sentenza 10 marzo 1988, n. 268 (Gazzetta ufficiale, 1 a serie speciale, 16 marzo 1988, n. 11);Pres. Saja, Est. Borzellino; Silla (Avv. Morrone) e Mazza c. Pres. cons. ministri. Ord. Corteconti, sez. III, 5 ottobre 1983 (G.U. n. 252 del 1984) e 25 settembre 1985 (G.U., 1 a s.s., n. 52del 1986)Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1988), pp. 3209/3210-3215/3216Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23181526 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
be, e ci lascerebbe anzi ammirati, una futura decisione con cui la corte
dichiarasse la nota questione, non già questa volta «fondata», quanto invece «manifestamente infondata» (o, secondo altra (20 bis) e per noi
preferibile sistemazione, divenuta a questo punto: inammissibile), posto che la norma soggetta a censura deve ritenersi non più vigente già a se
guito del giudizio di violazione della Costituzione su di essa espresso, nella precedente sentenza n. 212/86, con tutta la desiderabile univocità
di dettato e pertanto in via inesorabilmente definitiva ed efficace.
8. - Il tema che abbiamo trattato sembra egregiamente prestarsi per lo svolgimento, quasi al modo di una conclusiva e diversa riprova della
correttezza delle posizioni assunte, di alcuni riscontri comparatistici; e
ciò con riguardo a quegli ordinamenti vicini al nostro — ovvero quello tedesco federale e quello austriaco, per profili diversi — che in effetti
valorizzano in determinati modi, a differenza del tassativo art. 136 Cost,
italiana, il potere dispositivo del giudice (o forse rectius, in codesto con
testo, dell'organo di garanzia) costituzionale, anche in un momento di
chiaratamente e spiccatamente successivo rispetto a quello dell'accertamento
dell'incompatibilità costituzionale della norma sindacata.
Possiamo dunque rilevare come il § 78, la frase, del Bundesverfas
sungsgerichtsgesetz tedesco, dissimilmente dal nostro art. 136 Cost. (v. retro al n. 7), assegni invero anche il tema della cessazione di efficacia
della legge quale oggetto di pronuncia e di decisione della corte (ossia del BVerfG), seppure, ovviamente, collegandolo a quello, previo, della
dichiarazione di incompatibilità costituzionale. Alla stregua di tale ben
articolata previsione di poteri decisorii, è stato possibile per la Corte te
desca — dapprima in via di prassi, indi in forza della «novella» del 1970
che ha regolato il fenomeno (§ 31, 2° comma, 2° frase) — in talune
categorie di ipotesi (20 ter), peraltro di non facile inquadramento dogma tico e sistematico (21) — anche di scindere le due pronunce normalmente
collegate da stretta conseguenzialità: ovvero si è potuta effettuare la Ver
fassungswidrigkeitsfestellung e non anche la successiva Nichtigerklàrung. Tale eventualità, da noi certo oggi non ammissibilmente concepibile, ri
mane concettualmente ben distinta (come si è notato retro presso la nota
10 ed ivi) da quella — conosciuta in Germania (22) ed ormai anche in
Italia — della mancanza di un attuale accertamento di incostituzionalità
in presenza di peculiari situazioni in cui il contrasto viene gradualmente affiorando ma non può dirsi ancora realizzato appieno: proprio qui la
dichiarazione di (attuale, ma temporanea) non difformità costituzionale
delle (noch verfassungsmàssige) norme sindacate culmina perlopiù in una
(o comunque: integra di per sé una) Appellentscheidung, una sentenza
monito affinché il legislatore consideri la urgenza di un proprio interven
to preventivo dello sbocco nella lesione costituzionale; per converso le
«mere» dichiarazioni di incostituzionalità, scisse dall'annullamento, so
no, in forza della citata «novella», munite di vera forza cogente per il
medesimo legislatore, trattandosi ormai di rimuovere una situazione di
accertata incostituzionalità. Inoltre, sempre per effetto della «mera» di
chiarazione, fra motivazione e dispositivo non si incuneano incoerenti
scarti — poiché si enuncia nel secondo proprio quello che la prima ha
riconosciuto —; ma soprattutto la norma sindacata, se formalmente con
tinua a vigere, vede però doverosamente circostritta, dalla sentenza della
corte, la propria applicabilità (Anwendungssperre), con tendenziale so
spensione dei processi in corso in cui essa assume rilievo, fino all'atteso
ed obbligato intervento del legislatore (23). Come si può dunque constatare, una decisione costituzionale del tipo
di quella che abbiamo nelle precedenti colonne commentato risulterebbe
abnorme perfino se considerata alla stregua dei più intensi poteri ricono
sciuti, insieme ad altri, pure negati alla nostra, alla corte (BVerfG) tede
sca, in quanto non giustificata da alcuna razionale «ragione di scissione»
fra dichiarazione ed annullamento ed anche perché proprio la estraneità
di una analoga scissione all'ordinamento italiano fa si che tertium non
datur fra la piena perdurante vigenza della norma incostituzionale (senza limitazioni di applicabilità e senza neppure obblighi legali di intervento
per il parlamento) e l'effetto del suo annullamento immediato.
A constatazioni analoghe di intrasponibilità, con riguardo al problema di diritto costituzionale italiano che qui interessa, conduce anche una pur
rapida evocazione del potere, riconosciuto espressamente alla Corte costi
(20 bis) Sul punto, da ultimo, v. Romboli, in Foro it., 1987, I, 930.
