 207-222; D. SALACHAS, Matrimoni misti nel Codice latino e nel Codice dei canoni delle Chiese Orientali cattoliche , in Ibid., 223-286; A. MONTAN, Matrimoni misti e problemi pastorali , in Ibid., 287-320; C.J. ERRÁZURIZ M., I matrimoni misti: approccio interordinamentale e dimensioni di giustizia , in Ius Ecclesiae 17 (2005) 221-245; P. MONETA, Il matrimonio tra persone di diversa fede religiosa, in Il Diritto Ecclesiastico 114 (2003) 1319-1333. 1
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LE PRESUNZIONI GIUDIZIARIE DELLA GIURISPRUDENZA ROTALE IN MATERIA DI FORMA E MATRIMONI MISTI*

Miguel A. Ortiz

1. Premessa. Cenno alle presunzioni relative ai matrimoni misti.– 2. La giurisprudenza rotale in tema di forma del matrimonio. La presunzione di correttezza formale e la forma al servizio della verità sul matrimonio. – 3. La presunzione di obbligatorietà: la soppressione della clausola di esenzione per abbandono formale della Chiesa.– 4. Elementi formali richiesti per la validità. La concessione e accettazione della delega. – 5. Un cenno alle presunzioni in tema di forma straordinaria.– 6. Le presunzioni nella supplenza di facoltà (can. 144).– 7. La “invalida convalidazione” e la portata del consenso di chi intende “regolarizzare” un precedente matrimonio civile

1. PREMESSA. CENNO ALLE PRESUNZIONI RELATIVE AI MATRIMONI MISTI

La materia che mi è stata affidata per questa ultima relazione dei nostri incontri e per

alcuni versi molto amplia e per altri assai limitata. Ampia, perché i canoni riguardanti la forma

del matrimonio e i matrimoni misti sono numericamente considerevoli, ma limitata perché le

cause di nullità (e conseguentemente l'interessamento diretto della giurisprudenza rotale in

merito) sono decisamente scarse. Il motivo va ovviamente cercato negli scarsi requisiti ad

validitatem riguardanti la forma e (ancora di più) i matrimoni misti. Dovendo decidere come

focalizzare il mio intervento, ho deciso di farlo su alcuni punti relativi alla forma, che è

maggioritariamente oggetto della giurisprudenza rotale.

Riguardo ai matrimoni misti, possiamo segnalare tre presunzioni (o almeno presentate

tali dalla giurisprudenza). La prima riguarda lo stesso presupposto dei matrimoni misti, che è

quello di legare “due persone battezzate” (can. 1124). Il can. 1055 § sancisce che il matrimonio

tra battezzati è “per ciò stesso” sacramento, per il solo fatto di essere celebrato tra battezzati1.

Qualche volta la giurisprudenza si è riferita a questa condizione sacramentale del matrimonio

tra battezzati riferita ai matrimoni misti. In realtà, si tratta più che di una presunzione, di una

dimensione dello stesso matrimonio: se valido, il matrimonio tra battezzati è sacramento,

* Pubblicato in AA.VV., Presunzioni e matrimonio, Città del Vaticano 2012, 339-370.

1 Ci siamo occupati dell'argomento in Sacramento y forma del matrimonio. El matrimonio canónico celebrado en forma no ordinaria, Pamplona 1995, 309-319. Cfr. gli interventi dei card. Höffner e Ratzinger durante la Plenaria del 1981, a sostegno del carattere sacramentale dei matrimoni dei protestanti, indipendentemente della considerazione come sacramentali o meno da parte degli acattolici: “numquam excludimus quod tale matrimonium inter partem catholicam et protestanticam sit sacramentum; sed hoc valet etiam si partis protestanticae mens est non esse sacramentum; obiective est sacramentum, et fuit semper doctrina” (card. Höffner, in PONTIFICIUM CONSILIUM DE LEGUM TEXTIBUS INTERPRETANDIS, Acta et documenta Pontificiae Commissionis Codici Iuris Canonici Recognoscendo, Congregatio Plenaria Diebus 20-29 octobris 1981 habita, Typ. Pol. Vat. 1991, 458); “si nos dicimus exclusionem sacramentalitatis invalidare sacramentum, ego praevideo eos dicere in suis publicationibus nos nunc matrimonia mixta quasi impossibilia reddere, quia exclusio sacramentalitatis a parte protestantica ea invalida faceret” (card. Ratzinger, in ibid.). Cfr. anche S. BERLINGÒ, I matrimoni misti: la disciplina canonica (can. 1124-1129), in AA.VV. (a cura di P.A. Bonnet-C. Gullo), Diritto matrimoniale canonico, vol. III, Città del Vaticano 2005, 169-184; J. KOWAL, Comunione ecclesiastica e diritto matrimoniale, in Ibid., 185-206; S. VILLEGGIANTE, Dispensabilità dalla forma di celebrazione del matrimonio e problemática inerente all'abbandono della fede con atto formale (can. 1124), in Ibid., 207-222; D. SALACHAS, Matrimoni misti nel Codice latino e nel Codice dei canoni delle Chiese Orientali cattoliche , in Ibid., 223-286; A. MONTAN, Matrimoni misti e problemi pastorali, in Ibid., 287-320; C.J. ERRÁZURIZ M., I matrimoni misti: approccio interordinamentale e dimensioni di giustizia, in Ius Ecclesiae 17 (2005) 221-245; P. MONETA, Il matrimonio tra persone di diversa fede religiosa, in Il Diritto Ecclesiastico 114 (2003) 1319-1333.

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indipendentemente dalla consapevolezza o la fede dei coniugi sulla sacramentalità. Così, in una

c. Burke, si legge che “constans theologica doctrina catholica est: matrimonium inter duos

protestantes vere baptizatos, etiam si in matrimonii sacramentalitate non credant, reapse est

sacramentum. Hoc indubie enumerandum est inter difficultates quae obici debent contra

recentem opinionem iuxta quam, ad valide consentiendum, fides explicita in sacramentali

natura matrimonii ac positiva huius sacramentalitatis acceptatio requiruntur. Haec opinio, quae

dìvidetur esse sine fulcimento in traditione theologica ac in doctrina magisterii, ad

consequentias oecumenicas valde negativas etiam duceret; etenim, si acceptata fuerit, omnia

matrimonia a fratribus separatis contracta, immo forse et omnia matrimonia mixta, invalida

coram Catholica Ecclesia tenenda essent”2.

La questione, come si sa, è stata oggetto di frequente dibattito in dottrina, nel caso del

matrimonio dei battezzati non credenti (assimilabile per molti versi al matrimonio misto: per

esempio, nel can. 1071 § 2). La dottrina e la giurisprudenza più recenti – sulla scia dei discorsi di

Giovanni Paolo II alla Rota del 2001 e 2003 – concludono che per celebrare validamente il

matrimonio non si richiede un grado di fede personale, ma la “retta intenzione”, di sposarsi

secondo il progetto divino3. Tale intenzione – di donarsi vicendevolmente in un impegno

irrevocabile ed in una fedeltà incondizionata – “implica realmente, anche se non in modo

pienamente consapevole, un atteggiamento di profonda obbedienza alla volontà di Dio, che

non può darsi senza la sua grazia”4. Questa presenza della grazia nel momento di formare la

retta intenzione naturale può essere considerata la “disposizione per credere” che rende

possibile che il sacramento del matrimonio sia “sacramento della fede”5.

La mancanza di “retta intenzione” si riscontra nell'atteggiamento di chi rifiuta in modo

esplicito e formale ciò che la Chiesa intende compiere quando si celebra il matrimonio dei

battezzati6. Per valutare la rilevanza della volontà contraria alla dignità sacramentale del

matrimonio “è decisivo tener presente che un atteggiamento dei nubendi che non tenga conto

2 Sent. c. Burke, Taurinen., 2 maggio 1991, in RRDec 83 (1994) 296.

3Cfr. una sent. c Stankiewicz, Reg. Apuli seu Melphicten.-Ruben.-Iuvenacen.-Terlitien., 27 febbraio 2004, e il nostro commento: M.A. ORTIZ, L'esclusione della dignità sacramentale: la retta intenzione e la disposizione per credere, in Ius Ecclesiae 22 (2010) 90-106.

4Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Es. ap. Familiaris consortio, n. 68.

5 CONCILIO VATICANO II, Cost. Sacrosanctum concilium, n. 59. Sulla “disposizione per credere” cfr. COMMISSIO THEOLOGICA INTER-NATIONALIS-COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Propositiones. Theses de doctrina matrimonii cristiani, in Documenta. Documenti (1969-1985), Città del Vaticano 1988, n. 2.3, 218.

6Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Es. ap. Familiaris consortio, n. 68.

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della dimensione soprannaturale nel matrimonio, può renderlo nullo solo se ne intacca la

validità sul piano naturale nel quale è posto lo stesso segno sacramentale”7.

Le altre presunzioni attinenti i matrimoni misti riguardano da una parte la validità del

battesimo e dall'altra (nel testo codiciale precedente al m.p. Omnium in mentem) la pertenenza

alla Chiesa finché non è stato posto l'atto formale di defezione. Di quest'ultima questione ci

occuperemo più avanti. Diciamo invece una parola a proposito delle presunzioni che operano

nell’apprezzamento della ricezione del battesimo. La giurisprudenza si è occupata – per quanto

riguarda gli aspetti concernenti la validità – soprattutto in occasione delle cause

sull'impedimento di disparità di culto. In esse, afferma la presunzione di validità del battesimo;

la necessità di provare la mancata ricezione; l’accertamento della validità del battesimo

ricevuto in un’altra confessione; e la nullità del battesimo per la mancata volontà di riceverlo,

incentrandosi, a questo proposito, sulla simulazione della volontà e sulla mancanza di una

volontà minima8.

Nel caso dell’impedimento di disparità di culto, il can. 1086 Il § 3 stabilisce che, nel dubbio

sul battesimo della parte cattolica, si deve provare con certezza che era stata battezzata per

dichiarare nullo il matrimonio per l'impedimento non dispensato di disparità di culto. Non

presume la validità ad ogni costo, semplicemente l’impedimento cede davanti al favor iuris

matrimoniale. Allo stesso modo, si deve provare con certezza che l’altra parte non aveva

ricevuto un battesimo valido per dichiarare la nullità. In ambedue i casi, nel dubbio opera il

favor matrimonii.

7GIOVANNI PAOLO II, Discorso alla Rota Romana, 30 gennaio 2003, n. 8. Cfr. M.A. ORTIZ, L'esclusione della dignità sacramentale del matrimonio nel recente dibattito dottrinale e giurisprudenziale , in H. FRANCESCHI - M-A. ORTIZ (a cura di), Verità del consenso e capacità di donazione. Temi di diritto canonico matrimoniale e processuale , Roma 2009, 101-127; C. GULLO, Guida ragionata alla giurisprudenza rotale in tema di rilevanza della dignità sacramentale del matrimonio, in AA.VV., Sacramentalità e validità del matrimonio, Città del Vaticano 1995, 285-292; C.J. ERRÁZURIZ M., Contratto e sacramento: il matrimonio, un sacramento che è un contratto. Riflessioni attorno ad alcuni testi di San Tommaso d’Aquino, in AA. VV., Matrimonio e sacramento, Città del Vaticano 2004, 43-56; M. RIVELLA, Gli sviluppi magisteriali e dottrinali sull’esclusione della dignità sacramentale del matrimonio cit., 299-315; ID., Il matrimonio dei cattolici non credenti e l’esclusione della sacramentalità, in AA.VV., Matrimonio e sacramento cit., 111-120; A. STANKIEWICZ, La giurisprudenza in tema di esclusione della sacramentalità del matrimonio, in AA.VV., Matrimonio e sacramento cit., 93-110; J.M. SERRANO, Fede e sacramento, in AA.VV., Matrimonio e sacramento cit., 19-30; P. MONETA, L’esclusione del sacramento e l’autonomia della fattispecie, in AA.VV., Matrimonio e sacramento cit., 75-91; M.F. POMPEDDA, Intenzionalità sacramentale, in AA.VV., Matrimonio e sacramento cit., 31-42; H. FRANCESCHI, Il matrimonio, sacramento della Nuova Alleanza. La relazione tra battesimo, fede e matrimonio sacramentale, in AA.VV., Matrimonium et Ius. Studi in onore di S. Villeggiante, Città del Vaticano 2006, 369-388; L. W. WRENN, Sacramentality and the Invalidity of Marriage, in The Jurist 60 (2000) 205-232; L. SABBARESE, Fede, intenzione e dignità sacramentale nel matrimonio tra battezzati, in Periodica 95 (2006) 261-306; G. BERTOLINI, Intenzione coniugale e sacramentalità del matrimonio, 2 vol., Padova 2008.

8Rinviamo su queste questioni a H. FRANCESCHI, Rassegna di giurisprudenza in tema di impedimento di disparità di culto , in AA.VV., I matrimoni misti, Città del Vaticano 1998, 175-186.

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Una sentenza c. Fiore del 1972, a proposito della presunzione di ricezione del battesimo

in una confessione acattolica, riporta una risposta del Sant’Ufficio del 1883, nella quale la

presunzione di ricezione dipendeva dal fatto se la confessione (“setta”) a cui apparteneva la

parte acattolica soleva amministrare il battesimo ai bambini oppure no: “Baptismus non est

praesumendus, si pars vel partes acatholicae parentes habuerint ad sectam pertinentes, quae

baptismum respuit aut quae baptismum non confert nisi adultis. Item si parentes habuerint,

qui, dum in vivis essent, professi sint se nolle ad ullam sectam pertinere. Praesumendus est

baptismus si parentes pertinuerint ad sectam, quae baptismum habet necessarium, et in qua

ordinarie pueris confertur, iidemque parentes fuerint in sua secta zelosi. Item praesumendus

est baptismus, si unus tantum parentum, qui in educatione primas habuit partes, in sua secta

baptismum uti necessarium habente zelosus fuerit, dummodo alter coniux non cognoscatur

collationi baptismi positive contrarius fuisse”9.

In un’altra occasione, accertata la validità del battesimo della parte acattolica, si ritenne

irrilevante il battesimo (dubbio) dell'attore agli effetti dell'indubbia validità del matrimonio: se

l'attore era stato validamente battezzato, non c’era l’impedimento di disparità di culto; se non

era stato battezzato invece, poiché la donna acattolica non era obbligata alla legge

ecclesiastica, il matrimonio sarebbe stato validamente contratto10.

I restanti elementi della disciplina sui matrimoni misti, non riguardando la validità del

matrimonio bensì la liceità della celebrazione, non sono oggetto di interventi della

giurisprudenza: né la licenza, né le promesse (che non è tenuta a dare la parte non cattolica) 11.

Ci sono alcuni estremi in cui è in gioco la validità del matrimonio, come per esempio la possibile

dispensa della forma in seguito alle gravi difficoltà, che concede l’Ordinario del luogo della

parte cattolica dopo aver ascoltato l’Ordinario del luogo dove verrà celebrato il matrimonio, e

salva “per la validità” una forma pubblica di celebrazione (1127 § 2). La parte non cattolica

dovrebbe fare le promesse nel caso (poco frequente) che volesse sciogliere il matrimonio

precedente in favore della fede, per sposare un cattolico; in tal caso, le promesse di dare libertà

9 Sent. c. Fiore, Ludovicopolitana, 29 febbraio 1972, in RRDec. 64 (1972) 120-128, con riferimento a CIC Fontes, IV, n. 1083.

10Cfr. c. Lefebvre, Novarcen., 18 gennaio 1969, in RRDec. 61 (1969) 41-46 ed anche c. Pompedda, Novarcen., 27 giugno 1970, in RRDec. 62 (1970) 723-727.

11Cfr. G.P. MONTINI, Le garanzie o cauzioni nei matrimoni misti, in Quaderni di diritto ecclesiale 5 (1992) 291; M. GRAULICH, Le “garnzie” o “cauzioni” nel contesto del matrimonio misto e dello scioglimento del matrimonio “in favorem fidei” , in M. GRAULICH-J.M.J. PUDUMAI (ed.), “Iustitiam et iudicium facere”. Scritti in onore del prof. don Sabino Ardito, sdb , Roma 2011, 165-188; M.L. TACELLI, I matrimoni misti, in AA.VV., La giurisprudenza della Rota sul matrimonio (1908-2008), Città del Vaticano 2010, 187-288; J.L. CERCAS RUEDA, El instituto de las "cautiones" en el impedimento de disparidad de cultos, Roma 2002.

