sentenza 24 gennaio 1991, n. 22 (Gazzetta ufficiale, 1 a serie speciale, 30 gennaio 1981, n. 5);Pres. Conso, Est. Spagnoli; imp. Lazzaron e altro; interv. Pres. cons. ministri. Ord. Trib. mil.Padova 19 giugno 1990 e 11 luglio 1990 (G.U., 1 a s.s., n. 39 del 1990)Source: Il Foro Italiano, Vol. 114, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1991), pp. 699/700-705/706Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23185317 .
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PARTE PRIMA
tettive previste dalla legge, è il divieto di licenziamento previsto — tranne per i casi tassativamente elencati — dall'art. 2, come
dimostra il fatto che tale divieto è penalmente sanzionato dal
l'art. 31 della medesima legge. Ed infatti, in mancanza di tale
divieto, non soltanto il datore di lavoro potrebbe liberarsi, li
cenziando la lavoratrice, degli oneri che la normativa di tutela
pone a suo carico, ma la lavoratrice stessa potrebbe esser indot
ta, dal timore del licenziamento, a rinunziare ad avvalersi delle
misure di tutela per lei predisposte ed in particolare di quelle che la legge rimette alla sua libertà di scelta (e, ancor prima,
potrebbe essere indotta a rinunziare alla stessa maternità). È pur vero che, terminato il periodo previsto dall'art. 2, il
datore riacquista comunque il potere di recedere dal rapporto nei casi e alle condizioni previste dalla legge; ma, una volta
che il rapporto di lavoro è rientrato nei binari della normalità,
è ben più difficile che si verifichi l'ipotesi — ed è quindi più difficile che vi sia il fondato e condizionante timore — di un
licenziamento determinato dagli inconvenienti che le misure di
garanzia previste dalla 1. n. 1204 hanno comportato per il dato
re di lavoro in una fase del rapporto ormai pregressa. 4. - Un divieto che comporti un mero differimento dell'effi
cacia del licenziamento anziché la nullità radicale di esso rap
presenta però una misura di tutela insufficiente rispetto alle di
rettive dell'art. 37 Cost, anche sotto un altro profilo. La protezione cui fa riferimento la norma costituzionale, in
fatti, non si limita alla salute fisica della donna e del bambino, ma investe tutto il complesso rapporto che, nel detto periodo, si svolge tra madre e figlio; il quale rapporto — come ha affer
mato questa corte — deve essere protetto non solo per ciò che
attiene ai bisogni più propriamente biologici, ma anche in rife
rimento alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo che
sono collegate allo sviluppo della personalità del bambino (sen tenze nn. 1 del 1987, id., 1987, I, 313 e 332 del 1988, id., 1988,
I, 642). Nel contempo, il principio posto dall'art. 37 — collega to al principio di uguaglianza — impone alla legge di impedire che possano, dalla maternità e dagli impegni connessi alla cura
del bambino, derivare conseguenze negative e discriminatorie.
Entrambe queste esigenze impongono, per lo stato di gravi danza e puerperio, di adottare misure legislative dirette non sol
tanto alla conservazione dell'impiego, ma anche ad evitare che
nel relativo periodo di tempo intervengano, in relazione al rap
porto di lavoro, comportamenti che possano turbare ingiustifi catamente la condizione della donna ed alterare il suo equilibrio
psico-fisico, con serie ripercussioni sulla gestazione o, successi
vamente, sullo sviluppo del bambino. Al fine di assicurare una
effettiva tutela a tali interessi invero la sola conservazione tem
poranea del rapporto, pur rimanendo essenziale, non è tuttavia
sufficiente. Non vi è dubbio, infatti, che l'intimazione del licen
ziamento fuori dai casi espressamente previsti, soprattutto nella
particolare condizione in cui si trova la donna nel periodo di
gravidanza ed in quello di puerperio, è causa di grave turba
mento, anche se gli effetti del recesso non sono immediati ma
differiti. Questa sorta di licenziamento annunciato, infatti, pro
spetta alla lavoratrice la certezza del venir meno, a breve termi
ne, di un reddito personale che può anche essere l'unico non
solo per la stessa donna, ma anche per il suo nucleo familiare, o che può costituire comunque una quota essenziale del reddito
familiare complessivo; e ciò proprio in un momento in cui le
esigenze connesse alla nascita del figlio impongono nuovi oneri.
E comporta la necessità di reperire tempestivamente altre fonti
di reddito e di riorganizzare in conseguenza la propria esistenza
e quella della propria famiglia: il che non può non interferire
in modo pesantemente negativo sulle condizioni della donna e
sul suo rapporto con il figlio e quindi sulla salute e sulla forma
zione della personalità di quest'ultimo. È inoltre appena il caso
di sottolineare quanto difficile si presenti — in una situazione
ormai cronicamente distante dal pieno impiego — una prospet tiva di occupazione per le donne con prole in tenera età, spesso
colpite da una sostanziale discriminazione.