(20 ter) Le rammentiamo succintamente (sulla scia di Cara vita, Corte
«giudice a quo» e introduzione del giudizio sulle leggi, I, La Corte costi
tuzionale austriaca, Padova, 1985, 209, ss. 211 ss.): estraneità della nor
ma sindacata alla giurisdizione costituzionale di annullamento; norme che, ledendo il (solo) principio di uguaglianza escludono o includono nel loro
ambito determinati gruppi di soggetti; norme la cui mancanza, se non
idoneamente sostituite da altre, potrebbe ledere la compiutezza dell'ordi
namento; infine — con nozione criticabilmente evanescente e priva di
rigore sistematico — norme affette da incostituzionalità poco evidente,
eppure già sussistente (su tale profilo v. appresso nel testo).
(21) V. Ipsen, in Jur. Zeitung, 1983, 41 ss.; Heussner, in Neue Jur.
Wochenschrift, 1982, 257 ss.; e già Pestalozza, «Noch verfassungsmàs
sige» und «bloss verfassungswidrige» Rechtslagen, in BVerfG und GG,
Tubingen, 1976, 523 ss.
(22) Cfr. Pestalozza, op. cit., spec. 540, e D'Orazio, op. loc. ult. cit.
(23) V., anche per le eccezioni a tale regola, Pestalozza, op. cit., 558.
Il Foro Italiano — 1988.
tuzionale austriaca (art. 139 e 140, 5° comma), di fissare un termine (c.d.
Fristsetzung), di regola infrannuale, sospensivo della efficacia della pro
pria contestuale sentenza di annullamento di una norma di legge o di
regolamento o posta da un trattato internazionale, cosi da fare luogo ad una sorta di vacatio (24), salva però — seppur non senza stridore
con il principio di uguaglianza — la piena retroattività degli effetti della
decisione caducatoria almeno per il giudizio a quo. Un simile istituto di alta discrezionalità istituzionale, ritenuto espressa
mente inopportuno ed inaccettabile dai nostri costituenti (25) e nel com
plesso tuttora ritenuto perlopiù non auspicabile dalla dottrina italiana (26),
può fare dell'organo che si vorrebbe di garanzia, o addirittura di giurisdi
zione, costituzionale una sorta di «legislatore costituzionale ad interim»
(di interimistischer Verfassungsgesetzgeber, non senza preoccupazione, par lano appunto i giuristi austriaci e di effetto di temporanea sanatoria della
incostituzionalità scaturente dalla sentenza di annullamento «a termine»
parla quella Corte costituzionale (27)).
Ebbene, una decisione quale quella della corte italiana qui discussa al
tro non fa, nella sostanza, che operare una tale inammissibile (da noi
e pour cause) Fristsetzung, per di più senza alcuna congrua ragione prati ca o politico-istituzionale che valga a spiegarla, se non a giustificarla, e di fatto fissando un termine di durata incerta (quale, fatalmente, si
palesa quello della prossima rimessione della stessa questione e della nuo
va, ormai pregiudicata, decisione su di essa), anzi, a rigore, una condizio
ne sospensiva, non essendo sicurissimo neppure Van dell'evento additato.
Crediamo pertanto di potere affermare che decisioni quali codesta sfor
tunata ordinanza n. 378 del 1988 non siano suscettibili di venire calate, non solo nel sistema di giurisdizione costituzionale italiano, ma tout court
in alcun efficiente ed affidabile sistema di garanzia costituzionale me
diante sindacato accentrato sulle leggi, pur se, rispetto al nostro, più dut
tilmente atteggiato — quali, per differenti versi, risultano quelli tedesco
e austriaco —. Claudio Consolo
(24) Sul che v. Cara vita, op. cit., 134 ss., e soprattutto D'Orazio, Una «vacatio» per le sentenze costituzionali, in Giur. costit., 1975, 1147.
(25) V. — anche per le diverse opinioni di Perassi e Ruini (quest'ultima
prevalsa) — la illustrazione dei lavori preparatori in D' Orazio, op. ult.
cit., 1157.
(26) Ancora, per vari, D'Orazio, op. loc. ult. cit.
(27) V., per riferimenti, Caravita, op. cit., 136 s., nota 23. Adde, da noi, il saggio — dogmatico e comparatistico — di Pierandrei, Le
decisioni degli organi di «giustizia costituzionale», ecc., in Riv. it. sc.
giur., 1954, 101 ss., spec. 126 ss.
I
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 10 marzo 1988, n. 268
(Gazzetta ufficiale, la serie speciale, 16 marzo 1988, n. 11);
Pres. Saja, Est. Borzellino; Siila (Avv. Morrone) e Mazza
c. Pres. cons, ministri. Ord. Corte conti, sez■ III, 5 ottobre
1983 (G.U. n. 252 del 1984) e 25 settembre 1985 (G.U., la
s.s., n. 52 del 1986).
Impiegato degli enti locali — Trattamento di quiescenza indiretto
e di reversibilità — Figli naturali — Diritto alla percezione —
Condizione — Riconoscimento del dipendente anteriore alla ces
sazione dal servizio — Incostituzionalità (Cost., art. 3, 30, 31;
1. 22 novembre 1962 n. 1646, modifiche agli ordinamenti degli
istituti di previdenza presso il ministero del tesoro, art. 7).
