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PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE || sentenza 24 gennaio 1991, n. 22 (Gazzetta...

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sentenza 24 gennaio 1991, n. 22 (Gazzetta ufficiale, 1 a serie speciale, 30 gennaio 1981, n. 5); Pres. Conso, Est. Spagnoli; imp. Lazzaron e altro; interv. Pres. cons. ministri. Ord. Trib. mil. Padova 19 giugno 1990 e 11 luglio 1990 (G.U., 1 a s.s., n. 39 del 1990) Source: Il Foro Italiano, Vol. 114, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE (1991), pp. 699/700-705/706 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23185317 . Accessed: 28/06/2014 11:43 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 193.142.30.167 on Sat, 28 Jun 2014 11:43:50 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sentenza 24 gennaio 1991, n. 22 (Gazzetta ufficiale, 1 a serie speciale, 30 gennaio 1981, n. 5);Pres. Conso, Est. Spagnoli; imp. Lazzaron e altro; interv. Pres. cons. ministri. Ord. Trib. mil.Padova 19 giugno 1990 e 11 luglio 1990 (G.U., 1 a s.s., n. 39 del 1990)Source: Il Foro Italiano, Vol. 114, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1991), pp. 699/700-705/706Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23185317 .

Accessed: 28/06/2014 11:43

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PARTE PRIMA

tettive previste dalla legge, è il divieto di licenziamento previsto — tranne per i casi tassativamente elencati — dall'art. 2, come

dimostra il fatto che tale divieto è penalmente sanzionato dal

l'art. 31 della medesima legge. Ed infatti, in mancanza di tale

divieto, non soltanto il datore di lavoro potrebbe liberarsi, li

cenziando la lavoratrice, degli oneri che la normativa di tutela

pone a suo carico, ma la lavoratrice stessa potrebbe esser indot

ta, dal timore del licenziamento, a rinunziare ad avvalersi delle

misure di tutela per lei predisposte ed in particolare di quelle che la legge rimette alla sua libertà di scelta (e, ancor prima,

potrebbe essere indotta a rinunziare alla stessa maternità). È pur vero che, terminato il periodo previsto dall'art. 2, il

datore riacquista comunque il potere di recedere dal rapporto nei casi e alle condizioni previste dalla legge; ma, una volta

che il rapporto di lavoro è rientrato nei binari della normalità,

è ben più difficile che si verifichi l'ipotesi — ed è quindi più difficile che vi sia il fondato e condizionante timore — di un

licenziamento determinato dagli inconvenienti che le misure di

garanzia previste dalla 1. n. 1204 hanno comportato per il dato

re di lavoro in una fase del rapporto ormai pregressa. 4. - Un divieto che comporti un mero differimento dell'effi

cacia del licenziamento anziché la nullità radicale di esso rap

presenta però una misura di tutela insufficiente rispetto alle di

rettive dell'art. 37 Cost, anche sotto un altro profilo. La protezione cui fa riferimento la norma costituzionale, in

fatti, non si limita alla salute fisica della donna e del bambino, ma investe tutto il complesso rapporto che, nel detto periodo, si svolge tra madre e figlio; il quale rapporto — come ha affer

mato questa corte — deve essere protetto non solo per ciò che

attiene ai bisogni più propriamente biologici, ma anche in rife

rimento alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo che

sono collegate allo sviluppo della personalità del bambino (sen tenze nn. 1 del 1987, id., 1987, I, 313 e 332 del 1988, id., 1988,

I, 642). Nel contempo, il principio posto dall'art. 37 — collega to al principio di uguaglianza — impone alla legge di impedire che possano, dalla maternità e dagli impegni connessi alla cura

del bambino, derivare conseguenze negative e discriminatorie.

Entrambe queste esigenze impongono, per lo stato di gravi danza e puerperio, di adottare misure legislative dirette non sol

tanto alla conservazione dell'impiego, ma anche ad evitare che

nel relativo periodo di tempo intervengano, in relazione al rap

porto di lavoro, comportamenti che possano turbare ingiustifi catamente la condizione della donna ed alterare il suo equilibrio

psico-fisico, con serie ripercussioni sulla gestazione o, successi

vamente, sullo sviluppo del bambino. Al fine di assicurare una

effettiva tutela a tali interessi invero la sola conservazione tem

poranea del rapporto, pur rimanendo essenziale, non è tuttavia

sufficiente. Non vi è dubbio, infatti, che l'intimazione del licen

ziamento fuori dai casi espressamente previsti, soprattutto nella

particolare condizione in cui si trova la donna nel periodo di

gravidanza ed in quello di puerperio, è causa di grave turba

mento, anche se gli effetti del recesso non sono immediati ma

differiti. Questa sorta di licenziamento annunciato, infatti, pro

spetta alla lavoratrice la certezza del venir meno, a breve termi

ne, di un reddito personale che può anche essere l'unico non

solo per la stessa donna, ma anche per il suo nucleo familiare, o che può costituire comunque una quota essenziale del reddito

familiare complessivo; e ciò proprio in un momento in cui le

esigenze connesse alla nascita del figlio impongono nuovi oneri.

