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Sezione I civile; udienza 16 maggio 1931; Pres. Pinto P., Est. Ferrara, P. M. Cipolla (concl.conf.); Pirrone (Avv. Presutti) c. Delfino (Avv. Storoni)Source: Il Foro Italiano, Vol. 56, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA CIVILE E COMMERCIALE(1931), pp. 795/796-799/800Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23133686 .
Accessed: 28/06/2014 13:15
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795 PARTE PRIMA 796
quindici giorni non si adempiano le prescrizioni degli
art. 74 e 75 del decreto del 1926 e quindi ove non si
depositino insieme col ricorso gli atti e i documenti se
anche non si credesse di dare importanza di formalità
essenziale al deposito degli atti e dei documenti contem
poraneo al ricorso, sul riflesso che ad es. in tema di re
golamento di competenza, in cui pure è prescritto li depo
sito degli atti e documenti contemporaneamente al ricorso
e in cui il magistrato deve per di più riconoscere preli
minarmente se la domanda sia da reputarsi fondata, si è
ammessa la possibilità che al deposito si addivenga suc
cessivamente, prima bene inteso che il magistrato abbia
preso conoscenza della domanda, non si potrebbe però non
considerare che il legislatore ha voluto il deposito degli
atti e documenti contemporaneo alla presentazione del ri
corso anche nell'intendimento di dare all'appellato, prima
dell'udienza preliminare, uno spazio di tempo non modifi
cabile nè riducibile a volontà dell'appellante per l'esame
della documentazione e precisamente quello che va dal
momento in cui esso appellato in seguito al deposito e
alla notifica del ricorso e dell'ordinanza presidenziale
viene a conoscenza del reclamo sino al giorno della detta
udienza fissata dal presidente per la comparizione. La di
sposizione per la quale la mancata proposizione, nella prima
udienza stabilita con l'ordinanza presidenziale, delle que
stioni pregiudiziali fa si che la parte decada dal diritto
di proporle in seguito sta a confermare che la legge ri
tenne essenziale il deposito degli atti e dei documenti con
temporaneo al ricorso perchè il deposito fatto successiva
mente e magari alla vigilia dell'udienza o all'udienza,
potendo mettere la parte avversa nella materiale impos
sibilità di dare le sue risposte e sopratutto di proporre
le questioni pregiudiziali, avrebbe il gravissimo strano
effetto di cagionare appunto la decadenza di cui nell'ul
tima parte dell'art. 79 del decreto del 1926 a carico dello
appellato in dipendenza del comportamento processuale
dell'appellante. La sanzione della decadenza dal diritto di dedurre
questioni di natura pregiudiziale, se non siano proposte
nella prima udienza fissata dal presidente, è inconciliabile
con la possibilità affermata dalla denunciata sentenza che
l'appellante non avendo potuto prendere cognizione degli atti e dei documenti dell'avversario chieda ed ottenga un
rinvio, e d'altronde il differimento in cotesta ipotesi di
fatto urta con le finalità della legge che, col sistema adot
tato, considerato nel suo insieme, ha inteso conseguire il
beneficio della celerità nel procedimento e nel giudizio,
evitare le insidie e favorire la lealtà del contradittorio al
quale uopo ha voluto che in massima quando le parti si
presentano davanti il presidente della Magistratura del
lavoro l'ambito della controversia sia in condizioni di es
sere senz'altro nettamente determinato in base al mate
riale istruttorio precostituito e alle deduzioni delle parti
stesse.
