Sezione I civile; udienza 12 gennaio 1942, n. 66; Pres. Azara P., Est. Russo, P. M. Terra Abrami(concl. conf.); Comune Castelfranco Veneto (Avv. Precone) c. Soc. italiana fabbricazione eriparazione vagoni (Avv. Matteini, Zilonghi, Santinoli)Source: Il Foro Italiano, Vol. 67, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA CIVILE E COMMERCIALE(1942), pp. 395/396-397/398Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23137555 .
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895 PASTE PRIMA
la condizione giuridica che, per il nostro diritto positivo, hanno le chiese aperte al culto ; se cioè le stesse, come
pure gli oratori pubblici, debbono considerarsi inaliena
bili ed imprescrittibili. Orbene non crede il Supremo Col
legio, anche in vista di recenti sue pronuncie, richiamare
i precedenti dell'annosa quistione, ma soltanto accennare
alla teoria oggi prevalente in dottrina e seguita dalla giu risprudenza.
In base a codesta teoria, ed ai responsi della Suprema
Corte, non più le chiese vengono considerate alla stregua di tutti gli altri beni, prescindendo completamente dalla
loro destinazione ; e neppure si afferma che le stesse siano
fuori commercio, attributo codesto che, per essere esclusivo
delle cose demaniali, costringe ad ammettere l'esistenza, accanto a quello dello Stato, di un demanio ecclesiastico.
Le chiese invece possono formare oggetto di proprietà pri
vata, ma soltanto entro certi limiti, in quanto cioè si ri
spetti la loro destinazione, l'uso pubblico. In altri termini, chi acquista la proprietà delle chiese, sia codesto modo
di acquisto originario o derivativo, non può sottrarle al
l'uso pubblico del culto, non può mutarne la destinazione.
Affermato dunque il principio che codesta destinazione è
perfettamente conciliabile con la possibilità di negozi di
diritto privato, altro necessariamente ne consegue, che
cioè ove l'uso venga impedito, dovrà riconoscersi, a chi
ne abbia interesse, il diritto di agire per la reintegra dell'ordine giuridico turbato. Del resto, anche per diritto
canonico, la condizione giuridica delle res sacrae non è
diversa, come si desume agevolmente dai canoni 1530,
1539, 1510, e come la stessa Corte del merito riconosce,
quando afferma che le chiese « in quanto sono conside
rate res sacrae, potrebbero essere oggetto di proprietà pri vata e quindi suscettibili di vendita e di .usucapione, salvo il loro servizio immanente al culto ». In questi sensi
si è espresso, come si è detto, anche il Supremo Collegio, il quale con recenti sue pronunzie ha riaffermato il prin
cipio che le res sacrae, tanto per diritto canonico, quanto
per il codice civile, non sono considerate fuori commercio
(v. sentenze Ministero Educazione-Atticciati, 5 agosto 1935, n. 3217 ; Bruno-Comune di Misterbianco, 22 luglio 1938, n. 2679 ; Russo-Mastrogiovanni, 18 aprile 1939, n. 1253 ; rispettivamente in Foro it., 1935, I, 1449 ; Eep.
1938, voce Chiesa, nn. 3, 4 ; Rep. 1939, voce cit., nu
meri 3, 4). I principii così elaborati dalla dottrina e dalla giuri
sprudenza sono stati accolti dal nuovo codice civile, Libro
della proprietà, il quale, all'art. 22 capoverso dichiara : « Gli edifici destinati all'esercizio pubblico del culto catto
lico, anche se appartengano a privati, non possono essere
sottratti alla loro destinazione, neppure per effetto di alie
nazione, fino a che la destinazione non sia cessata in con formità delle leggi che li riguardano ». E la Relazione (in Le Leggi, 1941, fase. 3 bis, XIII, n. 48), chiarisce : « Non si tratta pertanto di una incommerciabilità in senso pieno ; l'alienazione è possibile, ma v'è un vincolo costituito dalla
destinazione, che soltanto l'autorità competente può far cessare ». Ora è noto che il nuovo codice può offrire utili elementi per l'interpretazione del diritto in relazione a
quei rapporti che sono ancora regolati dal codice abrogato. Da quanto precede consegue che la sentenza impugnata, avendo respinto l'eccezione di prescrizione perchè i diritti reali pretesi dai fratelli Panzarasa non sarebbero, per sè
stessi, compatibili con la destinazione al culto, ha appli cato un principio erroneo, giacché anche sugli edifici de stinati al culto possono acquistarsi per prescrizione di ritti reali, nei limiti peraltro già in precedenza indicati. La sentenza pertanto non si sottrae, in questa parte, al
l'annullamento. (Omissis) Per questi motivi, cassa, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione I civile ; udienza 12 gennaio 1942, n. 66 ; Pres. Azara P., Est. Russo, P. M. Terra Àbrami (conci, conf.) ; Comune Castelfranco Veneto (Avv. Piìecone) c. Soc. italiana fabbricazione e riparazione vagoni (Avv. Matteini, Zilonghi, San tinoli).