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al coniuge cattolico sarebbero richieste per la validità dello scioglimento e del nuovo

matrimonio.

2. LA GIURISPRUDENZA ROTALE IN TEMA DI FORMA DEL MATRIMONIO. LA PRESUNZIONE DI CORRETTEZZA FORMALE E LA FORMA AL SERVIZIO DELLA VERITÀ SUL MATRIMONIO

Soffermiamo dunque l’attenzione specificamente sulle cause riguardanti il difetto di

forma. La prima considerazione che viene fuori è che tali cause non sono numericamente

molte: negli ultimi anni, nei volumi di raccolta delle Decisiones rotali si trovano come media due

sentenze in materia di forma12. Ma oltre ad essere quantitativamente poche, sono anche

“qualitativamente” ridotte, poiché la stragrande maggioranza di esse – soprattutto negli ultimi

anni – riguarda la questione dell’applicabilità della normativa riguardante la supplenza di

facoltà13.

12Sulla questione rinviamo ai nostri M.A. ORTIZ., La forma del matrimonio nella giurisprudenza della Rota Romana , in AA.VV., La giurisprudenza della Rota sul matrimonio (1908-2008), Città del Vaticano 2010, 229-279; ID., La supplenza di facoltà per assistere al matrimonio nella giurisprudenza c. Stankiewicz, in AA.VV. (a cura di J. Kowal-J. LLobell) "Iustitia et Iudicium". Studi di diritto matrimoniale e processuale canonico in onore di Antoni Stankiewicz, vol. II, Città del Vaticano 2010, 967-990. Nell’arco degli anni da quando mons. Stankiewicz è uditore rotale (dal 1978 all'ultimo volume pubblicato, 2003) ci sono state soltanto 28 cause riguardanti il difetto di forma. Nel 1978, ci sono state tre sentenze per difetto di forma: una Romana c. Davino, 12 aprile 1978, RRDec 70 (1978) 208-214, pro vinculo, e due non pubblicate: Parisien c. Ferraro 31 ottobre 1978, pro vinculo, e Romana c. Raad, 5 dicembre 1978, pro vinculo. Nel 1979, due sentenze per difetto di forma (Beryten. Armenorum c. Raad, 30 maggio 1979, non pubblicata, e Ambianen. c. Bruno del 27 aprile 1979, RRDec 71 (1979) 227-239, pro vincolo) e una (Romana c. Pompedda, 8 maggio 1979, RRDec 71 (1979) 250-254) che dichiara invalida la sanazione di un matrimonio celebrato con difetto di forma. Nell'anno 1980, una Beneventana c. Bruno, 22 febbraio 1980, RRDec 72 (1980) 115-124 pro vinculo, e una Trentonen., c. De Jorio,., 12 novembre 1980, pro nullitate, non pubblicata. Nell'anno 1981, soltanto una Trentonen. c. Giannecchini, 17 novembre 1981, RRDec 73 (1981) 555-558, pro nullitate. Nell'anno 1982, una Ratisbonen., c. Masala, 14 febbraio 1982, RRDec 74 (1982) 625-637 pro nullitate. Nell'anno 1983, una Limana c. Serrano, 29 aprile 1983, RRDec 74 (1983) 231-251, pro nullitate per mandato procuratorio invalido. Negli anni 1984 e 1985 non ci sono cause. Nell'anno 1986, due cause: Parisien. c. Bruno, 17 gennaio 1986, RRDec 78 (1986) 1-22, pro validitate, e Ratisbonen., c. Palestro, 19 febbraio 1986, RRDec 78 (1986) 100-113, che conferma la c. Masala del 14 febbraio 1982. Negli anni 1988 e 1987 non ci sono cause. Nell'anno 1989, c'è una Albanen. in America c. Jarawan, 10 marzo 1989, RRDec 81 (1989) 190-209, di defectus ritus sacri, decisa pro nullitate.

Nell'anno 1990 c'è una Romana c. Stankiewicz, 26 marzo 1990, RRDec 82 (1990) 223-238, pro vinculo, e una non pubblicata Albanen. in America c. Colagiovanni, 24 aprile 1990. Nell'anno 1991 non ci furono cause, e nel 1992 due sentenze, tutte e due c. Stankiewicz e della stessa data, 15 dicembre 1992: una non pubblicata (Petropolitana in Insula Lunga, pro nullitate) e la celebre Denverien. RRDec 84 (1992) 664-679, anch'essa pro nullitate. Dagli anni 1993 a 1996 non si trovano cause per difetto di forma; nell'anno 1997, una Bracaren. c. Pompedda, 14 febbraio 1997, pro nullitate, in RRDec 89 (1997) 103-113. Negli anni 1998 e 1999 non ci furono sentenze riguardanti il difetto di forma (nel 1998 ci furono due sentenze riguardanti la convalidazione, in cui venivano richiamati i principi sulla forma matrimoniale). Nell'anno 2000 si trovano due sentenze: Sancti Benedicti ad Truentum-Ripana-Montis Alti c. Defilippi, 9 novembre 2000, in RRDec 92 (2000) 621-634, pro nullitate; e una Clevelanden. c. Monier, 23 novembre 2000, in RRDec 92 (2000) 671-676, pro vinculo. Nell'anno 2001, ci furono due sentenze, una pro nullitate e una pro vinculo: rispettivamente, Aquisgranen, c. Huber, 25 gennaio 2001, e Vicariatus Apostolici Beryten., c. Pinto, 27 luglio 2001. Nell'anno 2002, oltre una ob defectum convalidationis pro vinculo Roffen in America, c. Turnaturi 1 marzo 2002, una Romana c. Pinto, 5 luglio 2002, pro nullitate. Nell'anno 2003, in fine, una Marsorum, c. Caberletti, del 12 giugno 2003, affermativa ob defectum formae canonicae (e negativa per gli altri tre capi) e una pro vinculo Bratislavien.-Tyrnavien., c. Sciacca, 24 ottobre 2003.

Del Pozzo fa notare che, nelle cause sostanziate con il processo ordinario, quelle riguardanti il difetto di forma costituiscono il 0,29% del totale: 755 su 292.480, nel periodo da lui studiato; cfr. M. DEL POZZO, Statistiche delle cause di nullità matrimoniale 2001-2005: “vecchi” dati e “nuove” tendenze, in H. FRANCESCHI – M.A. ORTIZ (a cura di), Verità del consenso e capacità di donazione. Temi di diritto canonico matrimoniale e processuale, Roma 2009, 471.

13 Nita segnala che “después de la publicación del CIC, en 1917, las Sacrae Romanae Rotae Decissiones contienen 158 sentencias cuyo objeto se centra en la facultad de asistir al matrimonio. De este número, en 81 se invoca la doctrina sobre el

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Nella presente esposizione dopo una premessa che serva per inquadrare la mia

riflessione, esporrò brevemente i diversi momenti in cui operano le presunzioni nella presente

materia, e in terzo luogo mi soffermerò su quelle che ritengo di maggiore operatività nella

giurisprudenza rotale più recente.

Una prima considerazione che è bene sottolineare è che a differenza di altri capi di nullità,

rispetto ai quali non si trova sempre una uniformità di criterio nelle decisioni rotali (si pensi

all'incapacità, al dolo, l'errore, l'esclusione della dignità sacramentale...), nel nostro ambito – e

ancor di più nella valutazione dell’applicabilità della supplenza di facoltà alla mancata delega

speciale – la giurisprudenza risulta pressoché unanime14.

C’è un presupposto presuntivo comune a tutti i capi di nullità, e attinente in modo

particolare al nostro argomento, che si basa sulla presunzione di validità dell’atto giuridico del

can. 124. La giurisprudenza è solita invocare questa presunzione insieme ad una concrezione di

tale principio, e cioè che il teste qualificato di regola svolge bene il suo compito. Così nella sent.

c. Pinto, Romana 5 luglio 2002, dove vengono presentate come due presunzioni dipendenti:

“primam qua matrimonium semel celebratum validum praesumitur ob favorem iuris quo

gaudet (cf. cann. 1060; 1101 § 1); alteram, generalem «iuxta quam facta habentur rite peracta

nisi contrarium probetur, uti iam docuerunt antiquae Regulae iuris. Praeterea, uti affirmat

Schmalzgrueber, ‘praesumitur pro quovis officiali, quo dea quae spectant ad officium eius, recte

administraverit” (Ius Ecclesiasticum universum, t. II, pars II, Romae 1844, tit. 23, p. 229, n. 34)»

(coram Bonet, sent. diei 30 octobris 1961, vol. LIII, p. 478, n. 4)”15.

Vale la pena soffermarsi un minuto sull’applicazione della presunzione generale di validità

applicata alle questioni formali. Come sottolineò Giovanni Paolo II nel discorso del 200416, la

presunzione che deriva dal favore di cui gode il matrimonio non consiste nella mera

error común y se admite su aplicación al matrimonio” (A. NITA, La suplencia de la facultad de asistir al matrimonio en caso de error común, a la luz de la jurisprudencia de la Rota Romana, in Ius Canonicum 39 (1999) 676).

In alcuni tribunali locali c’è una sorta di “inflazione” di cause di nullità per difetto di forma, trattate col ricorso al processo documentale, ma in gran parte dei casi in realtà si tratta di procedure amministrative prematrimoniali per accertare lo stato libero dei nubendi quando uno di questi aveva, precedentemente, posto la cerimonia del matrimonio civile : cfr. M.A. ORTIZ., La forma del matrimonio nella giurisprudenza della Rota Romana cit. Rimando a questo lavoro per ulteriori precisazioni in materia.

14 C’è anche un’altra quasi unanimità, nella giurisprudenza posteriore al 1992, ed è che praticamente tutte le sentenze prendono come punto di riferimento necessario la sentenza Denverien. c. Stankiewicz del 15 dicembre 1992, in RRDec 84 (1995) 664-679. Alcuni riferimenti a detta decisione nella giurisprudenza posteriore: per esempio nella Bracaren., c. Pompedda, 14 febbraio 1997; Reg. Piceni seu S. Benedicti ad Truentum-Ripana-Montis Alti, c. Defilippi, 9 novembre 2000; Reg. Aprutini seu Marsorum, c. Caberletti, 12 giugno 2003; Reg. Parisien. seu Melden., c. Monier, 19 maggio 2006; Int. Britanniae seu Nanneten, c. Alwan, 15 febbraio 2007.

15Sent. Romana c. Pinto, 5 luglio 2002, in RRDec 94 (2010) 411, n. 5.

16 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Discorso 29 gennaio 2004; A. S. SÁNCHEZ-GIL, Il “favor matrimonii” e la presunzione di validità del matrimonio: appunti per la loro chiarificazione concettuale, in Ius Ecclesiae 16 (2004) 325-344.

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presunzione di validità dell’atto formalmente manifestato, ma soprattutto nella realtà della

natura umana che, in materia matrimoniale, viene rispecchiata dalla «inclinatio naturae» al

matrimonio. È vero che chi soltanto in apparenza ha contratto un matrimonio, ha il diritto alla

dichiarazione di nullità di questo pseudo-vincolo, ma non è men vero che, finché non venga

provata l’inesistenza del vincolo, questo si deve ritenere valido, tenendo sempre conto della

realtà della natura umana.

L’altra conseguenza, o un altro modo di proporre la presunzione riguardo la funzione

della forma canonica, consiste nel fatto che essa (la forma) è uno strumento al servizio della

verità del consenso17. La forma serve a costituire il consenso che deve essere emesso “in parole

o segni equivalenti”, a darle pubblicità, e a garantire la sua identità ed ecclesialità, dimodoché

la volontà di essere sposi venga conosciuta dagli stessi coniugi e dalla comunità, e protetta da

essa, in forza del carattere intrinsecamente giuridico e sociale del consenso.

Questo principio della funzione della forma al servizio della verità del matrimonio, è bene

tenerlo presente, fu il principio guida della riforma codiciale e dovrebbe servire come criterio di

interpretazione e applicazione della normativa. Dai lavori conciliari e di codificazione si evince

con chiarezza che il proposito di limitare i casi di nullità per difetto di forma fu sempre

presente, perché "Matrimonia invalida non sunt multiplicanda"18.

Oltre ai suggerimenti avanzanti in fase de iure condendo circa la non esigenza della forma

canonica per la validità del matrimonio se è garantita una qualsiasi pubblicità della

manifestazione del consenso, ci furono – sia negli schemi di decreti conciliari che nei lavori del

coetus di revisione del CIC – delle proposte di riconoscere la validità dei matrimoni celebrati

davanti a qualsiasi sacerdote, anche senza la delega (magari richiedendo che il matrimonio

venisse celebrato in luogo sacro, che al ministro non fosse vietata espressamente l’assistenza e

comunque non mancasse la buona fede).

Tali tentativi di riconoscere validi i matrimoni celebrati davanti a qualsiasi sacerdote o

diacono, finirono per essere ricondotti alla rinnovata applicazione della norma sulla supplenza

di giurisdizione alla facoltà di assistere al matrimonio (can. 144, can. 209 CIC 17), come si legge

nella citatissima c. Stankiewicz: “Reiecta est enim legis rogatio de admittenda validitate

17Cfr. M.A. ORTIZ, La forma canonica quale garanzia della verità del matrimonio , in M.A. ORTIZ (a cura di), Ammissione alle nozze e prevenzione della nullità del matrimonio, Milano 2005, 159-174.

18 PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Relatio complectens synthesim animadversionum ab Em.mis Patribus Commissionis ad novissimum Schema Codicis Iuris Canonici exhibitarum, cum responsionibus a Secretaria et Consultoribus datis , Typ. Pol. Vat. 1981, 252 s., 261. Cfr. M.A. ORTIZ, Sacramento y forma del matrimonio cit., 229 s.; F.R. AZNAR GIL, La revisión de la forma canónica del matrimonio en el Concilio Vaticano II, in Revista Española de Derecho Canónico 38 (1982) 507 s.

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matrimonii celebrati in ecclesia vel oratorio publico coram quolibet sacerdote vel diacono

delegatione quidem carenti, sed neque iure assistendi interdicto (Communicationes 8 [1976] p.

43)19, vi nempe sanationis ex parte Ecclesiae (ibid., pp. 44-45), quia institutum erroris communis

sufficientem claritatem praebet «ad tollenda dubia de validitate matrimonii ratione formae»

(Communicationes 10 [1978] p. 90)”20. In altre parole, i redattori del coetus de matrimonio

ritennero sufficienti, allo scopo di evitare il moltiplicarsi delle nullità per motivi formali, sia

l’estensione dell’istituto della delega sia l’applicazione della supplenza ex can. 144, sul quale

torneremo subito.

In conclusione, a mio parere, questo doppio principio (che la forma sta al servizio della

verità sul matrimonio, e conseguentemente che si dovrebbero ridurre le nullità per motivi

formali) deve costituire il criterio di interpretazione e di applicazione della presunzione

generale relativa ai requisiti formali, nelle fattispecie discusse. La presunzione è operativa, nella

giurisdizione della Rota, nel momento in cui si devono riscontrare gli elementi richiesti per la

validità, dal punto di vista formale. Essi sono assai limitati.

3. LA PRESUNZIONE DI OBBLIGATORIETÀ: LA SOPPRESSIONE DELLA CLAUSOLA DI ESENZIONE PER ABBANDONO FORMALE DELLA CHIESA

Il primo punto riguarda i soggetti tenuti alla forma. Dopo la pubblicazione del motu

proprio Omnium in mentem la questione non è tanto rilevante perché sono state soppresse le

esenzioni presenti nella redazione originaria del can. 1117, relative ai cattolici che avessero

abbandonato la Chiesa con atto formale. La questione riguardava sia la forma in generale che i

matrimoni misti, e – in relazione con questi – l'argomento è rilevante per due motivi; perché la

clausola di esenzione era compressa nel can. 1124 e perché il matrimonio di chi aveva

abbandonato la Chiesa aderendo ad un’altra confessione si poteva configurare come fattispecie

di matrimonio misto. La questione conserva tuttora un certo interesse, fosse solo per accertare

la validità dei matrimoni celebrati prima dell'entrata in vigore del motu proprio.