È vero che nell'art. 81 si stabilisce che nell'udienza
del Collegio questo dopo aver deciso anzitutto le questioni
previste nell'art. 79 lett. 6) ordina, quando ne sia il caso,
anche d'ufficio i mezzi istruttori che ritenga necessari,
compresa la produzione di documenti che le parti giusti fichino di non aver potuto prima esibire. Ma cotesta norma
che riguarda solo i documenti conferma il rigore imposto dal legislatore in rapporto alla produzione degli atti e dei
documenti « in cui si fonda il ricorso » e sopratutto in
ordine alla perentorietà del termine pel deposito. Il Collegio infatti se nel suo prudente arbitrio non
rioonosca la dedotta impossibilità dell'anteriore deposito
e non creda quindi di consentire la produzione, o si tratta
di documento su cui si fonda il ricorso e allora non può
non emettere d'ufficio la dichiarazione di decadenza del
l'appellante dal diritto di far esaminare il suo reclamo
per decorso del termine perentorio o si tratta di altro
documento necessario per la decisione della causa, ma
non compreso tra quelli su cui si fonda il ricorso, e al
lora non può non dichiarare che una produzione in codesta
fase del giudizio è assolutamente inammissibile e la de
cisione deve essere pronunziata senza che quel documento
abbia da esercitare su di essa influenza. Che la disposi
zione abbia l'effetto di dar adito a una causa di sospen
sione o interruzione delle conseguenze derivanti dalla
inosservanza del termine di decadenza, contrariamente al
generale principio dell'art. 46 cod. proc. civ., è evidente,
ma il legislatore poteva certo, e lo ha fatto, considerare
eccezionalmente il caso di non produzione di documenti
nel termine quando fosse un caso di impossibilità come
dovuto quasi a forza maggiore dando, come diede al giu
dice, la facoltà di consentire la tardiva esibizione nono
stante la scadenza del termine fissato. La regola dello
art. 46 fa del resto salve le eccezioni che la legge spe
cificamente stabilisca.
Esattamente il giudice del merito escluse che potes sero nella questione sottoposta al suo esame essere invo
cati i principi stabiliti dal codice di procedura civile e
dal regio decreto sul procedimento sommario circa il ri
getto dell'appello senza esame. Magli sfuggi che l'art. 17
del decreto del 1928 in relazione al decreto del 1926 san
ziona esso nettamente le perentorietà del termine per la
produzione di quegli atti e di quei documenti sui quali il
ricorso in appello si basa in quanto nettamente sancisce
che l'appello si propone secondo le norme degli art. 74
e seg. e cosi anche col deposito degli atti e dei docu
menti. Ciò rende pure manifesta la inconsistenza assoluta
della osservazione avanzata dalla Società del Oorace che
non è luogo a parlare di essenzialità di una norma di di
ritto processuale qualora essa non sia esplicitamente com
minata dalla legge.
Per questi motivi, cassa, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE DEL REGNO.
Sezione I civile ; udienza 16 maggio 1931 ; Pres. Pinto
P., Est. Ferrara, P. M. Cipolla (conci, conf.) ; Pir
rone (Avv. Presotti) c. Delfino (Avv. Storoni).
(Sent, denunciata : App. Messina 13 marzo 1930)
Fallimento — Omologazione del concordalo — Oppo
dizione alla sentenza dichiarati va del fallimento —
Preclusione — (Contestazione di erediti — \ininis
sii.ilici — Estremi (Cod. comm., art. 693, 763, 841).
L? opposizione proposta dal fallito contro la sentenza di
chiarativa del fallimento viene meno, quando, nelle
more del giudizio, sia stato concluso il concordato e
questo sia stato omologato coti sentenza passata in
giudicato. (1)
(1) Vedi, in senso conforme alla sentenza che riferiamo, Tri
bunale Bologna 22 maggio 1923 (Foro it., Kep. 1924, voce Falli
mento, n. 289). Vedi anche nel senso dell'inammissibilità dell'op
posizione avverso la sentenza dichiarativa del fallimento, ove
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797 GIURISPRUDENZA CIVILE E COMMERCIALE 798
Se però il fallito nella proposta di concordato abbia fatto riserva di gravame contro la sentenza di primo grado
che abbia respinto la contestazione di un credito, Vo
mologazione del concordato non preclude la proponi bilità del gravame anzidetto. (2)
La Corte, eco. (Omissis) — La Corte di appello ri
tenne preclusa la possibilità di esaminare se la dichiara
zione di fallimento fu bene o male pronunziata. Causa
della preclusione, la volontà del fallito manifestata nella
proposta e conclusione del concordato, omologato con sen
tenza passata in giudicato. Il ricorrente vorrebbe distin
guere tra effetto ed effetto ne'la disamina sulla legitti mità della suddetta dichiarazione ; la disamina sarebbe
chiusa per la revoca della dichiarazione di fallimento, sa
rebbe sempre aperta per giudicare del comportamento do
loso o colposo del creditore, che ebbe a provocarla, quale titolo di risarcimento del danno.
Questo Supremo Collegio rileva quanto segue :
La indagine sulla legittimità della dichiarazione del
fallimento, provocata dal fallito con opposizione alla sen
tenza dichiarativa, non è più possibile se nelle more del
giudizio di opposizione siasi domandato dal fallito e siasi
concluso concordato colla massa dei creditori concorrenti, debitamente omologato con sentenza passata in giudicato.