(Sent, denunciata: App. Venezia 21 maggio 1939)
Tasse e imposte in genere — Imposizione di tributi —
Rinuncia da parte dell'ente impositore — Obbligo di rimborso — Nullità (Statuto, art. 30).
E' vietata e quindi nulla ogni contrattazione con la quale l'ente impositore rinunci ai tributi, anche se fatta sotto la forma dell'obbligo di rimborsarli. (1)
La Corte, ecc. (Omissis) — Il Comune, nel terzo e
quarto motivo, afferma che : a) la Corte di appello avrebbe erroneamente respinta la richiesta della prova testimoniale articolata per dimostrare « la simulazione fraudolenta » del
patto di rimborso delle imposte, simulazione che sarebbe stata posta in essere dal sindaco del tempo e dalla So cietà per mascherare il patto di esonero dalle imposte ;
b) anche a voler ritenere perfettamente concordanti la vo lontà dichiarata e quella effettiva dei contraenti, il patto di rimborso delle imposte sarebbe sempre illecito ; c) nes sun rimborso sarebbe ammissibile oltre i casi specifica mente previsti dalla legge, es. quelli di errore materiale nella formazione dei ruoli o di duplicazione ; d) il Co mune non può erogare le entrate se non per le spese ob
bligatorie o facoltative e con le forme e le garanzie pre disposte dalla legge, perciò nel caso particolare il rimborso sarebbe sempre contrario alla legge poiché non risponde rebbe a nessuna delle indicate spese. Ora, ad avviso di
questo Collegio, il Comune con la maggior parte delle riassunte affermazioni, amplia e complica la lite ancora oltre il giusto segno.
Qui non si può parlare di « simulazione fraudolenta ». Manca ogni elemento per prospettare seriamente tale forma di simulazione.
Nè gli elementi che mancano potrebbero essere forniti
dalla dedotta prova testimoniale. Occorre risalire al 1907, data del contratto, per spiegarsi le clausole dello stesso. Il contratto, posto nel suo ambiente, dimostra che gli am
ministratori di allora non vollero affatto consumare una
frode in danno del Comune. Essi fecero di tutto per far
sorgere nel Comune una industria che ritenevano appor tatrice di utilità e di benessere alla generalità, perchè nella più perfetta buona fede credevano di perseguire un fine di pubblico bene.
Agirono alla luce del sole sottoponendosi a tutti i
controlli. Unicamente per conseguire lo scopo da essi vo luto promisero quanto nell'atto notarile si legge, e che
nella esposizione del fatto è stato indicato, a titolo di cor
rispettivo dell'attività che la Società si impegnava a svol
gere. Neanche si tratta, nel caso particolare, di una que stione di rimborso da risolvere alla stregua dell'ordina
mento tributario. Si tratta della diversa questione della
esistenza di un diritto subbiettivo che deve essere risoluta
secondo il diritto comune.
Nè potrebbe giustificarsi in modo alcuno la indagine
(1) Mentre non ci risultano precedenti editi sul caso speciale del rimborso obbligatorio dei tributi, la giurisprudenza è co stante nelPaffermare il principio generale della nullità di ogni rinunzia o esenzione. Vedi Cass. 28 giugno 1940, n. 2128 (Furo it., Rep. 1940, voce Tasse comunali, nn. 24, 25) ; Cass. 28 giugno 1937, n. 2168 (id., 1937, I, 970, con nota adesiva di M. Di Nola); Cass. 4 marzo 1937, n. 649 (id., 1937, I, 669 nella motivazione) ; Cass. 26 febbraio 1937, n. 574 (id., Rep. 1937, voce Tasse e im
poste erariali in genere, nn. 31, 32, e Biv. it. dir. fin., 1937, II, 55, con nota adesiva di G. Tesobo).
