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PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA CIVILE E COMMERCIALE || Sezione II civile; sentenza 28 aprile 1942, n....

Date post: 31-Jan-2017
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Sezione II civile; sentenza 28 aprile 1942, n. 1102; Pres. Masci, Est. Piacentini, P. M. Pafundi (concl. conf.); Porcari (avv. Napoli) c. Soc. an. coloniale incremento turistico (Avv. Orlando) Source: Il Foro Italiano, Vol. 68, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA CIVILE E COMMERCIALE (1943), pp. 237/238-239/240 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23132633 . Accessed: 28/06/2014 11:51 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.238.114.163 on Sat, 28 Jun 2014 11:51:03 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sezione II civile; sentenza 28 aprile 1942, n. 1102; Pres. Masci, Est. Piacentini, P. M. Pafundi(concl. conf.); Porcari (avv. Napoli) c. Soc. an. coloniale incremento turistico (Avv. Orlando)Source: Il Foro Italiano, Vol. 68, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA CIVILE E COMMERCIALE(1943), pp. 237/238-239/240Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23132633 .

Accessed: 28/06/2014 11:51

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23? GIURISPRUDENZA CIVILE E COMMERCIALE 238

qui non si discute della facoltà dei soci di mettersi in istato di liquidazione : si tratta invece del pregiudizio risentito dai creditori per il modo come la liquidazione, dopo con

ferita, sarebbe stata condotta, e perii mancato esercizio da

parte dei soci del diritto di pretenderne il regolare svolgi mento e la sollecita definizione, e di essere informati dello

stato e del modo di esecuzione (art. 200, ultimo capoverso, cod. comm. abrogato).

In effetti occorre ricordare che i Suini ponevano a fondamento della proposta azione il fatto che la liquida zione della società in nome collettivo Fratelli Cantarelli, iniziatasi nell'agosto del 1927 non era ancora definita il 31

agosto 1939, data dell'atto introduttivo del presente giu dizio, ed aveva il suo svolgimento in una tale atmosfera di

incomprensione dei più elementari obblighi che presiedono il mandato, di disordine amministrativo e contabile, di

illegale e incredibile sperequazione, da determinare da una

parte l'intero soddisfacimento di talune obbligazioni, e dall'altra il completo abbandono dei creditori più remis

sivi, tra i quali gli istanti, e se questa situazione avrebbe

legittimato un'azione dei soci verso il liquidatore per esi

gere l'adempimento degli obblighi che gli derivavano dal l'incarico conferitogli e dalla legge, perchè eventualmente avrebbe anche legittimato un'azione di responsabilità, è indubitabile che i creditori utendo juribus avrebbero potuto nell'inerzia dei soci ad essi surrogarsi.

Vanamente si è sostenuto, infatti, dal ricorrente che l'azione surrogatoria sia ammissibile solo per quei diritti che sono capaci di apprensione da parte del creditore

istante : è questo, invero, il caso più ovvio ; vi sono inol

tre diritti ed azioni il cui esercizio tende a far recuperare al patrimonio del debitore, o ad evitare ohe si disperdano, dei valori sui quali i creditori hanno il diritto di essere soddisfatti. Anche inconsistente è l'osservazione che il li

quidatore non possa considerarsi ter io rispetto ai soci, nel cui interesse agisce, onde l'azione surrogatoria sarebbe

stata inapplicabile nella specie perchè i creditori potrebbero farvi ricorso solo per esercitare i diritti e le azioni che

spettano verso i terzi al proprio debitore ; in effetti, a

parte il rilievo che i liquidatori, pur nell'ipotesi di liqui dazione volontaria, hanno una personalità giuridica di

stinta da quella dei soci, come risulta dall'art. 200, ul

timo capoverso del cessato codice di commercio testé ricor

dato, e come confermano le disposizioni contenute negli ar

ticoli 2276 e seguenti del nuovo cod. civ., allorché la liqui dazione si svolge, come nel caso, in condizioni di anormalità,

quando il liquidatore assume una posizione che è in con

trasto con quella della società, egli è terzo in senso tecnico

rispetto ai rapporti preesistenti tra la società e i proprii creditori perchè, anziché agire nel loro comune interesse,

si pone con essi in conflitto.

Occorre peraltro tener presente che nella liquidazione di una società sono coinvolti gli interessi dei creditori :

essa ha, come è noto, lo scopo della definizione degli af

fari in corso e della conversione delle attività in contanti ;

ma i liquidatori non possono pagare ai soci veruna somma

finché non siano pagati i creditori della società (art. 201

capov. cod. comm.) o finché non siano accantonate le

somme necessarie per pagarli (art. 2280 del nuovo cod.

civ.), onde è naturale che i creditori, anziché ricorrere alla

dichiarazione di fallimento della società, cui la liquidazione non sarebbe di ostacolo, preferiscano di ottenere in sede di

liquidazione, il pagamento di quanto è loro dovuto, per poi

rivolgersi, in caso di insufficienza del patrimonio sociale,

ai soci, la cui responsabilità personale solidale è illimitata ;

ciò basta per dimostrare l'interesse che muove i creditori

istanti ad ottenere che, col resoconto, la liquidazione possa dirsi compiuta.