Né la gravità di una simile turbativa può considerarsi rimossa
o anche significativamente attenuata dalle norme, pure di re
cente introduzione, che delimitano o regolano in varia misura
il potere di recesso del datore di lavoro. In primo luogo, infatti, si tratta di discipline che non hanno specifico riguardo alle esi
genze di tutela differenziata imposte dall'art. 37 — ma anche
dall'art. 31 — con riferimento alla condizione della donna e
alla maternità. In secondo luogo, per gran parte delle situazioni
Il Foro Italiano — 1991.
di prevalente impiego femminile la tutela è soltanto obbligato ria e ridotta ad un compenso risarcitorio assai limitato.
5. - Se queste sono le esigenze ed i principi di rango costitu
zionale sottesi al divieto di licenziamento della lavoratrice nel
periodo di gravidanza e puerperio, ne deriva essere essenziale
che tale divieto sia assistito da quelle misure idonee ad impedire che l'atto vietato sia ugualmente compiuto e sia ugualmente con
veniente per chi lo compie. Ciò dà ragione della sanzione pena le prevista dall'art. 31; ma ciò soprattutto richiede, sul piano
civile, che, se il licenziamento vietato viene ugualmente dispo
sto, l'ordinamento giuridico, di cui esso costituisce una viola
zione, non lo recepisca in alcuna misura e cioè lo consideri to
talmente improduttivo di effetti, come del resto è disposto per
l'ipotesi, per certi aspetti analoga, del licenziamento per causa
di matrimonio, di cui alla 1. 9 gennaio 1963 n. 7, che peraltro è anche funzionalmente connessa alle concrete esigenze di tutela
della maternità, come mise in rilievo questa corte con la senten
za n. 27 del 1969 (id., 1969, I, 545). Né, d'altra pare, potrebbe opporsi che la nullità eccederebbe
gli scopi della tutela in quanto non sarebbe limitabile solo a
tale periodo, ed occorrerebbe, per procedere ad un successivo
recesso, la sussistenza di una nuova causa giustificatrice. Alle
considerazioni già svolte circa l'individuazione degli scopi di tu
tela che vengono qui in considerazione, deve essere aggiunto il rilievo che, terminato il periodo protetto, il datore di lavoro
riacquista l'integrità del suo potere di recesso, nel rispetto dei
limiti previsti dalla legge e delle regole da essa imposte, Il che
certamente potrà richiedere — se tale è la normativa applicabile nella fattispecie concreta — la sussistenza di una causa giustifi
catrice, ma nulla esige che la stessa sia nuova, essendo invece
necessario soltanto — come del resto è logico — che essa sussi
sta (ancora) al momento in cui il licenziamento viene legittima mente intimato.
6. - Infjjge, resta da precisare che il rafforzamento della tutela
conseguente alla presente pronunzia è anche uno strumento ne
cessario per evitare che la maternità si traduca in concreto in
un impedimento alla realizzazione dell'effettiva parità di diritti
della donna lavoratrice. Ciò è in piena sintonia con lo stesso
art. 37 Cost., che, letto in connessione con l'art. 3, 2° comma,
impone di accordare alla donna le misure speciali e più energi che di protezione necessarie a rimuuovere le gravi discrimina
zioni che in fatto la colpiscono in relazione ai compiti connessi
con la maternità e la cura dei figli e della famiglia, dal cui
assolvimento, peraltro, trae vantaggio l'intera comunità.
Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara la illegitti mità costituzionale dell'art. 2 1. 30 dicembre 1971 n. 1204 (tute la delle lavoratrici madri), nella parte in cui prevede la tempo ranea inefficacia anziché la nullità del licenziamento intimato
alla donna lavoratrice nel periodo di gestazione e di puerperio indicato nel predetto articolo.
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 24 gennaio 1991, n. 22
(Gazzetta ufficiale, la serie speciale, 30 gennaio 1981, n. 5); Pres. Conso, Est. Spagnoli; imp. Lazzaron e altro; interv.
Pres. cons, ministri. Ord. Trìb. mil. Padova 19 giugno 1990
e 11 luglio 1990 (G.U., la s.s., n. 39 del 1990).
Insubordinazione, rivolta, ammutinamento e disobbedienza —
Reati di insubordinazione e abuso di autorità — Reato com
messo soltanto in luogo militare — Incostituzionalità (Cost., art. 3, 52; cod. pen. mil. pace, art. 199).