Non mi soffermerò qui sui noti problemi di applicazione e di interpretazione della clausola

di esenzione, che è stata una abbondante fonte di ispirazione per la letteratura canonistica di

questi anni21. Un'interpretazione ampia della clausola di esenzione comportava che fossero

19 “Omnia matrimonia esse valida quae contrahuntur coram sacerdote vel diacono et coram testibus” (Communicationes 8 (1976) 33).

20Decis. c. Stankiewicz, 12 dicembre 1992, n. 13.

21Tra i commenti più recenti (relativi al motu proprio di abrogazione), cfr. M.A. ORTIZ, L'obbligatorietà della forma canonica matrimoniale dopo il m.p. Omnium in mentem, in Ius Ecclesiae 22 (2010) 475-492; ID., Questioni

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molti i matrimoni validi (magari a scapito della certezza giuridica), mentre l'interpretazione

stretta garantiva la certezza ma rischiava di svuotare di senso l'esenzione, rendendola assai

poco operativa. Malgrado il favor matrimonii avrebbe potuto fondare una interpretazione

ampia e una presunzione di non obbligatorietà (proprio per favorire l'esercizio dello ius

connubii), in realtà in dottrina e in giurisprudenza si propendeva per un'interpretazione stretta.

Per quanto interessa a noi, basti ricordare che in seguito a una grande diversità di criteri

di interpretazione e a diverse richieste di chiarificazione rivolte alla curia romana, il Pontificio

Consiglio per i Testi Legislativi inviò il 13 marzo 2006 una Lettera Circolare ai Presidenti delle

Conferenze Episcopali22, nella quale si forniva un'interpretazione dell'atto di defezione

decisamente restrittiva. Il Pontificio Consiglio riteneva che l'abbandono formale, ai sensi del

can. 1117, era riscontrabile soltanto quando tale atto di defezione fosse formalizzato davanti

all'autorità ecclesiastica, che in questo modo avrebbe potuto garantire la portata teologica

della volontà di abbandono (al quale si voleva dare un contenuto equiparabile all’eresia,

apostasia o scisma, con le conseguenze penali che ne derivavano): “soltanto la coincidenza dei

due elementi – il profilo teologico dell'atto interiore e la sua manifestazione nel modo così

definito – costituisce l'actus formalis defectionis ab Ecclesia Catholica, con le rispettive sanzioni

canoniche (cfr. can. 1364 § 1)”.

Bisogna però sottolineare che tale interpretazione riguardava principalmente (o

esclusivamente?) l'eventuale applicazione della fattispecie all'abbandono della Chiesa per

motivi fiscali23, e non intendeva dare una risposta definitiva alla portata dell'esenzione di cui al

riguardanti la forma matrimoniale. La “convalidazione invalida” e l’ambito di obbligatorietà dopo il m.p. “Omnium in mentem”, in H. FRANCESCHI-M.A. ORTIZ (a cura di), La ricerca della verità sul matrimonio e il diritto a un processo giusto e celere. Temi di diritto matrimoniale e processuale canonico, Roma 2012, 171-204; ID., La soppressione dell’actus formalis defectionis ab Ecclesia catholica e l’obbligo della forma canonica nel matrimonio , in corso di stampa su Euntes docete; J. OTADUY, Abandono de la Iglesia católica por acto formal. Comentario al motu proprio Omnium in mentem, in Ius Canonicum 50 (2010) 595-627; T. BAHÍLLO RUIZ – R. CALLEJO DE PAZ – C. PEÑA GARCÍA, Recientes reformas del Código de Derecho Canónico: reformas introducidas por el m.p. Omnium in Mentem, in Estudios Eclesiásticos 85 (2010), 845-870; F. R. AZNAR GIL, La revocación de la cláusula "actus formalis defectionis ab Ecclesia catholica" de los cc. 1086 §1, 1117 y 1124, in Revista Española de Derecho Canónico 67 (2010), 447-457; C. PEÑA, El M.P. Omnium in mentem: la supresión del acto formal de abandono de la Iglesia, in J. OTADUY (a cura di), Derecho Canónico en tiempos de cambio, Madrid 2011, 91-107; P. TOXÉ, Modifications du Code de Droit canonique par le motu proprio “Omnium in mentem”, in Année canonique 50 (2008) 443-451; J. WERCKMEISTER, Le motu proprio “Omnium in mentem” et le mariage des ex-catholiques, in Revue de droit canonique 57/2 (2010) 241-254; R. RODRÍGUEZ CHACÓN, Omnium in mentem. Una trascendente rectificación del Codex de 1983, in Revista General de Derecho Canónico y Derecho Eclesiástico del Estado 23 (2010); Id., La publicación oficial de Omnium in mentem. Algunas reflexiones críticas, in Revista General de Derecho Canónico y Eclesiástico del Estado 26 (2011).

22 Cfr. Communicationes 38 (2006) 170-184.

23 Cfr. M. NELLES, Der Kirchenaustritt – kein „actus formalis defectionis", in Archiv für katholisches Kirchenrecht 175 (2006) 353-373; L. MÜLLER, Die Defektionsklauseln im kanonischen Eherecht. Zum Schreiben des Päpstlichen Rates für Gesetzestexte an die Vorsitzenden der Bischofskonferenzen vom 13. März 2006, in Ibid., 374-396.

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can. 1117, la cui soppressione era già stata decisa dal Romano Pontefice verso l'anno 1999,

come svelò lo stesso Presidente del Pontificio Consiglio. Secondo il card. Coccopalmerio, la

lettera circolare si riferiva a “una questione del tutto diversa (...), [ch]e riguardava

esclusivamente alcuni Paesi centro-europei”. Alcuni autori hanno sostenuto che la risposta del

2006 non sarebbe perciò applicabile all’ambito matrimoniale anche perché non menziona una

delle modalità comunemente ammessa dalla dottrina come atto di defezione: il passaggio ad

un’altra confessione24.

Dopo l'entrata in vigore del motu proprio, non vi sono più problemi di applicazione della

clausola di esenzione, per il futuro. Rimangono altri problemi, sui quali forse dovrà confrontarsi

la giurisprudenza, in particolare due: l’entrata in vigore (visto che il volume di AAS fu di fatto

stampato ed inviato ben oltre i 3 mesi dalla data apposta sul fascicolo) e la retroattività o meno

del criterio interpretativo della lettera circolare del 2006. Vale a dire, se nel giudicare la validità

dei matrimoni celebrati dal 1983 l’unico atto di abbandono (ed esenzione) rilevante debba

rientrare nella fattispecie della lettera del 2006. Oltre la discussa la forza interpretativa della

lettera, non qualificabile come interpretazione autentica, riteniamo che esiste almeno il dubbio

sull'applicabilità dell'interpretazione restrittiva proposta dalla lettera circolare ai matrimoni

celebrati prima del 2006, per cui rimarrebbe aperta la possibilità, nel dubbio, di riscontrare

l’atto di defezione in fattispecie diverse e, stante la limitazione del diritto al matrimonio che è in

gioco, potrebbe comportare la validità di matrimoni celebrati senza la forma canonica in

seguito ad atti di defezione non inquadrabili nella descrizione della lettera del 2006.

La giurisprudenza si era occupata molto di rado della questione, ma quando lo aveva

fatto aveva aderito all’interpretazione più restrittiva della clausola di defezione, riscontrando

l’abbandono formale soltanto laddove il fedele si fosse rivolto all’autorità ecclesiale, dimodoché

questa potesse fare fede dell’abbandono avvenuto. C’è una decisione c. Verginelli che muove in

tale linea, in quanto non riconosce la defezione dalla Chiesa nella frequentazione e battesimo in

una setta acattolica: la moglie, battezzata cattolica neonata, fu ribattezzata in una comunità

acattolica nel 1983. Il ponente richiede che “in defectione ab Ecclesia uti talis publice agnoscitur

necessaria certa forma seu solemnitas ut quendam actum publicum quis possit serio ac valide

significare” (n. 7). “Hoc, igitur, in sensu videntur intellegi verba "actu formali", non materiali aut

virtuali, scilicet quo intenderetur vera intentio defectoris discedendi ab Ecclesia Catholica

24Cfr. i rilievi critici di C. PEÑA, El M.P. Omnium in mentem: la supresión del acto formal de abandono de la Iglesia cit.; R. RODRÍGUEZ CHACÓN, Omnium in mentem. Una trascendente rectificación del Codex de 1983 cit.

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coram Ecclesiae legitima auctoritate legitime manifestata et accepta, non, contra, coram

auctoritate novae selectae confessionis” (n. 11)25.

Anche in un’altra decisione c. Pinto non si riconosce l’atto formale di abbandono perché

manca la comunicazione all’autorità: “in quo consistit illum actu formali, cum compertum sit

catholicus sectis adhaerentes ab Ecclesiae comunione insalutato hospite, idest nulla data notitia

Ordinario vel parocho, exire?”26.

La soluzione di Omnium in mentem di sopprimere la clausola di esenzione, di fronte alle

difficoltà interpretative, gioverà certamente alla sicurezza ma limita assai l’esercizio dello ius

connubii. La rilevanza pratica della clausola riguardava una grande intuizione conciliare e del

legislatore canonico: fare in modo che la volontà veramente coniugale fosse efficace, riuscisse

cioè a costituire il vincolo, dimodoché la forma canonica non fosse un ostacolo all'esercizio del

diritto al matrimonio. Le motivazioni contenute nel proemio di Omnium in mentem 27 mirano da

una parte ad evitare l’incertezza riguardo i fedeli obbligati alla forma e dall’altra ad evitare che

molti rimangano “intrappolati” in un matrimonio valido ma fallito. In questo modo si è voluto

garantire la certezza e la possibilità di “ricostruire” la vita ai fedeli che, non osservando la forma

canonica in questo modo rimangono “liberi” in previsione del nuovo matrimonio da celebrare

una volta fallito quello invalido. Ma di fatto a tali fedeli viene negato l’esercizio dello ius

connubii: chi ha abbandonato la Chiesa quasi sicuramente non si sposerà in forma canonica (a

meno che non sia l’altra parte a volerlo fortemente), per cui la volontà di donarsi

coniugalmente rimane in questi casi necessariamente inefficace.

Né va dimenticato che, per i fedeli semplici, queste situazioni (di matrimoni civili

dichiarati inesistenti dopo una lunga convivenza; e con la conseguente facilità di sposarsi in

Chiesa una volta sciolta quell'unione) sono, molto spesso, motivo di scandalo.

A questo punto possiamo domandarci se la soluzione adoperata dal motu proprio

(ritenere obbligati alla forma tutti i battezzati nella Chiesa cattolica, senza possibilità di

esenzioni), e tenendo presenti tutti i beni in gioco (in primo luogo l’esercizio dello ius connubii)

25 Dec. c. Verginelli, Camden., del 25 febbraio 2005.

26 Sent. Vicariatus Apostolici Beryten., c. Pinto, 27 luglio 2001, in RRDec 93 (2001) 502, n. 4.

27“Anzitutto è apparsa difficile la determinazione e la configurazione pratica, nei casi singoli, di questo atto formale di separazione dalla Chiesa, sia quanto alla sua sostanza teologica sia quanto allo stesso aspetto canonico. Inoltre sono sorte molte difficoltà tanto nell’azione pastorale quanto nella prassi dei tribunali. Infatti si osservava che dalla nuova legge sembravano nascere, almeno indirettamente, una certa facilità o, per così dire, un incentivo all’apostasia in quei luoghi ove i fedeli cattolici sono in numero esiguo, oppure dove vigono leggi matrimoniali ingiuste, che stabiliscono discriminazioni fra i cittadini per motivi religiosi; inoltre essa rendeva difficile il ritorno di quei battezzati che desideravano vivamente di contrarre un nuovo matrimonio canonico, dopo il fallimento del precedente; infine, omettendo altro, moltissimi di questi matrimoni diventavano di fatto per la Chiesa matrimoni cosiddetti clandestini”.

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era l’unica soluzione possibile. In altre sedi ho suggerito un ripensamento della forza

invalidante della forma, che potrebbe servire, a mio avviso, a meglio distinguere la forma

canonica – come espressione della comunione – dall’esercizio dello ius connubii28. Tale diritto

potrebbe essere esercitato col ricorso a qualsiasi forma pubblica di celebrazione, mentre la

piena comunione ecclesiale richiederebbe l’osservanza della forma canonica: i fedeli che la

ignorassero rimarrebbero sposati anche se in situazione irregolare per mancanza di comunione

(poiché la comunione ecclesiale comprende la communio disciplinae), e non potrebbero essere

ammessi ai sacramenti.

La considerazione della forma del matrimonio come strumento al servizio della volontà

matrimoniale dei coniugi dovrebbe far riflettere se non sarebbe meglio rendere possibile

l’effettivo esercizio dello ius connubii esigendo la forma soltanto per la liceità della celebrazione

del matrimonio. I fedeli dei casi menzionati – quelli che ignorano la forma – potrebbero sposarsi

e veder riconosciuta la loro volontà coniugale davanti alla società, prima quella civile e poi

anche quella ecclesiale. A nostro avviso, ciò gioverebbe al bene dei fedeli molto più che

l’ipotetico bene di una regolarizzazione della propria posizione davanti alla Chiesa basata sulla

presunzione di aver celebrato un matrimonio “destinato al fallimento”. Del resto, viste le

disfunzioni riscontrate nei secoli di operatività della forma ad validitatem, un’eventuale forma

richiesta ad liceitatem potrebbe essere l’occasione per una più incisiva pastorale matrimoniale,

anche perché la soppressione della forza invalidante non comporterebbe minimamente la

soppressione completa della forma, che si richiederebbe, appunto per la lecita celebrazione del

matrimonio, e i fedeli sarebbero tenuti a veder riconosciuta la loro unione da parte dell’autorità

ecclesiale.

4. ELEMENTI FORMALI RICHIESTI PER LA VALIDITÀ. LA CONCESSIONE E ACCETTAZIONE DELLA DELEGA

Gli elementi richiesti per la validità, sui quali possono operare le presunzioni giudiziarie,

son relativamente semplici: la presenza simultanea dei due coniugi – o del procuratore, con un

mandato valido, a tenore del can. 110529 –, che manifestano il consenso comune in qualche

forma, “con parole o segni equivalenti”, davanti al teste qualificato e alla presenza dei testi

comuni, per i quali non si fa alcuna specificazione.

28Cfr. i menzionati M.A. ORTIZ, La forma canonica quale garanzia della verità del matrimonio, in M.A. ORTIZ (a cura di), Ammissione alle nozze e prevenzione della nullità del matrimonio, Milano 2005, 137-186 e più recentemente M.A. ORTIZ., La forma del matrimonio nella giurisprudenza della Rota Romana cit.

29Cfr. S. PUMAR SANTANA, Naturaleza jurídica del apoderamiento en la celebración matrimonial, in Ius Canonicum 36 (1996) 595-623.

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Sul teste qualificato invece i requisiti (e le presunzioni relative) sono diversi. Innanzitutto

che deve possedere la facoltà (d’ufficio o per concessione) e che deve aver chiesto e ottenuto il

consenso direttamente e in modo attivo30. È noto come la giurisprudenza è solita ribadire che,

anche se l’atto di assistenza al matrimonio non è di giurisdizione in senso stretto31, tale atto

partecipa della natura giurisdizionale perché si tratta di un atto “cui Ecclesia fidem habet ad

eundem modum quo notarii praesentia pro validitate nonnullorum actuum in materia civili

requiritur; et sicut notarius est, uti persona publica, testis auctorizabilis pro auctoritate civili, ita

sacerdos pro Ecclesia in re matrimoniali”32.

In particolare, si applicano all'atto di assistenza non poche norme riguardanti il possesso e

la trasmissione della potestà di giurisdizione: “ex nonnullis tamen Codicis Pio-Benedictini

normis (cf. cann, 1095, § 2; 1096, § 1; 1098, § 2), atque ex aliquibus Pontificiae Commissionis

responsis (cf. C. Sartori-B.I. Belluco, Enchiridion Canonicum seu Sanctae Sedis responsiones post

editum Codicem I.C. datae [1917-1963], Romae 1963, pp. 282-288), certo constat normas

canonicas «quoad delegationem, subdelegationem, cessationem, suppletionem potestatis

iurisdictionis statutas etiam applicandas esse quoad delegationem, subdelegationem,

cessationem et suppletionem iuris assistendi matrimonio, nisi obstent normae speciales in

cann. 1094-1096 statutae et normis generalibus derogativae quoad unum alterumve speciale

punctum» ”33.