Cade in tal modo anche la censura, che forma oggetto del mezzo secondo del ricorso, con la quale si è dedotto

che, essendo il rendiconto l'atto conclusivo e finale della

gestione, non avrebbe potuto chiedersi mentre la liquida

zione è ancora in corso, ma si mostra così di non consi

derare che in tanto si chiede il rendiconto in quanto si

vuole affrettare la definizione di una liquidazione che, a

dir degli istanti, si protrae illegittimamente all'infinito

dopo di essere durata per ben quindici anni ; infine a torto

afferma il ricorrente che, essendo la presenza in causa dei

soci una condizione necessaria della procedibilità dell'azione, i giudici del merito avrebbero dovuto respingerla anziché

disporre l'integrazione del giudizio, dovendo per contro

rilevarsi che non potendo l'azione surrogatoria sperimen tarsi senza il contraddittorio del debitore cui il creditore

istante intende surrogarsi, come ha sempre ritenuto que sta Corte Suprema e come il nuovo codice civile ha espli citamente prescritto (art. 2900), l'integrazione del giudizio fu correttamente disposta d'ufficio, come in ogni ipotesi di litisconsorzio necessario (art. 102, capoverso, del nuovo

cod. proc. civ.). Ciò non toglie però che l'azione sia ri

volta contro il liquidatore per metterlo nell'alternativa o

di presentare ai soci il resoconto dell'opera compiuta o di

rispondere verso i creditori, in surrogazione dei soci, delle

conseguenze dannose del suo rifiuto. Per questi motivi, rigetta, ecc.

COHTE SUPREMI DI CASSAZIONE.

Sezione II civile ; sentenza 28 aprile 1942, n. 1102; Pres.

Masci, Est. Piacentini, P. M. Pafundi (conci, conf.) ; Porcari (avv. Napoli) c. Soc. an. coloniale incremento

turistico (Avv. Orlando).

(Sent, denunciata ; App. Palermo 26 luglio 1941)

Impiego privato — Riposo iestivo o settimanale — La

voro prestato nei giorni di riposo — Compenso —

Determinazione — Computo della retribuzione gior naliera — Maggiorazione — Compenso legale per la

voro straordinario — Inapplicabilità.

Per il lavoro prestato nei giorni festivi o di riposo, spetta

alVimpiegato almeno il doppio della retribuzione giorna liera, da calcolarsi dividendo lo stipendio mensile per le

trenta giornate del mese solare, ed una maggiorazione, la cui misura non deve essere quella stabilita dalla legge

per il compenso del lavoro straordinario, ma è lasciata

alla discrezionalità del datore di lavoro. (1)

La Corte, ecc. — Quanto al primo mezzo, bì osserva

che la Magistratura del lavoro di Palermo, riferendosi allo

stipendio mensile percepito dal Porcari (e sulla relativa

misura non vi era alcuna contestazione tra le parti) ha

diviso la mensilità per trenta giorni; è pervenuta, così, alla determinazione della retribuzione giornaliera ; e tale

retribuzione ha attribuito con una maggiorazione del 5%, al ricorrente, tante volte quante le settimane comprese nei vari periodi in cui è durato il rapporto d'impiego di cui

trattasi.

Orbene tale procedimento è corretto. Come già ha avuto occasione di precisare il Collegio Su

fi) Sul punto che la retribuzione mensile, salvo convenzione od usi contrari, intendesi riferita a tutte le giornate del mese

solare, comprese le giornate festive o di riposo settimanale (il quale riposo risulta, in sostanza, un riposo pagato), d'onde deriva il principio che, per la determinazione della retribuzione giorna liera deve dividersi lo stipendio mensile per trenta, v., in senso

conforme, Cass. 5 agosto 1940, ricordata nel testo della presente, in Foro it.. Rep. 1940, voce Impiego privato, nn. 438, 439 ; e nella

dottrina, Barassi, Diritto del lavoro, II, 250. In senso contrario si consultino le osservazioni di J > A vi so e le note di Peretti

Griva, rispettivamente in Biv. lav., 1940, 97 e 1942, 424. Sul punto che il compenso spettante per il «lavoro festivo »

non è quello stabilito dalla legge per il « lavoro straordinario », v., in senso contrario, Cass. 7 giugno 1935, in Foro it., Rep. 1935, voce Riposo iestivo, nn. 5, 6. V., peraltro, nel senso della inap

plicabilità delle norme relative alla determinazione del compenso

per lavoro straord'nario, nel caso di liquidazione dell'indegnità

per mancato godimento di ferie, Cass. 17 gennaio 1939, id., Rep. 1939, voce Impiego privato, n. 565 ; nel caso di liquidazione del

corrispettivo dovuto per prestazioni extracontrattuali, Cass. 13 marzo 1941, id., 1941, I, 1342. Anche in proposito, si richia mano i rilievi di Peretti-Griva, nella nota sopracitata.