E comporta la necessità di reperire tempestivamente altre fonti

di reddito e di riorganizzare in conseguenza la propria esistenza

e quella della propria famiglia: il che non può non interferire

in modo pesantemente negativo sulle condizioni della donna e

sul suo rapporto con il figlio e quindi sulla salute e sulla forma

zione della personalità di quest'ultimo. È inoltre appena il caso

di sottolineare quanto difficile si presenti — in una situazione

ormai cronicamente distante dal pieno impiego — una prospet tiva di occupazione per le donne con prole in tenera età, spesso

colpite da una sostanziale discriminazione.

Né la gravità di una simile turbativa può considerarsi rimossa

o anche significativamente attenuata dalle norme, pure di re

cente introduzione, che delimitano o regolano in varia misura

il potere di recesso del datore di lavoro. In primo luogo, infatti, si tratta di discipline che non hanno specifico riguardo alle esi

genze di tutela differenziata imposte dall'art. 37 — ma anche

dall'art. 31 — con riferimento alla condizione della donna e

alla maternità. In secondo luogo, per gran parte delle situazioni

Il Foro Italiano — 1991.

di prevalente impiego femminile la tutela è soltanto obbligato ria e ridotta ad un compenso risarcitorio assai limitato.

5. - Se queste sono le esigenze ed i principi di rango costitu

zionale sottesi al divieto di licenziamento della lavoratrice nel

periodo di gravidanza e puerperio, ne deriva essere essenziale

che tale divieto sia assistito da quelle misure idonee ad impedire che l'atto vietato sia ugualmente compiuto e sia ugualmente con

veniente per chi lo compie. Ciò dà ragione della sanzione pena le prevista dall'art. 31; ma ciò soprattutto richiede, sul piano

civile, che, se il licenziamento vietato viene ugualmente dispo

sto, l'ordinamento giuridico, di cui esso costituisce una viola

zione, non lo recepisca in alcuna misura e cioè lo consideri to

talmente improduttivo di effetti, come del resto è disposto per

l'ipotesi, per certi aspetti analoga, del licenziamento per causa

di matrimonio, di cui alla 1. 9 gennaio 1963 n. 7, che peraltro è anche funzionalmente connessa alle concrete esigenze di tutela

della maternità, come mise in rilievo questa corte con la senten

za n. 27 del 1969 (id., 1969, I, 545). Né, d'altra pare, potrebbe opporsi che la nullità eccederebbe

gli scopi della tutela in quanto non sarebbe limitabile solo a

tale periodo, ed occorrerebbe, per procedere ad un successivo

recesso, la sussistenza di una nuova causa giustificatrice. Alle

considerazioni già svolte circa l'individuazione degli scopi di tu

tela che vengono qui in considerazione, deve essere aggiunto il rilievo che, terminato il periodo protetto, il datore di lavoro

riacquista l'integrità del suo potere di recesso, nel rispetto dei

limiti previsti dalla legge e delle regole da essa imposte, Il che

certamente potrà richiedere — se tale è la normativa applicabile nella fattispecie concreta — la sussistenza di una causa giustifi

catrice, ma nulla esige che la stessa sia nuova, essendo invece

necessario soltanto — come del resto è logico — che essa sussi

sta (ancora) al momento in cui il licenziamento viene legittima mente intimato.

6. - Infjjge, resta da precisare che il rafforzamento della tutela

conseguente alla presente pronunzia è anche uno strumento ne

cessario per evitare che la maternità si traduca in concreto in

un impedimento alla realizzazione dell'effettiva parità di diritti

della donna lavoratrice. Ciò è in piena sintonia con lo stesso

art. 37 Cost., che, letto in connessione con l'art. 3, 2° comma,

impone di accordare alla donna le misure speciali e più energi che di protezione necessarie a rimuuovere le gravi discrimina

zioni che in fatto la colpiscono in relazione ai compiti connessi

con la maternità e la cura dei figli e della famiglia, dal cui

assolvimento, peraltro, trae vantaggio l'intera comunità.

Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara la illegitti mità costituzionale dell'art. 2 1. 30 dicembre 1971 n. 1204 (tute la delle lavoratrici madri), nella parte in cui prevede la tempo ranea inefficacia anziché la nullità del licenziamento intimato

alla donna lavoratrice nel periodo di gestazione e di puerperio indicato nel predetto articolo.

CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 24 gennaio 1991, n. 22

(Gazzetta ufficiale, la serie speciale, 30 gennaio 1981, n. 5); Pres. Conso, Est. Spagnoli; imp. Lazzaron e altro; interv.

Pres. cons, ministri. Ord. Trìb. mil. Padova 19 giugno 1990

e 11 luglio 1990 (G.U., la s.s., n. 39 del 1990).

Insubordinazione, rivolta, ammutinamento e disobbedienza —

Reati di insubordinazione e abuso di autorità — Reato com

messo soltanto in luogo militare — Incostituzionalità (Cost., art. 3, 52; cod. pen. mil. pace, art. 199).