È illegittimo, per violazione degli art. 3 e 52, 3° comma, Cost., l'art. 199 c. p. mil. pace, nella parte in cui rende applicabili le norme relative all'insubordinazione e all'abuso di autorità
sulla base della sola circostanza che i fatti siano stati com
messi in luogo militare. (1)
(1) La sentenza che si riporta tende, in modo evidente e dichiarato, a restringere le ipotesi di insubordinazione e abuso di autorità, che ave vano subito un primo giro di vite con la 1. 26 novembre 1985 n. 689
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Fatto. — 1. - A seguito di un diverbio, originato da futili moti
vi, verificatosi all'interno della caserma della brigata meccaniz
zata Vittorio Veneto in Trieste tra un caporale ed un soldato, si procedeva nei confronti del primo per il reato di ingiuria ad
un inferiore (art. 196, 2° comma, c.p. mil. pace) e nei confronti
del secondo per i reati di insubordinazione con violenza, con
minaccia e con ingiuria (art. 186, 1° comma, e 189, 1° e 2°
comma, c.p. mil. pace). In esito all'istruttoria dibattimentale, il Tribunale militare di
Padova, premesso che i fatti traggono origine da un sopruso del superiore nei confronti dell'inferiore, ha sollevato in riferi
mento agli art. 3 e 52, ultimo comma, Cost., una questione di legittimità costituzionale dell'art. 199 c.p. mil. pace, nel testo
(sulla quale cfr. R. Messina, Il nuovo regime dei reati di insubordina zione e abuso di autorità, in Foro it., 1986, V, 75). A ciò si perviene attraverso un ritocco dell'art. 199 c.p. mil. pace, dal quale vengono espunte le parole finali «o in luoghi militari».
L'inciso in cui esse erano contenute poteva — e può — essere letto in due modi: le parole «in servizio o a bordo» esprimono una richiesta
cumulativa, nel senso che il militare deve trovarsi, oltre che a bordo di una nave o di un aeromobile, anche in servizio; le medesime parole esprimono, invece, una richiesta alternativa, nel senso che il militare deve essere in servizio sempre che non si trovi a bordo, nel quale ultimo caso l'attività di servizio risulta indifferente.
La prima lettura sembra impedita dall'avversativa «o»: se la mens
legis fosse stata per la richiesta cumulativa, la particella non avrebbe dovuto figurare. Di ciò ha dato atto la corte quando ha osservato che «in entrambi i casi oggetto dei due giudizi a quibus, i reati ... avvenne ro ... per cause estranee al servizio ed alla disciplina militare ed al di fuori dell'attività di servizio ... Pertanto, l'unico elemento che ... deter mina l'applicabilità dei reati speciali ... è costituito dalla commissione dei fatti in luogo militare» e ancora precisando che la riforma dell'85 ha inciso sul sistema, tra l'altro, «introducendo ex novo, come elemen to sufficiente all'integrazione di tali fattispecie ... la commissione del fatto in 'luoghi militari' diversi dalle navi e aeromobili». D'altra parte, se la corte avesse aderito all'accezione cumulativa, avrebbe dovuto di chiarare inammissibile la questione, dato che nella specie l'unico ele mento rilevabile, tra quelli elencati dall'art. 199, era il luogo militare.
L'accoglimento della tesi alternativa porta a concludere che si ha,
oggi, insubordinazione o abuso di autorità quando il soggetto attivo si trovi: a) in servizio; b) a bordo di una nave militare; c) a bordo di un aeromobile militare.
Per b) e c) non importa che il militare agente sia in servizio; ma
per a) non importa il luogo in cui il reato è commesso (ubi lex non
distingui ...). Se ne deduce che, mentre sino a ieri era possibile punire per insubordinazione, ad esempio, il soldato libero dal servizio che avesse
ingiuriato un superiore all'interno di una caserma, dopo la sentenza della corte tale operazione rimane vietata; ma residua la possibilità di
punire al medesimo titolo il soldato in servizio (es., portalettere) che offenda il superiore nella pubblica via.
Di tutto questo non può che prendersi atto. Ma si deve sottolineare decisamente il pericolo che in futuro si allarghi il settore di svalutazione del luogo militare, elemento già oggi definito dalla sentenza «del tutto estrinseco all'area degli interessi militari attinenti alla tutela del servizio
e della disciplina». Una simile' affermazione è da prendere con la massima cautela. Se
è vero che la protezione del servizio e della disciplina si ricava non dai connotati estrinseci della condotta (tra i quali rientra certamente il luogo della condotta medesima), ma da implicazioni inerenti al piano dell'offesa (per tutti, Violante, La giustizia militare, in Istituzioni mili
tari e ordinamento costituzionale, Roma, 1974, 147), è da osservare
che, in casi analoghi a quelli di specie, alla militarità del luogo si ag
giungono quelle del soggetto attivo e del soggetto passivo. Ora, se cia
scuno di tali elementi può non essere considerato in grado, da solo, di funzionare come punto di riferimento della particolare natura dell'il
lecito, la somma di quegli stessi elementi rappresenta qualcosa di più di una semplice operazione aritmetica (quindi puramente quantitativa):
posto, infatti, che la natura di un illecito non può non desumersi dalla
sua struttura lessicale (altrimenti qualsiasi speculazione dogmatica sa
rebbe priva di un concreto aggancio positivo), la richiesta legislativa dei tre elementi depone senza dubbio per un orientamento ben più ,'so
stanzialistico' (offesa del servizio e/o della disciplina) di quello seguito dalla sentenza della corte (su ciò cfr. R. Messina, Un nuovo 'polmone'
per la giustizia militare? Spunti«de lege ferendo» sull'art. 264 c.p. mil.
pace, in Rass. giust. mil., Quaderni, 1986, 2, 279 ss.); perseverandosi nel quale dovremmo aspettarci da un momento all'altro, ad esempio, la 'smilitarizzazione' dell'art. 230 c.p. mil. pace, norma che, nel preve dere il furto militare, lo differenzia dal furto comune avendo riguardo, appunto, alla qualità militare dell'agente, del danneggiato e del luogo della condotta (sembra dimostrabile, invece, che anche il furto militare
risulta offensivo del servizio e della disciplina: cfr. R. Messina, Il reato
esclusivamente militare, in Rass. giust. mil., 1979, 264).