Il teste qualificato deve essere competente a tenore dei cann. 1109-1110, ed essere in

possesso della facoltà, sia ordinaria o ex ufficio (in comunione e dopo il possesso dell’ufficio34)

30 Tale intervento attivo è più sostanziale che formale: in un caso fu ritenuto valido il matrimonio perché attivo l’intervento del sacerdote cattolico che “assisteva” ad un matrimonio misto insieme al pastore acattolico, che fu chi interrogò gli sposi. Cfr. U. NAVARRETE, Sensus verborum “exquirit” et “recipit” manifestationem consensus matrimonialis (c. 1108 § 2), in Periodica 83 (1994) 611-634.

31 “Assistentiam matrimonii non esse actum iurisdictionis quidquid dicant auctores, qui saltem iurisdictioni sensu latissimo et prorsus improprio eam accendere autumant” (sent. c. Grazioli del 17 settembre 1942, in RRDec 34 (1942) 832).

32Sent. c. Palestro, 19 febbraio 1986, in RRDec. 78 (1986) 104, n. 7, con citazione di Wernz-Vidal, Ius matrimoniale, ed. 1946, 538, in nota; Cappello, De sacramentis, vol. V, ed. 1950, nn. 649-650.

33Sent. c. Stankiewicz, 15 dicembre 1992, cit., n. 12, con citazione di G. Michiels, De potestate ordinaria et delegata, Parisiis-Tornaci-Romae-Neo Eboraci 1964, p. 56. “Sicut (...) assistentia ab ipso substituente praestita non est vere actus iurisdictionis, ita etiam concessio facultatis non est delegatio proprie dicta seu trasmissio iurisdictionis, ideoque licentia potius quam delegatio (can. 1095, §2) vocatur. Attamen interdum dicitur etiam delegatio, quia fit reapse ad normam delegationis eique fere ac verae delegationi applicantur principia (cfr. cann. 1094; 1096 §1)” (sent. c. Caberletti del 12 giugno 2003, cit., n. 6 con riferimento alla sent. c. Grazioli del 17 settembre 1942 cit., c. Many del 9 luglio 1918, c. Canestri del 10 maggio 1952, c. Masala del 25 marzo 1974 e F.M. CAPPELLO, Tractatus canonico - moralis - de sacramentis, vol. III, ed. 3ª, Taurinorum Augustae-Romae 1933, n. 672, 760).

34 Cfr. una recente c. Defilippi, Sancti Benedicti ad Truentum-Ripana-Montis Alti, 9 novembre 2000, RRDec 621-634, che dichiara la nullità in un caso in cui il matrimonio era stato celebrato a Roma il 6 settembre 1983, da un sacerdote parente dell'attore, dietro delega del vicario parrocchiale che era stato nominato tale il 1 settembre ma che solo prese possesso il 24 ottobre. Prima del 1 settembre, il vicario non svolgeva alcun incarico in parrocchia, e nemmeno abitava a Roma. Il 3 settembre, giorno del matrimonio, il “vicario” ignorava che due giorni prima era stato emanato il decreto della sua nomina: viene chiamato appunto “vicario economo”, e cioè “parroco designato dai Superiori, ma non ancora nominato dal Vicariato”. La

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sia delegata (regolarmente concessa e accettata). La delega può concedersi in modo generale

(cioè indeterminato, per un numero non precisato di matrimoni) o speciale, per un matrimonio

o un numero ben determinato. Mentre la prima (generale) deve essere concessa per scritto

(can. 1111 § 2) e non pone particolari problemi, quella speciale può essere concessa anche

oralmente, e “deve essere data espressamente a persone determinate” 35. La determinazione

può consistere nella specificazione del nominativo della persona, o del suo ufficio, a patto che

sia inequivocabile: “al parroco di X”, oppure “al rettore della chiesa Y, al penitenziere della

cattedrale”, ecc. Non si ammette dunque la delega concessa “al sacerdote che celebrerà la

messa” (a meno che sia ben determinato), né “al sacerdote che sceglieranno gli sposi”, né “al

sacerdote che determinerà il superiore religioso” (a meno che questi abbia la delega generale),

né a chi sarà il titolare di un ufficio né “a chi avrebbe determinato lo sposo” 36. In ogni caso, la

giurisprudenza è unanime nell’ammettere una concessione implicita ma escludendo una

concessione tacita, presunta o interpretativa37.

Riguardo la prova del possesso della facoltà (ex ufficio o per delega), in giurisprudenza si

seguono dei criteri, basati sulla presunzione generale che il titolare dell’ufficio lo svolge

accuratamente e si presume che avrà concesso la delega e il delegato l’avrà accettata. Pinto

riporta nelle sue sentenze la massima di Schmalzgrueber, “praesumitur pro quovis officiali

quoad ea, quae expectant ad officium ejus, quod recte administraverit”38: se il parroco è

presente e aiuta alla celebrazione si può presumere che concese la licenza anche se non

rimane costanza della delegazione data: “si coniungat, exempli gratia, quod adstante physice

parrocchia infatti era affidata ai pp. Claretiani. Il “delegante” era inoltre uno trai i vicari cooperatori, non il “primo viceparroco”, quello cioè con delega generale e facoltà di subdelegare. Invece il viceparroco che aveva firmato la delega (contemporaneamente alla celebrazione delle nozze) era il vicario economo, che godeva di delega speciale, senza facoltà di subdelegare.

35 Nella sentenza citata c. Defilippi, Sancti Benedicti ad Truentum-Ripana-Montis Alti, del 9 novembre 2000, sembra che la delega fu data “al sacerdote che sarebbe venuto a celebrare” il matrimonio: è quanto afferma il parroco al sacerdote assistente, due anni dopo il matrimonio, in risposta alla lettera inviata dal sacerdote, zio dello sposo, che dubitava della validità del matrimonio: "La licenza per la quale Lei poteva assistere al matrimonio di Suo nipote... è stata in totale sicurezza concessa. Le posso assicurare questo perché il Padre Vice Parroco che aveva tutte le facoltà di delega, nel compilare il Registro aveva concesso questa delega al sacerdote che sarebbe venuto a celebrare, cioè a Lei. E di questo il Padre si ricorda". Il tribunale ritiene che “delegationem datam non esse sacerdoti determinato ab ipso delegante, sed tantum generico modo sacerdoti quem nubentes selecturi erant”. Anche se negli atti si trova un documento di concessione della delega, il tribunale ritiene che tale documento fu fatto dopo la celebrazione del matrimonio. Il turno concluse che non ci fu delegazione e, se ci fosse stata, fu data in modo indeterminate, tanto che il delegato non poté accettarla.

36cfr. P. GASPARRI, Tractatus Canonicus de Matrimonio, cit., n. 950). La Commissione Pontificia per l’interpretazione del CIC rispose negativamente alla domanda «utrum, ad normam can. 1096 § 1, sacerdos sit determinatus, si parochus Superiori monasterii in casu particularet declaret, se ad matrimonium proxima Dominica in ecclesia filiali celebrandum delegare aliquem sacerdotem religiosum, qui a Superiore sequentibus diebus ad Missam die Dominica ibi celebrandam deputabitur» (cfr. CPI CIC 17, Risposta del 20 maggio 1923, in AAS 16 [1924] 115).

37Sarebbe presunta «si nempe sacerdos persuasum habet parochum aut Ordinarium hanc licentiam certe concessuros fuisse et ideo matrimonio assistit. Patet hanc delegationem nullius valoris esse». Tacita, “si scilicet parrochus aut Ordinarius praesens non est in actu celebrationis matrimonii, sed scit sacerdotem assistere, potest facile contradicere et tacet” ( P. GASPARRI, Tractatus Canonicus de Matrimonio, n. 954).

38 F. SCHMALZGRUEBER, Ius Ecclesiasticum universum, t. II, pars II, Romae 1844, tit. 23, p. 229, n. 34.

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liturgicae celebrazioni parocho vel Ordinario loci alius sacerdos vel Episcopus invitetur et de

facto consensum matrimonialem recipiat, et postea nulla detur in regetis notitia de concessa

delegatione, sufficiens erit aliter et aliunde probare – puta per certum et convergens

testimonium adstantium vel per immagine luce impressas physicam praesentiam indicantes

praefati parochi vel Ordinarii – datam fuisse delegationem”. Se consta la presenza del parroco

durante la celebrazione del sacerdote o vescovo “praesumendum est sive de concessa

delegatione sive de implicita delegationis acceptatione ex parte illius qui celebrat et

matrimonio adsistit, firmo tamen quod carentia acceptationis licentia non consideratur a N.O.

iurisprudentia ut sufficiens motivum nullitatis matrimonii” 39.

La stessa massima presuntiva dello Schmalzgrueber è richiamata dallo stesso ponente,

mettendola in relazione con il modo di procedere di un concreto parroco che sempre registrava

le delegazioni speciali e mai le generali; se si mette in dubbio la facoltà con la quale celebrò un

matrimonio un sacerdote che non ha mai esercitato il ministero in parrocchia, si dovrà

concludere che non ricevette alcuna delega: “si idem rev. Titius omnino extraneus fuerit

praefato territoriali contextui, nulla erit in casu possibilis praesumptio ab homine alicuius sive

singularis sive generalis delegationis, firma manente omni exclusione alicuius scriptae

delegationis documenti vel mentionis in paroecialibus loci regestis”40.

In una recente sentenza vi è una diversa applicazione del principio appena esposto: il

ponente (Huber) si dissocia del difensore del vincolo della causa (Schöch) a proposito della

presunzione di concessione della delega. Il difensore del vincolo afferma che il delegante

sapeva di dover dare la delega (“eum saltem de delegazione cogitavisse”) e presume che la

concese, proprio perché si presume che ha svolto bene la sua mansione: “Defensor affert

praesumptionem quoque, quod quivis officialis ea, quae spectant ad officium eius, recte

administraverit”. Il ponente invece ritiene che il fatto di sapere di dover concederla non

comporta che abbia voluto darla: “ad delegationem dandam, non sufficit ‘cogitare’ sed

postulatur ‘velle delegare’”41.

39 Sent. Vicariatus Apostolici Beryten., c. Pinto, 27 luglio 2001 cit., 594, n. 7. Trattandosi di una causa con un orientale (ortodosso) sottolinea che “iuris oeconomia (…) nos innotescit hanc suppletionem non esse quid mechanicum, vel mere iuridicum, cum supplet ipsa Ecclesia, seu Corpus Christi uti arcana causa salutis” (595, n. 8).

40 Sent. Romana c. Pinto, 5 luglio 2002 cit., p. 411, n. 5.

41 Sent. Aquisgranen. c. Huber, 25 febbraio 2001 (RRDec 113, 90, n. 13): ritiene non concessa la delega perché l’amministratore parrocchiale sapeva di dover concedere la delega, ma non consta che fu concessa né trasmessa al sacerdote che celebrò il matrimonio (il quale trovò tutto pronto in sagrestia, con l’aiuto del sagrestano, il quale non poteva concedere né trasmisse alcuna delega

15

La giurisprudenza sottolinea che chi afferma di aver ricevuto o concesso la delega deve

provarlo. Una recente sentenza c. Monier postula il principio della non presunzione di

concessione della delega: “admittendam sane esse nullam generalem praesumptionem in

favorem concessae licentiae, nam, cum agatur de re, pro qua Ecclesiae lex, praecisis quidem

verbis, praestituit actum expressum, nequit praesumi quod infectum fuerit suppleri velle.

Probatio igitur licentiae, de generalibus iuris principiis, incumbit ei qui asserit eamdem locum

habuisse”42.

E anzi, se il parroco non ricorda di aver delegato (e non ha problemi di memoria) né ha

registrato (e di solito soleva registrare) si presume che non fu concessa la delega: “ex eadem

prudentia contrariam discimus praesumptionem quia nulla memoratio concessae delegationis,

in eo qui adhuc defectu memoriae non laborat, una cum regestorum paroecialium silentio quae

constet diligenter adnotari, aequam gignit non concessae delegationis praesumptionem”43

La stessa sentenza dice che non è da ritenere sufficiente il fatto che l’assistente affermi di

aver ricevuto la delega: lui fa fede del consenso degli sposi, non della delega a lui concessa:

“maxima prudentia est perpendenda depositio sacerdotis adsistentis de delegatione ei

concessa: «Sacerdoti asserenti sese accepisse licentiam adsistendi matrimonio, non ita est

credendum ut in iudicio plenam fidem faciat: ipse enim est testis qualificatus emissi sponsorum

consensus non suae delegationis ad consensum recipiendum»”44.

La concesione implicita è basata proprio sulla presunzione che gli atti posti dal delegante

comportano la volontà di concedere la delega. Così in una c. Monier dell’anno 200045, in una

causa riguardante un matrimonio celebrato nel 1974 a Cleveland da mons. Bernardin, allora

arcivescovo di Cincinnati. L'arcivescovo non conosceva le parti, solo era amico della famiglia

dello sposo. Il parroco non fu presente alle nozze. Il ponente sottolinea che la delega deve

essere concessa espressamente, ma non deve essere chiesta necessariamente dallo stesso

sacerdote delegato: basta che sia inequivocabile, se fu concessa determinando il nome del

delegato, oppure in considerazione della carica o l'ufficio, sempre che sia inequivocabile.

42 Sent. c. Monier, Reg. Parisien. seu Melden. 19 maggio 2006, n. 9, con citazione di una c. Grazioli, diei 28 aprilis 1941, RRDec., vol. XXXIII, p. 320, n. 5.

43Ibid., con citazione di una c. Canestri, diei 16 februarii 1952, RRDec., vol. XLIV, p. 103, n. 7.

44Ibid., con citazione di una c. Canestri, diei 10 maii 1952, RRDec., vol. XLIV, p. 289, n. 7.

45 Cfr. Clevalanden. c. Monier, del 23 novembre 2000, in RRDec 92 (2007) 671-676.

16

La non necessità di accettazione esplicita della delega si basa anche su una presunzione

simile: anche se si discute il carattere recettizio o meno della delega46, alla fine la distinzione

non ha grande rilevanza pratica. La delega è posta in essere se portata alla conoscenza del

delegato e accettata da questi, almeno in modo implicito, cioè con l’esercizio della delega

ricevuta, sempre che il delegato sia consapevole della delega concessa47. Per cui si può

concludere che il delegato deve accettare (almeno implicitamente) la delega fornitagli48,

sempre che sia il delegante che il delegato siano consapevoli di dover concedere e ricevere la

delega per assistere49.

A volte la giurisprudenza propone l’applicabilità del favor matrimonii nel dubbio sulla

concessione della delega: “Si vero dubium maneat de concessa delegatione, standum est pro

vinculo. Cum autem sermo sit, uti in casu, de valida praestita delegatione, requiritur ut

probetur – unde non sufficit ut suspicatur – vel delegationis absentia vel eiusdem invalida

concessio. Exstante dubio, aliter haud solubili, iuxta illud: «in dubio res potius valeat quam

pereat», standum est pro valore matrimonii”50.

46 Cfr. S. GHERRO, Diritto Canonico, cit., 245-246, e i rifierimenti giurisprudenziali.

47 Così V. DE PAOLIS, Delega e supplenza di potestà per assistere al matrimonio, in Diritto matrimoniale canonico, vol. III, LEV 2005, 67; S. GHERRO, loc. cit.; F.R. AZNAR GIL, F.R., Derecho matrimonial canónico, III, Salamanca 2003, 46-47.

48“Delegatio debet a delegato cognosci et acceptari. Nam quamvis CIC nihil de hac condicione dicat, tamen probati auctores, paucis contradicentibus, conveniunt in necessitate acceptationis, sub poena nullitatis licentiae, postulanda» (cf. Gasparri, Tractatus canonicus de matrimonio, vol. II [1932] pp. 115-116, nn. 951-952; Wernz-Vidal, Ius Canonicum, vol. V, Ius matrimoniale, 1946, p. 683, n. 538, 6; F. Cappello, De Matrimonio, 1950, p. 662, n. 675, 2). Acceptatio tamen tacita vel implicita, per exercitium delegationis, sufficit, si licentia ab ipso delegato vel saltem eo conscio petita fuit" (c. Bruno del 17 gennaio 1986 cit., n. 13).