È illegittimo, per violazione degli art. 3 e 52, 3° comma, Cost., l'art. 199 c. p. mil. pace, nella parte in cui rende applicabili le norme relative all'insubordinazione e all'abuso di autorità

sulla base della sola circostanza che i fatti siano stati com

messi in luogo militare. (1)

(1) La sentenza che si riporta tende, in modo evidente e dichiarato, a restringere le ipotesi di insubordinazione e abuso di autorità, che ave vano subito un primo giro di vite con la 1. 26 novembre 1985 n. 689

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Fatto. — 1. - A seguito di un diverbio, originato da futili moti

vi, verificatosi all'interno della caserma della brigata meccaniz

zata Vittorio Veneto in Trieste tra un caporale ed un soldato, si procedeva nei confronti del primo per il reato di ingiuria ad

un inferiore (art. 196, 2° comma, c.p. mil. pace) e nei confronti

del secondo per i reati di insubordinazione con violenza, con

minaccia e con ingiuria (art. 186, 1° comma, e 189, 1° e 2°

comma, c.p. mil. pace). In esito all'istruttoria dibattimentale, il Tribunale militare di

Padova, premesso che i fatti traggono origine da un sopruso del superiore nei confronti dell'inferiore, ha sollevato in riferi

mento agli art. 3 e 52, ultimo comma, Cost., una questione di legittimità costituzionale dell'art. 199 c.p. mil. pace, nel testo

(sulla quale cfr. R. Messina, Il nuovo regime dei reati di insubordina zione e abuso di autorità, in Foro it., 1986, V, 75). A ciò si perviene attraverso un ritocco dell'art. 199 c.p. mil. pace, dal quale vengono espunte le parole finali «o in luoghi militari».

L'inciso in cui esse erano contenute poteva — e può — essere letto in due modi: le parole «in servizio o a bordo» esprimono una richiesta

cumulativa, nel senso che il militare deve trovarsi, oltre che a bordo di una nave o di un aeromobile, anche in servizio; le medesime parole esprimono, invece, una richiesta alternativa, nel senso che il militare deve essere in servizio sempre che non si trovi a bordo, nel quale ultimo caso l'attività di servizio risulta indifferente.

La prima lettura sembra impedita dall'avversativa «o»: se la mens

legis fosse stata per la richiesta cumulativa, la particella non avrebbe dovuto figurare. Di ciò ha dato atto la corte quando ha osservato che «in entrambi i casi oggetto dei due giudizi a quibus, i reati ... avvenne ro ... per cause estranee al servizio ed alla disciplina militare ed al di fuori dell'attività di servizio ... Pertanto, l'unico elemento che ... deter mina l'applicabilità dei reati speciali ... è costituito dalla commissione dei fatti in luogo militare» e ancora precisando che la riforma dell'85 ha inciso sul sistema, tra l'altro, «introducendo ex novo, come elemen to sufficiente all'integrazione di tali fattispecie ... la commissione del fatto in 'luoghi militari' diversi dalle navi e aeromobili». D'altra parte, se la corte avesse aderito all'accezione cumulativa, avrebbe dovuto di chiarare inammissibile la questione, dato che nella specie l'unico ele mento rilevabile, tra quelli elencati dall'art. 199, era il luogo militare.

L'accoglimento della tesi alternativa porta a concludere che si ha,

oggi, insubordinazione o abuso di autorità quando il soggetto attivo si trovi: a) in servizio; b) a bordo di una nave militare; c) a bordo di un aeromobile militare.

Per b) e c) non importa che il militare agente sia in servizio; ma

per a) non importa il luogo in cui il reato è commesso (ubi lex non

distingui ...). Se ne deduce che, mentre sino a ieri era possibile punire per insubordinazione, ad esempio, il soldato libero dal servizio che avesse

ingiuriato un superiore all'interno di una caserma, dopo la sentenza della corte tale operazione rimane vietata; ma residua la possibilità di

punire al medesimo titolo il soldato in servizio (es., portalettere) che offenda il superiore nella pubblica via.

Di tutto questo non può che prendersi atto. Ma si deve sottolineare decisamente il pericolo che in futuro si allarghi il settore di svalutazione del luogo militare, elemento già oggi definito dalla sentenza «del tutto estrinseco all'area degli interessi militari attinenti alla tutela del servizio

e della disciplina». Una simile' affermazione è da prendere con la massima cautela. Se

è vero che la protezione del servizio e della disciplina si ricava non dai connotati estrinseci della condotta (tra i quali rientra certamente il luogo della condotta medesima), ma da implicazioni inerenti al piano dell'offesa (per tutti, Violante, La giustizia militare, in Istituzioni mili

tari e ordinamento costituzionale, Roma, 1974, 147), è da osservare

che, in casi analoghi a quelli di specie, alla militarità del luogo si ag

giungono quelle del soggetto attivo e del soggetto passivo. Ora, se cia

scuno di tali elementi può non essere considerato in grado, da solo, di funzionare come punto di riferimento della particolare natura dell'il

lecito, la somma di quegli stessi elementi rappresenta qualcosa di più di una semplice operazione aritmetica (quindi puramente quantitativa):

posto, infatti, che la natura di un illecito non può non desumersi dalla

sua struttura lessicale (altrimenti qualsiasi speculazione dogmatica sa

rebbe priva di un concreto aggancio positivo), la richiesta legislativa dei tre elementi depone senza dubbio per un orientamento ben più ,'so

stanzialistico' (offesa del servizio e/o della disciplina) di quello seguito dalla sentenza della corte (su ciò cfr. R. Messina, Un nuovo 'polmone'

per la giustizia militare? Spunti«de lege ferendo» sull'art. 264 c.p. mil.