Il Foro Italiano — 1991.
sostituito con l'art. 9 1. 26 novembre 1985 n. 689, a termini
del quale le disposizioni dei capi III (pene per l'insubordinazio
ne) e IV (pene per l'abuso di autorità) dello stesso codice «non
si applicano quando alcuno dei fatti da esse preveduto è com
messo per cause estranee al servizio e alla disciplina militare, fuori dalla presenza di militari riuniti per servizio e da militare
che non si trovi in servizio a bordo di una nave militare o di
un aeromobile militare o in luoghi militari».
Nel caso di specie, osserva il tribunale, sono applicabili le
norme incriminatrici speciali concernenti l'insubordinazione e
l'abuso di autorità, anziché quelle comuni di cui agli articoli
da 222 a 229 c.p. mil. pace, solo perché trattasi di fatti com
messi in luogo militare, ancorché essi siano da ricondurre a cause
estranee al servizio ed alla disciplina militare: ed a ciò conse
guono differenze rilevanti di disciplina in tema di trattamento
sanzionatorio — più severo per i reati speciali — di circostanze
aggravanti ed attenuanti, di procedibilità e soprattutto di appli cabilità delle cause di non punibilità della provocazione e della
ritorsione, i cui estremi sussisterebbero nel caso di specie se i
fatti fossero configurabili come realti comuni.
Il tribunale ricorda poi che questa corte, nella sentenza n.
278 del 1990, ha bensì escluso che l'inapplicabilità della causa
di non punibilità della provocazione ai reati di insubordinazio
ne con ingiuria e di ingiuria ad un inferiore ledesse il principio di uguaglianza; ma ha anche ipotizzato che la questione potesse «essere utilmente riproposta» «argomentando ex art. 199» c.p. mil. pace.
Ciò premesso, il giudice a quo osserva che il requisito dell'e
straneità della causa si realizza solo quando, in presenza di una
pluralità di cause, non ve ne sia alcuna «intranea», espressione,
cioè, di una specifica relazione tra superiore ed inferiore che
sia tipica del servizio o della disciplina militare. Con tale requi
sito, l'estensione delle norme incriminatrici speciali risulta coe
rente con l'oggetto della tutela. Sarebbero invece insignificanti,
rispetto a detto oggetto (servizio e disciplina militare), gli ulte
riori requisiti che la norma impugnata pone sullo stesso piano del primo. La presenza di militari riuniti in servizio, o la com
missione del fatto ad opera di militare in servizio, o a bordo
di navi o aeromobili, o in altri luoghi militari non sarebbero
infatti circostanze idonee a controbilanciare l'assenza della spe cifica lesività derivante dall'estraneità della causa al servizio ed
alla disciplina militare. Ed il considerare ciascuna di esse di per sé sufficiente a rendere applicabile la normativa speciale costi
tuirebbe una forma di tutela anticipata, basata su presunzioni
astratte, che violerebbe il principio di uguaglianza perché com
porta una pari regolamentazione dei fatti commessi in tali con
dizioni con quelli dovuti a cause «intranee», mentre essi do
vrebbero essere fatti rientrare nella disciplina comune di cui agli art. 222-229 c.p. mil. pace.
Secondo il tribunale rimettente, sarebbe violato anche l'art.
52, ultimo comma, Cost., dato che «il legittimare la condanna
della vittima che solo con l'ingiuria ha reagito nei confronti
del superiore o inferiore violento» contrasterebbe con l'esigenza di rispettare i diritti della persona.
Ma, a ben guardare, la sentenza svela un'intima contraddizione: di
ce, infatti, che l'adozione del criterio 'integralistico' è certo giustificata «quando si tratti di tutelare l'irrinunciabile bene della disciplina milita
re», e tuttavia aggiunge che tale evenienza ricorre solo in «quelle situa
zioni e rapporti la cui connotazione 'obiettivamente' militare faccia ve
nire in gioco il bene della disciplina e quindi la rilevanza del rapporto
gerarchico». Se si aggiunge che, poco prima, la sentenza giustifica l'a
dozione di principi autonomi (rispetto al diritto penale comune) «solo
per i reati 'esclusivamente' o almeno 'obiettivamente' militari, cioè lesi
vi di valori militari meritevoli di particolare protezione», ci si trova
di fronte ad un quadro davvero desolante: sembra proprio che, al di
là della distinzione tra reati esclusivamente e obiettivamente militari, la corte si riferisca a un tertium genus, in cui sarebbero collocabili non
si sa bene quali altri speciali illeciti; «altri» perché l'art. 37 c.p. mil.
pace semplicemente non conosce categorie diverse dal reato esclusiva
mente militare; e la nozione di reato obiettivamente militare è stata
ricavata per contrasto (cfr. Messina, op. ult. cit., passim). Tertium non
datur; o meglio, ogni tertium è reato perfettamente comune.