È illegittimo, per violazione dell'art. 3 Cost., l'art. 7, 1° comma,
l. 22 novembre 1962 n. 1646, che disciplina il trattamento di
quiescenza indiretto o di reversibilità a carico delle casse pen
sioni facenti parte degli istituti di previdenza, a favore dei figli naturali riconosciuti a norma del codice civile, limitatamente
alle parole con cui subordina il diritto di percezione all'avvenu
to riconoscimento, da parte dell'iscritto, anteriormente alla ces
sazione dal servizio. (1)
(1-2) I. - Con le due sentenze in epigrafe la Corte costituzionale prose
gue nel cammino da tempo intrapreso allo scopo di eliminare dall'ordina
mento le disposizioni vigenti in aperto contrasto con le moderne esigenze di tutela giuridica della famiglia in ogni sua manifestazione e composizione.
Si vedano, in questo senso: Corte cost. 14 gennaio 1986, n. 5, Foro
it., 1986, I, 2996, e in Giur. costit., 1986, I, 247, con note di Finocchia
ro e Lariccia; 28 gennaio 1986, n. 13, Foro it., 1986, I, 613, con osser
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PARTE PRIMA 3212
II
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 18 febbraio 1988, n. 181
(Gazzetta ufficiale, la serie speciale, 24 febbraio 1988, n. 8); Pres. Saja, Est. Ferri; Fienga c. Min. tesoro; interv. Pres.
cons, ministri (Avv. dello Stato Siconolfi). Ord. T.A.R. Lazio 24 gennaio 1979, n. 209 (G. U. n. 237 del 1979).
Impiegato dello Stato e pubblico — Dipendente statale — Quote di aggiunta di famiglia — Figlio nato da precedente matrimo nio dell'altro coniuge affidatario — Omessa inclusione — In
costituzionalità (Cost., art. 3, 29, 30, 36; d.leg.lgt. 21 novembre 1945 n. 722, provvedimenti economici a favore dei dipendenti statali, art. 2, 4).
È illegittimo, per violazione dell'art. 3 Cost., l'art. 4, 1° comma,
d.leg.lgt. 21 novembre 1945 n. 722, nella parte in cui non com
prende tra i familiari a carico del dipendente beneficiario di
quota di aggiunta di famiglia anche il figlio nato da precedente matrimonio dell'altro coniuge che ne sia affidatario. (2)
vazioni di La Greca, e Giur. it., 1986, I, 1, 972, con nota di De Cupis; 1° luglio 1986, n. 198 e n. 199, Foro it., 1988, I, 2803.
II. - La questione decisa dalla sentenza n. 268/88 è stata sollevata con due ordinanze della Corte dei conti, sez. Ili, 5 ottobre 1983, id., 1985, III, 282 e 25 settembre 1985. La corte, nel dichiarare l'illegittimità del 1° comma dell'art. 7 1. 1646/62, afferma il principio secondo cui il godi mento del trattamento di reversibilità è un diritto soggettivo assoluto, tutelabile direttamente e immediatamente in virtù della semplice titolarità di esso da parte del figlio riconosciuto, senza limitazione temporale alcuna.
In dottrina, v. G. Carbonaro, L'integrazione dei redditi familiari nel sistema dì sicurezza sociale: valutazione delle provvidenze e dei bisogni, in Dir. lav., 1985, I, 132; V. Amendola, Nucleo familiare e trattamenti di previdenza, in Lavoro e previdenza oggi, 1985, 2239.
III. - La questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, 1° comma, d.leg.lgt. 21 novembre 1945 n. 722, e successive modifiche, risolta dalla corte con la sentenza n. 181/88, è stata sollevata con ordinanza del T.A.R.
Lazio, sez. I, 24 gennaio 1979, n. 209, Foro it., 1979, III, 638, con nota di richiami. La corte, nel respingere la difesa dell'avvocatura dello Stato fondata sul presupposto che i due ordinamenti dell'impiego pubblico e del privato si fondano su situazioni organizzative, strutturali e finalità diverse, continua nell'opera di progressiva eliminazione di qualsiasi fonte normativa che possa costituire un punto di riferimento per giustificare una diversità di trattamento tra i due rapporti. Tale diversità, infatti, si è venuta progressivamente restringendo, anche grazie all'attività della corte determinata a realizzare un «processo di tendenziale assimilazione dei due rapporti», come ricorda lo stesso giudice costituzionale in moti vazione.
Nello stesso senso dell'integrazione tra i due ordinamenti, v. T.A.R.
Sardegna 30 marzo 1985, id., Rep. 1985, voce Impiegato detto Stato, n. 743, che ha dichiarato l'illegittimità del provvedimento con cui l'am ministrazione procede al recupero delle somme erogate a titolo di quote di aggiunta di famiglia per i figli minori, nei confronti del dipendente che, separato legalmente e non affidatario dei figli, le abbia indebitamen te percepite, ma abbia fornito valide prove documentali circa il loro inte
grale versamento al coniuge avente diritto ai sensi dell'art. 211 1. 19 maggio 1975 n. 151. Sulla sostanziale equiparazione del trattamento del carico di famiglia tra il marito lavoratore e la moglie lavoratrice, v. T.A.R. Emilia Romagna, ord. 25 maggio 1983, id., 1985, III, 138, nonché Cons. Stato, sez. V, 13 luglio 1979, n. 513, id., Rep. 1979, voce cit., n. 864.