pace, in Rass. giust. mil., Quaderni, 1986, 2, 279 ss.); perseverandosi nel quale dovremmo aspettarci da un momento all'altro, ad esempio, la 'smilitarizzazione' dell'art. 230 c.p. mil. pace, norma che, nel preve dere il furto militare, lo differenzia dal furto comune avendo riguardo, appunto, alla qualità militare dell'agente, del danneggiato e del luogo della condotta (sembra dimostrabile, invece, che anche il furto militare

risulta offensivo del servizio e della disciplina: cfr. R. Messina, Il reato

esclusivamente militare, in Rass. giust. mil., 1979, 264).

Il Foro Italiano — 1991.

sostituito con l'art. 9 1. 26 novembre 1985 n. 689, a termini

del quale le disposizioni dei capi III (pene per l'insubordinazio

ne) e IV (pene per l'abuso di autorità) dello stesso codice «non

si applicano quando alcuno dei fatti da esse preveduto è com

messo per cause estranee al servizio e alla disciplina militare, fuori dalla presenza di militari riuniti per servizio e da militare

che non si trovi in servizio a bordo di una nave militare o di

un aeromobile militare o in luoghi militari».

Nel caso di specie, osserva il tribunale, sono applicabili le

norme incriminatrici speciali concernenti l'insubordinazione e

l'abuso di autorità, anziché quelle comuni di cui agli articoli

da 222 a 229 c.p. mil. pace, solo perché trattasi di fatti com

messi in luogo militare, ancorché essi siano da ricondurre a cause

estranee al servizio ed alla disciplina militare: ed a ciò conse

guono differenze rilevanti di disciplina in tema di trattamento

sanzionatorio — più severo per i reati speciali — di circostanze

aggravanti ed attenuanti, di procedibilità e soprattutto di appli cabilità delle cause di non punibilità della provocazione e della

ritorsione, i cui estremi sussisterebbero nel caso di specie se i

fatti fossero configurabili come realti comuni.

Il tribunale ricorda poi che questa corte, nella sentenza n.

278 del 1990, ha bensì escluso che l'inapplicabilità della causa

di non punibilità della provocazione ai reati di insubordinazio

ne con ingiuria e di ingiuria ad un inferiore ledesse il principio di uguaglianza; ma ha anche ipotizzato che la questione potesse «essere utilmente riproposta» «argomentando ex art. 199» c.p. mil. pace.

Ciò premesso, il giudice a quo osserva che il requisito dell'e

straneità della causa si realizza solo quando, in presenza di una

pluralità di cause, non ve ne sia alcuna «intranea», espressione,

cioè, di una specifica relazione tra superiore ed inferiore che

sia tipica del servizio o della disciplina militare. Con tale requi

sito, l'estensione delle norme incriminatrici speciali risulta coe

rente con l'oggetto della tutela. Sarebbero invece insignificanti,

rispetto a detto oggetto (servizio e disciplina militare), gli ulte

riori requisiti che la norma impugnata pone sullo stesso piano del primo. La presenza di militari riuniti in servizio, o la com

missione del fatto ad opera di militare in servizio, o a bordo

di navi o aeromobili, o in altri luoghi militari non sarebbero

infatti circostanze idonee a controbilanciare l'assenza della spe cifica lesività derivante dall'estraneità della causa al servizio ed

alla disciplina militare. Ed il considerare ciascuna di esse di per sé sufficiente a rendere applicabile la normativa speciale costi

tuirebbe una forma di tutela anticipata, basata su presunzioni

astratte, che violerebbe il principio di uguaglianza perché com

porta una pari regolamentazione dei fatti commessi in tali con

dizioni con quelli dovuti a cause «intranee», mentre essi do

vrebbero essere fatti rientrare nella disciplina comune di cui agli art. 222-229 c.p. mil. pace.

Secondo il tribunale rimettente, sarebbe violato anche l'art.

52, ultimo comma, Cost., dato che «il legittimare la condanna

della vittima che solo con l'ingiuria ha reagito nei confronti

del superiore o inferiore violento» contrasterebbe con l'esigenza di rispettare i diritti della persona.