Riguardo l’accettazione, è paradigmatica una causa risolta in modo opposto da due turni della Rota: cfr. J. CARRERAS, Forma canonica e favor matrimonii in una recente sentenza rotale, in Ius Ecclesiae 6 (1994) 209-210. Le decisioni sono c. Lefebvre del 27 luglio 1974, in RRDec 65, 772-773 e c. Raad del 21 aprile 1977, in RRDec 69, 186-193. Si trattava di un matrimonio celebrato nel 1946 da un sacerdote amico dello sposo. Alla cerimonia nuziale era presente il parroco. Nel processo, iniziato nel 1972, il sacerdote assistente dichiarò di non aver chiesto né accettato alcuna delega del parroco, perché non conosceva l’esistenza di tale requisito: dichiarò infatti “di non aver ricevuto alcuna delega né scritta né orale dal parroco di Marostica: non ci pensavo neanche”. La sentenza c. Lefebvre dichiarò la nullità del matrimonio per difetto di forma: il sacerdote assistente non avrebbe accettato la delega che gli era stata data implicitamente dal parroco. La seconda sentenza, c. Raad, dichiarò invece che non constava la nullità perché la delega concessa implicitamente era stata accettata dal sacerdote assistente, e che le sue dichiarazioni non corrispondevano alla verità bensì al desiderio di “aiutare” l’amico il cui matrimonio era fallito.

49 Cfr. una Marsorum, c. Caberletti del 12 giugno 2003 citata, che dopo una sentenza negativa (per timore, esclusione della prole e dell’indissolubilità) e perenta la causa in secondo grado, poi riassunta, durante la dichiarazione del sacerdote che aveva celebrato il matrimonio si viene a sapere che non aveva ricevuto alcuna delega, e fu introdotto tamquam in prima istanza il capo di difetto di forma (con esito positivo e conferma in Rota). Il sacerdote, cugino della sposa, era stato invitato da questa a celebrare il matrimonio, arriva in chiesa, assente il parroco, e trova un altro sacerdote di don Orione che si apprestava a celebrarlo, anche lui invitato dalla sposa. Visto il sacerdote cugino, l'orionino se ne va, contento perche doveva andare a pranzo dal vescovo. Nei registri si dice che il parroco (ora deceduto) aveva concesso la delega al sacerdote che celebrò il matrimonio, ma viene il dubbio se l'annotazione fu fatta prima o dopo il matrimonio. E anche l'orionino non sembra che avesse avuto una delega generale tale da poter suddelegare, anche perchè sotto il CIC 17 solo i vicari cooperatori potevano ricevere la delega generale.

50 Sent. c. Monier, Reg. Parisien. seu Melden. 19 maggio 2006, n. 9, con citazione di una c. Davino, diei 18 aprilis 1972, RRDec., vol. LXIV, p. 210, n. 5.

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5. UN CENNO ALLE PRESUNZIONI IN TEMA DI FORMA STRAORDINARIA

Le presunzioni in materia riguardano il fatto che vi siano i presupposti oggettivi e

soggettivi previsti dal can. 1116 (pericolo di morte, carenza di teste, il grave incommodo,

l’intenzione matrimoniale)51. La giurisprudenza ritiene che l’errore dei contraenti

nell’apprezzare le circostanze non rendono valido il matrimonio, anche se l’errore fu invincibile

e scusabile. Bisogna distinguere tra l’ignoranza dell’operatività davanti alla Chiesa e il valore

giuridico che si dava (o si misconosceva) all’atto realizzato.

Vale a dire: da una parte, si deve ritenere irrilevante l’opinione circa la validità dell’unione

ai sensi del can. 110052; dall'altra, si deve ammettere che una convinzione sull’irrilevanza

dell’atto posto (se le parti positivamente disconoscono assolutamente alcun valore giuridico a

tale atto) rende invalido il matrimonio. Ma se le parti vogliono non soltanto porre un atto

(quello civile) ma “darsi in matrimonio”, allora il matrimonio sarebbe valido non in ragione

dell’atto civile posto, ma del consenso naturalmente sufficiente prestato legittimante davanti ai

due testi: “repetenda est ab eo quod partes voluerunt, utrum scilicet consensus fuerit

naturaliter sufficiens, necne. (…) aut nupturiente volunt, quantum in se est, praestare ac

manifestare consensum matrimonialem; ita, si non obstat aliquod impedimentum dirimens,

validum est matrimonium non ratione quidem actuus civili positi, sed ratione consensus

naturalis praestiti et legitime manifestati coram solis testibus, seu servata forma in casu

requisita a lege ecclesiastica. (…) Nec validitati obstat quod contrahentes errant, exsistimantes

non valere coram Ecclesia matrimonium ita coram magistratu civili initum, nam scientia aut

opinio…”53.

In questa materia è rilevante una presunzione che risulta trasversale e comune all'istituto

della forma e del consenso. In alcune circostanze, il matrimonio canonico può essere celebrato

in forma civile: dietro la dispensa, l'esenzione o in forma straordinaria54. In questi casi si

richiede che la volontà sia vere matrimonialis o, richiamando l'espressione del can. 1116, che i

coniugi “intendant verum matrimonium inire”. Tradizionalmente questa volontà veramente

51 Boni ha studiato la questione nell’evoluzione legislativa, dottrinale e giurisprudenziale; cfr. G. BONI, La forma straordinaria di celebrazione del matrimonio canonico, in Aa.Vv., Diritto matrimoniale canonico, III, Città del Vaticano 2005, 79-152; A. SAJE, La forma straordinaria e il ministro della celebrazione del matrimonio secondo il Codice latino e orientale , Roma 2003.

52 “Scientia aut opinio nullitatis matrimonii consensum matrimonialem non necessario excludit”; cfr. J.A. NIEVA, Conocimiento u opinión acerca de la nulidad del propio matrimonio y consentimiento matrimonial, Roma 2008.

53 Sent. c. Masala, 14 dicembre 1982, cit. da G. BONI, La forma straordinaria di celebrazione del matrimonio canonico cit., 130, nota 241.

54Questo è l'argomento centrale del nostro Sacramento y forma del matrimonio. El matrimonio canónico celebrado en forma no ordinaria cit.

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matrimoniale era presunta; tale presunzione, è vero, attiene più al consenso che alla forma, per

questo qui ci limiteremo ad accenare al problema55. Oggi da più parti si mette in discussione

come si possa avere una volontà matrimoniale aderendo ad un modello civile sempre più

lontano da quanto intende la Chiesa: “È possibile, in questo quadro di profonda

secolarizzazione e scristianizzazione, presumere sempre un consenso al ‘vero’ matrimonio

come lo concepisce la Chiesa in chi contrae un vincolo meramente civile e quindi individuare un

matrimonio canonicamente valido celebrato in forma straordinaria allorquando si diano tutti i

rimanenti requisiti stabiliti dal can. 1116?”56.

Bisogna ammettere che spesso i legislatori civili hanno svuotato il contenuto dell’unico

matrimonio; ma ciò non significa che il ricorso alla forma civile necessariamente debba aprire la

porta a un eventuale modello contrastante con la verità sul matrimonio57. Nell’ambito civile,

con indipendenza del nome che il legislatore e l’opinione pubblica diano alle rispettive realtà,

coesistono veri matrimoni con altre situazioni più o meno somiglianti al matrimonio. Ma il fatto

che l'ordinamento civile denomini matrimoni a rapporti che tali non sono non comporta che la

forma civile porti sempre e necessariamente a queste realtà non matrimoniali.

Questione del tutto diversa è che in certi casi il ricorso alla forma civile può certamente

annettere una volontà contraria al sacramento che arrivi a vanificare l’apparente volontà

matrimoniale. Ma tale contenuto non matrimoniale va provato caso per caso, senza che si

possa ammettere una presunzione negativa, di volontà non matrimoniale in chi ha seguito la

forma civile, non solo nei casi in cui il soggetto non era tenuto ad osservarla (per esempio

perché nelle circostanze del can. 1116), ma perfino quando ha voluto ignorarla. Altrimenti,

riesce difficile spiegare perché tali matrimoni possono essere sanati in radice senza che si debba

rinnovare il consenso: si debe affermare, a nostro avviso, che sono sanati perché il consenso è

55Cfr. M.A. ORTIZ, Sacramento y forma del matrimonio cit., 302-320.

56Cfr. G. BONI, La forma straordinaria di celebrazione del matrimonio canonico cit., 135, dove “contesta” la tesi di Bellini, il quale ritiene che la cerimonia civile “rileva come un fatto sociale più direttamente e facilmente percepibile, del quale può arguirsi, per comune esperienza di vita, che è stato espresso dagli sposi un consenso matrimoniale vero e proprio”.

57 Tra l'altro, perché con l’evoluzione sperimentata dal matrimonio civile (che nell’origine è la versione secolare di quello canonico), con l’introduzione del divorzio e di altre situazioni sociologiche patologiche, è sempre più difficile parlare di vero modello matrimoniale e familiare civile. Cfr. G. LO CASTRO, L'idea di matrimonio e i rapporti interordinamentali, in Tre studi sul matrimonio, Milano 1992, 41-87; ID., Il matrimonio nella scienza dei giuristi, in ibid., 89-122, pubblicato anche su Ius Ecclesiae 4 (1992) 35-55; A. M. PUNZI NICOLÒ, Due modelli di matrimonio, in Il Diritto Ecclesiastico (1986) 13 s.; G. DALLA TORRE, Ancora su due modelli di matrimonio, in Quaderni di Diritto e Politica Ecclesiale 5 (1988) 33 s.; R. NAVARRO VALLS, El modelo matrimonial de la legislación histórica española, in Revista de la Facultad de Derecho de la Universidad Complutense 78 (1991-92) 205-234; J.G. MARTÍNEZ DE AGUIRRE, El proceso de vaciamiento legal de la institución matrimonial en España, Roma 2010.

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matrimoniale, e la radice nella quale vengono sanati è proprio il consenso naturalmente

sufficiente58.

La questione del valore da dare al matrimonio civile dei fedeli che si trovano in

circostanze oggettivamente compresse tra quelle del can. 1116 fu posta recentemente rispetto

ai matrimoni civili celebrati sotto i regimi comunisti, sia tra cattolici che tra ortodossi che

posteriormente vogliono contrarre matrimonio con un cattolico59. Nei termini che a noi

interessa, si poneva la questione se, trovandosi nelle circostanze oggettive del can. 1116, si

potesse presumere che i coniugi avessero emesso un vero consenso matrimoniale. Il PCTL

concluse prudentemente che nei casi sottoposti a esame (in cui si deve accertare la validità di

un matrimonio celebrato solo civilmente tra battezzati acattolici orientali), il giudice “deve

interrogare i coniugi se abbiano avuto l’intenzione di contrarre un vero matrimonio” (cfr. cann.

1116 CIC e 832 CCEO sulla forma straordinaria). Infatti, aggiunge il PCTL, la validità del

matrimonio non dipende dall’atto civile, ma dal fatto che le parti intendevano dare un valido

consenso matrimoniale, indipendentemente dal fatto che i coniugi, per ignoranza, abbiano

pensato che il loro matrimonio contratto senza sacerdote non fosse valido dinnanzi alla Chiesa

(cfr. cann. 1100 CIC e 823 CCEO), poiché “la validità del consenso delle parti contraenti non

dipende da ciò che pensano, ma da ciò che vogliono o non vogliono”.

In qualche isolato caso è stato ipotizzato che potrebbe rientrare nella fattispecie di forma

straordinaria il matrimonio di tradizionalisti lefebvriani che riterrebbero come grave incomodo

l’obbligo di adire il teste cattolico: “Alia ex parte nupturientes, catholici qui subiectionis Summo

Pontifici aut communionis cum ecclesiae membris eidem subditis detrectationem numquam

formaliter posuerunt ad mentem canonis 751, firma manente praescriptione a canone 1108

sancita, ante matrimonii celebrationem, insolitum documentum sub titulo “Déclaration

d’Intention” subscripserunt ad mentem can. 1116 § 1 et 2: “C’est donc en pleine connaissance

de cause que je contracte, validement et licitement, mariage devant les seuls témoins (nouveau

canon 1116 § 1. 2° ; ancien canon 1098 § 1), mais en présence de Monsieur l’Abbé Th. G.

comme témoin nécessaire et autorisé (même canon § 2)”60. Il turno rotale concorda con la

58 Cfr. SCHÖCH, N., La sanazione in radice dei matrimoni celebrati in forma civile o senza forma pubblica , in AA.VV. (a cura di J. Carreras), La giurisdizione della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia, Milano 1998, 289-333. Sulla distinzione tra l’efficacia attuale e virtuale del consenso (sulla quale si basa l’istututo della sanazione), e sulla perseveranza del consenso e il consenso naturalmente valido cfr. LOMBARDÍA, P., Supuestos especiales de relación entre consentimiento y forma , in AA.VV., «Derecho Canónico», Pamplona 1975, pp. 127-145.

59 Cfr. PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI, Adnotatio circa validitatem matrimoniorum civilium quae in Cazastania sub communistarum regimine celebrata sunt, 13 maggio 2003, in Communicationes 35 (2003) 197-210; M.A. ORTIZ, La validità del matrimonio civile celebrato da battezzati nella Chiesa ortodossa, in Ius Ecclesiae 17 (2005) 315-333.

60 Sent. Parisien. seu Melden., c. Monier, 19 maggio 2006, n. 15.

20

sentenza appellata che non aveva riconosciuto applicabile il can. 1116, anche perché le parti

avevano invocato la difficoltà di celebrare il matrimonio in una celebrazione eucaristica (quella

posteriore al Concilio Vaticano II) a loro non confacente : "En l’occurrence, cette difficulté

n’existait pas, car elle ne concernait pas une compétence selon le droit mais le rite de la messe

de mariage ; or, la validité d’un mariage n’exige pas qu’il soit contracté au cours d’une

célébration eucharistique”61.

Infine, ci si permetta un brevissimo cenno ad una recente e travagliata causa portoghese

de existentia matrimonii62 nella quale la donna che aveva convissuto per diversi anni in

un’unione da molti ritenuta come vero matrimonio, presentò richiesta di iscrizione del

matrimonio celebrato in forma straordinaria davanti a due amici, che avrebbero visitato la

coppia poche ore prima del decesso del marito.

Il turno c. De Angelis decise negative seu non constare existentia matrimonii, e la nova

causae propositio fu denegata dal turno c. Ferreira Pena. Nella pars in iure, De Angelis fa notare

come in questo caso la presunzione “pro valore actus” operi in senso contrario alle cause de

nullitatis matrimonii, poiché il favor iuris “pertinet ad matrimonium rite celebratum ideoque

speciem legitimitatis praeseferens, iuxta regulam: “in dubio omne factum praesumitur recte

factum, ideoque in dubio respondendum est pro valore actus”63. Ma se il dubbio riguarda la

stessa celebrazione del matrimonio, non vi è alcun favore in tanto non venga probata

l’esistenza del atto di celebrazione, proprio perché “in causa de exsistentia matrimonii, enim,

celebratio est proprie thema probationis et valet regula generalis “onus probandi ei incumbit

qui asserit”64. Dopo diverse istruttorie (e con non pochi dubbi sulla credibilità della donna e dei

suoi testi), rimanendo il dubbio sulla consapevolezza del marito della prossimità della morte,

non si potè concludere che il consenso dato fosse veramente de presente: “Etenim certum

videtur d.num A. verum consensum matrimonialem non ostendisse, sed tantum amorem erga

actricem et possibilitatem futurarum nuptiarum. Ita scribunt: “Conclusio est quod A., etsi

revera in periculo mortis constituto, cum de hoc periculo conscius non esset, nullam umquam

61 Ibid.

62 Vianen. Castelli, de existentia matrimonii, c. De Angelis, il 3 giugno 2005; c. Ferreira Pena il 31 ottobre 2008.

63 Ibid., n. 7, con citazione di D’Annibale, Theol. Mor. I, 150, cit. in una coram Sincero diei 1 februarii 1913, in RRDec., vol. V, p. 88, n. 4; cf. etiam cann. 124, § 2, 1060, 1101, § 1.

