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PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE || sentenza 21 marzo 1989, n. 139 (Gazzetta...

Date post: 27-Jan-2017
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sentenza 21 marzo 1989, n. 139 (Gazzetta ufficiale, 1 a serie speciale, 29 marzo 1989, n. 13); Pres. ed est. Conso; imp. De Luca; interv. Pres. cons. ministri. Ord. Assise Roma 10 giugno 1988 (G.U., 1 a s.s., n. 42 del 1988) Source: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE (1989), pp. 2399/2400-2401/2402 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23184129 . Accessed: 28/06/2014 15:59 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.223.28.76 on Sat, 28 Jun 2014 15:59:11 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sentenza 21 marzo 1989, n. 139 (Gazzetta ufficiale, 1 a serie speciale, 29 marzo 1989, n. 13);Pres. ed est. Conso; imp. De Luca; interv. Pres. cons. ministri. Ord. Assise Roma 10 giugno1988 (G.U., 1 a s.s., n. 42 del 1988)Source: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1989), pp. 2399/2400-2401/2402Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23184129 .

Accessed: 28/06/2014 15:59

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2399 PARTE PRIMA 2400

vince (per il secondo grado) non sono assimilabili a «giudici elet

tivi» e non sono rappresentanti politici dei «cittadini contribuen

ti», e che, inoltre, nessun parametro costituzionale impone allo

Stato-apparato di moltiplicare e disperdere le sedi giudiziarie sul

territorio per avvicinarle alla «utenza».

Considerato che per quanto concerne la ipotizzata violazione

dell'art. 3 Cost., ad opera della norma impugnata, la corte ha

già esaminato una questione analoga, dichiarandola non fondata

con la sent. n. 214 del 1976 (pur richiamata nell'ordinanza di

rimessione), nella quale è stato tra l'altro affermato che «il giudi ce deve giudicare iuxta alligata et probata e non in base alla co

noscenza personale che può avere dei fatti sottoposti al suo giudi

zio», dovendo le conoscenze occorrenti per vagliare quei fatti es

sere tratte dalle prove; che è stato altresì rilevato che lo stesso d.p.r. n. 636 (art. 10),

nel precisare che i componenti delle commissioni in questione «han

no tutti identica funzione, indirizzata unicamente alla applicazio ne della legge», impone loro di prescindere, nel giudizio, da ogni considerazioni di interessi territoriali o di categoria, si che l'inte

resse degli enti locali nella designazione di una parte di detti com

ponenti non può che essere di carattere generico e certamente

non si riconnette in alcun modo con le singole controversie che

i collegi devono risolvere (sent. n. 196 del 1982, id., 1983, I, 535); che, quanto alla asserita «novità» di argomentazioni a soste

gno della questione, a mezzo del rinvio operato alla motivazione

contenuta nella sentenza delle sezioni unite della Corte di cassa

zione, si osserva che in quella pronuncia sono state svolte talune

considerazioni ad esclusivo sostegno di una compatibilità ed ar

monizzazione tra processo civile e processo tributario, al fine di

pervenire all'affermazione della inderogabilità della competenza territoriale delle commissioni tributarie e della conseguente am

missibilità del regolamento di competenza, nel silenzio della spe cifica normativa, di guisa che dalle cennate argomentazioni non

è possibile ricavare elementi tali da indurre la corte a modificare

il proprio orientamento (sent. n. 214 del 1976);

che, in ordine al preteso contrasto con l'art. 76 Cost., la que stione è manifestamente infondata perché, come già rilevato dal

la corte (sent. n. 217 del 1984, id., 1984, I, 2661), la legge di

delega (art. 10, n. 14, 1. n. 825 del 1971) si limita ad affermare

la necessità della revisione, fra l'altro, delle competenze territo

riali delle commissioni tributarie senza specifici vincoli per il legis latore delegato, il quale pertanto ha fissato detta competenza nel

modo ritenuto più idoneo e conveniente in rapporto alla peculia rità della materia.