Possibile che la corte non lo sappia? No, risponderanno in coro i
miei cinque lettori. Ma allora perché questa inopinata sortita dogmati
ca, che per l'ennesima volta giova non a chiarire le cose, ma semmai
a confonderle? [R. Messina].
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PARTE PRIMA
1.1. - Una questione identica è stata sollevata dallo stesso
Tribunale militare di Padova con altra ordinanza dell' 11 luglio
1990, emessa in un procedimento per fatti analoghi. (Omissis)
Diritto. — 1. - Nell'ambito del titolo III, dedicato ai «reati
contro la disciplina militare», il codice penale militare di pace
prevede: al capo III, i reati di «insubordinazione», specificati come insubordinazione con violenza (art. 186) e con minaccia
o ingiuria (art. 189); al capo IV, i reati di «abuso di autorità»,
specificati come violenza (art. 195) ovvero minaccia o ingiuria
(art. 196) contro un inferiore.
Sotto la rubrica «Cause estranee al servizio o alla disciplina
militare», il successivo art. 199 (capo V), nel testo introdotto
con l'art. 9 1. 26 novembre 1985 n. 689 (modifiche al codice
penale militare di pace), prevede che «le disposizioni dei capi
terzo e quarto non si applicano quando alcuno dei fatti da esse
preveduto è commesso per cause estranee al servizio ed alla di
sciplina militare, fuori dalla presenza di militari riuniti per ser
vizio e da militare che non si trovi in servizio o a bordo di
una nave militare o di un aeromobile militare o in luoghi mi
litari». Il Tribunale militare di Padova impugna tale disposizione in
quanto rende applicabili le disposizioni penali sull'insubordina
zione e sull'abuso di autorità ai fatti commessi per cause estra
nee al servizio e alla disciplina militare, solo perché perpetrati da militari in servizio o in presenza di militari riuniti per servi
zio, o a bordo di navi o aeromobili militari, ovvero in altri
luoghi militari.
In tal modo sarebbero violati, a suo avviso, gli art. 3 e 52,
ultimo comma, Cost., dato che tali elementi sarebbero privi di
rilievo rispetto alla disciplina militare, oggetto della tutela, e
comporterebbero un'arbitraria parificazione ai fatti commessi
per cause attinenti al servizio e alla disciplina militare — anzi
ché ai corrispondenti reati comuni di cui agli art. 222-229 c.p.
mil. pace — determinando altresì la violazione delle esigenze di rispetto della persona.
In entrambi i casi oggetto dei due giudizi a quibus, i reati
di abuso di autorità ed insubordinazione — contestati, rispetti
vamente, ad un caporale ed un soldato — avvennero, secondo
la ricostruzione del tribunale, per cause estranee al servizio ed
alla disciplina militare ed al di fuori dell'attività di servizio.
Solo il primo di tali episodi si verificò alla presenza di altri
militari, peraltro non riuniti per servizio.
Pertanto, l'unico elemento che, nonostante l'estraneità delle
cause al servizio o alla disciplina, determina l'applicabilità dei
reati speciali in luogo dei corrispondenti reati comuni (percosse,
lesioni, ingiuria e minaccia tra militari: art. 222, 223, 226 e 229
c.p. mil. pace) è costituito dalla commissione dei fatti in luogo militare (caserma).
Benché il tribunale rimettente tenti di coinvolgere nell'impu
gnativa anche gli altri fattori che impediscano l'operatività della
circostanza delle «cause estranee», la questione è perciò rilevan
te solo in riferimento a quello dei «luoghi militari», ed in questi soli limiti va esaminata. Si tratta, cioè, di decidere se la com
missione di fatti coinvolgenti superiori ed inferiori in un luogo militare diverso dalle navi o aeromobili — cioè in «caserme»
«stabilimenti militari» o altri luoghi «dove i militari si trovano, ancorché momentaneamente, per ragioni di servizio»: art. 230, ultimo comma, c.p. mil. pace — possa ritenersi ragione suffi
ciente, pur in assenza di tutte le altre condizioni previste dalla
norma impugnata, a giustificare l'applicabilità della normativa
speciale contro la disciplina militare in luogo di quella comune
concernente i reati contro la persona tra militari.
2. - Nei suddetti limiti, la questione è fondata.