La procedura di concordato e la sua conclusione mercè
atto convenzionale (il concordato) e mercè atto giurisdi
zionale (la sentenza di omologazione) assorbe e preclude
ogni controversia sulla legittimità della dichiarazione di
fallimento, sollevata con opposizione alla sentenza dichia
rativa, sotto doppio profilo, sotto quello dell'acquiescenza
alla sentenza dichiarativa da parte di colui che l'aveva
impugnata, e sotto quello della efficacia del giudicato con
sumatrice della questione. Sotto il profilo dell'acquiescenza :
il fallito, che si limiti a presentare una proposta di con
cordato, assume un comportamento che può ricevere di
verse spiegazioni, non ultima quella di arrestare la liqui
dazione dell'attivo in attesa di pronunzia sulla questione
della legittimità della dichiarazione di fallimento. Quindi, trattandosi di fatto equivoco, non può essere interpretato
come acquiescenza alla sentenza dichiarativa del falli
mento, e bene su di esso, e per chiarire la precisa volontà
del soggetto, può operare la riserva, ossia la dichiarazione
espressa di volontà colla quale si mira ad evitare che al
fatto proprio, che ammette più significati, si attribuisca
quello di una rinunzia. Ma se la proposta di concordato
è seguita dal contratto di concordato fallimentare di massa,
che non si ha facoltà di concludere se non vi è lo stato
di fallimento giudizialmente ed irrevocabilmente accertato,
il comportamento del fallito, esplicandosi in un atto che
ha per suo presupposto indeclinabile lo stato di fallimento
giudizialmente accertato, non può avere che un solo signi
ficato : riconoscimento di tale stato di fatto e di diritto.
In questo caso, la riserva è inutilmente fatta, è priva di
efficacia, perchè contraria al fatto, ossia al comportamelo
che ha per unica base precisamente quel riconoscimento
e senza del quale il comportamento e l'atto giuridico che
lo consacra rimarrebbero sospesi nel vuoto. Concludere un
il fallito abbia presentato domanda di concordato, App. Palermo
30 novembre 1928 (id., Rep. 1928, voce cifc., n. 134) ; Trib. Brescia
28 aprile 1927 (id,., Rep. 1927, voce cit., n. 96); e contra Cass.
Regno 12 giugno 1924 (id., Rep. 1924, voce cit., n. 164), e App. Brescia 9 novembre 1927 (id., Rep. 1927, voce cit., n. 94).
(2) Sulla questione non ci risultano precedenti editi.
concordato fallimentare colla massa dei creditori concor
renti implica, con ferrea aderenza, riconoscere lo stato di
fallimento consacrato in sentenza, implica consentire nella
dichiaraz one di fallimento. Ogni riserva, contraria al fatto
che non può avere che un solo significato, è priva di effi
cacia.
Ma, appunto perchè il contratto di concordato, che ha
per presupposto di diritto lo stato di fallimento giudizial
mento dichiarato, si perfeziona con una pronunzia giuris
dizionale, qual'è la sentenza di omologazione, presupposto di questa pronunzia è anche il suddetto stato. Ed allora
il passaggio iu giudicato di questa pronunzia giurisdizio nale è assorbente ed eliminatrice della controversia sulla
legittimità o meno della dichiarazione di fallimento. Il
giudicato di omologazione preclude la possibilità di ulte
riore pronunzia sulla opposizione alla sentenza dichiarativa
di fallimento. E se la controversia su tal punto è assorbita
e preclusa, non è dato distinguere tra effetto ed effetto
che ad essa s'intenda di connettere. La legittimità della
dichiarazione di fallimento rimane un punto fermo e il
principio di contraddizione vieta che lo stesso comporta
mento, la stessa pronunzia possano essere al tempo stesso
legittimi (agli effetti della revoca del fallimento) ed ille
gittimi (agli effetti del risarcimento del danno). Il primo motivo del ricorso è, pertanto, infondato.
