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PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE || sentenza 25 febbraio 1988, n. 209 (Gazzetta...

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Page 1: PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE || sentenza 25 febbraio 1988, n. 209 (Gazzetta ufficiale, 1aserie speciale, 2 marzo 1988, n. 9); Pres. Saja, Est. Baldassarre; Banco

sentenza 25 febbraio 1988, n. 209 (Gazzetta ufficiale, 1 a serie speciale, 2 marzo 1988, n. 9);Pres. Saja, Est. Baldassarre; Banco di Napoli c. Min. finanze; Monte dei Paschi di Siena c. Min.finanze; Banco di Napoli (Avv. Palmarini, Ruberti, Leonetti) c. Min. finanze; interv. Pres. cons.ministri. Ord. Pret. Salerno 11 giugno 1986 (due) (G.U., 1 a s.s., n. 57 del 1986); Trib. Bari 21ottobre 1986 (G.U., 1 a s.s., n. 26 ...Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1988), pp. 1803/1804-1807/1808Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23181299 .

Accessed: 28/06/2014 15:20

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1803 PARTE PRIMA 1804

4. - Il giudice a quo sospetta d'incostituzionalità il medesimo

art. 175 sotto l'ulteriore profilo della violazione degli art. 3 e

51 Cost., in quanto non prevede, per l'eletto che versi in una

situazione di incompatibilità, le garanzie procedurali disposte, in

via generale, dall'art, 7 1. 23 aprile 1981 n. 154.

Anche sotto tale profilo la questione è fondata.

In effetti, mentre l'impugnato art. 175 si limita a stabilire, al

l'ultimo comma, che «la decadenza è dichiarata dai rispettivi con

sigli, sentiti gli interessati, con preavviso di dieci giorni», al con

trario l'art. 7 1. n. 154 del 1981 dispone nei commi 3-8 una serie

di garanzie a tutela del diritto fondamentale di elettorato passivo, con specifico riferimento alla persona eletta che si trovi in una

situazione di incompatibilità. Più in particolare, esso prevede un

procedimento che consta delle seguenti fasi: a) attivazione del

procedimento d'ufficio o su istanza di qualsiasi elettore; ti) con

testazione delle cause di incompatibilità all'interessato da parte del consiglio d'appartenenza; c) rimozione della causa o, in caso

contrario, formulazione, di osservazioni da parte dell'interessato

nei successivi dieci giorni; d) decisione definitiva del consiglio en

tro i dieci giorni successivi, con diffida all'interessato, in caso

di accertamento positivo, ad effettuare la rimozione della causa

(ove non sia stata già rimossa); e) dichiarazione della decadenza

dalla carica ad opera del consiglio di appartenenza nei dieci gior ni successivi, con notifica del provvedimento allo stesso consiglie re decaduto entro i cinque giorni successivi, onde permettergli la possibilità di un'adeguata tutela giurisdizionale.

Come appare evidente, con riferimento alla stessa ipotesi disci

plinata dalla norma di legge siciliana oggetto della presente impu

gnazione, la legislazione statale, a differenza di quella regionale,

prevede un sistema di contestazione della causa impeditiva che

è ispirato al principio del contraddittorio ed è assistito da garan zie procedurali a favore dell'interessato. Si tratta di un sistema

indubbiamente più rispondente al principio costituzionale, desu

mibile dall'art. 24 Cost., secondo il quale nessuno può essere co

munque impedito nell'esercizio o nel godimento di un diritto in

violabile senza il «giusto procedimento» previsto dalla legge: un

sistema la cui mancata previsione nella legislazione siciliana gene

ra, in ogni caso, un'illegittima disparità di trattamento nel godi mento del diritto fondamentale di elettorato passivo, in danno

degli eletti nei consigli comunali della Sicilia che versino in una

situazione di incompatibilità prevista dalla legge. Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara: a) l'illegitti

mità costituzionale dell'art. 175 d. leg. pres. reg. sic. 29 ottobre

1955 n. 6, 1° comma, nella parte in cui prevede, per le cause

d'incompatibilità preesistenti all'elezione, la sanzione della nulli

tà dell'elezione stessa anziché quella della decadenza dalla carica;

ti) l'illegittimità costituzionale del medesimo art. 175, ultimo com

ma, nella parte in cui non prevede un procedimento di dichiara

zione di decadenza dalla carica conforme ai principi di cui all'art.

7, commi 3-8, 1. 23 aprile 1981 n. 154.