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239 PARTE PRIMA 240

premo (vedi specialmente la sentenza n. 2740 del 1940, in

Foro it., Rep. 1940, voce Impiego privato, nn. 438, 439), la

retribuzione mensile di un impiegato deve intendersi rife

rita a tutte indistintamente le giornate del mese solare,

comprese quindi le giornate festive o di riposo settima

nale ; il quale riposo, in sostanza, è, e deve essere, un

riposo pagato. Se, poi, il datore di lavoro richiede la pre stazione anche nelle giornate di riposo settimanale, deve,

per ognuna delle giornate anzidette, per lo meno, raddop

piare la retribuzione giornaliera. E, nel caso concreto, non solo è stata raddoppiata a

favore del ricorrente, per ogni giorno di riposo settimanale, la retribuzione giornaliera, ma questa retribuzione è stata

maggiorata del 5°/0. Il ricorrente obbietta che la retribuzione giornaliera

avrebbe dovuto essere calcolata, dividendo ogni mensilità

per duecento (e, cioè, per il numero di ore lavorative men

sili) e moltiplicando, poi, il risultato per otto (e, cioè, per il numero di ore lavorative giornaliere) ; e ciò in confor mità con le norme stabilite negli artt. 7, 8 e 10 del con tratto collettivo nazionale di lavoro per il personale delle

società anonime iniziative turistiche. Tale obiezione è infondata, perchè il criterio, per il

calcolo della retribuzione giornaliera, adottato dalla sen

tenza impugnata, è quello normale e sempre applicato ; ed il criterio diverso, al quale si riferisce il ricorrente, sarebbe stato inderogabile solo se imposto da un con

tratto collettivo o da un uso, la cui osservanza fosse stata

obbligatoria per la società resistente. Ma nel caso concreto, non esisteva siffatto uso, ed il

contratto collettivo, al quale si riferisce il ricorrente, era

obbligatorio ; ma solo nel territorio del Regno, e non nella Libia.

Soggiunge il ricorrente, che, in ogni caso, la maggio razione da praticarsi era, ai termini dell'art. 6 della legge del 15 marzo 1923, n. 692, almeno del 10% e non del 5%.

Ed anche tale rilievo non è esatto. La norma, stabilita dall'articolo anzidetto, si riferisce,

non alla retribuzione del lavoro fatto nei giorni festivi, ma alla retribuzione del lavoro straordinario.

Il lavoro straordinario non ha alcun corrispettivo nello

stipendio mensile e deve, perciò, essere compensato in

tegralmente, con una retribuzione a parte, calcolata in

base a quella che è la retribuzione del lavoro ordinario, e

con una maggiorazione non inferiore al 10°/0. Per contro, per il lavoro fatto nei giorni festivi o di

riposo, il prestatore di opera ha già una retribuzione nello

stipendio mensile. E per il sovraccarico che detto lavoro

rappresenta, è sufficiente, secondo gli usi, il raddoppia mento di quella che è la retribuzione giornaliera ed una

maggiorazione la cui misura non è fissata dalla legge, ma

lasciata alla discrezionalità del datore di lavoro.

E, nella specie, non può dolersi il ricorrente se, oltre al raddoppiamento della sua retribuzione giornaliera, per i giorni di riposo settimanale, gli sia stata attribuita an che una maggiorazione del 5°/0. (Omissis)

Per questi motivi, rigetta, ecc.

CORTE D'APPELLO DI TORINO.

Decreto 15 luglio 1942; Pies, ed est. Rivera; ricorrente

Rampili.

Affiliazione — Affiliazione di figlio naturale riconosciuto — Antepostone del cognome dell'affiliente a quello del minore — Ammissibilità (Cod. CÌV., art. 408).

Nel caso di affiliazione di un figlio naturale riconosciuto, il cognome delVaffiliante pud essere anteposto a quello del minore (1).

(1) Sull'attribuzione di cognome all'affiliato.

La decisione, per quanto mi consta, non ha precedenti giù

La Corte, ecc. ■— Ad avviso della Corte la lettera e

lo spirito del capoverso dell'art. 408 del cod. civ. sconsi

gliano l'interpretazione data a tale disposto dal Tribunale

e seguita dal pubblico ministero.