In dottrina, v. S. Vernaci, La maggiorazione degli assegni familiari verso una revisione sostanziale deI meccanismo dell'aggiunta di famiglia, in Comuni d'Italia, 1984, 1065; V. Amendola, Parità fra uomini e donne e diritto agli assegni familiari, in Prev. soc., 1978, 53; G. Lensi, Adozio ne speciale, aggiunta di famiglia e aumenti periodici, in Nuova rass., 1977, 2070.
La sentenza va accolta positivamente anche perché si muove nel senso dell'estensione di una legislazione di favore volta a tutelare la famiglia come aggregato unitario, ancorché composta da figli avuti da uno dei due coniugi da precedente matrimonio, attualmente a carico del coniuge lavoratore e con esso conviventi; l'orientamento espresso in più occasioni dai giudici costituzionali è dunque nel senso di una sempre più vasta e incisiva attuazione della riforma del diritto di famiglia prevista con la 1. 151/75.
In particolare, la sentenza 181/88 può essere annoverata tra le più esplicite della corte in tema di diritto di famiglia. In questo caso, a trarne i benefi ci è la disciplina che regola i rapporti tra coniugi e il trattamento (non ha più importanza ormai la disputa sulla qualificazione giuridica — quale retribuzione differita o contributo assistenziale — delle quote di aggiunta di famiglia) delle aggiunte per familiari a carico.
Al di là della scelta, giuridicamente coerente, nel senso della omoge neizzazione di due discipline contrastanti sul medesimo oggetto nel setto
II Foro Italiano — 1988.
I
Diritto. — 1. - I giudizi vertono su identica questione: devono
riunirsi, pertanto, per formare oggetto di un'unica pronun cia.
2.1. - La 1. 22 novembre 1962 n. 1646 (modifiche agli ordina
menti degli istituti di previdenza presso il ministero del tesoro) ai fini del trattamento di quiescenza, indiretto e di reversibilità, a carico delle casse pensioni facenti parte dei menzionati istituti,
equipara (art. 7) ai figli legittimi i naturali riconosciuti purché l'atto sia anteriore «alla data di cessazione dal servizio» dell'i
scritto, da cui origina la pensione. 2.2. - I giudici a quibus sospettano di illegittimità la norma
per una irrazionale disparità da altri ordinamenti, nei cui ambiti,
invece, un momento limitativo non sussisterebbe: pensioni di guer
ra; quiescenza dei dipendenti statali; pensionistica Inps. Si avrebbe violazione, quindi, del principio di eguaglianza ex
art. 3 Cost., con riflessi anche inerenti agli art. 30 e 31 concer
nenti la tutela familiare.
3. - Invero, non può assumersi quale tertium comparationis il lato criterio inerente alla pensionistica per causa di guerra: è
costante giurisprudenza di questa corte che tale normazione ha
un ben diverso fondamento. Neppure rileva, in punto, la norma
sul trattamento agli orfani di dipendente statale, poiché essa limi
ta pur sempre i benefici — per il caso di dichiarazione giudiziale — alla anteriorità della domanda al decesso del dante causa (art.
82, 3° comma, d.p.r. 29 dicembre 1973 n. 1092). Né ancora può farsi puntuale riferimento a una prospettata assimilazione tra rap
porto di lavoro pubblico e p Induce ad una favorevole determi
nazione il rilevare che — rispetto alla antecedente procreazione — il riconoscimento ovvero la dichiarazione giudiziale, come è
pacifico nella giurisprudenza della Corte di cassazione, hanno con
tenuto meramente dichiarativo.
Restando cosi assorbita ogni altra questione, va dichiarata, con
clusivamente, l'illegittimità costituzionale della norma censurata, con la conseguente affermazione che ai figli naturali legalmente riconosciuti o giudizialmente dichiarati, oggetto di essa, va attri
buito, quando dovuto, il trattamento di quiescenza, senza limita
zioni temporali di sorta.
Per questi motivi, la Corte costituzionale, riuniti i giudizi, di
chiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 7, 1° comma, 1. 22
novembre 1962 n. 1646 (modifiche agli ordinamenti degli istituti
di previdenza presso il ministero del tesoro) limitatamente alle
parole «dall'iscritto anteriormente alla cessazione dal servizio».
re pubblico e privato, dunque, va sottolineata la riaffermazione del prin cipio, ormai costante nella giurisprudenza della corte, secondo cui la fa miglia deve essere tutelata in virtù di una nozione giuridica in costante evoluzione.
Il riferimento essenziale operato dalla corte è rivolto alla nozione di convivenza familiare (da ultimo, cfr. Corte cost. 7 aprile 1988, nn. 423 e 404, Foro it., 1988, I, 2514), per cui si ha famiglia non solo laddove sia stato contratto da due persone un matrimonio civile o religioso, da cui siano nati dei figli, ma anche in tutte le ipotesi in cui a carico del lavoratore possa essere individuato un aggregato di persone con le carat teristiche del «nucleo familiare», dove per nucleo familiare si intende una unione di persone legate da vincoli di coabitazione in modo continuativo e stabile.