Ma, a ben guardare, la sentenza svela un'intima contraddizione: di

ce, infatti, che l'adozione del criterio 'integralistico' è certo giustificata «quando si tratti di tutelare l'irrinunciabile bene della disciplina milita

re», e tuttavia aggiunge che tale evenienza ricorre solo in «quelle situa

zioni e rapporti la cui connotazione 'obiettivamente' militare faccia ve

nire in gioco il bene della disciplina e quindi la rilevanza del rapporto

gerarchico». Se si aggiunge che, poco prima, la sentenza giustifica l'a

dozione di principi autonomi (rispetto al diritto penale comune) «solo

per i reati 'esclusivamente' o almeno 'obiettivamente' militari, cioè lesi

vi di valori militari meritevoli di particolare protezione», ci si trova

di fronte ad un quadro davvero desolante: sembra proprio che, al di

là della distinzione tra reati esclusivamente e obiettivamente militari, la corte si riferisca a un tertium genus, in cui sarebbero collocabili non

si sa bene quali altri speciali illeciti; «altri» perché l'art. 37 c.p. mil.

pace semplicemente non conosce categorie diverse dal reato esclusiva

mente militare; e la nozione di reato obiettivamente militare è stata

ricavata per contrasto (cfr. Messina, op. ult. cit., passim). Tertium non

datur; o meglio, ogni tertium è reato perfettamente comune.

Possibile che la corte non lo sappia? No, risponderanno in coro i

miei cinque lettori. Ma allora perché questa inopinata sortita dogmati

ca, che per l'ennesima volta giova non a chiarire le cose, ma semmai

a confonderle? [R. Messina].

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PARTE PRIMA

1.1. - Una questione identica è stata sollevata dallo stesso

Tribunale militare di Padova con altra ordinanza dell' 11 luglio

1990, emessa in un procedimento per fatti analoghi. (Omissis)

Diritto. — 1. - Nell'ambito del titolo III, dedicato ai «reati

contro la disciplina militare», il codice penale militare di pace

prevede: al capo III, i reati di «insubordinazione», specificati come insubordinazione con violenza (art. 186) e con minaccia

o ingiuria (art. 189); al capo IV, i reati di «abuso di autorità»,

specificati come violenza (art. 195) ovvero minaccia o ingiuria

(art. 196) contro un inferiore.

Sotto la rubrica «Cause estranee al servizio o alla disciplina

militare», il successivo art. 199 (capo V), nel testo introdotto

con l'art. 9 1. 26 novembre 1985 n. 689 (modifiche al codice

penale militare di pace), prevede che «le disposizioni dei capi

terzo e quarto non si applicano quando alcuno dei fatti da esse

preveduto è commesso per cause estranee al servizio ed alla di

sciplina militare, fuori dalla presenza di militari riuniti per ser

vizio e da militare che non si trovi in servizio o a bordo di

una nave militare o di un aeromobile militare o in luoghi mi

litari». Il Tribunale militare di Padova impugna tale disposizione in

quanto rende applicabili le disposizioni penali sull'insubordina

zione e sull'abuso di autorità ai fatti commessi per cause estra

nee al servizio e alla disciplina militare, solo perché perpetrati da militari in servizio o in presenza di militari riuniti per servi

zio, o a bordo di navi o aeromobili militari, ovvero in altri

luoghi militari.

In tal modo sarebbero violati, a suo avviso, gli art. 3 e 52,

ultimo comma, Cost., dato che tali elementi sarebbero privi di

rilievo rispetto alla disciplina militare, oggetto della tutela, e

comporterebbero un'arbitraria parificazione ai fatti commessi

per cause attinenti al servizio e alla disciplina militare — anzi

ché ai corrispondenti reati comuni di cui agli art. 222-229 c.p.

mil. pace — determinando altresì la violazione delle esigenze di rispetto della persona.

In entrambi i casi oggetto dei due giudizi a quibus, i reati

di abuso di autorità ed insubordinazione — contestati, rispetti

vamente, ad un caporale ed un soldato — avvennero, secondo

la ricostruzione del tribunale, per cause estranee al servizio ed

alla disciplina militare ed al di fuori dell'attività di servizio.

Solo il primo di tali episodi si verificò alla presenza di altri

militari, peraltro non riuniti per servizio.

Pertanto, l'unico elemento che, nonostante l'estraneità delle

cause al servizio o alla disciplina, determina l'applicabilità dei

reati speciali in luogo dei corrispondenti reati comuni (percosse,

lesioni, ingiuria e minaccia tra militari: art. 222, 223, 226 e 229

c.p. mil. pace) è costituito dalla commissione dei fatti in luogo militare (caserma).

Benché il tribunale rimettente tenti di coinvolgere nell'impu

gnativa anche gli altri fattori che impediscano l'operatività della

circostanza delle «cause estranee», la questione è perciò rilevan

te solo in riferimento a quello dei «luoghi militari», ed in questi soli limiti va esaminata. Si tratta, cioè, di decidere se la com

missione di fatti coinvolgenti superiori ed inferiori in un luogo militare diverso dalle navi o aeromobili — cioè in «caserme»

«stabilimenti militari» o altri luoghi «dove i militari si trovano, ancorché momentaneamente, per ragioni di servizio»: art. 230, ultimo comma, c.p. mil. pace — possa ritenersi ragione suffi

ciente, pur in assenza di tutte le altre condizioni previste dalla

norma impugnata, a giustificare l'applicabilità della normativa

speciale contro la disciplina militare in luogo di quella comune

concernente i reati contro la persona tra militari.