Nella disciplina dei reati di insubordinazione e abuso di auto
rità anteriore alla riforma del 1985, le «cause estranee al servi
zio ed alla disciplina militare» erano considerate come circo
stanze attenuanti. Più precisamente, per i reati di insubordina
zione con violenza, minaccia o ingiuria la diminuzione di pena
operava se il fatto risultava «commesso per cause estranee al
servizio e alla disciplina militare, fuori della presenza di militari
riuniti per servizio e da militare che non si trovi in servizio
0 a bordo di una nave militare o di un aeromobile militare»
(art. 188 e 192, abrogati dall'art. 7 1. n. 689 del 1985); per 1 reati di violenza, minaccia o ingiuria contro un inferiore, inve
ce, bastava ad integrare l'attenuante la loro commissione «per cause estranee al servizio e alla disciplina militare» (art. 197,
abrogato dal medesimo art. 7).
Il Foro Italiano — 1991.
La riforma ha dunque inciso in un duplice senso: da un lato,
trasformando le attenuanti in cause di esclusione dell'applicabi lità della normativa speciale, ed allineando in quella delimita
zione i reati di abuso di autorità e quelli di insubordinazione;
dall'altro, introducendo ex novo come elemento sufficiente al
l'integrazione di tali fattispecie — anziché di quelle comuni —
la commissione del fatto «in luoghi militari » diversi dalle navi
o aeromobili.
Questa considerazione della perpetrazione in luogo militare
come autonoma ragione di aggravamento della repressione dei
reati militari contro la persona determina un'evidente disarmo
nia nel sistema del codice penale militare di pace. L'art. 47 c.p.
mil. pace prevede infatti, ai nn. 3) e 4), come circostanze aggra
vanti comuni dei reati militari, la commissione del fatto «du
rante un servizio militare, ovvero a bordo di una nave militare
o di un aeromobile militare» ovvero «alla presenza di tre o più
militari o comunque in circostanze di luogo, per le quali possa
verificarsi pubblico scandalo». Sono quindi considerate aggra
vanti, nella sostanza, tutte quelle circostanze che, per il novella
to art. 199, rendono operativa la disciplina speciale pur se i
reati contro la persona traggono origine da cause estranee al
servizio ed alla disciplina militare, tranne, appunto, quella con
cernente la commissione del fatto in luogo militare (che nulla
ha a che vedere, evidentemente, con le «circostanze di luogo,
per le quali possa verificarsi pubblico scandalo»).
Ciò significa che al vincolo gerarchico nei luoghi militari co
muni (diversi, cioè, da quelli — particolarissimi sotto questo
profilo — costituiti da navi e aeromobili), il legislatore del 1985
ha inteso assegnare, pur quando si sia al di fuori dell'ambito
del servizio e della disciplina, quella particolare protezione che
sta a base dell'aggravamento delle pene (nell'art. 47) e dell'in
clusione nella più rigorosa normativa speciale (nell'art. 199).
3. - Per misurare la portata di questa scelta legislativa, è op
portuno ricordare quali siano le principali conseguenze che l'in
quadramento dei reati contro la persona in tale normativa com
porta, rispetto ai corrispondenti reati tra militari (art. 222-229
c.p. mil. pace) ed a quelli di diritto penale comune.
Innanzitutto, vengono ad essere parificati — in quanto ri
compresi nella nozione unitaria di «violenza» di cui all'art. 43
c.p. mil. pace — i fatti di percosse, lesioni lievissime e lesioni
lievi, che il diritto penale comune (ed anche quello speciale di
cui al capo III del titolo IV del codice penale militare di pace) considera in modo assai diverso sia sotto il profilo sanzionato
rio che sotto quello della procedibilità. A tali fatti, inoltre, ven
gono equiparati anche i «maltrattamenti», nei quali la giuris
prudenza tende a ricomprendere ogni offesa fisica alla persona che non giunga all'intensità della percossa, quali spinte, stratto
namenti e simili: sicché anche per questi, se commessi in luogo militare in danno del superiore o dell'inferiore, risulta applica bile la sanzione della reclusione militare da uno a tre anni (art. 186 e 195).
In secondo luogo, per i fatti di ingiuria e diffamazione viene
esclusa l'applicabilità delle cause di non punibilità della ritor
sione e della provocazione prevista dal diritto penale sia comu
ne (art. 599 c.p.) che militare (art. 228 c.p. mil. pace): sicché
la ritorsione non rileva, e la provocazione opera solo come atte
nuante (art. 198 c.p. mil. pace).
Percosse, lesioni lievissime e ingiurie sono, infine, soggette ad un regime di perseguibilità differenziato per il diritto penale sia comune (querela) che militare (richiesta del comandante: art.