Ed è dunque a questa nozione «dinamica» di famiglia che deve essere
adeguata la normativa vigente a livello ordinario rispetto ai principi fon damentali stabili dalla Costituzione negli art. 2, 29 e 30 e che, seppure non costituiscono, nella fattispecie, le norme parametro assunte dalla corte
per dichiarare l'incostituzionalità delle disposizioni impugnate, tuttavia sono costantemente richiamate come riferimenti essenziali per la tutela della famiglia in tutti i momenti (retribuzione, previdenza, assistenza, istru zione dei figli, ecc.) in cui si verificano le condizioni indispensabili della sua esistenza. Si vedano, in generale, al riguardo, da ultimo: G. Sbisà, Riforma del diritto di famiglia, voce del Novissimo digesto, appendice, 1986, VI, 796; M. Bessone, G. Alpa, A. D'Angelo, G. Ferrando, La
famiglia nel nuovo diritto. Dai principi della Costituzione alla riforma del codice civile, Bologna, 1986, nonché F. D. Busnelli, La famiglia nella cultura giuridica europea, in Rass. dir. civ., 1986, 148, e A. Tra
bucchi, Famiglia e diritto nell'orizzonte degli anni '80, in Riv. dir. civ., 1986, I, 161. [C. Bruni Carrozza] [C. Bruni Carrozza]
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
II
Diritto. — 1. - Il T.A.R. del Lazio ha sollevato questione di
legittimità costituzionale degli art. 2 e 4 d.leg.lgt. 21 novembre
1945 n. 722 e successive modificazioni e integrazioni. L'art. 2 del predetto decreto, recante provvedimenti economici
a favore dei dipendenti statali, prevede una quota complemetare dell'indennità di carovita «per la prima persona a carico» e per «ciascuna delle altre persone a carico, considerando come tali
la moglie e i figli minorenni»; oltre che, a particolari condizioni,
per i genitori. L'art. 4 stabilisce che «ai fini dei precedenti articoli si conside
rano anche i figli naturali legalmente riconosciuti, i figli adottivi
e gli affiliati». Le successive disposizioni di legge, che hanno modificato la
denominazione di quote complementari dell'indennità di carovita
in quote di aggiunta di famiglia, hanno lasciato inalterata per
quanto riguarda le persone a carico la disciplina prevista dall'art.
4 del citato d.leg.lgt. n. 722 espressamente richiamato a tale effetto.
La censura del T.A.R. investe detta normativa per il motivo
che essa non considera — insieme con i figli naturali legalmente
riconosciuti, i figli adottivi e gli affiliati — anche i figli «nati da precedente matrimonio dell'altro coniuge», cosi come invece
è previsto dall'art. 3 d.p.r. 30 maggio 1955 n. 797, che disciplina
gli assegni familiari spettanti ai dipendenti del settore privato. Tale mancata previsione configurerebbe ad avviso del giudice
rimettente un contrasto con gli art. 3, 29, 30 e 36 Cost.
2. - Come è stato detto in narrativa, il provvedimento della
direzione provinciale del tesoro di Roma, impugnato dinanzi al
giudice amministrativo rimettente, negava che l'aggiunta di fami
glia potesse corrispondersi «per il figlio del primo matrimonio
della moglie divorziata, tale quota potendo essere attribuita solo
nel caso che il figlio in questione sia orfano di padre». In questi termini l'amministrazione ha applicato la circolare n. 90 del 15
giugno 1963 del ministero del tesoro - ragioneria generale dello
Stato, la quale, nell'impartire disposizioni per l'attribuzione delle
quote di aggiunta di famiglia, disciplinate dal d.leg.lgt. 21 no
vembre 1945 n. 722, ammetteva la corresponsione anche per i
«figliastri» (riepilogo, lett. B, n. 2). Il T.A.R. rimettente ha rilevato come la norma legislativa che
regola la materia, vale a dire il citato art. 4 d. leg. lgt. 21 novem
bre 1945 n. 722, elenchi rigorosamente le categorie equiparate ai figli legittimi ai fini della erogazione delle quote complementa ri di carovita (oggi aggiunte di famiglia); nessuna previsione è
in essa contemplata per i figli nati da precedente matrimonio del
l'altro coniuge (o figliastri); nulla autorizza perciò una siffatta
estensione in via interpretativa; conseguentemente le disposizioni
praeter legem adottate con la surricordata circolare del ministero
del tesoro non possono essere accolte come integrazione interpre tativa della norma censurata.
3. - La questione è fondata sotto il profilo di violazione del
l'art. 3 Cost.
Ai fini della valutazione di tale profilo, questa corte ritiene
che le discussioni sul carattere di integrazione retributiva o di
contributo assistenziale dell'aggiunta di famiglia e degli assegni familiari non abbiano alcuna incidenza sul thema decidendum,
che deve essere risolto sulla base delle premesse seguenti. La nor
ma denunciata esclude che ai lavoratori dipendenti del settore
pubblico possa essere corrisposta l'aggiunta di famiglia per i figli del coniuge nati da precedente matrimonio (figliastri). Ai lavora
tori dipendenti del settore privato, invece, gli assegni familiari
sono corrisposti anche per tale categoria di persone a carico, in
forza dell'espressa disposizione contenuta nell'ultimo comma del
citato art. 3 d.p.r. 30 maggio 1955 n. 797; tale norma è stata
poi esattamente interpretata dalla Corte di cassazione nel senso
che gli assegni spettino anche quando il precedente matrimonio
è stato sciolto in seguito a pronuncia di divorzio.