Visti gli art. 26, 2° comma, 1. 11 marzo 1953 n. 87 e 9, 2°

comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte

costituzionale; Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara la manifesta

infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art.

2, 2° comma, d.p.r. 26 ottobre 1972 n. 636 (revisione della disci

plina del contenzioso tributario) sollevate, in riferimento agli art.

3 e 76 Cost., dalla Commisione tributaria di I grado di Verbania

con l'ordinanza indicata in epigrafe.

CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 21 marzo 1989, n. 139

(Gazzetta ufficiale, 1" serie speciale, 29 marzo 1989, n. 13); Pres. ed est. Conso; imp. De Luca; interv. Pres. cons, ministri.

Ord. Assise Roma 10 giugno 1988 (G.U., 1a s.s., n. 42 del 1988).

Istigazione a delinquere o a disobbedire e apologia di reato o

sovversiva — Istigazione di militari a disobbedire alle leggi

Mancata previsione di pena inferiore a quella del reato istigato — Incostituzionalità (Cost., art. 3; cod. pen., art. 266).

È illegittimo, per violazione dell'art. 3 Cost., l'art. 266 c.p., nella

parte in cui non prevede che per l'istigazione di militari a com

mettere un reato militare la pena sia sempre applicata in misu

II Foro Italiano — 1989.

ra inferiore alla metà della pena stabilita per il reato al quale si riferisce l'istigazione. (1)

Diritto. — 1. - La Corte d'assise di Roma dubita che l'art.

266 c.p., «nella parte in cui non prevede quale limite massimo

di pena irroganda per la istigazione una pena inferiore alla metà

di quella prevista per il reato istigato», sia conforme all'art. 3 Cost.

Sollevata nel corso di un procedimento penale per istigazione di militari alla diserzione, instaurato, ex art. 266 c.p. (istigazione di militari a disobbedire alle leggi), nei confronti di un imputato «non militare», in quanto «permanentemente non idoneo al ser

vizio militare», la questione proposta prende le mosse dalla di

sparità di trattamento ravvisabile «tra le condotte previste dal

l'art. 266 e quelle richiamate dall'art. 212 e 213 c.p. mil. pace nonché dall'art. 302 c.p.», sotto il particolare profilo che queste

ultime, a differenza delle prime, comportano «l'applicazione di

una pena inferiore alla metà di quella stabilita per il reato istiga to». Se ne «evince che è principio del nostro ordinamento positi vo penale e militare che l'istigazione a commettere un reato non

consenta una pena superiore alla metà della pena prevista per il reato istigato» e se ne deduce che la la mancata estensione

di tale principio alla pena contemplata dall'art. 266 c.p. sarebbe

priva di giustificazione, in quanto le «fattispecie» ivi «indicate»

risulterebbero di gravità minore «o, almeno, pari» a quelle «indi

cate» negli art. 212 e 213 c.p. mil. pace e nell'art. 302 c.p. 2. - In realtà, delle molteplici «fattispecie» alternativamente «in

dicate» nell'art. 266 c.p. (istigare i militari a disobbedire alle leg gi o a violare il giuramento dato o i doveri della disciplina milita

re o altri doveri inerenti al proprio stato oppure far loro apologia di fatti contrari alle leggi, al giuramento, alla disciplina o ad altri

doveri militari) viene qui in discussione soltanto la prima, con

ancor più particolare riguardo all'ipotesi costituita dall'istigazio ne di militari a disobbedire alle leggi penali, anzi ad una singola legge penale, come, appunto, nel caso dell'istigazione a disertare:

un'ipotesi che il giudice a quo riconduce nell'ambito dell'art. 266,

(1) Dopo avere a lungo difeso il testo dell'art. 266 c.p. da diversi attac chi (cfr. Corte cost. 27 febbraio 1973, n. 16, Foro it., 1973, I, 965, con osservazioni di Pizzorusso; 18 luglio 1973, n. 142, ibid., 2650; 5 giugno 1978, n. 71, id., 1978, I, 1338, con osservazioni di Pizzorusso), la corte ha finalmente preso atto dell'eccessivo rigorismo della norma, che preve deva la reclusione da uno a tre anni per il solo fatto dell'istigazione o