64 Ibid. Aggiunge: “Attamen, si quaestio oritur de ipsa celebratione matrimonii, favor iuris non amplius valet: “ab hoc principio recedere aequum [est], quando nimirum … quaestio agitatur de facto, utrum scilicet fuerit numquam contractum, necne” (Instructio S. C. S. Officii diei 18 decembris 1872, in Codicis Iuris Canonici Fontes, cura P. Gasparri, vol. IV, Romae 1926, p. 328; cf. coram Exc.mo Lega [videntibus omnibus], decisio diei 30 iunii 1910, in RRDec., vol. II, p. 221, n. 2)”.

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habuerit causam contrahendi, nullamque rationem manifestandi actualem consensum; ideoque

eiusdem verba non de praesenti sed de futuro tantum intelligi possunt”65.

6. LE PRESUNZIONI NELLA SUPPLENZA DI FACOLTÀ (CAN. 144)

Dicevamo all’inizio della nostra esposizione che la stragrande maggioranza delle cause

riguardanti la forma matrimoniale s’incentrano sull’applicabilità o meno della supplenza di

facoltà alla mancata delega speciale. Qui non mi estenderò su questioni abbondantemente

trattate dalla dottrina66. Lasciando da parte le origini romane e la sua accoglienza nelle fonti

canoniche67 e negli ordinamenti secolari68, è bene ricordare che l’istituto della supplenza è

un’applicazione del principio del favor matrimonii, principio basilare del sistema matrimoniale;

la supplenza manifesta il servizio che presta la Chiesa e la centralità del potere sovrano degli

sposi. Navarro Valls la considera una sorta di “uscita di sicurezza” che protegge la validità dei

matrimoni in applicazione della norma generale contenuta nel can. 14469.

Come abbiamo anticipato, il caso della supplenza di facoltà è singolare perché – nel punto

più discusso, riguardante la supplenza della mancata delega speciale – vede una giurisprudenza

praticamente uniforme (contraria all’applicabilità della supplenza alla delega speciale) di fronte

a una dottrina che si trova perlomeno divisa tra i favorevoli e i contrari a detta supplenza. Salva

qualche eccezione, la giurisprudenza continua a fare un’interpretazione restrittiva della

supplenza di facoltà, determinandone l’inapplicabilità ai casi di delega particolare.

Fanno eccezione in un certo senso una decisione c. Monier dell’anno 2000 e un decreto c.

Sable del 1997 70. Quest’ultimo rinvia la causa al tribunale di primo grado che aveva deciso pro

nullitate seguendo il processo documentale (anche se le parti avevano chiesto la dispensa super

rato): il parroco aveva concesso la delega a un sacerdote (fratello dello sposo), appartenente

65 Decr. C. Ferreira cit., n. 5.

66 Cfr. lo status quaestionis in M.A. ORTIZ, La supplenza di facoltà per assistere al matrimonio nella giurisprudenza c. Stankiewicz cit.; e in ID., La forma del matrimonio nella giurisprudenza della Rota Romana cit.

67 Cfr. V. DE PAOLIS, Delega e supplenza di potestà per assistere al matrimonio, in AA.VV., Diritto matrimoniale canonico, vol. III, LEV 2005, 68-77; A. NITA, La suplencia de la facultad de asistir al matrimonio en caso de error común, a la luz de la jurisprudencia de la Rota Romana, in AA.VV., El matrimonio y su expresión canónica ante el III milenio, Pamplona 2000, 601-609; H. FRANCESCHI, Forma canonica e supplenza di facoltà nelle decisioni rotali recenti , in Ius Ecclesiae 14 (2002) 186-220; G. CORSI, L’interpretazione delle norme sulla supplenza di facoltà per assistere al matrimonio, in Ius Ecclesiae 17 (2005) 103-162.

68 Moneta e Gherro sottolineano la vicinanza della supplenza di giurisdizione al principio del “funzionario di fatto” presente negli ordinamenti civili: cfr. P. MONETA, Il matrimonio nel nuovo diritto canonico cit., 194; S. GHERRO, Diritto Canonico, cit., 247.

69 Cfr. R. NAVARRO VALLS, commento ai cann. 1111-1112, in Comentario exegético cit., 1455.

70 Sent. Clevelanden., c. Monier, 23 novembre 2000, in RRDec 92 (2007) 671-676, decisa pro vinculo e dec. c. Sable, Tolosana, del 2 dicembre 1997, non pubblicato, riportato in H. FRANCESCHI, Forma canonica e supplenza di facoltà nelle decisioni rotali recenti cit., 203-204.

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alla Fraternità di S. Pio X. Richiamando la dottrina dello Schmalzgrueber , il decreto conclude

che il matrimonio celebrato con delega concessa dall'Ordinario o dal parroco a un sacerdote

scomunicato, e perfino a chi era ritenuto sacerdote ma non era tale, sarebbe valido anche se

illecito, “si communi aestimationi reputaretur sacerdos; quia deputatio, et licentia assistendi

dat ei titulum praesumptum, et concurrit communis error, qui titulo subnixu jus facere dicitur;

et deffectum supplet” 71.

La sentenza c. Monier conclude che ci fu una concessione implicita della delega (per cui

non ci si deve chiedere se si applicò la supplenza), ma in essa il ponente espone molti elementi

a favore della supplenza. Nel caso in questione (si trattava di un matrimonio celebrato da un

vescovo, in una diocesi diversa dalla sua), siccome i fedeli non erano tenuti a distinguere

l'esercizio territoriale o personale della giurisdizione, il fatto che un vescovo benedica un

matrimonio è sufficiente ad indurre in errore; “non agitur de ignorantia, sed de errore, quippe

qui error in persuasione communi fidelium olim vocabatur 'titulus coloratus'”. Il ponente

conclude per l'esistenza di una concessione implicita, ma se non ci fosse stata tale concessione,

ci sarebbe da pensare se ci fu la supplenza. Il patrono sostiene che l'arcivescovo celebrante non

era conosciuto in diocesi e i fedeli ignoravano più che erravano sulla necessità della delega, le

modalità di esercizio della giurisdizione ecc. Il ponente invece ribadisce che una sola

“celebratione cum magno concursu populi” può indurre in errore. I fedeli non conoscono né

distinguono i principi della giurisdizione, ma erroneamente sono convinti che il vescovo, in

ragione della dignità, possa assistere a qualsiasi matrimonio.

La giurisprudenza maggioritaria comunque ritiene applicabile la supplenza se l’errore

proviene da un titolo in forza del quale il sacerdote o diacono sarebbe abilitato ad assistere

ordinariamente al matrimonio, oppure svolge un munus stabile nel luogo di celebrazione del

matrimonio o è ammesso abitualemnte a coadiuvare il parroco nel ministero pastorale: “Quare

ut suppletio sortiatur suum effectum requiritur ut matrimonio assistens, sacerdos vel diaconus,

munus aliquod, etiamsi auxiliare, in paroecia vel in aliquo sanctuario exerceat, quod saltem in

apparentia inducere valet fideles in persuasionem de legittimo possessu ab illo necessariae

facultatis”72.

71 F. SCHMALZGRUEBER, Ius ecclesiasticum universum, Tomus IV, Tit. III, Pars II, Lib. IV, Romae 1844, n. 188.

72 Sent. C. Stankiewicz del 15 dicembre 1992 cit., n. 17. Anche in una c. . Caberletti, 12 iunii 2003 cit.: «in praxi regulariter non verificatur error communis de facto, ac proinde regulariter non suppletur jurisdictionis defectus, quando agitur de agente extraneo communitati ignoto, de quo communitati non constat». E in una c. Heard del 26 aprile 1958 (in RRDec. 50 (1958) 285-286): “Si agatur de sacerdote qui habet munus stabile adiuvandi parochum in huius ministerio v.g. vicarius cooperator; vel qui solet matrimoniis assistere delegatus, ut sacerdos paroeciae adscriptus, qui sua servitia praestat per turnum, aut habitualiter, sed in aliquo casu matrimonio sine delegatione assistit, supplet Ecclesia”.

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Il fatto capace di provocare l’errore comune (l’indizio dunque sul quale poggia la

presunzione che c’è stato il falso giudizio) sarebbe dunque il fatto pubblico della presenza

abituale del sacerdote in mezzo alla comunità73.

Tali circostanze – la presenza abituale del ministro nella parrocchia – renderebbero

l’errore comune di fatto (se sono molti a fare il giudizio errato) o di diritto, in quanto

costituiscono “un elemento che di per sé, o per le circostanze, può portare la comunità a

credere che il sacerdote o il diacono in soggetto è fornito dalla dovuta facoltà, anche se in

concreto solo pochi l’abbiano pensato positivamente”74.

Di conseguenza, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che l’errore possa verificarsi solo

se riguarda un sacerdote cui i fedeli sono soliti rivolgersi (che avrebbe celebrato con una delega

generale), e non se si tratta di un sacerdote non conosciuto che avrebbe celebrato solo in

seguito ad una eventuale delega speciale: “in praxi regulariter non verificatur error communis

de facto, ac proinde regulariter non suppletur jurisdictionis defectus, quando agitur de agente

extraneo communitati ignoto, de quo communitati non constat”75.

I motivi che, a nostro avviso, portano la giurisprudenza e parte della dottrina a negare la

supplenza alla mancata delega speciale sono sostanzialmente due: in primo luogo, perché non

si ammette che l’ignoranza possa essere equiparata all’errore; e in secondo, perché la ratio

della norma è la difesa del bene comune, il che richiede la presenza di un titolo sufficiente a

provocare l’errore comune.

Da una parte, la giurisprudenza è solita anche sottolineare la distinzione tra errore –

“falsum rei iudicium” – ed ignoranza, definita come “carentia cognitionis”76. Lo stato di errore

73 Anche se la sola frequenza della parrochia non sarebbe sufficiente: Non sufficit, ad errorem inducendum, mera adsistentia alicuius alicui matrimonio nec frequentia clerici matrimonio adsistentis in determinata ecclesia seu sanctuario (cf. coram Pompedda, diei 14 februarii 1997, RRDec., vol. LXXXIX, p. 113, n. 22).

74 A. ABATE, La forma della celebrazione del matrimonio, Brescia 1985, 152, riportato nel n. 17 della decisione c. Stankiewicz.

75 Sent. c. Caberletti, 12 giugno 2003, n. 7.

76Così in una c. Caberletti, Reg. Aprutini seu Marsorum, 12 giugno 2003, n. 7, con riferimento a una « coram Teodori, decisio diei 31 martii 1949, n. 5, in RRDec., vol. XLI, p. 147; cf. etiam coram Mattioli, dec. diei 2 maii 1957, n. 2, ibid., vol. XLIX, p. 379 » Il ponente riporta anche l’opinione di Bidagor : “Si autem contrahentes et ii qui adsistunt matrimonio nesciunt sacerdotem matrimonio assistentem egere delegatione, nec habent notitiam alicuius muneris quod in paroecia ille exerceat vel in loco celebrationis (v. gr. cappellanus sanctuarii), ex quo cogitare valerent, sicuti alii in communitate, illum matrimoniis assistere posse, casus esset ignorantiae necessitatis alicuius tituli (officium, licentia) ad assistentiam matrimonialem. Ignorantia non confunditur cum errore. Deest nempe fundamentum erroris communis” (R. BIDAGOR, De applicatione C. 209 ad assistentiam matrimonii, in De matrimonio coniectanea, Roma 1970, 191). Anche nella c. Defilippi, Sancti Benedicti ad Truentum-Ripana-Montis Alti, 9 novembre 2000 cit.,, n. 10: « Quod autem attinet ad "errorem communem", imprimis animadvertendum est agi in casu de "errore", seu de iudicio moraliter certo ex parte coetus christifidelium de legitima possessione necessariae facultatis ab Ecclesiae ministro assistendi matrimonio, quamvis huiusmodi iudicium, in falsa rerum cognitione fundatum, veritati non respondeat. Ideo non consideratur condicio eorum, qui tantum versantur in statu ignorantiae vel merae nescientiae, seu carentiae cuiuslibet cognitionis de nostra re. Nam "nescientia est simplex carentia scientiae", dum "ignorantia proprie est nescientia eorum quae quis est aptus scire et debet" (S. Thomas Aquin., Summa Theol, I, q.101, a. 1, ad 2; I-II, q. 6, a. 8 in c.)».

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“confondi non posse cum ceteris mentis statibus, praesertim cum ignorantia et nescientia,

quamvis hac in re de ignorantia sensu proprio gnoseologico sermo fieri nequeat, attento quod

de carentia scientiae debitae apud coetum communitatis non agitur”77. Nello stato di

ignorantia o nescientia, non si pone alcun giudizio, né vero né falso, circa il possesso della

facoltà78.

Nella pratica, però, l’errore e l’ignoranza sono congiunti: «error et ignorantia saepissime

promiscue accipi solet»79. E di fatto, non di rado la giurisprudenza ammette che l’ignoranza

possa essere fonte di errore80: «Attamen, firmo principio quod ex ignorantia saepe error, atque

ex error non raro ignorantia sequatur»81. Bisogna tener presente che il convincimento della

competenza del teste qualificato non sempre proviene da un giudizio espresso, ma spesso ha

origine semplicemente dall’ignoranza: davanti a un sacerdote che benedice le nozze in chiesa la

generalità dei presenti lo riterrà competente82. E infatti, normalmente i fedeli ignorano che il

sacerdote debba chiedere autorizzazione all’autorità, ma ritengono – esprimono un giudizio –

che possa farlo: “quando iam falsam sententiam fert de his quae nescit, tunc proprie dicitur

errare”83.

Anzi, ordinariamente i fedeli non sanno che il sacerdote ha bisogno di alcunché, ma se

celebra il matrimonio lo ritengono (giudicano) competente, come nella summenzionata

decisione c. Monier: “non agitur de ignorantia, sed de errore, quippe qui error in persuasione

77Sent. c. Stankiewicz del 15 dicembre 1992 cit., n. 14.

78Ibid.; la sentenza riporta alcune decisioni giurisprudenziali (cfr. c. Teodori del 11 giugno 1949, n. 4, in RRDec. 41 (1949) 289; c. Huot del 24 maggio 1973, n. 5, in RRDec. 65 (1973) 472) e nonché un testo dell'Aquinate: “unde addit actum quendam supra ignorantiam: potest enim esse ignorantia sine hoc quod aliquis de ignotis sententiam ferat, et tunc ignorans est et non errans. Sed quando iam falsam sententiam fert de his quae nescit, tunc proprie dicitur errare” (S. Thomas Aq., De Malo, q. 3, a. 7).

79Sent. c. Pecorari, 3 dicembre 1942, in RRDec. 34 (1942) 840, n. 6.

80«Ignorantia est erroris mater et vix in praxi datur actus in quo error ignorantiam non comitetur» (PH. MAROTO, Institutiones iuris canonici, t. I, 3ª ed., Romae 1921, 465); cfr. c. Brennan 30 giugno 1948, in RRDec. 40 (1948) 261, n. 6). Cfr. sulla questione e per altri riferimenti giurisprudenziali A. NITA, La suplencia de la facultad de asistir al matrimonio en caso de error común, cit., 680.

81Sent. c. Fiore, 9 febbraio 1962, in RRDec. 54 (1962) 34, n. 2. Anche in una c. Jullien, 24 maggio 1939, in RRDec. 31 (1939) 311, n. 6: «Ignorantia ad ideas pertinet, error ad positivum iudicium: non enim qui aliquid nescit, sed qui putat se scire quod nescit, errare probatur, pro vero enim approbat falsum, quod erroris est proprium».

82 Corsi segnala che nella dottrina precodiciale si consideravano senza distinzione l'errore comune e l'ignoranza comune. Nel Codice piano-benedettino il diritto positivo ecclesiastico ha stabilito diversamente; cfr. G. CORSI, L’interpretazione delle norme sulla supplenza di facoltà per assistere al matrimonio cit., con riferimento a Suárez, De poenitentia, disp. 29, sect. VI, n. 7; sent. c. Jullien, 24 maggio 1939 cit., n. 6: «Re quidem vera, olim promiscue usurpabatur ignorantia communis et error communis». Corsi aggiunge che “nel Codice del 1983, al canone 126, affrontando il tema dell'errore che può inficiare l'atto giuridico, e riprendendo il disposto del can. 104 del Codice del 1917, il Legislatore non distingue tra errore ed ignoranza ai fini della nullità dell’atto, alle condizioni ivi riportate. Anche nel can. 15 si parla in egual modo sia dell’errore che dell’ignoranza”.