La diversità delle due normative prese in esame pone in essere
una disparità di trattamento fra il lavoratore pubblico dipendente e quello del settore privato, che si trovino nell'identica condizio
ne di avere nella propria famiglia conviventi a carico figli del
coniuge nati da precedente matrimonio di questi. Tale disparità di trattamento, in una identica condizione fami
liare, potrebbe sfuggire alla censura di illegittimità costituzionale,
soltanto ove si ritenga che le innegabili distinzioni persistenti fra
il rapporto di impiego pubblico e quello privato diano luogo ad
una diversità di condizione dei soggetti, influente in relazione alle
Il Foro Italiano — 1988.
regole che disciplinano la erogazione dell'aggiunta di famiglia e
degli assegni familiari.
Una siffatta tesi è sostenuta dall'avvocatura di Stato, che ri
chiama una sentenza di questa corte (n. 5 del 1971, Foro it.,
1971, I, 314). In essa si legge che «fra i due ordinamenti del
pubblico impiego e dell'impiego privato esistono fondamentali dif
ferenze di organizzazione, di struttura e di finalità, per cui i di
pendenti dell'uno e dell'altro vengono a trovarsi in condizioni
differenti»... «Dalla differente situazione di cui sopra deriva la
legittimità della disciplina della aggiunta di famiglia, la quale si
differenzia anche nel nome dagli assegni familiari spettanti ai la
voratori dell'impiego privato». Con successiva sentenza (n. 231 del 1974, id., 1974, I, 3266)
sempre in materia di differenze fra aggiunta di famiglia e assegni
familiari, la corte, ritenendo non fondata la questione, ha affer
mato che «nella specie non poteva essere censurato l'art. 79 d.p.r. 30 maggio 1955 n. 797, ma eventualmente il d.leg.lgt. 21 novem
bre 1945 n. 722 e i provvedimenti ad esso successivi, nella parte in cui si determina una disparità di trattamento in tema di ag
giunta di famiglia tra prestatori di lavoro privato e prestatori di
lavoro pubblico». È appena il caso di ricordare che questa corte ha da tempo
dato atto del «processo di tendenziale assimilazione dei due rap
porti» (sc/7. di impiego pubblico e privato), pur riconoscendo le
peculiari differenze «in relazione alle diversità collegate alla dif
ferenza di funzioni» (sent. nn. 118/76, id., 1976, I, 1415 e 194/76,
id., 1977, I, 23). Recenti sentenze, in tale linea evolutiva, hanno ritenuto fonda
ta, in materia di provvedimenti d'urgenza a tutela dei diritti sog
gettivi dei lavoratori, la questione di costituzionalità della
«diseguaglianza di trattamento tra dipendenti pubblici e privati»
(sent. n. 190/85, id., 1985, I, 1881), nonché quella derivante dal
la esclusione, nelle controversie di impiego di dipendenti dello
Stato e di enti pubblici riservate alla giurisdizione esclusiva am
ministrativa, dei mezzi istruttori previsti dal codice procedura ci
vile per le controversie relative all'impiego privato di competenza del giudice ordinario (sent. n. 146/87, id., 1987, I, 1349).
4. - La corte ritiene che nella sfera di connotazioni che tuttora
sorreggono il riconoscimento di una persistente diversità fra i due
rapporti di impiego o di lavoro pubblico e privato, quali l'orga
nizzazione, la struttura, le finalità dei medesimi, non rientri la
regolamentazione delle categorie di persone per le quali è prevista la corresponsione dell'aggiunta di famiglia o degli assegni fami
liari, istituti peraltro che non differiscono né nella ratio né nei fini.
Ne è una conferma il fatto che le più recenti modificazioni
della normativa in materia di aggiunta di famiglia e di assegni
familiari sono state adottate dal legislatore congiuntamente e se
condo parametri sostanzialmente identici (d.l. 14 luglio 1980 n.
314 convertito con modificazioni in I. 8 agosto 1980 n. 440; 1.
27 dicembre 1983 n. 730, art. 20; 1. 28 febbraio 1986 n. 41, art. 23). In relazione quindi alla materia cosi disciplinata i dipendenti
pubblici e privati si trovano in una identica condizione soggetti
va: ne consegue che nessuna razionale giustificazione è ravvisabi
le a sostegno della disparità di trattamento fra gli uni e gli altri
denunciata dal giudice a quo. Vale anche la pena di considerare che il ministero del tesoro
con la circolare 15 giugno 1963 n. 90, sopra ricordata, aveva esteso
la corresponsione dell'aggiunta di famiglia ai figliastri. Tale esten
sione è stata disattesa dal T.A.R. rimettente, che l'ha ritenuta
incompatibile con il dettato chiaro e rigoroso della norma legisla tiva in discussione: essa tuttavia dimostra che la stessa ammini
strazione statale ha avvertito l'esigenza di rimediare (seppure in
modo improprio e parziale) ad un'ingiustificata e irrazionale
esclusione.
5. - La seconda obiezione dell'avvocatura di Stato (che riguar da soprattutto la censura riferita agli art. 29 e 30 Cost.) si fonda
sul rilievo che nessun obbligo sussisterebbe per il dipendente sta
tale nei confronti del figlio del coniuge nato da precedente matri
monio sciolto con sentenza di divorzio, permanendo «la comune
potestà dei genitori sui figli nati dal loro matrimonio (art. 139
1. 1975 n. 151) onde, salvo i provvedimenti adottati dall'autorità
giudiziaria nell'interesse dei minori (art. 155), grava su entrambi
l'obbligo di mantenerli, educarli ed istruirli (art. 6 e 11 1. 1970
n. 898), vai quanto dire attinenti a tutte le necessità di vita».