In dottrina vedi, sull'inderogabilità dell'obbligazione tribu taria, A. D. Giannini, Il rapporto giuridico d'imposta, Milano, Giuffrè, 1937, pag. 22 e segg. ; G. Tesobo, Principi di dir. tri
butario, Bari, Macrì, 1938, pag. 52 e segg., e nota sopra citata
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397 GIURISPRUDENZA CIVILE E COMMERCIALE 398
per stabilire se il rimborso corrisponda ad una spesa ob
bligatoria o facoltativa.
Non è qui che può farsi il controllo delle spese. Il quesito risolutivo è uno solo: se è valido o nullo
il patto di rimborso stipulato tra il Comune e la Società. La Corte di cassazione ritiene che è nullo.
È pacifico, infatti, non solo in dottrina ma anche in
giurisprudenza (confronta sentenze di questo Collegio, nu
mero 2128, 28 giugno 1940 in Foro it., Kep. 1940, voce
Tasse comunali, nn. 24, 25; n. 2168, 28 giugno 1937, in
Foro it., 1937, I, 970; n. 574, 20 febbraio 1937, in Foro
it., Rep. 1937, voce Tasse e imp. in genere, nn. 31, 32), che
lo Stato e gli altri Enti investiti del potere di imporre tributi esplicano, con l'attività tributaria, una funzione
essenzialmente pubblica. Nessun cittadino può sottrarsi
al pagamento di un determinato tributo ; l'ente che lo
ha imposto non può, correlativamente, concedere esenzioni
o fare rinunzie in favore di chi per legge è tenuto al
pagamento. La nozione stessa di rinunzia è incompatibile con l'ob
bligo generale di contribuire, in proporzione delle pro
prie sostanze, all'adempimento degli oneri che gravano sullo Stato. È giusta solo la nozione di esenzione. Ma, a
giustificarla, occorre la norma.
Conseguentemente, come questo Collegio altre volte ha deciso, è vietata, e perciò nulla, ogni contrattazione che abbia per obbietto la rinuncia ai tributi o sia di
retta a creare esenzioni, immunità o privilegi non con
cessi per legge. È nulla la contrattazione anche se avvenga in occasione di negozi giuridici che abbiano obietto diverso, e sia a tali negozi giuridici ricollegata con un rapporto di
coordinazione o di dipendenza, originario o sopravenuto. Ciò posto, si vede subito che la clausola contenuta nel
l'atto notarile dell'8 giugno 1907 è nulla. «Il Comune, cosila clausola, dovrà rimborsare alla Società Fervet tutte
le tasse comunali che la Società stessa dovrà pagare al
Comune per l'esercizio della sua industria e tale rimborso
sarà obbligatorio per tutta la durata dell'esercizio mede
simo da parte di detta Società in questo Comune ». La
Corte di appello di fronte a questa clausola ha creduto
di poter distinguere tra patto di esonero e patto di rim
borso delle imposte. E dalla distinzione ha tratto la con
seguenza, costituente la ratio decidendi della sentenza
impugnata, che la clausola era valida perchè il patto di
esonero è nullo mentre non v'ha ragione per disconoscere
la efficacia del patto di rimborso.
I tributi, ha detto la Corte d'appello a proposito del
patto di rimborso, una volta riscossi perdono il carattere
di entrata fiscale, si confondono con i beni patrimoniali dell'Ente e diventano pienamente disponibili, osservati i
prescritti controlli. Ma, a parte ogni esame circa la con
sistenza di tale proposizione, sia come enunciazione di
principio, sia in relazione al caso concreto nel quale fu
promessa la restituzione non di tributi riscossi ma da ri
scuotere, alla Corte di appello è sfuggitala realtà che aveva
sotto gli occhi.
II rimborso di tutte le tasse, di qualsiasi specie, pre senti e future, commisurato nel tempo alla indeterminata
durata dell'esercizio della attività della Società, il rim
borso obbligatorio, tolta al Comune ogni possibilità di di
scutere, non è rimborso ma esenzione. Il Comune, infatti,
a quanto si deduce, non iscrisse mai le tasse a ruolo, la
Società non le pagò mai, il Comune mai le rimborsò. La
realtà stessa prevalse sulla formula, anche per coloro che
questa avevano adoperata. E poiché si tratta di esenzione
e non di rimborso, non occorre aggiungere altro a quanto si è dianzi accennato per concludere che la Società non può domandare l'adempimenjto di un obbligo insussistente.