La parola « aggiungere » letteralmente non significa addizionare ad una cosa già esistente un'altra cosa che

prima non esisteva, ma significa semplicemente accrescere e trattandosi di nomi « abbinare ».

E che aggiungere significhi soltanto abbinare si ricava anche dalla contrapposta ipotesi prospettata dallo stesso

risprudenziali editi. Sembra peraltro che la soluzione generalmente seguita sia l'opposta a quella adottata dalla Corte di Torino.

In dottrina la tesi dell'anteposizione del cognome dell'af fi lian te a quello del minore è stata sostenuta da G. Nappi, in una nota ad un decreto del Tribunale di Milano 11 giugno 1941, il quale non aveva esaminato la questione, ma si era limitato a stabilire che all'affiliato, qualora sia un figlio naturale riconosciuto, non può essere attribuito esclusivamente il cognome dell'affinante

I (Giur. it., 1942, I, 2, 1 e segg.). La detta tesi non ha incontrato il favore del prof. CictJ, il

quale nel riferirla nella rassegna bibliografica della rivista da lui diretta, accenna al proprio dissenso (Biv. dir. civ., 1942, 314).

Gli argomenti svolti dal Nappi e dalla Corte di Torino nel decreto annotato sono sostanzialmente gli stessi. La legge dice che « il cognome dell'affinante può essere soltanto aggiunto a quello del minore » (art. 408 capoverso, corrispondente all'ar ticolo 403, terzo comma del libro primo nel testo separato).

Si sostiene che « aggiungere » non significa « posporre », e che serondo le finalità dell'istituto deve nssere data la prevalenza al cognome dell'affiliante, giacché solo così si attua pienamente quel l'assistenza morale che è scopo precipuo dell'affiliazione.

Si aggiunge che il sistema della legge non ha affatto stabilito una preminenza del cognome del genitore su quello dell'affiliante, tanto è vero che l'art. 411, secondo comma (corrispondente all'art. 407, secondo comma, del libro primo nel testo separato) prevede che l'affiliato, il quale venga successivamente ricono sciuto dal genitore, possa non assumere il cognome di questo. Il Nappi rileva infine che non può darsi valore all'interpretazione giurisprudenziale formatasi sulla norma analoga in materia di adozione (art. 299), poiché l'affiliazione è istituto nettamente distinto dall'adozione, come risulta dai lavori preparatori del codice.

Mi sembra che tale interpretazione sia senza ombra di dubbio errata, trovando giustificazione, anziché nella regolamentazione legislativa, in quel sentimento di benevolenza e di pietà verso i figli illegittimi, e in ispecie verso gli adulterini, che è largamente diffuso e che ha ispirato non poche decisioni in palese contrasto con la legge.

Le disposizioni dell'art. 408 sono di una chiarezza cristallina. Se l'affiliato è figlio di ignoti, egli, sempre che l'affiliante ne abbia fatta richiesta, assumerà il cognome di lui. Sostituirà cioè al co gnome di pura fantasia impostogli dall'ufficiale dello stato civile, a norma dell'art. 71 ultimo comma dell'ordinamento dello stato civile, il cognome dell'afiiliante. Se invece si tratta di un figlio legittimo o di un figlio naturale riconosciuto (il quale quindi ha il cognome del genitore del sangue), egli conserverà il proprio cognome e vi aggiung rà quello dell'affiliante. Ora che per attuare questa aggiunzione si possa, anzi si debba, secondo l'interpreta zione riferita, invertire l'ordine dei cognomi, è assurdo.

Se l'originario è il vero cognome e l'altro è il cognome aggiunto, è ovvio che questo deve seguire quello.

Ogni qualvolta la legge parla di aggiunta di cognome intende che il cognome aggiunto segua il principale preesistente. Quando invece vuole che il nuovo cognome sia anteposto all'originario parla senz'altro di « assunzione », come nel caso della moglie, che « assume » il cognome del marito (art. 144), pur non perdendo il proprio che viene posposto (vedi Cass. 7 agosto 1941, Foro it., 1941, I, 1333).

Nella specie la norma è ancora più esplicita, in quanto dice che « il cognome dell'affiliante può soltanto essere aggiunto», il che significa che tale cognome non solo non può sostituire quello del minore (come nell'ipotesi del precedente comma dell'art. 408), ma per di più non può che essere acquisito come un cognome aggiunto, cioè come un secondo cognome.

Quindi la lettera della legge è assolutamente contraria alla interpretazione della Corte di Torino.

Se poi si passa all'esame della mens legis, si ha una più forte dimostrazione dell'erroneità di tale interpretazione. iSj

Si affaccia subito al pensiero il richiamo alle norme sull'ado zione. L'art. 299 dispone, conformemente all'art. 210 del codice abrogato, che l'adottato assume il cognome dell'adottante e lo aggiunge al proprio. Stabilisce poi che l'adottato, qualora sia un

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