260 c.p. mil. pace) mentre gli stessi fatti, se qualificati come
insubordinazione o abuso di autorità, sono in ogni caso perse
guibili d'ufficio. 4. - Con l'innovazione in discorso, quindi, il legislatore del
1985 ha operato un'estensione del criterio della «integralità» del
diritto penale militare, a scapito di quello della sua «comple mentarità» rispetto al diritto penale comune: criterio che si ca
ratterizza per l'adozione di principi pienamente autonomi ri
spetto a quest'ultimo e del quale questa corte — proprio a pro
posito dei reati contro la persona — ha ritenuto giustificata l'adozione solo per i reati «esclusivamente» o almeno «obietti
vamente» militari, cioè lesivi di valori militari meritevoli di par ticolare protezione (sentenza n. 213 del 1984, Foro it., 1984,
I, 2411). Più precisamente, l'incidenza del suddetto criterio è
stata ridotta escludendo l'applicabilità della disciplina speciale laddove prima era riconosciuta una semplice attenuante; ma ri
spetto al nuovo discrimine cosi definito tra reati comuni e spe
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
ciali il criterio ha avuto nuova espansione con la considerazione
del «luogo militare» come autonoma causa di applicabilità di
questi ultimi.
Mentre la prima innovazione è coerente alle esigenze di razio
nalizzazione e riforma in senso democratico del sistema penale
militare che questa corte ha additato in numerose sentenze an
teriori alla legge del 1985 (cfr. le sentenze nn. 26 del 1979, id.,
1979, I, 1345; 103 del 1982, id., 1982, I, 1795; 173 e 213 del
1984, id., 1984, I, 266 e 2411; 102 e 126 del 1985, id., 1985, I, 1914 e 1593) e di recente anche nella sentenza n. 278 del
1990 (§ 4) (id., 1990, I, 2121), non altrettanto può dirsi della
seconda.
L'adozione del criterio «integralistico» è certo giustificata —
come si è ribadito in quest'ultima decisione — quando si tratti
di tutelare l'irrinunciabile bene della disciplina militare, che com
porta che durante il servizio siano rigorosamente garantiti il ri
spetto del rapporto gerarchico intercorrente tra superiore ed in
feriore e l'osservanza da parte del primo dei doveri di compor tamento inerenti alla sua funzione.
Ciò però vale per quelle situazioni e rapporti la cui connota
zione «obiettivamente» militare faccia venire in gioco il bene
della disciplina e quindi la rilevanza del rapporto gerarchico. Nella fattispecie qui considerata, invece, tale obiettività man
ca, o è perlomeno assai evanescente. Si presuppone, invero, da
un lato, che il fatto, o i fatti, siano commessi per cause del
tutto estranee al servizio od alla disciplina militare, che cioè
tra di esse — come opportunamente precisa il giudice a quo — non ve ne sia alcuna attinente al servizio od alla disciplina;
dall'altro, che l'agente non si trovi in servizio né alla presenza
di militari riuniti per servizio. Si presuppone altresì — implici
tamente — che neanche la persona offesa sia in servizio, giac
ché altrimenti il rapporto gerarchico-disciplinare sarebbe attua
le ed il suo svolgimento andrebbe quindi ricompreso tra le cir
costanze antecedenti al fatto-reato, si da integrare la causa
attinente al servizio od alla disciplina. In siffatte condizioni — come la corte ha già implicitamente
rilevato nella sentenza n. 278 del 1990 (§ 4) — il reato risulta
collegato in modo del tutto estrinseco all'area degli interessi mi
litari attinenti alla tutela del servizio e della disciplina, giacché
l'unico elemento di collegamento è dato dalla sua commissione
in luogo militare.
Nel necessario bilanciamento tra le esigenze di coesione dei
corpi militari e quelle di tutela dei diritti individuali che sono
postulate dallo spirito democratico cui va informato l'ordina
mento delle forze armate (art. 52, 3° comma, Cost.: cfr. sen
tenza n. 126 del 1985), la considerazione di quell'unico elemen
to di collegamento trasmoda in eccesso di tutela delle prime.
Ne risulta infatti violato, senza sufficienti ragioni, il principio
di pari dignità che deve presiedere alla regolamentazione dei
rapporti tra militari che si svolgono al di fuori del servizio ed
in ambito privato (cfr. l'art. 4, 3° comma, 1. 11 luglio 1978
n. 382, contenente le «norme di principio sulla disciplina mi
litare»). Nelle dette condizioni, inoltre, le pesanti deroghe al principio
di proporzione tra fatto e pena (cfr. sentenze nn. 26 del 1979
e 103 del 1982), che l'applicazione della disciplina speciale com
porta (cfr. supra, § 3), non possono dirsi assistite da adeguate
ragioni giustificative, ed urtano perciò contro il principio di ugua
glianza. Né può dirsi che le esigenze della disciplina restano prive di
tutela, perché ai fatti cosi espunti dalla disciplina speciale resta
no pur sempre applicabili, oltre alle sanzioni disciplinari, quelle
previste dagli articoli da 222 a 229 c.p. mil. pace.
Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara l'illegitti
mità costituzionale dell'art. 199 c.p. mil. pace, limitatamente
alle parole: «o in luoghi militari».
Il Foro Italiano — 1991.
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 10 gennaio 1991, n. 4
0Gazzetta ufficiale, la serie speciale, 16 gennaio 1991, n. 3); Pres. Conso, Est. Cheli; Commissario dello Stato per la re
gione siciliana (Avv. dello Stato La Porta) c. Regione Sicilia
(Avv. De Fina).