Sotto questo profilo il ricorso del Comune deve essere
accolto col rinvio della causa ad altra Corte di appello
per nuovo esame.
Per questi motivi, cassa, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione I civile; udienza 30 dicembre 1941, n. 3012; Pres. Marchi, Est. Messina, P. M. Santoni (conci,
conf.) ; Governatorato Konia (Avv. Bentivoglio, De
Paolis) c. D'Andrea (Avv. Policreti, Magno).
(Sent, denunciata : App. Roma 28 marzo 1940)
Tassa sul consumo — Materiali da costruzione — Pre
scrizione triennale — Decorrenza dalla ultimazione
dei lavori — Disposizione dell'art. 1 del regio de
creto-legfje 25 febbraio 1930 n. 338 — Carattere in
terpretativo (R. D. 14 settembre 1931 n. 1175, t. u.
sulla finanza locale, art. 48 ; R. D.-legge 25 febbraio
1939 n. 338, modificazioni in materia di finanza locale, art. 1).
La prescrizione triennale dell'imposta di consumo sui ma teriali da costruzione decorre dall'ultimazione dei lavori e non dal giorno dell'accertamento dell'imposta medesima e dell'invito al pagamento. (1)
La disposizione dell'art. 1 lett. c) del regio decreto-legge 25
febbraio 1939 n. 338, che ha stabilito esplicitamente tale decorrenza, ha carattere interpretativo e non inno
vativo. (2)
La Corte, ecc. — Col primo motivo il ricorrente la
menta cbe la Corte di merito sia incorsa nella violazione
dell'art. 48 del t. u. sulla finanza locale 14 settembre 1931
n. 1175, per aver ritenuto che la prescrizione dell'impo sta di consumo sui materiali da costruzione decorra dal
l'ultimazione dei lavori e non dal giorno dell'accertamento
dell'imposta medesima e dell'invito al pagamento. Col secondo motivo poi denuncia, oltre a difetto di
motivazione, la errata applicazione dell'art. 1, lett. c) del
regio decreto-legge 25 febbraio 1939 n. 338 per avere la
stessa Corte attribuito a tale disposizione carattere inter
pretativo anziché innovativo.
Va esaminato anzitutto il secondo motivo essendo ma
nifestamente assorbente rispetto al primo, poiché non sa
rebbe più consentito discutere sull'interpretazione da dare
all'art. 48 del t. u., se questa fosse stata già stabilita
autenticamente dallo stesso legislatore. Per l'esatta soluzione della questione oggetto di que
sto secondo mezzo del ricorso, e che viene per la prima volta all'esame di questo Supremo Collegio, è mestieri
premettere anzitutto un breve cenno sulle contrastanti
interpretazioni date alle varie disposizioni di legge che si
sono succedute sulla materia in controversia.
L'art. 32 del regio decreto 24 settembre 1923 n. 2030
sul dazio di consumo disponeva al capoverso primo :
« L'azione pel recupero del credito (per i dazi dovuti) si
estingue trascorsi due anni dal giorno in cui avrebbe do
vuto eseguirsi il pagamento ».
Fin dal 1929 però, nell'interpretazione di questa di
sposizione, relativamente ai materiali da costruzione edi
lizia, sorse dissenso fra le varie magistrature di merito,
non solo sul momento iniziale della prescrizione, ma an
che sull'efficacia di essa, se fosse, cioè, limitata alla sola
azione privilegiata di riscossione o si estendesse anche al
credito.
Questo Supremo Collegio, con sentenza 18 luglio 1930
n. 2899 (in causa tra Comune di Bergamo e Pozzoli Nel
(1-2) Sul carattere interpretativo o innovativo della dispo sizione dell'art. 1 lett. c) del regio decreto-legge 25 febbraio 1939
n. 338 — questione su cui la Corte Suprema si pronuncia per la prima volta — non ci risultano editi precedenti.
Sull » decorrenza della prescrizione dalla ultimazione dei la
vori vedi App. Roma 4 gennaio 1938 (Foro it., 1938, I, 416) con
nota di richiami alla giurisprudenza antecedente in vaiio senso.
Per la giurisprudenza del Ministero delle finanze, ricordata
dalla sentenza che riportiamo, si consultino le decisioni riassunte
nei nostri Repertori annuali alla voce Tassa sul consumo, e, fra
le più recenti, quelle del 17 giugno 1940 e del 1° agosto 1940
(Rep. 1940, nn. 180, 182).
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