dell'apologia, e sempre che non fosse stato integrato un più grave delitto. La sentenza ha escluso la possibilità di ricondurre su uno stesso piano

le previsioni degli art. 266 e 303 c.p. (norma, quest'ultima, richiamata nell'ordinanza di rimessione a conforto della sostenuta disparità di tratta

mento); mentre ha ravvisato una vera ed effettiva corrispondenza tra le

fattispecie degli art. 212 c.p. mil. pace (istigazione a commettere reati

militari) e 266 c.p. «Fatta eccezione per la diversa qualifica del soggetto agente (militare nel primo caso, non militare nel secondo), la ragion d'es sere delle due norme a confronto sostanzialmente coincide»; e, dall'altra

parte, entrambe le ipotesi contemplate dall'art. 212 c.p. mil. pace, «se realizzate da un non militare, rientrano . . . nella più generica previsione dell'art. 266 c.p.».

L'argomento è ineccepibile: posto che il rapporto di specialità tra due norme viene in luce con certezza quando, cancellatane idealmente una, tutte le sue previsioni rientrano nell'altra (cfr. ad esempio Pagliaro, Prin

cipi di diritto penale, parte generale, Milano, 1980, 193), è sicuro che, «dimenticando» l'art. 212 c.p. mil. pace, tutte le sue previsioni rientre rebbero nell'art. 266 c.p.: il fatto di istigare uno o più militari a commet tere un reato militare, infatti, è una species del genus «istigazione di mili tari a disobbedire alle leggi».

Ciò che più conta, comunque — anche se la sentenza non lo pone nel dovuto risalto — è che sembra superato il principio della intangibilità della scelta politica in tema di congruenza tra pene edittali e singole fatti

specie, che la corte stessa aveva enunciato e riaffermato (tra le tante, cfr. Corte cost. 45/67, Foro it., 1967, I, 1125; 109/68, id., 1968, I, 2359; 45/70, id., 1970, I, 1541; 22/71, id., 1971, I, 527; 142/73, cit.). È vero che la disparità di trattamento tra i regimi sanzionatori degli art. 212 e 266 viene definito «privo di razionale giustificazione», cosi prospettan dosi quella manifesta irragionevolezza che le richiamate decisioni della corte avevano considerato l'unico elemento idoneo a giustificare un sin dacato delle scelte politiche; tuttavia, proprio perché l'argomento viene enunciato solo en passant, senza una puntuale dimostrazione della irra

gionevolezza, è legittimo ritenere che si sia voluto saggiare il terreno in vista di una futura inversione di tendenza. Ipotesi che, se confermata, aprirebbe nuovi orizzonti all'attività della corte, e nello stesso tempo lan cerebbe al legislatore inviti forti e chiari alla congruità sanzionatoria. [R. Messina]

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

secondo l'insegnamento della più autorevole dottrina, da sempre in linea con la relazione ministeriale al progetto preliminare del codice penale (Lavori preparatori, vol. II, p. 44), senza che que sta corte abbia motivo di discostarsene (v. già la sentenza n. 16

del 1973, Foro it., 1973, I, 965, in risposta a più ordinanze di rimessione, una delle quali relativa proprio ad un'ipotesi di isti

gazione a disertare). Del resto, a ricondurre la dedotta questione nei limiti indicati

non sono soltanto le esigenze sottostanti al requisito della rile

vanza, strettamente correlate all'addebito contestato nel procedi mento principale. Non minore peso riveste la considerazione

evidenziata dall'avvocatura dello Stato nell'atto di intervento del

presidente del consiglio dei ministri, là dove si sottolinea come, unicamente con riguardo alle fattispecie di istigazione a commet

tere un reato, esista la possibilità di commisurare la pena per

l'istigazione alla pena concernente il reato al quale si riferisce

l'istigazione. 3. — Nel merito la questione è fondata.