Ma non può dirsi altrettanto del secondo motivo. In
relazione al giudizio di contestazione del credito, la riserva
di gravame, al momento della proposta di concordato,
contro la sentenza di primo grado che la contestazione
aveva respinta, era operativa di effetti, perchè, mentre,
come si è rilevato, vi era incompatibilità assoluta tra con
clusione del concordato fallimentare e disconoscimento
dello stato giuridico di fallito, tale incompatibilità non si
profilava rispetto alla esistenza ed alla misura di uno
dei crediti concorrenti. Nè si dica che la incompatibilità
assoluta si profilava (donde la inefficacia della riserva) in
quanto il credito contestato, in virtù della sentenza am
missiva del primo giudice (esecutiva di diritto : art. 913,
prima parte, cod. comm.) aveva partecipato, assentendo,
alla conclusione del concordato. In linea di diritto, le va
riazioni della massa passiva, dopo la conclusione del con
cordato, sono possibili, previste e disciplinate dalla legge
(art. 833 capov. cod. comm.). In linea di fatto e di*diritto
poi, il fallito, proponente del concordato, non contratta
coi singoli creditori, per guisa possa dirsi che accettata
l'adesione di un creditore già contestato e partecipante al voto, per forza esecutiva della sentenza di ammissione
impugnabile ed impugnata o per ammissione provvisoria,
ne abbia necessariamente riconosciuta la qualità di credi
tore. 11 concordato si conclude tra il fallito e la massa
dei creditori, ossia un organo collegiale della massa pas siva che è distinta dai singoli suoi componenti. Se fosse
altrimenti, non soltanto tutte le ammissioni consacrate in
sentenze impugnabili ed impugnate diventerebbero irre
vocabili mediante la partecipazione ed assenso al concor
dato, ma diventerebbero definitive ed irrevocabili tutte le
ammissioni provvisorie, mentre la legge (art. 833 citato)
prevede espressamente la partecipazione al concordato di
creditori ammessi soltanto provvisoriamente al passivo e
la possibilità di successive variazioni, senza distinguere
tra partecipazioni favorevoli o contrarie al concordato. E
se è possibile la partecipazione anche favorevole al con
cordato e la successiva variazione, ciò significa che la
prima non preclude l'altra. Il secondo motivo, perciò,
deve accogliersi, con corrispondente cassazione limitata
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799 PARTE PRIMA 800
della sentenza impugnata e rinvio ad altro giudice per
giudicare se ed in quale misura il Delfino sia creditore
del fallito concordatario Pirrone.
Per questi motivi, cassa, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE DEL REBNO.
Sezione I civile ; udienza 16 maggio 1931 ; Pres. Venzi P.,
Est. Ferrara, P. M. Delle Donne (conci, conf.) ;
Nicolello (Avv. Rotati, Borsotti) c. Società Ga
ruti).
(Sent, denunciata : App. Milano 16 maggio 1930)
Società — Società in nome collettivo — {.Veditori
particolari dei soci — Pignoramento degli utili
sociali — Trasformazione — Aumento di capitale — Destinazione degli utili ad aumenti» di capitale
nodale (Cod. comm., art. 85, 96, 100).
Qualora nel caso di trasformazione in accomandita sem
plice di una soctetà collettiva regolarmente costituita
V aumento del capitale non sia stato regolarmente
pubblicato, i versamenti fatti per integrare detto au
mento non sono ripetibili dai soci, nè su tali somme
possono esercitare diritti i loro creditori partico
lari. (1) Se invece all'aumento di capitale vengano destinati utili
non riscossi dai soci. i creditori particolari dei soci
possono pignorarli, salvo che tali utili non servano
a colmare perdite sociali o che per patto sociale sieno
espressamente destinati ad integrare gli aumenti di
capitale. (2)
La Corte, eco. (Omissis) —- Col primo e secondo mezzo
si prospetta la seguente questione, che concerne la inter
pretazione degli art. 85, 96 e 100 cod. comm. : se il
creditore particolare del socio possa apprendere, a norma
dell'art. 85 cod. comm., quella parte di capitale che sia
rappresentato da un aumento deliberato successivamente,
e non pubblicato, ovvero quella parte di aumento di capi tale che sia costituito da destinazione di utili non ri
scossi.
Nel caso in esame la Corte di appello, di fronte alla
differenza tra il valore della quota del socio nel 1927
(lire 30 mila) e nel 1928 (lire 150.000), aveva ritenuto che tale differenza non fosse apprensibile dal creditore
particolare del socio qualora rappresentasse conferimento
di quota sociale per la formazione del fondo comune so
ciale, sia che il maggior conferimento non fosse che ap
parente (ossia frutto della diversa maggiore valutazione
dei beni originariamente confer ti o acquistati cogli origi
nari conferimenti in denaro), sia che il maggiore succes
sivo conferimento fosse effettivo ed eseguito o mediante
nuovi versamenti o mediante destinazione di utili di eser
cizi precedenti non distribuiti.
