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PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA CIVILE E COMMERCIALE || Udienza 18 dicembre 1905; Pres. Caselli P., Est....

Date post: 08-Jan-2017
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Udienza 18 dicembre 1905; Pres. Caselli P., Est. Pianigiani, P. M. Tofano; Lebborano c. Parrocchia di S. Severino Marche e Economato beneficî vacanti Source: Il Foro Italiano, Vol. 31, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA CIVILE E COMMERCIALE (1906), pp. 213/214-215/216 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23111125 . Accessed: 18/06/2014 11:29 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 195.78.109.96 on Wed, 18 Jun 2014 11:29:27 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Udienza 18 dicembre 1905; Pres. Caselli P., Est. Pianigiani, P. M. Tofano; Lebborano c.Parrocchia di S. Severino Marche e Economato beneficî vacantiSource: Il Foro Italiano, Vol. 31, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA CIVILE E COMMERCIALE(1906), pp. 213/214-215/216Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23111125 .

Accessed: 18/06/2014 11:29

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213 GIURISPRUDENZA CIVILE E COMMERCIALE '214

a quelle degli altri, sieno soggetti alla servitù ; ma que sta non cessa di essere un diritto di ragion civica fon

dato sui bisogni collettivi degli abitanti del Comune,

tanto che non potrebbe valere ad escluderla il fatto che

coloro i quali introducono i propri animali nei fondi al

trui non posseggono, tutti, dei fondi atti ad apprestare

reciprocamente la stessa comodità ; onde non ò la reci

procità dell'uso che ha potuto far nascere il diritto, ma

bensì una condizione naturale di cose che ha richiesto

che una comune utilità fosse soddisfatta là dove riuscisse

possibile un vantaggio di tutti. Che non può avere alcun valore neppure l'argomento

desunto dalla facoltà, ammessa per consuetudine, di far

cessare la servitù mediante la restrizione e recinzione

dei fondi, quasiché da ciò potesse trarsi la conseguenza

che non costituisca un onere giuridico quello a cui sia

dato sottrarsi quando si voglia.

Che invece l'obbligo di sottostare alla servitù e il di ritto di esercitarla rimangono sempre fermi finché l'uso

di detta facoltà non diventi un fatto compiuto ; né la

recinzione dei fondi, la quale d'ordinario presuppone che

i medesimi siano stati addetti a colture incompatibili col

pascolo, può reputarsi altrimenti che una condizione so

pravvenuta, che solo al suo verificarsi può mutare lo sta

to di diritto preesistente. Che la Corte ha addotto talune decisioni rotali, le

quali avrebbero definito la natura del pascolo esercitato

dai cittadini di Anguillara, dichiarando di non prove nire esso da legge municipale o da dominio fondiario, né

da contratto, e che neppure costituisse una servitù sul

fondo altrui, ma bensi una naturale libertà e facoltà de

rivante da consuetudine.

Che però nelle medesime decisioni l'uso non è altri

menti chiamato che jus civicum e jus pascendi, e se il

medesimo fu detto di emanare da naturale liberta e fa

coltà, era con ciò stesso riconosciuto di avere il carat

tere originario di ogni uso civico, consistente quasi sem

pre nel soddisfacimento di esigenze primitive ed imme

diate che il bisogno ha fatto nascere e la consuetudine

legittimato. Che l'ultimo mezzo del risorso del Comune riguarda

la esclusione della servitù della semina dalle due tenute

• di Galera e di Ponton degli Elei, e la limitazione del

diritto di legnatico alla sola selva di Montignano.

Che quanto a quest'ultimo punto, nessuna censura può

trovare luogo, avendo la sentenza riconosciuto che, tran

ne per la detta selva, mancava qualsiasi dimostrazione

di diritto di legnare su altre parti del territorio di An

guillara. Che riescono del pari prive di valore le deduzioni del

Comune contro la dichiarazione della libertà delle anzi

dette due tenute da ogni peso di servitù civiche in fa

vore degli abitanti di Anguillara.