Peraltro, delle due argomentazioni prospettate nell'ordinanza

di rimessione non può essere condivisa quella, più generale, se

condo cui dagli art. 212 (istigazione a commettere reati militari) e 213 (istigazione di militari a disobbedire alle leggi) c.p. mil. pace nonché dall'art. 302 (istigazione a commettere alcuno dei

delitti preveduti dai capi primo e secondo) c.p., si evincerebbe

«che è principio comune del nostro ordinamento positivo penale e militare che l'istigazione a commettere un reato non consenta

una pena superiore alla metà della pena prevista per il reato isti

gato» tutte le volte che l'istigazione venga incriminata dal legisla tore di per se stessa, in deroga all'art. 115, 3° e 4° comma, c.p., dove l'istigazione non seguita dalla commissione del reato è con

figurata semplicemente come ipotesi di quasi reato, passibile sol

tanto di una misura di sicurezza.

Tale argomentazione non è confortata dall'analisi della norma

tiva vigente in materia di istigazione. In primo luogo, si rivela addirittura controproducente l'inseri

mento dell'art. 213 c.p. mil. pace fra le norme in cui troverebbe

estrinsecazione il preteso principio generale. Poiché tale disposi zione — nell'incriminare «il militare che commette alcuno dei

fatti d'istigazione o di apologia indicati nell'art. 266 c.p.» (con l'ovvia eccezione del fatto del «militare che istiga uno o più mili

tari in servizio alle armi a commettere un reato militare», fatti

specie oggetto di apposita, autonoma previsione ad opera dell'art.

212 c.p. mil. pace) — prende a base proprio le pene «stabilite»

dall'art. 266, resta a priori escluso che in essa si possa ritrovare

traccia di un qualsiasi riferimento alla pena prevista per il reato

istigato. Ma — anche a prescindere dall'art. 213 c.p. mil. pace, che,

a causa dell'inclusione nell'art. 212 dell'ipotesi di istigazione a

commettere reati militari, rimane comunque estraneo alla temati

ca in esame — non si può affermare che la commisurazione della

pena applicabile per l'istigatore alla pena prevista per il reato

istigato (nel senso che la prima dev'essere sempre applicata non

già, come asserisce il giudice a quo, «in misura non superiore», bensì «in misura inferiore alla metà della pena stabilita per il

delitto al quale si riferisce l'istigazione») assurga a principio ge nerale per i reati di istigazione. Vi fa ostacolo la constatazione

che, per quanto riguarda l'ordinameto penale comune, tale limi

te, pur previsto nel codice penale dall'art. 302, 2° comma, e, in forma diversa, dall'art. 322 (istigazione alla corruzione), è as

sente non solo nell'art. 266, ma anche nell'art. 303 (pubblica isti

gazione e apologia), nell'art. 327 (eccitamento al dispregio e

vilipendio delle istituzioni, delle leggi e degli atti dell'autorità) e nell'art. 414 (istigazione a disobbedire alle leggi), i cui rapporti con l'art. 414 non sono dissimili da quelli tra l'art. 213 e l'art.

212 c.p. mil. pace. Per quanto riguarda, poi, l'ordinamento mili

tare, il limite, pur presente nell'art. 212, non figura né nell'art.

78, n. 1 (istigazione all'alto tradimento) né nell'art. 98 (istigazio ne od offerta) del codice penale militare di pace.

4. - Resta da considerare l'altra argomentazione del giudice a quo; quella secondo cui, indipendentemente dall'esistenza del

principio ora confutato, l'art. 266 c.p. violerebbe l'art. 3 Cost,

perché la fattispecie in esame, pur rivestendo minore o, almeno,

pari gravità, non fruirebbe della commisurazione limitativa rico

nosciuta a chi deve rispondere di una delle fattispecie previste o dall'art. 302 c.p. o dall'art. 212 c.p. mil. pace.

Per quanto accomunate dall'ordinanza di rimessione, le situa

zioni sottostanti ai rapporti che intercorrono, da un lato, fra l'art.

Il Foro Italiano — 1989.