2. - Nei suddetti limiti, la questione è fondata.

Nella disciplina dei reati di insubordinazione e abuso di auto

rità anteriore alla riforma del 1985, le «cause estranee al servi

zio ed alla disciplina militare» erano considerate come circo

stanze attenuanti. Più precisamente, per i reati di insubordina

zione con violenza, minaccia o ingiuria la diminuzione di pena

operava se il fatto risultava «commesso per cause estranee al

servizio e alla disciplina militare, fuori della presenza di militari

riuniti per servizio e da militare che non si trovi in servizio

0 a bordo di una nave militare o di un aeromobile militare»

(art. 188 e 192, abrogati dall'art. 7 1. n. 689 del 1985); per 1 reati di violenza, minaccia o ingiuria contro un inferiore, inve

ce, bastava ad integrare l'attenuante la loro commissione «per cause estranee al servizio e alla disciplina militare» (art. 197,

abrogato dal medesimo art. 7).

Il Foro Italiano — 1991.

La riforma ha dunque inciso in un duplice senso: da un lato,

trasformando le attenuanti in cause di esclusione dell'applicabi lità della normativa speciale, ed allineando in quella delimita

zione i reati di abuso di autorità e quelli di insubordinazione;

dall'altro, introducendo ex novo come elemento sufficiente al

l'integrazione di tali fattispecie — anziché di quelle comuni —

la commissione del fatto «in luoghi militari » diversi dalle navi

o aeromobili.

Questa considerazione della perpetrazione in luogo militare

come autonoma ragione di aggravamento della repressione dei

reati militari contro la persona determina un'evidente disarmo

nia nel sistema del codice penale militare di pace. L'art. 47 c.p.

mil. pace prevede infatti, ai nn. 3) e 4), come circostanze aggra

vanti comuni dei reati militari, la commissione del fatto «du

rante un servizio militare, ovvero a bordo di una nave militare

o di un aeromobile militare» ovvero «alla presenza di tre o più

militari o comunque in circostanze di luogo, per le quali possa

verificarsi pubblico scandalo». Sono quindi considerate aggra

vanti, nella sostanza, tutte quelle circostanze che, per il novella

to art. 199, rendono operativa la disciplina speciale pur se i

reati contro la persona traggono origine da cause estranee al

servizio ed alla disciplina militare, tranne, appunto, quella con

cernente la commissione del fatto in luogo militare (che nulla

ha a che vedere, evidentemente, con le «circostanze di luogo,

per le quali possa verificarsi pubblico scandalo»).

Ciò significa che al vincolo gerarchico nei luoghi militari co

muni (diversi, cioè, da quelli — particolarissimi sotto questo

profilo — costituiti da navi e aeromobili), il legislatore del 1985

ha inteso assegnare, pur quando si sia al di fuori dell'ambito

del servizio e della disciplina, quella particolare protezione che

sta a base dell'aggravamento delle pene (nell'art. 47) e dell'in

clusione nella più rigorosa normativa speciale (nell'art. 199).

3. - Per misurare la portata di questa scelta legislativa, è op

portuno ricordare quali siano le principali conseguenze che l'in

quadramento dei reati contro la persona in tale normativa com

porta, rispetto ai corrispondenti reati tra militari (art. 222-229

c.p. mil. pace) ed a quelli di diritto penale comune.

Innanzitutto, vengono ad essere parificati — in quanto ri

compresi nella nozione unitaria di «violenza» di cui all'art. 43

c.p. mil. pace — i fatti di percosse, lesioni lievissime e lesioni

lievi, che il diritto penale comune (ed anche quello speciale di

cui al capo III del titolo IV del codice penale militare di pace) considera in modo assai diverso sia sotto il profilo sanzionato

rio che sotto quello della procedibilità. A tali fatti, inoltre, ven

gono equiparati anche i «maltrattamenti», nei quali la giuris

prudenza tende a ricomprendere ogni offesa fisica alla persona che non giunga all'intensità della percossa, quali spinte, stratto

namenti e simili: sicché anche per questi, se commessi in luogo militare in danno del superiore o dell'inferiore, risulta applica bile la sanzione della reclusione militare da uno a tre anni (art. 186 e 195).

In secondo luogo, per i fatti di ingiuria e diffamazione viene

esclusa l'applicabilità delle cause di non punibilità della ritor

sione e della provocazione prevista dal diritto penale sia comu

ne (art. 599 c.p.) che militare (art. 228 c.p. mil. pace): sicché

la ritorsione non rileva, e la provocazione opera solo come atte

nuante (art. 198 c.p. mil. pace).

Percosse, lesioni lievissime e ingiurie sono, infine, soggette ad un regime di perseguibilità differenziato per il diritto penale sia comune (querela) che militare (richiesta del comandante: art.