II

Diritto. — È sottoposta all'esame della corte la questione di

legittimità costituzionale dell'art. 5, n. 7, d.p.r. Sicilia 20 agosto 1960 n. 3 che prevede l'ineleggibilità alla carica di consigliere co

munale di coloro che hanno parte in servizi nell'interesse del co

mune, in riferimento agli art. 3 e 51 Cost.

La questione come prospettata dal giudice a quo è fondata.

Difatti l'asserita disparità di trattamento in ordine ai requisiti per accedere alle cariche pubbliche elettive in Sicilia rispetto a quanto

disposto dalla 1. dello Stato 23 aprile 1981 n. 154 è stata già censurata da questa corte con riferimento ad altre ipotesi di ine

leggibilità previste dal medesimo art. 5 ai nn. 6, 8 e 9.

In tale sentenza è stato rilevato che le situazioni che erano pre viste come cause di ineleggibilità nei nn. 6, 8 e 9, dell'art. 5 d.p.r. sic. cit. sono previste nella legislazione nazionale come causa di

incompatibilità, mentre la disparità di trattamento non trova plau sibile giustificazione in rapporto alla potestà legislativa primaria della regione, né ricorrono in tali fattispecie «le ipotesi di pecu liarità relative alla Sicilia».

Le motivazioni addotte a proposito dall'art. 5, nn. 6, 8 e 9,

d.p.r. Sicilia, valgono anche a riguardo della questione ora solle

vata, e quindi essendo identica la ratio, anche relativamente al

n. 7 del medesimo articolo deve dichiararsi l'illegittimità costitu

ii Foro Italiano — 1988.

zionale, in quanto considera la situazione ivi indicata come causa

di ineleggibilità anziché di incompatibilità. Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara l'illegittimità

costituzionale dell'art. 5, n. 7, d. pres. reg. sic. 20 agosto 1960

n. 3 («approvazione del testo unico delle leggi per la elezione

dei consigli comunali nella regione siciliana»), nella parte in cui

prevede come causa di ineleggibilità alla carica di consigliere co

munale, anziché di incompatibilità, la situazione di coloro che

hanno parte in servizi nell'interesse del comune.

CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 25 febbraio 1988, n. 209

(Gazzetta ufficiale, la serie speciale, 2 marzo 1988, n. 9); Pres.

Saja, Est. Baldassarre; Banco di Napoli c. Min. finanze; Monte

dei Paschi di Siena c. Min. finanze; Banco di Napoli (Avv. Palmarini, Ruberti, Leonetti) c. Min. finanze; inter v. Pres.

cons, ministri. Ord. Pret. Salerno 11 giugno 1986 (due) (G.U., la s.s., n. 57 del 1986); Trib. Bari 21 ottobre 1986 (G.U., la

s.s., n. 26 del 1987).

Riscossione delle imposte — Azienda di credito delegata dal con

tribuente al pagamento — Penale per ogni giorno di ritardo

nel versamento alla tesoreria dello Stato — Mancata previsione della possibilità di riduzione — Questione infondata di costitu

zionalità (Cost., art. 3; cod. civ., art. 1382, 1384; 1. 2 dicembre

1975 n. 576, disposizioni in materia di imposte sui redditi e sulle successioni, art. 17).

È infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 17, ultimo comma, l. 2 dicembre 1975 n. 576, nella parte in cui

non prevede la possibilità di riduzione della sanzione del due

per cento comminata all'azienda di credito per ogni giorno di

ritardo nel versamento alla tesoreria dello Stato delle imposte al cui pagamento è stata delegata, in riferimento all'art. 3

Cost. (1)

(1) La storia dell'articolo, anzi, del comma sottoposto al giudizio della

Consulta, è degna di essere ricostruita, sia pure per summa capita. Sap piamo come, nel primo lustro degli anni settanta, il legislatore abbia prov veduto a disciplinare, in maniera del tutto innovativa, la materia delle

imposte sui redditi, prevedendo per essa un sistema poggiato su quattro punti fondamentali, tracciati dalla circolare 27 febbraio 1976, n. 7, prot. 15/1150, del ministero delle finanze: 1) delega per il pagamento dell'im

posta liquidata dallo stesso contribuente all'azienda di credito abilitata; 2) impegno dell'azienda delegata a versare la somma per cui ha ricevuto la delega, entro cinque giorni, alla tesoreria provinciale dello Stato; 3) rilascio da parte dell'azienda delegata di un attestato, con valore liberato rio per il contribuente, per la somma dal contribuente stesso indicata all'atto dell'ordine all'azienda; 4) obbligo del contribuente di allegare alla dichiarazione dei redditi l'attestato, di cui al n. 3.