266 e l'art. 302 c.p., dall'altro, fra lo stesso art. 266 e l'art. 212

c.p. mil. pace vanno prese in esame separatamente, in ragione della non omogenea fisionomia delle due fattispecie (art. 302 e

212) assunte come tertia comparationis. 5. - Le differenze fra l'art. 266 e l'art. 302 c.p. risultano trop

po marcate perché la disparità di trattamento riscontrabile a pro posito del limite di pena posto dal 2° comma dell'art. 302, e non contemplato dall'art. 266, possa apparire priva di ogni razio

nale giustificazione. Soprattutto il fatto che tra i comportamenti

contemplati dall'art. 302 figuri pure l'istigazione a commettere il delitto previsto dall'art. 266 e, quindi, l'istigazione di militari

a disobbedire alle leggi, sta a dimostrare non solo come le due

norme operino su piani diversi, ma anche come la condotta nei

riguardi della quale il legislatore ha posto il limite di pena (cioè, l'istigazione) si presenti di minor gravità rispetto alla condotta

rappresentata dall'istigazione di militari a disobbedire alle leggi, essendo la prima più lontana della seconda dal perseguito obietti

vo di far disobbedire alle leggi uno o più militari.

6. - Del tutto corrispondenti sono, invece, le fattispecie (istiga zione a commettere reati militari ed istigazione di militari a com

mettere un reato militare) che vengono in esame quando il

confronto si instaura tra l'art. 212 c.p. mil. pace e la parte impu

gnata dell'art. 266 c.p. Appare, pertanto, priva di razionale giu stificazione la disparità di trattamento riscontrabile a proposito del limite di pena posto dal 2° comma dell'art. 212 c.p. mil. pace

(«la pena è sempre applicata in misura inferiore alle metà della

pena stabilita per il reato al quale si riferisce l'istigazione») e

non previsto dall'art. 266 c.p. Fatta eccezione per la diversa qua lifica del soggetto agente (militare nel primo caso, non militare

nel secondo), la ragion d'essere delle due norme a confronto so

stanzialmente coincide. Né rileva in contrario che l'art. 212

c.p. mil. pace, pur comminando «la stessa pena», dedichi il 1°

comma all'ipotesi del «militare, che istiga uno o più militari in

servizio alle armi a commettere un reato militare» ed il 2° com

ma all'ipotesi del militare che istiga «un militare in congedo illi

mitato, e l'istigazione si riferisce ad uno dei reati per i quali, secondo l'art. 7 di questo codice, ai militari in congedo illimitato

è applicabile la legge penale militare». Entrambe le ipotesi, se

realizzate da un non militare, rientrano, infatti, nella più generi ca previsione dell'art. 266 c.p.

Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 266 c.p., nella parte in cui non prevede che per l'istigazione di militari a commettere un reato militare

la pena sia «sempre applicata in misura inferiore alla metà della

pena stabilita per il reato al quale si riferisce l'istigazione».

I

CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 23 febbraio 1989, n. 56

(Gazzetta ufficiale, la serie speciale, 1° marzo 1989, n. 9); Pres.

Saja, Est. Caianiello; Pres. cons, ministri c. Regione Molise.

Regione — Molise — Personale dipendente — Reinquadramento — Finalità perequativa — Questione infondata di costituziona

lità (Cost., art. 3, 97).

È infondata, in riferimento agli art. 3 e 97 Cost., la questione di legittimità costituzionale della I. reg. Molise 29 luglio 1988, riapprovata il 18 ottobre 1988, in quanto il reinquadramento a domanda del personale, sulla base dei titoli e dell'anzianità posseduta al 31 gennaio 1981, è dettata dall'esigenza di pere

quazione con personale assunto successivamente e che aveva

già potuto far valere quei titoli e quell'anzianità in forza delle rispettive leggi di inquadramento succedutesi nel tempo. (1)

(1-2) Nella «rincorsa» dei dipendenti degli enti locali agli inquadra menti superiori ed a repentini miglioramenti di carriera la corte abbando na per un momento (sent. 56/89) la severa linea censoria in altre occasioni

seguita, a motivo di una evidente situazione di sperequazione originata

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