83 S. Thomas Aq., De Malo, q. 3, a. 7, cit. nella c. Stankiewicz del 15 dicembre 1992 nella nota precedente..

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communi fidelium olim vocabatur 'titulus coloratus'”. I fedeli non conoscono i principi della

giurisdizione, ma erroneamente ritengono che il vescovo può assistere a qualsiasi matrimonio84.

L'altra ragione addotta contro l'applicabilità della supplenza alla delega speciale è in

relazione con il titolo capace di indurre in errore la comunità e il bene che la supplenza

protegge. Si ritiene che l’errore comume può provenire soltanto “e facto publico, quod natura

sua aptum sit inducendi communitatem fidelium ad credendum matrimonio assistentem

facultate ad hoc necessaria revera potiri”85. Viceversa, si ritiene che nel caso di mancata delega

speciale non si possa invocare la supplenza di facoltà, perché non è in questione il bene

comune, bensì soltanto il bene particolare degli sposi86. Non essendoci inoltre il cosiddetto

titulus coloratus, mancherebbe la causa che potrebbe indurre in errore la comunità nel suo

complesso (e di costituire l’indizio su cui costruire la presunzione dell’esistenza dell’errore), ma

si sarebbe soltanto davanti a pochi fedeli che non rappresentano il bene pubblico tutelato87.

Alla base di tale conclusione restrittiva sta il convincimento che solo “sanando” una

molteplicità di matrimoni – per i quali viene concessa la delega generale – si proteggerebbe il

bene pubblico, mentre la supplenza di una delega speciale riguarderebbe un singolo

matrimonio e un bene privato dei fedeli coinvolti88.

Ma bisogna chiedersi cosa si debba intendere per bene comune, cioè se il bene comune

vada misurato quantitativamente, o se anche il singolo matrimonio da salvaguardare faccia

parte del bene comune della comunità ecclesiale, in quanto costituisce, quale Chiesa domestica

84«Les fidèles aujourd’hui ignorent qu’un prêtre a encore besoin d’une concession de pouvoir pour agir. L’ignorance n’est pas erreur, mais le devient lorsque ils jugent que, étant prêtre, et plus encore, agissant dans telles circostances, il a le pouvoir! Il me semble que tout prêtre agissant publiquement comme tel, par exemple revêtant l’aube dans une église, se place toujours dans des circostances induisant en erreur commune» (F. J. URRUTIA, Les norme générales, Paris 1994, n. 794, 229).

85 Sent. c. Stankiewicz 15 dicembre 1992 cit., n. 17.

86 Così in nella c. Heard del 26 aprile 1958 cit. n. 9: «error communis idem sonat ac error communitatis, nec confundendus est cum errore individuali, personali, peculiari»; cfr. anche la sent. c. Pinto, 11 dicembre 1972, in RRDec. 64 (1972) 757, n. 4: «Unica et adeguata ratio ob quam Ecclesia defectum potestatis supplet est exigentia boni communis promovendi vel mali communis vitandi. Non ergo ob bonum mere privatum».

87 Si veda la critica di V. DE PAOLIS, Delega e supplenza di potestà cit., 68-76; in particolare, a proposito del titulus coloratus, la nota n. 44 a p. 69.

88 Cfr. sent. c. Caberletti del 12 giugno 2003, cit., n. 7 (“in praxi regulariter non verificatur error communis de facto, ac proinde regulariter non suppletur jurisdictionis defectus, quando agitur de agente extraneo communitati ignoto, de quo communitati non constat”, con rif. a G. Michiels, De potestate ordinaria et delegata, Parisiis 1964, 319). Nello stesso senso la sent. c. Pompedda del 14 febbraio 1997, in RRDec. 89 (1997) 107-108: “errorem communem non posse spectare factum singulare sed respicere debere fundamentum iurisdictionis, quae supponitur in aliquo, cum de facto desit”.

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– come la stessa giurisprudenza ammette89 –, punto centrale nella vita della Chiesa90.

Bisognerebbe dunque superare, nel caso del matrimonio, detta distinzione tra bene comune e

bene privato, atteso che il salvataggio di un matrimonio fa sempre parte del bene comune, a

patto che il difetto da supplire sia di carattere tecnico giuridico, purché siano rispettate le

esigenze di pubblicità e di ecclesialità che costituiscono la ratio della forma canonica (cfr. can.

1108) e purché la mancanza di facoltà non sia dovuta proprio ad una specifica volontà di

inosservanza della legge ecclesiastica91.

Come tutti sanno, così accadde nella più volte citata sentenza coram Stankiewicz del

199292, in cui si era di fronte a coniugi che si erano rivolti ad un sacerdote che non era in piena

comunione con la Chiesa, e si rivolsero a lui proprio a ragione di tale mancanza di comunione.

La Chiesa non può supplire se i fedeli vogliono positivamente evitare di sottoporsi alla

giurisdizione ecclesiale. Qui il problema non è di supplenza di giurisdizione perché non si

trovano i requisiti dell’errore comune e il dubbio positivo e probabile, anche se il sacerdote

aveva affermato di agire con la “giurisdizione suppletoria” prevista dal diritto93.

Lasciando da parte la questione della buona o mala fede del sacerdote – sulla quale è

difficile emettere un giudizio, dal momento in cui risultano implicati elementi di coscienza e di

libertà religiosa non facilmente inquadrabili – e dell'errore o l'ignoranza dei fedeli – che a

89 «Consensus enim nuptialis, sicut Magisterium Pontificium nos docet, “fonda la ‘Chiesa domestica’ e costituisce una realtà sacramentale dove si uniscono due elementi: un elemento spirituale come comunione di vita nella fede, nella speranza e nella carità; e un elemento sociale come società organizzata, gerarchizzata, cellula vivente della società umana elevata alla dignità del ‘sacramentum magnum’, la Chiesa di Cristo, dove essa si inserisce come Chiesa domestica” (IOANNES PAULUS II , Allocutio ad S. R.Rotae Tribunalis del 28 gennaio 1982, n. 5 in AAS LXXIV (1982) 451)» (Cfr. sent. c. Stankiewicz, 15 dicembre 1995, n. 5).

90Cfr. J.I. BAÑARES, Comentario al can. 1056, in AA.VV., Comentario exegético al Código de Derecho Canónico, vol. III, 2ª ed. Pamplona 1997, 1053.

91Questo è il punto centrale del commento di J. CARRERAS, Forma canonica e “favor matrimonii” cit. Cfr. M.A. ORTIZ, La forma canonica quale garanzia della verità del matrimonio cit., 400; H. FRANCESCHI, Forma canonica e supplenza di facoltà nelle decisioni rotali recenti cit.

92 Nel volume delle Decisiones dell'anno 1992 si fa riferimento ad un'altra decisione c. Stankiewicz non pubblicata: la Petropolitana in Insula Lunga, decisa lo stesso giorno della Denveren. (15 dicembre 1992), e come quest’ultima, con esito affermativo pro nullitate. Si tratta di un Decreto di ratifica (pubblicato in inglese in Studia Canonica 29 (1995) 531-538) in una fattispecie molto simile a quella della decisione Denveren.: un matrimonio celebrato a Colorado Springs nel 1982 da un sacerdote ordinato per la Fraternità Sacerdotale S. Pio X, senza alcuna delega, in una chiesa non eretta canonicamente e senza rapporti con la Chiesa Cattolica.

93Il ponente mette in evidenza quanto sia infondata tale pretesa, poiché nel caso mancava il presupposto della supplenza, in quanto il sacerdote “assistente” non era in piena comunione con la Chiesa e i fedeli si erano rivolti a lui proprio perché contestava l'autorità del vescovo. Si legge infatti: “nulla suppletio facultatis assistendi matrimonio dari potest, si assistens, etiamsi fuisset valide ordinatus presbyter, nullam communionem hiearchicam cum Episcopo diocesano habeat, in cuius territorio celebratio matrimonio peragitur, nullamque ab eo potestatem receperit nec umquam probatus sit tamquam veram potestatem exercens in Ecclesia particulari” (n. 21). L'opinione del sacerdote di agire “con giurisdizione suppletoria” non si può affatto far rientrare nel dubbio positivo e probabile che avrebbe giustificato la supplenza: cfr. l'esposizione sul “dubio positivo et probabili sive iuris sive facti” da parte del ministro, nei nn. 18-20 della decisione.

In tal caso, conclude la decisione, non si tratta né di errore comune né di dubbio positivo e probabile, “sed maxime locum habet simplex ignorantia ex parte fidelium bona fide extra veritatem agentium, potissimum vero ignorantia crassa ac supina ex parte presbyteri de exsistentia facultatis mala fede iudicantis” (n. 22).

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nostro avviso, in astratto, potrebbero essere assimilabili –, in detta fattispecie si è di fronte ad

una volontà positiva di sottrarsi alla giurisdizione della Chiesa. “Ecclesia supplere nequit

facultatem in eo, qui a communione ecclesiali recessit et proprio mart extra communionem

hierarchicam cum Episcopo loci celebrationis nuptiarum agere praesumit”94. In questo caso

risulta compromesso uno degli elementi essenziali del consenso, la sua ecclesialità. Qui non si è

di fronte a un problema di supplenza di facoltà ma alla consapevolezza di voler agire fuori dalla

giurisdizione della Chiesa: il sacerdote, i fidanzati ed i loro parenti sono consapevoli di agire al di

fuori della giurisdizione della Chiesa, per cui non è ipotizzabile invocare una supplenza quando

positivamente ci si è voluti sottrarre a tale giurisdizione.

Infatti, non si può invocare la supplenza laddove le parti, i parenti e il sacerdote sanno che

non fu chiesta né sarebbe stata data alcuna delega; come nella più volte richiamata c.

Stankiewicz del 1992 e in altre cause dove né i coniugi né il sacerdote avrebbero mai chiesto

alcuna delega95. Anche una c. Pinto ritiene non applicabile la supplenza perché il sacerdote non

era noto in parrocchia, e inoltre il sacerdote evitò di chiedere alcuna delega perché sapeva che

gli sarebbe stata negata e anzi il sacerdote portava i libri da un'altra parrocchia perché

consapevole della prassi del parroco di non concedere la delega. La registrazione in una

parrocchia diversa di quella del luogo di celebrazione è indizio della mancanza di delega:

“certum indicium defectus delegationis”96.

È a tutti noto come l’istituto della supplenza mira proprio a difendere il matrimonio dal

rigorismo tecnico-giuridico e in questo senso non si può dimenticare che il proposito di limitare

i casi di nullità per difetto di forma fu una delle linee-guida dei lavori conciliari e di quelli di

revisione del Codice. Bisognerebbe, a nostro avviso, fare un ulteriore sforzo per rivedere

l’istituto della supplenza, alla luce del principio – basilare per l’intero sistema matrimoniale

canonico – del favor matrimonii, che esige un’interpretazione favorevole al matrimonio che

94 Sent. c. Stankiewicz del 15 dicembre 1992 cit., n. 22.

95Per esempio, nella Parisien c. Monier del 5 giugno 2005: Praeprimis omni evidentia excludendum est dari in casu errorem communem quoad presbyteri facultatem adsistenti matrimonio de quo agimus. Actum est e contra de errore semplici non communi. De re appellata sententia perbelle scripsit: “En outre, nous ne pensons pas que, pour ce mariage, on puisse invoquer la suppléance pour erreur commune, car les conjoints et les assistants savaient pertinemment que Mgr Labille avait refusé d’autoriser ce mariage dans son diocèse et que l’Evêque du lieu (La Trousse est dans le diocèse de Meaux) n’avait pas été consulté. Par conséquent, les conjoints et leurs proches ne peuvent absolument pas invoquer la bonne foi ; c’est dans un esprit de bravade contre l’autorité hiérarchique légitime qu’ils ont organisé les choses” (Sent. p. 15). In questo caso, « inscriptio formalis matrimonii in regestis Fraternitatis Sacerdotalis St. Pii X in loco Prunay, iam in re est aliquid certus defectus delegationis ».

96 Sent. Romana c. Pinto, 5 luglio 2002 cit., n. 11. Nel caso, l’ignoranza potrebbe essere forse giustificata nel proprietario della chiesa, non certamente nel sacerdote. Il proprietario della chiesa comunque era consapevole dell’opposizione del parroco alla celebrazione dei matrimoni nella cappella. Era lui (il proprietario della chiesetta) a scegliere il sacerdote che doveva celebrare.

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porti ad estendere al massimo la supplenza di facoltà, sempre che vengano rispettati il senso e

la funzione della norma del can. 1108, che richiede che il consenso venga espresso “alla

presenza dell’Ordinario del luogo o del parroco o del sacerdote oppure diacono delegato da

uno di essi che sono assistenti, nonché alla presenza di due testimoni…”.

In conclusione, riteniamo che si dovrebbe poter invocare la supplenza sempre che si tratti

di supplire un difetto di carattere tecnico giuridico, purché siano rispettate le esigenze di

pubblicità e di ecclesialità che costituiscono la ratio della forma canonica e purché la mancanza

di facoltà non sia dovuta proprio ad una specifica volontà di inosservanza della legge

ecclesiastica.

Fuori di quei casi di voluta sottrazione alla giurisdizione della Chiesa, la celebrazione

« normale » con una preparazione e una volontà di adeguarsi al diritto della Chiesa, anche se i

fedeli sono in errore (che sarebbe « comune » nel senso di attribuibile a tutti quanti sanno della

celebrazione del matrimonio), dovrebbe essere l’indizio sufficiente per poter riscontrare la

presenza dell’errore che giustifica la supplenza di facoltà.

7. LA “INVALIDA CONVALIDAZIONE” E LA PORTATA DEL CONSENSO DI CHI INTENDE “REGOLARIZZARE” UN PRECEDENTE MATRIMONIO CIVILE

Veniamo adesso all’ultima presunzione di cui intendevo occuparmi e che è collegata con

una recente corrente che sembra voler introdurre un nuovo capo di nullità che tocca questioni

formali e di consenso. Lo farò brevemente, perché mi sono occupato dell'argomento di

recente97. Nella dottrina e nella giurisprudenza recenti (soprattutto in quelle provenienti dagli

Stati Uniti) si possono trovare diverse riflessioni riguardanti un capo di nullità controverso: la

“invalida convalidazione” di un matrimonio nullo per difetto di forma, e concretamente del

matrimonio civile di chi era obbligato alla forma canonica98.

Nei termini che adesso ci interessano, la questione si può formulare così: nella

celebrazione canonica posteriore al matrimonio civile (o davanti ad un ministro acattolico), i

97Cfr. M.A. ORTIZ, Questioni riguardanti la forma matrimoniale. La “convalidazione invalida” e l’ambito di obbligatorietà dopo il m.p. “Omnium in mentem”, in H. FRANCESCHI-M.A. ORTIZ (a cura di), La ricerca della verità sul matrimonio e il diritto a un processo giusto e celere. Temi di diritto matrimoniale e processuale canonico, Roma 2012, 171-204.

98 Cfr. U. NAVARRETE, A proposito del Decreto del S. T. della Segnatura Apostolica del 23 novembre 2005, in Periodica 96 (2005) 307-361, con abbondanti riferimenti giurisprudenziali. Per la dottrina cfr. L.A. BOGDAN, Simple convalidation of marriage in the 1983 Code of Canon Law, in The Jurist 46 (1986) 511-531; C. HETTINGER, Invalida convalidazione di matrimonio nullo, in Monitor Ecclesiasticus 124 (1999) 569-583; A. MENDONÇA, Defective Convalidation, in Proceedings of the Canon Law Society of America, Washington DC 2008, 193-236; G. READ, Invalid Convalidation, in Canon Law Society Newsletter 124 (2000) 11-17; L. ROBITAILLE, Defective Validations of Marriages Lacking Canonical Form. An Interpretation of Total Simulation, in The Jurist 66 (2006) 436-468; E. WALKER, The invalid convalidation. A neglected caput nullitatis, in Studia Canonica 9 (1975), 325-336; L.G. WRENN, Invalid Convalidation, in The Jurist 32 (1972) 253-265.

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coniugi stanno dando un consenso a se o stanno rinnovando un consenso dato in precedenza?