Sicilia — Istituzione di una commissione d'inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia nella regione — Questione infonda
ta di costituzionalità (Cost., art. 97; statuto della regione sici
liana, art. 14, 17; 1. 23 marzo 1988 n. 94, istituzione di una
commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della ma
fia e sulle altre associazioni criminali similari).
È infondata la questione di legittimità costituzionale degli art.
3, lett. c, 6, 1° comma, lett. b, e 3° comma, 8, 9 I. reg. sic. approvata il 28 luglio 1990 e dell'intera legge che ha isti
tuito una commissione parlamentare d'inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia in Sicilia, in riferimento agli art.
97 Cost, e 14, 17 statuto della regione siciliana. (1)
Diritto. — 1. - Forma oggetto di impugnativa la legge regio nale approvata dall'assemblea siciliana il 28 luglio 1990 e recan
te «istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta e
vigilanza sul fenomeno della mafia in Sicilia».
Ad avviso del commissario dello Stato per la regione siciliana
tale legge risulterebbe incostituzionale: a) nel suo complesso,
per violazione degli art. 14 e 17 dello statuto speciale, avendo
istituito una commissione d'inchiesta su un oggetto — la pre
venzione e la lotta contro la mafia — esorbitante dalle materie
di competenza regionale e dalle finalità proprie della regione;
b) con riferimento a talune norme particolari (art. 3, lett. c,
1° comma, 6, 1° comma, lett. b e 3° comma, 8 e 9), che avreb
bero conferito alla stessa commissione — in violazione anche
dell'art. 97 Cost, e dei limiti posti dal vigente codice di proce
dura penale — specifici poteri d'indagine estranei alle compe
tenze regionali e spettanti in via esclusiva ad organi dello Stato
(alla commissione parlamentare nazionale sulla màfia, istituita
con la 1. 23 marzo 1988 n. 94; agli organi di polizia; alla giuris
dizione penale).
(1) La corte ha precisato che il potere di inchiesta regionale non può
qualificarsi come una «materia» da ritenere attribuita allo Stato o alla
regione, bensì come una funzione strumentale al compimento di atti
da parte dell'organo deliberativo della regione ed ha concluso che, nella
specie, i poteri d'indagine potevano ricollegarsi ad un'attività futura
della regione su materie o funzioni ad essa spettanti. La corte ha inoltre
escluso che alla commissione istituita dalla regione siciliana possa rico
noscersi un potere di carattere giurisdizionale, quale quello proprio del
le commissioni parlamentari d'inchiesta costituite ai sensi dell'art. 82 Cost.
La corte ha avuto occasione di occuparsi precedentemente del potere di inchiesta regionale in due occasioni: con la sent. 28 aprile 1966, n.
29 (Foro it., 1966, I, 947, commentata da Traversa, in Giur. costit.,
1966, 298), ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità della
1. reg. Sardegna approvata il 15 gennaio 1964, relativa all'istituzione
di una commissione consiliare d'inchiesta per svolgere un controllo in
ordine all'utilizzazione dei mezzi, dei fondi e del personale a disposizio ne della giunta regionale nel corso delle elezioni del quarto consiglio
regionale della Sardegna, mentre con la sent. 17 febbraio 1969, n. 19
(Foro it., 1969, I, 816, commentata da Pace, in Giur. it., 1969, IV,
187) ha ritenuto non spettante al consiglio regionale sardo la nomina
di una commissione d'indagine sull'ente statale Etfas.
Sui limiti alla competenza legislativa della regione Sicilia ed in parti colare per l'incompetenza della stessa a legiferare in materia penale,
v., da ultimo, Corte cost. 25 ottobre 1989, n. 487, Foro it., 1990, I,
26, con nota di richiami e osservazioni di Fiandaca.
Per l'incompetenza della regione a dettare norme legislative in mate
ria di ordinamento giudiziario, v., da ultimo, Corte cost. 19 ottobre
1988, n. 976, ibid., 350, con nota di richiami.
Sul potere d'inchiesta da parte delle regioni, in dottrina, v. in parti
colare Biagi Guerini, Considerazioni sulle commissioni regionali di in
chiesta, in Le inchieste delle assemblee parlamentari a cura di De Ver
gottini, Rimini, 1985, 287 ss. ed autori ivi citati. Nello stesso volume,
v. Pegoraro, La parabola delle «hearings» regionali: dalla partecipa
zione al «lobbyng», 268 ss. Sul tema, v. pure Paladin, Diritto regiona
le, Padova, 19793, 320 ss.; Martines-Ruggeri, Lineamenti di diritto
regionale*, Milano, 1987, 61; Bartole, Mastragostino, Vandelli, Le
autonomie territoriali, Bologna, 1988, 75.
Sull'attività della commissione parlamentare sulla mafia istituita con
1. 94/88, v. Cutellé, in Nuova rass., 1989, 846.
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