260 c.p. mil. pace) mentre gli stessi fatti, se qualificati come

insubordinazione o abuso di autorità, sono in ogni caso perse

guibili d'ufficio. 4. - Con l'innovazione in discorso, quindi, il legislatore del

1985 ha operato un'estensione del criterio della «integralità» del

diritto penale militare, a scapito di quello della sua «comple mentarità» rispetto al diritto penale comune: criterio che si ca

ratterizza per l'adozione di principi pienamente autonomi ri

spetto a quest'ultimo e del quale questa corte — proprio a pro

posito dei reati contro la persona — ha ritenuto giustificata l'adozione solo per i reati «esclusivamente» o almeno «obietti

vamente» militari, cioè lesivi di valori militari meritevoli di par ticolare protezione (sentenza n. 213 del 1984, Foro it., 1984,

I, 2411). Più precisamente, l'incidenza del suddetto criterio è

stata ridotta escludendo l'applicabilità della disciplina speciale laddove prima era riconosciuta una semplice attenuante; ma ri

spetto al nuovo discrimine cosi definito tra reati comuni e spe

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

ciali il criterio ha avuto nuova espansione con la considerazione

del «luogo militare» come autonoma causa di applicabilità di

questi ultimi.

Mentre la prima innovazione è coerente alle esigenze di razio

nalizzazione e riforma in senso democratico del sistema penale

militare che questa corte ha additato in numerose sentenze an

teriori alla legge del 1985 (cfr. le sentenze nn. 26 del 1979, id.,

1979, I, 1345; 103 del 1982, id., 1982, I, 1795; 173 e 213 del

1984, id., 1984, I, 266 e 2411; 102 e 126 del 1985, id., 1985, I, 1914 e 1593) e di recente anche nella sentenza n. 278 del

1990 (§ 4) (id., 1990, I, 2121), non altrettanto può dirsi della

seconda.

L'adozione del criterio «integralistico» è certo giustificata —

come si è ribadito in quest'ultima decisione — quando si tratti

di tutelare l'irrinunciabile bene della disciplina militare, che com

porta che durante il servizio siano rigorosamente garantiti il ri

spetto del rapporto gerarchico intercorrente tra superiore ed in

feriore e l'osservanza da parte del primo dei doveri di compor tamento inerenti alla sua funzione.

Ciò però vale per quelle situazioni e rapporti la cui connota

zione «obiettivamente» militare faccia venire in gioco il bene

della disciplina e quindi la rilevanza del rapporto gerarchico. Nella fattispecie qui considerata, invece, tale obiettività man

ca, o è perlomeno assai evanescente. Si presuppone, invero, da

un lato, che il fatto, o i fatti, siano commessi per cause del

tutto estranee al servizio od alla disciplina militare, che cioè

tra di esse — come opportunamente precisa il giudice a quo — non ve ne sia alcuna attinente al servizio od alla disciplina;

dall'altro, che l'agente non si trovi in servizio né alla presenza

di militari riuniti per servizio. Si presuppone altresì — implici

tamente — che neanche la persona offesa sia in servizio, giac

ché altrimenti il rapporto gerarchico-disciplinare sarebbe attua

le ed il suo svolgimento andrebbe quindi ricompreso tra le cir

costanze antecedenti al fatto-reato, si da integrare la causa

attinente al servizio od alla disciplina. In siffatte condizioni — come la corte ha già implicitamente

rilevato nella sentenza n. 278 del 1990 (§ 4) — il reato risulta

collegato in modo del tutto estrinseco all'area degli interessi mi

litari attinenti alla tutela del servizio e della disciplina, giacché

l'unico elemento di collegamento è dato dalla sua commissione

in luogo militare.

Nel necessario bilanciamento tra le esigenze di coesione dei

corpi militari e quelle di tutela dei diritti individuali che sono

postulate dallo spirito democratico cui va informato l'ordina

mento delle forze armate (art. 52, 3° comma, Cost.: cfr. sen

tenza n. 126 del 1985), la considerazione di quell'unico elemen

to di collegamento trasmoda in eccesso di tutela delle prime.

Ne risulta infatti violato, senza sufficienti ragioni, il principio

di pari dignità che deve presiedere alla regolamentazione dei

rapporti tra militari che si svolgono al di fuori del servizio ed

in ambito privato (cfr. l'art. 4, 3° comma, 1. 11 luglio 1978

n. 382, contenente le «norme di principio sulla disciplina mi

litare»). Nelle dette condizioni, inoltre, le pesanti deroghe al principio

di proporzione tra fatto e pena (cfr. sentenze nn. 26 del 1979

e 103 del 1982), che l'applicazione della disciplina speciale com

porta (cfr. supra, § 3), non possono dirsi assistite da adeguate

ragioni giustificative, ed urtano perciò contro il principio di ugua

glianza. Né può dirsi che le esigenze della disciplina restano prive di

tutela, perché ai fatti cosi espunti dalla disciplina speciale resta

no pur sempre applicabili, oltre alle sanzioni disciplinari, quelle

previste dagli articoli da 222 a 229 c.p. mil. pace.

Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara l'illegitti

mità costituzionale dell'art. 199 c.p. mil. pace, limitatamente

alle parole: «o in luoghi militari».

Il Foro Italiano — 1991.

CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 10 gennaio 1991, n. 4

0Gazzetta ufficiale, la serie speciale, 16 gennaio 1991, n. 3); Pres. Conso, Est. Cheli; Commissario dello Stato per la re

gione siciliana (Avv. dello Stato La Porta) c. Regione Sicilia

(Avv. De Fina).

Sicilia — Istituzione di una commissione d'inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia nella regione — Questione infonda

ta di costituzionalità (Cost., art. 97; statuto della regione sici

liana, art. 14, 17; 1. 23 marzo 1988 n. 94, istituzione di una

commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della ma

fia e sulle altre associazioni criminali similari).

È infondata la questione di legittimità costituzionale degli art.

3, lett. c, 6, 1° comma, lett. b, e 3° comma, 8, 9 I. reg. sic. approvata il 28 luglio 1990 e dell'intera legge che ha isti

tuito una commissione parlamentare d'inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia in Sicilia, in riferimento agli art.

97 Cost, e 14, 17 statuto della regione siciliana. (1)

Diritto. — 1. - Forma oggetto di impugnativa la legge regio nale approvata dall'assemblea siciliana il 28 luglio 1990 e recan

te «istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta e

vigilanza sul fenomeno della mafia in Sicilia».

Ad avviso del commissario dello Stato per la regione siciliana

tale legge risulterebbe incostituzionale: a) nel suo complesso,

per violazione degli art. 14 e 17 dello statuto speciale, avendo

istituito una commissione d'inchiesta su un oggetto — la pre

venzione e la lotta contro la mafia — esorbitante dalle materie

di competenza regionale e dalle finalità proprie della regione;

b) con riferimento a talune norme particolari (art. 3, lett. c,

1° comma, 6, 1° comma, lett. b e 3° comma, 8 e 9), che avreb

bero conferito alla stessa commissione — in violazione anche

dell'art. 97 Cost, e dei limiti posti dal vigente codice di proce

dura penale — specifici poteri d'indagine estranei alle compe

tenze regionali e spettanti in via esclusiva ad organi dello Stato

(alla commissione parlamentare nazionale sulla màfia, istituita

con la 1. 23 marzo 1988 n. 94; agli organi di polizia; alla giuris

dizione penale).

(1) La corte ha precisato che il potere di inchiesta regionale non può

qualificarsi come una «materia» da ritenere attribuita allo Stato o alla

regione, bensì come una funzione strumentale al compimento di atti

da parte dell'organo deliberativo della regione ed ha concluso che, nella

specie, i poteri d'indagine potevano ricollegarsi ad un'attività futura

della regione su materie o funzioni ad essa spettanti. La corte ha inoltre

escluso che alla commissione istituita dalla regione siciliana possa rico

noscersi un potere di carattere giurisdizionale, quale quello proprio del

le commissioni parlamentari d'inchiesta costituite ai sensi dell'art. 82 Cost.

La corte ha avuto occasione di occuparsi precedentemente del potere di inchiesta regionale in due occasioni: con la sent. 28 aprile 1966, n.

29 (Foro it., 1966, I, 947, commentata da Traversa, in Giur. costit.,

1966, 298), ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità della

1. reg. Sardegna approvata il 15 gennaio 1964, relativa all'istituzione

di una commissione consiliare d'inchiesta per svolgere un controllo in

ordine all'utilizzazione dei mezzi, dei fondi e del personale a disposizio ne della giunta regionale nel corso delle elezioni del quarto consiglio

regionale della Sardegna, mentre con la sent. 17 febbraio 1969, n. 19

(Foro it., 1969, I, 816, commentata da Pace, in Giur. it., 1969, IV,

187) ha ritenuto non spettante al consiglio regionale sardo la nomina

di una commissione d'indagine sull'ente statale Etfas.

Sui limiti alla competenza legislativa della regione Sicilia ed in parti colare per l'incompetenza della stessa a legiferare in materia penale,

v., da ultimo, Corte cost. 25 ottobre 1989, n. 487, Foro it., 1990, I,

26, con nota di richiami e osservazioni di Fiandaca.

Per l'incompetenza della regione a dettare norme legislative in mate

ria di ordinamento giudiziario, v., da ultimo, Corte cost. 19 ottobre

1988, n. 976, ibid., 350, con nota di richiami.

Sul potere d'inchiesta da parte delle regioni, in dottrina, v. in parti

colare Biagi Guerini, Considerazioni sulle commissioni regionali di in

chiesta, in Le inchieste delle assemblee parlamentari a cura di De Ver

gottini, Rimini, 1985, 287 ss. ed autori ivi citati. Nello stesso volume,

v. Pegoraro, La parabola delle «hearings» regionali: dalla partecipa

zione al «lobbyng», 268 ss. Sul tema, v. pure Paladin, Diritto regiona

le, Padova, 19793, 320 ss.; Martines-Ruggeri, Lineamenti di diritto

regionale*, Milano, 1987, 61; Bartole, Mastragostino, Vandelli, Le

autonomie territoriali, Bologna, 1988, 75.

Sull'attività della commissione parlamentare sulla mafia istituita con

1. 94/88, v. Cutellé, in Nuova rass., 1989, 846.

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