E in tal caso, la nuova celebrazione costituirebbe una fattispecie di convalidazione semplice di

cui ai cann. 1156-1160, con gli stessi requisiti per quanto riguarda il rinnovo del consenso?

Per alcuni autori, la previsione del can. 116099 non significa altro che il matrimonio nullo

per un vizio di forma non può essere convalidato con la convalidazione semplice (se ricorrono i

requisiti previsti dai cann. 1161-1165, forse si potrà concedere la sanatio in radice) ma deve

essere celebrato ex novo. Per altri autori invece il can. 1160 propone una vera e propria

convalidazione del matrimonio precedentemente celebrato e nullo per difetto di forma, sia che

si tratti di un vizio che dell’assenza di forma, come accade con la celebrazione civile di chi è

obbligato alla forma canonica100.

Lasciando adesso da parte la questione se si possa convalidare un matrimonio nullo per

un vizio di forma in generale (che riteniamo problematica proprio perché a nostro avviso il can.

1160 parla di nuova celebrazione e non di convalidazione del matrimonio celebrato: non

richiede un “rinnovo del consenso” ma una “nuova celebrazione” secondo la forma

canonica101), diciamo una parola sulla menzionata corrente giurisprudenziale e dottrinale che

considera che si possa convalidare il matrimonio civile col ricorso alla convalidazione semplice.

Il 23 novembre 2005 la Segnatura Apostolica emanò un decreto – pubblicato con due

ampi commenti del card. Navarrete – con il quale il Supremo Tribunale concesse la nova causae

propositio, chiesta dal difensore del vincolo, nella causa Sancti Francisci in California. Si trattava

di un matrimonio celebrato da due cattolici nel 1950: prima civilmente in seguito alla

gravidanza della fidanzata; e dopo tre mesi canonicamente. Le parti riconoscono di essersi

sposate – in Chiesa – piene di amore ed entusiasmo. Dopo ventiquattro anni di matrimonio e

99 “Il matrimonio nullo a causa di un vizio di forma, per diventare valido deve essere nuovamente contratto secondo la forma canonica, salvo il disposto del can. 1127, §2”.

100 Si veda il decreto c. Stankiewicz, 26 ottobre 2000, Indianapoliotana, n. 5, dove il ponente espone la propria opinione nel senso che "si tamen forma canonica totaliter omissa sit ab eis, qui ad eam tenentur, «vix sermo esse potest de convalidatione matrimonii, cum non habeatur species seu figura matrimonii canonici, v. gr. si tantum civiliter contraxerunt», quia «tunc technice loquendo potius agitur de celebratione quam de convalidatione matrimonii canonici»". Ma aggiunge che “Sed doctrina praevalens tenet convalidationem simplicem proprie dictam locum habere posse etiam in casu totalis omissionis formae canonicae, prout in matrimonio civili, si hoc forte celebrationem matrimonii canonici praecesserit (cf. M. Conte a Coronata, Institutiones iuris canonici, De sacramentis, vol. III, De matrimonio et de sacramentalibus, Romae 19573, p. 946, n. 682; H. Heimerl - H. Pree, Kirchenrecht. Allgemeine Normen und Eherecht, Wien-New York 1983, p. 275; A. Abate, Il matrimonio nella nuova legislazione canonica, Roma 1985, p. 168; L. Chiappetta, Il Codice di diritto canonico. Commento giuridico-pastorale, vol. II, Roma 19962, p. 427; A. Bernárdez Cantón, comm. ad can. 1160, in AA.VV., Comentario exegético al Código de Derecho Canónico, vol. III, Pamplona 1996, pp. 1620-1622; L.G. Wrenn, The Invalid Marriage, Washington 1998, p. 171; J.P. Beal, comm. ad can. 1160, in AA.VV., New Commentary on the Code of Canon Law, New York-Mahwah 2000, p. 1385)”.

101 “En el supuesto contemplado en este precepto —matrimonio nulo por defecto de forma— se requiere lisa y llanamente la nueva celebración del matrimonio. Por eso no se dice, como en casos anteriores, que se renueve o preste consentimiento en «forma canónica», sino que «ha de contraerse de nuevo en forma canónica». No es, pues, un caso de convalidación sino de una nueva celebración” (A. BERNÁRDEZ CANTÓN, Commento al can. 1160 cit.).

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quattro figli si separano e divorziano. Nel 1992, l’attore introduce la causa per mancanza di

discrezione di giudizio. Siccome l’attore era fratello dell’arcivescovo di Los Angeles, la causa fu

deferita al tribunale di San Francisco, il quale formulò il dubbio per mancanza di discrezione e

per invalida convalidazione, e decise negative al primo capo e affirmative al secondo. La moglie

presentò querela di nullità che non venne accettata, e poi l’appello in Rota. Il turno c. Sable

emise sentenza affermativa in seconda istanza il 29 gennaio 1999, contro la quale il difensore

del vincolo chiese la nova causa propositio concessa dal decreto della Segnatura del 2005. La

terza istanza fu decisa negativamente dal turno c. Yaacoub il 19 luglio 2007102.

Come fa notare Navarrete, la causa è espressione di una nuova linea giurisprudenziale

che si basa su due principi: da una parte, che il matrimonio civile possa essere ritenuto

“matrimonio nullo” e di conseguenza possa essere convalidato ricorrendo alla convalidazione

semplice invocando il can. 1160. Dall’altra, si presume che tutte le fattispecie di convalidazione

semplice esigono un rinnovo del consenso (come prevedono i cann. 1156 e 1157 per la

convalidazione del matrimonio nullo per impedimento) per cui anche la “convalida” del c. 1160

richiederebbe il rinnovo del consenso.

Questa linea dottrinale e giurisprudenziale ritiene che se la celebrazione canonica

posteriore (ritenuta appunto come atto di convalida del matrimonio civile precedente) non

contiene un consenso pieno rinnovato, può dichiararsi invalida. Ciò accadrebbe se le parti (o

una di esse) si ritenessero già sposate dopo la celebrazione civile e accondiscendessero a

celebrare il matrimonio canonico per “regolarizzare” la situazione ecclesiale.

La Rota Romana si era occupata in passato di questo “nuovo” capo di nullità, dovendo

rispondere a dei dubbi formulati dai tribunali inferiori in termini di “convalidazione invalida”,

anche se sostanzialmente si trattava di casi di esclusione103. Così conclude la sent. c. Boccafola

del 12 marzo 1998: “vera quaestio in his casibus est praecise utrum adsit vel non totalis

102 Cfr. SUPREMUM SIGNATURAE APOSTOLICAE TRIBUNAL, Decreto del 23 novembre 2005, Periodica 96 (2007) 285-288 e i commenti di U. NAVARRETE in ibid., 289-361. La sentenza affermativa c. Sable in RRDec 91 (1999) 41-47.

103 Cfr. le sent. c. Wynen, Berythen. Maronitarum dell’1 giugno 1940, in RRDec 32 (1940) 423-437; c. Fidecicchi, Tripol. Maronitarum del 20 gennaio 1948, in RRDec 40 (1948) 25-31; c. Fiore, Novarcen. del 15 guigno 1964, in RRDec 56 (1964) 478-483; c. Rogers, Dubuquen. del 21 gennaio 1969, in RRDec 61 (1969) 63-67; c. Funghini, Pragen. del 30 giugno 1988, in RRDec 80 (1988) 439-448. Posteriormente, c. Boccafola, Arundellien.-Brichtelmestumen. del 12 marzo 1998, in RRDec 90 (1998) 228-238; . Turnaturi, Rubribaculen. del 30 aprile 1998, in RRDec 90 (1998) 345-358, pro vinculo e Roffen. in America del 1 marzo 2002.

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simulatio consensus”104, se cioè nella celebrazione canonica con la quale fu “regolarizzata” la

situazione davanti alla Chiesa i coniugi diedero un consenso vero oppure simulato.

In altre parole, la celebrazione in forma canonica del can. 1160 di chi era sposato

civilmente e vuole “regolarizzare” la propria posizione davanti alla Chiesa non è propriamente

una convalidazione di un matrimonio invalido (appunto perché il matrimonio civile non è tale)

ma una nuova celebrazione, a dire il vero la celebrazione105, per cui la portata del consenso

delle parti andrà misurata in assoluto.

Come valutare il consenso dato (in forma canonica) da chi si ritiene già sposato con la

celebrazione civile precedente e considera la nuova celebrazione canonica una mera formalità?

Non mancano autori che vorrebbero vedere una vera e propria presunzione di mancanza di

volontà matrimoniale. Spesso si ritiene in dottrina che chi ritiene valido il precedente

matrimonio civile e intende solo regolarizzare davanti alla Chiesa come pura formalità, la

celebrazione non produrrebbe nessun effetto, in quanto equiparata alla simulazione totale.

Certamente, non giova alla chiarezza un modo di esprimersi non particolarmente preciso

ma abbastanza diffuso in alcuni ambiti, nei quali la celebrazione canonica di chi era già sposato

civilmente viene chiamata “convalidation” o “blessing”106. È vero che i fedeli “convalidano”

l’unione nel senso che intendono “regolarizzare” la propria situazione di coniugi davanti alla

Chiesa. A volte con la convinzione che il “vero” matrimonio è quello celebrato davanti alla

Chiesa, altre volte no.

104 Sent. c. Boccafola del 12 marzo 1998 cit., n. 12; aggiunge che “Nam nullitas in casu postulatur sive quia teneatur partem haud vera tradidisse vel accipisse verum consensum matrimonialem momento celebrationis canonicae, cum tranquille quieverit consensui iam in caerimonia civili dato, sive quia teneatur partem conscie simulavisse, refutantem praestare consensum illo momento atque nolentem recognoscere ullam efficacitatem ac validitatem caerimoniae canonicae”. Il ponente mette in evidenzia come le decisioni c. Wynen del 1 giugno 1940, c. Rogers del 21 gennaio 1969 e c. Funghini del 30 giugno 1988 anche se dovettero rispondere a un dubbio formulato in termini di “convalidazione invalida” sostanzialmente erano casi di esclusione del matrimonio: “Pauca excerpta ex aliquibus casibus iam sub hoc capite «invalidae convalidationis» apud Rotam Romanam decisis clare demonstrant fundamentalem quaestionem revera esse illam de simulatione totali matrimonii, cum sententiae in his casibus generatim pro nullitate concluserunt ob probatam simulationem totalem” (Sent. c. Boccafola del 12 marzo 1998 cit., n. 13).

Il dubium della citatissima sent. c. Funghini del 30 giugno 1988 fu fissato in questi termini alquanto complessi: “An constet de nullitate matrimonii, in casu, ob defectum consensus matrimonialis in una vel utraque parte momento ecclesiasticae «convalidationis» matrimonii civilis partium (can. 1160; 1157), seu ob invalidam «convalidationem» matrimonii die 8 martii 1967 peractam”. Aggiunge il ponente: “Hac de causa ut distincte de simulatione totali pertractetur opus non est”: Sent. c. Funghini del 30 giugno 1988, n. 6, in cui riporta anche un’affermazione della c. Rogers del 21 gennaio 1969 cit., n. 8: “Defectus novi consensus in casu convalidationis matrimonii aequiparandus est simulationi totali consensus”

105 Così nella c. Yaacoub del 19 luglio 2007 cit., n. 11 con riferimento a una c. Huber: “Stricto sensu, igitur, fas est in casu loqui de nova matrimonii celebratione, vel, rectius, de prima (et quidam in facie Ecclesiae, unica) matrimonii celebratione”.

106 “Proh dolor aliqua confusio gignitur ex facto quod in aliquibus Ecclesiis particularibus, vox «convalidatio» (v.d. «convalidation») vel vox «benedictio» (v.d. «blessing») pro matrimoniis canonicis celebratis post aliquam praehabitam caeremoniam civilem vel non catholicam, sensu improprio sumuntur” (sent. c. Yaacoub del 19 luglio 2007 cit., n. 11 con riferimento a una c. Huber).

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In questo senso, la giurisprudenza era solita sottolineare la necessità della consapevolezza

della nullità del precedente matrimonio civile, affinché si possa parlare di convalidazione o

nuova celebrazione valida 107. Tale consapevolezza od opinione della nullità è richiesta dal can.

1157, a proposito del rinnovo del consenso in caso di nullità a causa di un impedimento (chi

rinnova “sa o suppone” che il matrimonio era nullo dall'inizio). Per questo motivo, in dottrina e

giurisprudenza spesso è stato chiesto un nuovo atto, “de novo voluntatis actu formali et positivo,

qui esse debet veluti ac si primo praestetur”108, uguale al consenso prestato nella celebrazione,

esplicito, distinto dal precedente, come se fosse prestato per la prima volta. Non basterebbe la

conferma del consenso già emesso – nella cerimonia civile –, perché quello era inefficace e

quindi anche la sua conferma sarà inefficace109.

Ma bisogna evitare un eccessivo formalismo. Non sembra accettabile chiedere in questi

casi un’intenzionalità più attuale di quella richiesta per la prestazione del consenso in condizioni

normali. L’atto del consenso non è un atto isolato, ma s’inserisce nella biografia del soggetto,

che matura la decisione coniugale fino ad esprimerla nel consenso coniugale. L’uomo e la

donna che vogliono essere sposi, ed essere ritenuti tali dalla comunità ecclesiale (quando

appunto vogliono “regolarizzare” la loro situazione davanti alla Chiesa), esprimono il loro

consenso inserito nella propria biografia, che abbraccia il fidanzamento, la celebrazione civile,

la convivenza posteriore e le nozze in Chiesa. Non dimentichiamo che il consenso non consiste

nell’adesione ad un “modello matrimoniale” ma nella donazione ed accettazione reciproca, nel

voler costituire l’una caro che lega i due nel vincolo coniugale110.

Chi si ritiene sposato dalla prima cerimonia e vuole manifestare la volontà di essere

appunto sposo, a meno che non escluda positivamente il matrimonio stesso o una sua

proprietà o elemento essenziale, si deve presumere che esprima un vero consenso coniugale.

Si tratta in realtà di un consenso nuovo e diverso, ma che non può essere assolutamente

scisso da quello precedente, poiché non di rado sarà il modo di aggiornare coerentemente un

107 Cfr. Sent. C. Boccafola del 12 marzo 1998 cit., n. 13, con riferimento a diverse sentenze precedenti, a partire dalla c. Wynen del 1 giugno 1940 cit.: “cum sponsi celebrent formam canonicam post caerimoniam civilem «ex natura rei sequitur, quod noviter contrahentes coram parocho et testibus sciant prius matrimonium fuisse nullum et quod utraque pars novum eliciat consensum»”.

108 Sent. c. Funghini del 30 giugno 1988 cit., p. 443, n. 5, con riferimento alla sent. c. Wynen del 1 giugno 1940 cit., n. 7.

109 Questo argomento certamente di poco peso, perché il consenso precedente era inefficace ma sufficiente: cfr. U. NAVARRETE, A proposito del Decreto del S. T. della Segnatura Apostolica del 23 novembre 2005 cit., 357.

110 Cfr. C.J. ERRÁZURIZ M., Sul rapporto tra il consenso e il matrimonio: il consenso quale atto umano che assum e l’altra persona nella sua dimensione coniugale naturale, in H. FRANCESCHI – M.A. ORTIZ (a cura di), Verità del consenso e capacità di donazione. Temi di diritto canonico matrimoniale e processuale Roma 2009, 39-56.

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consenso dato e che si presume perseverante. E in ogni caso, come sottolinea Bernárdez

Cantón, si tratterà di un consenso inefficace, ma che aveva creato un'apparenza di matrimonio,

in forza di una dichiaraizone esterna di volontà111.

Del resto, il caso che ci interessa non differisce molto dalla fattispecie assai frequente, per

esempio di chi magari preferirebbe istaurare una convivenza ma acconsente al desiderio del

fidanzato o della fidanzata, o della famiglia, di celebrare un matrimonio in Chiesa al quale non

tiene più di tanto. Tutti sanno che questo atteggiamento potrebbe costituire l’eventuale causa

simulandi invocata in una causa di simulazione. Ma tutti sanno anche che perfino in quel caso

può essere presente una vera volontà matrimoniale.

111 Cfr. A. BERNÁRDEZ CANTÓN, in Comentario exegético al Código de Derecho Canónico, vol. III/2, Eunsa, Pamplona 1996 , 1607-1608.

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