Che la Corte ha rilevato come tanto la così detta

bandita, quanto il tenimento di Ponton degli Elei, appar

tenessero originariamente alla Comunità di Galera, che

con autonomia e propria circoscrizione territoriale esi

steva ancora al tempo dell'i strumento del 1578, essendo

stato il suo territorio solo in epoca molto posteriore ag

gregato a quello di Anguillara, quando rimase deserto

per la malaria che lo infestava.

Che ora, se anche sul territorio di Galera potettero

essere esercitati degli usi civici durante il tempo che in

esso viveva una popolazione formante una propria co

munità, gli usi medesimi dovettero senz'altro venir meno

col mancare del soggetto che potesse profittarne, cioè de

gli abitanti che dovevano in quelli trovare il soddisfa

cimento dei propri bisogni. Che giustamente la Corte ebbe ad osservare che il

fatto di essere stato aggregato il territorio di Galera, di

ventato privo di abitatori, a quello del Comune di An

guillara, non poteva produrre la conseguenza che gli abi

tanti di quest'ultimo Comune acquistassero il diritto di

esercitare sulle nuove terre le servitù di cui per avven

tura godevano nelle propx-ie. Che a torto poi si addebita alla sentenza di non aver

motivato sulle prove addotte per dimostrare come anche

sui terreni di Galera ai fosse formato uno stato di fatto

che rivelava di essere stati pur essi compresi nell'eser

cizio di usi civici, spettanti solo a quelli di Anguillara, segnatamente perchè anche quei terreni entrarono a far

parie del turno di quarteria onde era regolato l'avvicen

damento delle colture nell'agro di detto Comune.

Che la Corte ebbe già ad escludere in via generale

che la divisione di quarti usata come sistema di rota

zione agraria, valesse di per sè sola a far prova della

esistenza del diritto civico della semina sui terreni com

presi nei quarti ; ed è poi evidente che il fatto di essersi

potuto estendere anche a quegli altri terreni il medesi

mo turno di cultura, che era già praticato in quello di

Anguillara, non era ragione perchè si dovessero ritenere

acquistati dagli abitanti di quest'ultimo Comune dei di ritti che prima non potevano avere sul territorio del

l'altro.

Per questi motivi, ecc.

CORTE DI CASSAZIONE DI ROMA. Udienza 18 dicembre 1905; Pres. Caselli P., Est. Pia

nigiani, P. M. Tofano; Lebborano c. Parrocchia di

S. Severino Marche e Economato benefici vacanti.

Parrocchia — Aumento del beneficio parrocchiale con

rendite del beneficio — Scorte morte — liredi del

parroco.

Gli acqu'sti (nella specie, stime e scorte) fatte colle ren

dite del beneficio parrocchiale per migliorare od au

mentarne il patrimonio non si possono ripetere dagli

eredi del parroco quando circostanze di fatto non la

scino presumere fosse tale la_ sua intenzione. (1)

La Corte, ecc. — Considerato, in relazione al primo

motivo, che la Corte di merito non ha errato quando,

escluso il fatto che le stime fossero state acquistate con

danaro di provenienza particolare, ha posto il principio

che gli acquisti, sieno per migliorare, o sieno per aumen

tare il patrimonio parrocchiale, non possono ripetersi da

gli eredi se risultino fatti con le rendite del patrimonio

medesimo. E di vero, senza negare che per regola ge

nerale l'usufrutto del parroco sia oggi equiparabile a

quello ordinario, di cui parla il codice civile, è però

da ritenersi che non possono in proposito dimenticarsi

affatto i precetti canonici, in quanto non turbino l'odier

no ordinamento civile ed ecclesiastico. Or, senza piegare

(1) In senso contrario ha invece deciso la Suproma Corte

di Firenze 9 giugno 1904 (Foro it., 1904, I, 12-ìT, con richiami

in nota). Sull'obbligo del parroco, ed in genero di ogni investito di

beneficio ecclesiastico, di soddisfare i debiti assunti dal prede

cessore, veggasi la nota di richiami alla sentenza della Cas

sazione di Roma 5 dicembre 1905 (retro, col. 1).