(1-2) Non conosciamo precedenti precisi sull'interessante
questione. Per la giurisprudenza della Corte Suprema sulle mo difiche statutarie non pubblicate vedi da ultimo. Cass. Regno 15 gennaio 1931, Foro it., 1981, I, 774 con osservazione di T. A.
La presente sentenza avanza tuttavia una affermazione nuova rispetto alla precedente giurisprudenza, sancendo come i creditori particolari del socio non possono opporre la ineffi cacia del cambiamento in quei casi nei quali detta inefficacia non potrebbe venir opposta dallo stesso socio.
A proposito della destinazione degli utili non riscossi
ad aumento del capitale, la Corte dichiarò: «Gli utili in
tal caso, costituirebbero parte del nuovo capitale confe
rito nella società e non potrebbero essere appresi dal cre
ditore del socio finché vive la società (e, avrebbe dovuto
aggiungere, finché non siano stati soddisfatti i creditori
sociali) a termini dell'art. 85 cod. commercio ».
In questa proposizione è un errore di diritto, che 'e
termina l'annullamento della sentenza, in quanto racchiude
una decisione che domina le indagini affidate ai mezzi
istruttori disposti e vincola la futura pronunzia sul risul
tato di essi.
Nessun dubbio che se la differenza tra le due cifre
di capitale sociale fosse la conseguenza di una diversa
valutazione degli stessi cespiti costituenti l'originario fond i sociale, questo, anche nella nuova valutazione, sfug
girebbe all'azione esecutiva dei creditori particolari del
socio, fino alla eliminazione di quell'onere reale che lo
colpisce e lo rende autonomo, rappresentato dal vincolo
contratto di società e dalle ragioni dei creditori sociali.
La soluzione sarebbe identica nal caso in cui, durante
la vita della società, il capitale sociale fosse stato aumen
tato mercè versamenti dei soci, anche se l'aumento non
fosse stato regolarmente consacrato in atti formali e re
golarmente pubblicato (art. 96 e 100 cod. comm.). I cam
biamenti introdotti nelle società commerciali regolarmente
costituite, non regolarmente adottati, depositati e pubbli
cati, sono inefficaci sino a che la regolarizzazione non sia
avvenuta. Sono inefficaci, come ha ritenuto questo Su
premo Collegio di accordo con la più diffusa ed autore
vole dottrina, di fronte ai terzi e di fronte ai soci. Qui
terzi sono i creditori sociali, non i creditori particolari dei soci, che di fronte ad atti simih non hanno diritti
maggiori dei loro debitori. I terzi (creditori sociali) pos sono ignorare o invocare il cambiamento irregolare, a se
conda torni vantaggioso per i loro interessi (art. 100 coor
dinato coll'art. 99 capov. secondo, che pel primo è una
concreta applicazione al caso di irregolarità riferibili, non
alla costituzione originaria, ma soltanto ai cambiamenti
delle società commerciali) ; i soci (e per essi, in funzione
surrogatoria, i loro creditori particolari) possono ricusarne
la esecuzione, fin quando non eseguiti; ma se eseguiti non possono invocarne la eliminazione, col ripristino della
precedente situazione, perchè non di nullità ma d'ineffi
cacia si tratta, e non può opporre la inefficacia di un
atto colui che vi ha data esecuzione. E quindi, in caso
di aumento irregolare del capitale sociale, poi eseguito, il socio non potrebbe pretendere di ripetere il versamento
dei beni conferiti invocando l'art. 100, e non lo potrebbero,
per lui, i suoi creditori particolari. Quindi, i versamenti
per aumento di capitale non pubblicato, eseguiti dal socio,
non possono essere ripetuti dai suoi creditori particolari come crediti del loro debitore non entrati a far parte del
fondo sociale.
Ma se l'aumento di capitale venisse eseguito mercè
destinazione degli utili, allora occorrerà distinguere, per mettere in limpida evidenza i diritti del creditore parti
colare del socio.
Le società commerciali sono persone giuridiche ed il
loro patrimonio ha per suo subbietto l'ente, non i singoli soci apportatori delle quote di sua formazione. Finché
dura la società, ossia finché ha vita l'ente e finché i cre
ditori sociali (dell'ente) non siano stati soddisfatti, i cre
ditori del socio non possono colpire cespiti che non ap
partengono al loro debitore.
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