L'obiezione non può essere condivisa. Innanzitutto essa non
incide sulla irrazionale e ingiustificata disparità di trattamento
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3215 PARTE PRIMA 3216
fra il dipendente pubblico e il privato; e comunque è sufficiente
rilevare che gli obblighi che incombono su entrambi i coniugi
verso la famiglia ai sensi dell'art. 143 del vigente c.c. non posso no non comprendere anche i figli nati dal precedente matrimonio
di un coniuge (sciolto per divorzio) ove questi ne sia affidatario,
e sempreché l'altro genitore non provveda: condizioni queste la
cui sussistenza dovrà essere accertata dall'amministrazione o dal
giudice di merito, costituendo esse il presupposto di legge perché
sorga il diritto a percepire l'aggiunta di famiglia. Né va infine dimenticato che già in materia di assistenza sani
taria ai dipendenti statali la 1. 19 gennaio 1942 n. 22 ha compreso fra i familiari aventi diritto all'assistenza (art. 4, n. 2) «i figli nati da precedente matrimonio del coniuge»; e, seppure non si
versa nella stessa materia, tale estensione in materia affine dimo
stra che l'esigenza era stata avvertita dal legislatore e aveva tro
vato accoglimento nel sistema.
6. - L'accertato fondamento della questione di legittimità costi
tuzionale della norma denunciata, per contrasto con l'art. 3 Cost.,
rende superfluo l'esame degli altri profili sollevati dal rimettente
T.A.R. del Lazio.
Per questi motivi, la corte costituzionale dichiara la illegittimi tà costituzionale dell'art. 4, 1° comma, d.leg.lgt. 21 novembre
1945 n. 722 («provvedimenti economici a favore dei dipendenti
statali») nella parte in cui non comprende anche i figli nati da
precedente matrimonio dell'altro coniuge che ne sia affidatario.
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 26 gennaio 1988, n. 82
(Gazzetta ufficiale, la serie speciale, 10 febbraio 1988, n. 6); Pres. Saja, Est. Greco; Enel c. Serretta. Orci. Cass. 11 gen naio 1980 (G.U. n. 159 del 1980).
Lavoro e previdenza (controversie in materia di) — Nuovo rito
del lavoro — Divieto di nuove eccezioni in appello — Discipli na transitoria — Questione infondata di costituzionalità (Cost., art. 3, 24; cod. proc. civ., art. 437; 1. 11 agosto 1973 n. 533,
disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle con
troversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie, art.
20).
È infondata la questione di legittimità costituzionale degli art.
437, 2° comma, c.p.c. e 20, 1° comma, I. 11 agosto 1973 n.
533, in riferimento agli art. 3 e 24 Cost., poiché il divieto di proporre nuove eccezioni in appello introdotto dal nuovo rito
del lavoro non si applica ai procedimenti già pervenuti in pri mo grado alla fase decisoria al momento dell'entrata in vigore della l. 533/73. (1)
(1) I. - L'ordinanza 8 marzo 1980, n. 141 con la quale la Cassazione ha sollevato la questione decisa dalla sentenza in epigrafe è riportata in Foro it., 1980, I, 1326, con nota di richiami.
L'ordinanza di rimessione muove da una interpretazione letterale del
combinato disposto dagli art. 20 1. 533/73 e 437 c.p.c.: posto che la pri ma norma (disciplina transitoria dei giudizi pendenti) statuisce che il nuo vo rito del lavoro è applicabile anche ai giudizi in corso al momento della sua entrata in vigore e la seconda dispone il divieto di nuove do mande e eccezioni in appello, si è concluso che tale divieto sarebbe appli cabile anche nel caso in cui tutto il giudizio di primo grado si fosse svolto secondo il vecchio rito. Di qui la prospettata violazione dell'art. 24 Cost,
(in quanto la disciplina in esame non consentirebbe di proporre in appel lo le eccezioni non formulate in primo grado nella consapevolezza di po terle dedurre in fase di impugnazione, come era consentito dal vecchio
rito) e dell'art. 3 Cost, (per disparità di trattamento fra le parti nei giudi zi pendenti all'atto dell'entrata in vigore della 1. 553/73, a seconda che tali giudizi si trovassero o meno in fase decisoria).
II. - La sentenza interpretativa di rigetto con la quale la Corte costitu
zionale ha dichiarato infondata la prospettata questione di costituzionali tà si segnala sotto vari profili:
a) In primo luogo essa chiarisce la portata ed il campo di applicazione dell'art. 437, 2° comma, c.p.c. La corte non accoglie la tesi prospettata in alcune sentenze della Cassazione (cfr. sent. 8 gennaio 1980, n. 144 e 25 maggio 1978, n. 2655, id., 1980, I, 1367, con nota di richiami) secondo
Il Foro Italiano — 1988.