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215 PARTE PRIMA 216

alla rigorosa opinione del De Luca {De benef, L. 2, pact. I, 81), secondo il quale il beneficiario fa suoi i frutti ac cessorie et consecutive, id est post sopportata ecclesiae

onera (mentre sappiamo che l'usufruttuario li fa suoi

principaliter et directe ex persona propria), pur non di

meno la natura specialissima del beneficio, il suo carat

tere ecclesiastico e la sua destinazione non possono non

influire in qualunque guisa sul godimento di chi ne

è investito, per modo da impedire clie il beneficiario sia

perfettamente assimilabile all' usufruttuario comune, e sot

toposto in tutto alle norme che regolano l'usufrutto di

carattere civile.

Che non può allegarsi in contrario la sopravvenienza delle leggi eversive, perchè anzi queste hanno espressa mente dichiarato doversi ritenere ancora in vigore le

norme del diritto canonico in tutti quei casi, nei quali non fossero espressamente abrogate.

E nessuna delle leggi eversive ha in effetto arrecato un cambiamento in relazione all' uso delle rendite del

beneficio ecclesiastico. Ora, lo scopo generale del patri monio sacro non è per i canoni l'esclusivo sostentamento di colui che ne gode: chè anzi uno degli scopi princi pali, fin dalle sue origini, era quello di provvedere al

tresì alle spese di culto, a quelle occorrenti per i sacri

edifici, e, in special modo, al sollievo dei poveri; al che

appunto dovrebbe, per la dottrina di Cristo, essere de stinato quando sopravanza, senza determinazione di mi

sura, dopo il soddisfacimento degli altri bisogni. Vero è però che la erogazione di parte delle rendite a scopo di culto e di beneficenza è venuta man mano perdendo il suo carattere di giuridica obbligatorietà, ma non è men vero che quest'obbligo ha conservato almeno la na tura di dovere morale, per modo che, se in base all'ac cennata evoluzione del concetto del patrimonio sacro non

può ormai essere giuridicamente imposta al beneficiario l'e

rogazione parziale delle sue rendite alla beneficenza e a

scopo ecclesiastico, deve però ritenersi che, ove il bene ficato stesso spontaneamente, senza riferirne pentimenti e senza circostanze di fatto che possano farli presumere, abbia in tal guisa erogato le rendite del suo beneficio, abbia così manifestato la intenzione di volere soddisfare al suo obbligo morale, e sorga quindi nell'ente un di ritto di ritenzione, la eccezione della soluti retentio, che

suffraga indirettamente qualsiasi obbligazione morale.

Questo concetto spiega come in vari casi l'usufrutto del parroco sia stato chiamato un diritto sui generis, espressione questa che, defraudata dalla testò fatta pre messa, perderebbe molto del suo significato e di pratica applicazione.

Considerato che, escluso per le ragioni anzi esposte il

primo motivo, facile diviene la risposta ai susseguenti. [Omissis.) Per questi motivi, rigetta, ecc.

CORTE DI CASSAZIONE DI NAPOLI. Udienza 22 gennaio 1906 ; Pres. Abatemarco, Est. Ca

turani, P. M. Scalfati (conci, conf.) ; Ferrovie del

Mediterraneo (Avv. Marchesini, Bonelli) c. Ditta Giacchetti (Avv. Montefredini, Sraffa).

Ferrovie — Richiesta insoddisfatta di vagoni — Azione di risareimento di danni (L. 27 aprile 1885, sulle

Convenzioni ferroviarie, alleg. D ; Tariffe, art. 2, 106 e 107).