Fatto. — Una controversia individuale di lavoro fra Serretta
Giovanni e l'Enel, introdotta con citazione notificata il 29 dicem
bre 1969, perveniva all'udienza di precisazione delle conclusioni
il 1° marzo 1973 senza che, fino a tale momento, il convenuto
avesse proposto l'eccezione di prescrizione dei crediti ex adverso
vantati. All'udienza del 31 maggio 1974, fissata per la discussio
ne, la causa veniva trattenuta in decisione e, quindi, definita con
sentenza del 28 giugno 1974, avverso la quale l'Enel proponeva
appello (nelle forme previste dal nuovo rito delle controversie di
lavoro disciplinato dalla 1. 11 agosto 1973 n. 533, entrata in vigo
re nel frattempo), sollevando, col relativo atto, l'eccezione sud
detta. L'adita corte d'appello respingeva il gravame, rilevando,
fra l'altro, che l'eccezione stessa non poteva essere proposta, stante
il divieto di ius novorum di cui all'art. 437 c.p.c., nel testo novel
lato dalla citata 1. n. 533 del 1973, applicabile ai giudizi pendenti alla data della sua entrata in vigore, giusto il disposto dell'art.
20 della legge medesima.
Nel susseguente giudizio di cassazione, introdotto dall'Enel, la
corte, con ordinanza emessa I'll gennaio 1980, ha sollevato la
questione di legittimità costituzionale degli art. 437, 2° comma
c.p.c. (nuovo testo) e 20, 1° comma, 1. n. 533 del 1973, nella
parte in cui, in contrasto con gli art. 3 e 24 Cost., non consento
no la proposizione di nuove eccezioni in appello, in via transito
ria e con riferimento ai casi di procedimenti svoltisi in primo
grado secondo il rito previgente alla menzionata legge (e, quindi,
senza soggezione al regime delle preclusioni e decadenze con que
sta introdotto) e sottoposti, poi, nella fase di gravame, alla trat
tazione col nuovo rito.
Con specifico riguardo alla fattispecie — donde la rilevanza
della questione — la corte ha osservato che la mancata proposi zione dell'eccezione di prescrizione in primo grado era correlata
alla facoltà di proporla senza limite alcuno (salvo l'eventuale onere
delle spese) nel giudizio di appello, sicché il venir meno di tale
le quali l'art. 437 precluderebbe la proponibilità di nuove eccezioni nel
l'udienza di discussione, ma non la possibilità, ex art. 345 c.p.c., di pro
porre nuove eccezioni con l'atto di appello; essa ribadisce, secondo il
prevalente orientamento dottrinale e giurisprudenziale [cfr. C. M. Baro
ne (V. Andrioli, G. Pezzano, A. Proto Pisani), Le controversie in
materia di lavoro, Bologna-Roma, 1987, 868, ed ivi indicazioni giurispru denziali] il divieto di nuove domande ed eccezioni in appello, sancito
nel rito lavoro dall'art. 437, 2° comma, c.p.c. b) La corte tuttavia adotta un'interpretazione «elastica» dell'art. 20
1. 533/73, tale da superare la regola dell'immediata applicabilità del nuo
vo rito ai giudizi pendenti, rendendolo così compatibile con la situazione
processuale cui ciascun procedimento è pervenuto al momento dell'entra
ta in vigore della legge. Per un tale «adattamento» della regola, per vero
apparentemente assai rigida, contenuta nell'art. 20, si era del resto espressa la dottrina fin dai primi commenti alla 1. 533/73 (cfr. Denti-Simoneschi, Il nuovo processo del lavoro, Milano, 1974, 316 ss).
In tal senso si veda anche la giurisprudenza secondo la quale le preclu sioni di cui agli art. 414 e 416 c.p.c. non possono riferirsi ai procedimenti già pendenti al momento dell'entrata in vigore della legge (cfr. Cass. 5
maggio 1983, n. 3093, Foro it., Rep. 1983, voce Lavoro e previdenza
(controversie), n. 694).
c) La corte giustifica la necessità di un tale «adattamento» con l'esigen za di coordinare il regime delle preclusioni e decadenze stabilito relativa mente al giudizio di appello con quelle operanti nel giudizio di primo grado: con la conseguente impossibilità di precludere alle parti l'esercizio
di quelle facoltà che avevano ritenuto di non esercitare in primo grado in quanto la normativa allora in vigore le rendeva esperibili anche in
appello. III. - Le conclusioni cui è pervenuta la Corte costituzionale con la sen
tenza in epigrafe erano già state accolte dalla Cassazione, la quale, suc
cessivamente all'ordinanza 8 marzo 1980, n. 141 (e pertanto con un palese e censurabile difetto di informazione sul giudizio pendente di fronte alla
Corte costituzionale) ha ritenuto che l'entrata in vigore della 1. 533/73 non preclude alla parte la possibilità di proporre in appello per la prima volta l'eccezione di prescrizione non sollevata in primo grado, per l'im
possibilità di ritenere operante in tal caso l'art. 20 1. 533/73 (Cass. 13
giugno 1980, n. 3789, id., 1980, I, 1867, e 18 febbraio 1983, n. 1265, id., Rep. 1983, voce cit., n. 550).
In senso contrario, cfr. Cass. 6 febbraio 1984, n. 906, id., Rep. 1984, voce cit., n. 444, la quale ha invece affermato che il divieto di nuovi mezzi di prova in appello ex art. 437, 2° comma, c.p.c. ricorre anche
quando la controversia, introdotta e trattata in primo grado secondo il rito ordinario benché fosse soggetta al rito del lavoro, sia poi stata
proposta e trattata in sede di gravame secondo quest'ultimo rito. [F. Donati]
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