Il dovere legale che, a tenore dell'art. 2 delle Tariffe, e

condizioni di trasporto, ha la Ferrovia di eseguire tutti

i trasporti che le vengono richiesti, alle condizioni in

detto articolo contemplate, sotto pena del risarcimento

del danno, non si estende alla somministrazione dei

vagoni o carri vuoti. (1) La somministrazione dei carri ai privati e una presta

zione speciale, regolata con disposizioni di carattere

amministrativo dagli art. 106 e 107 delle Tariffe, i

quali determinano tutte le conseguenze, sia del caso in

cui la Ferrovia non possa procurale i vagoni, sia del

caso in cui il richiedente, dopo averli ottenuti, non ne

usufruisca; e fra tali conseguenze non essendo quella del risarcimento del danno, non si può comprendetela senza contraddire alla lettera ed allo spirito delle

dette disposizioni. (2>)

(1-2) Avemmo già occasione altra volta, criticando una sentenza della Cassazione di Torino del 21 dicembre 1899 (Furo it., 1900, I, 587), di occuparci della importantissima questione concernente il preteso dovero legale della Forrovia di sommi nistrare a tutti i richiedenti, dentro le 3G ore o per l'epoca indicata, tutti i vagoni o carri che domandano, sotto pena, mancando, di risarcire i danni; e dopo di allora la dottrina e la giurisprudenza ebbero campo più volte di ritornare sull'ar

gomento. Con la sentenza sopra riferita della Cassazione di Napoli,

è la terza Corte regolatrice che si è pronunziata in favore del l' interpretazione sempre da noi sostenuta (1). Di qui la oppor tunità di uno studio riassuntivo della questione.

Sostengono dunque alcuni scrittori, e decisero pure non poche sentenze, che la Ferrovia ha il dovere legale di fornire dai richiedenti il numero di vagoni che domandano, dentro le 36 ore contemplate dall'art. 106 delle Tariffe, o nel termino e

per tutti i giorni da loro indicati, sotto pena di risarcire il danno.

Gli argomenti a favore di questa opinione sono di ordine

generale e di ordine speciale. Gli argomenti di ordine generale fanno capo all'art. 2 delle

Tariffe, e si osserva che se questo articolo obbliga la Ferrovia ad esoguire tutti i trasporti di persone e di cose che le ven gono richiesti, deve obbligarla pure a fornire i mezzi necessari

per avere il trasporto, cioè deve obbligarla preliminarmente pure a somministrare agli speditori cho ne facciano richiesta i vagoni vuoti occorrenti al trasporto. Qui non ocoorre, si

soggiunge, anche la presentazione della merce, come è detto all'art. 94, perchè secondo l'art. 2 l'obbligo della Ferrovia di accettare la spedizione è immediato alla richiesta. (2)

Colla richiesta dei vagoni e col deposito delle lire cinquo si perfeziona un contratto preliminare a quello di trasporto e di questo formante parte integrante, per modo che la inadem

pienza, sia dell'una sia dell'altra parte, sia da parto del richie dente col non uso dei vagoni, sia da parte della Ferrovia col non fornirli, espone l'inadempiento al risarcimento dei danni in conformità agli art. 1227-1229 cod. civ., indipendentemente dalla sorte del deposito, non essendo questa una caparra. (3)

Altri dicono invece che chi richiede i vagoni, per il solo fatto della richiesta si mette nella condizione che la Ferrovia sia tenuta a darglieli per dovere legale, sotto pena, diversa mente, del risarcimento dei danni. Secondo questa opinione il richiedente mira soltanto a mettersi in condizione di rendere

possibile e agevolare il trasporto stesso all'occorrenza, e cioè ove gli piaccia e gli convenga di farlo, e che quindi è anche

troppo so, in caso di non uso, egli perde le cinque lire del de posito. (4)

(1) Non si comprenda come il prof. Sraffa (Rivista di dir. comm., 1905, p. 504) abbia potuto dire il contrario, quando nel nostro Con tratto di trasporto, vol. II, n. 116, proponendoci il quesito se la Fer rovia fosse obbligata, non somministrando i carri domandati, di ri sarcire il danno, rispondemmo negativamente, e quando confermammo la stessa opinione nel Consiglio delle tariffe il 6 maggio 1S95 (Annali del Consiglio delle tariffe, 1895, p. 48).

(2) Bruschettiki, nel Commentario al codice di comm. del Vallardi, n; 45.

(3) Bruschettini, loc. cit. (4) Sraffa, Rivista di dir. comm., 1905, p. 504.

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