Le aziende di credito divennero, perciò, il perno intorno al quale dove va ruotare l'intero sistema di esazione tributaria: in un'epoca in cui gli itinera burocratici cominciavano a divenire sempre più lunghi e perigliosi, sembrò giusto al legislatore riservare alle banche un ruolo primario in

questo campo, con evidenti vantaggi per i contribuenti, per lo Stato e, in fondo, anche per le banche, cui compete una commissione dello 0,25 per cento. Successivamente, sembrò ancora giusto al legislatore punire le aziende di credito, delegate alle mansioni di cui sopra, in caso di in

tempestivo versamento alla tesoreria dello Stato delle somme riscosse dal contribuente: con il d.l. 4 marzo 1976 n. 30, giustapponendo un comma all'art. 17 1. 2 dicembre 1975 n. 576, il governo impose, alla banca ina

dempiente, una penale del dodici per cento annuo; in sede di conversione in legge del suddetto decreto, avvenuta con la 1. 2 maggio 1976 n. 160, il dodici per cento annuo si trasformava in due per cento giornaliero: come dire che l'azienda di credito inadempiente doveva (e deve), sulle somme non versate a tempo debito, interessi per il 730 per cento annuo!

Tutto questo, però, non ha scatenato le valanghe di polemiche, che, pure, in altre occasioni, sono state sollevate, se è vero che gli atti di

promovimento del giudizio della Corte costituzionale sono datati 1986.

Tuttavia, la stessa giurisprudenza di merito ha cercato di limitare i casi in cui applicare l'art. 17, ultimo comma: Trib. Roma 14 giugno 1985

(Foro it., Rep. 1986, voce Riscossione delle imposte, n. 59) ha infatti deciso che la penale di cui stiamo parlando «trova giustificazione, soprat tutto per quanto riguarda la sua eccezionale gravità, solo nell'intento di

scoraggiare le aziende di credito a procrastinare i versamenti, per cui essa

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Diritto. — 1. - Le due ordinanze del Pretore di Salerno e la

ordinanza del Tribunale di Bari prospettano dubbi di legittimità

costituzionale della medesima disposizione: i relativi giudizi van

no quindi riuniti per essere decisi con unica sentenza.

2. - La prima questione sottoposta al giudizio di questa corte

concerne l'art. 17, ultimo comma, 1. 2 dicembre 1975 n. 576,

per la parte in cui stabilisce una penale del 2% per ogni giorno

di ritardo in relazione alle somme riscosse e non tempestivamente

(entro cinque giorni) versate alla tesoreria da parte delle aziende

di credito delegate alla riscossione delle imposte sul reddito delle

persone fisiche. Ammesso che tale penale abbia natura privatisti

ca, e non tributaria, i giudici a quibus ravvisano un possibile

contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto sussisterebbe un'irragione

vole disparità di regime tra la suddetta penale, che non può esse

re ridotta, e le sanzioni pecuniarie di diritto tributario o la clau

sola penale di diritto civile, ambedue riducibili. 2.1. - La questione è infondata.

Non vi può esser dubbio che la penale ex art. 17, ultimo com

ma, 1. n. 576 del 1975 abbia natura privatistica. A ciò concorro

no tanto la sua inerenza a un rapporto diverso da quello intercor

rente tra il contribuente e l'amministrazione tributaria, quanto

le sue finalità, le quali sono dirette ad evitare che le aziende di

credito lucrino in misura eccessiva dal ritenere le somme riscosse

oltre un ragionevole termine. Su tale premessa, si deve conclude

re, innanzitutto, che viene meno quel minimo di omogeneità ne

cessario per l'instaurazione di un giudizio di ragionevolezza tra

la penale di cui alla disposizione impugnata e le sanzioni pecunia

rie di diritto tributario. Di ciò non può dubitarsi per il semplice

fatto che, come ha già affermato questa corte (sent. n. 109 del

1973, Foro it., 1973, I, 2350), l'inadempimento di un obbligazio ne di natura privatistica, ipotizzato nel caso in capo alle aziende

di credito nei confronti dello Stato, non è affatto equiparabile

all'inadempimento relativo alle obbligazioni tributarie verso lo stes

so Stato.

V'è, poi, un secondo motivo che impedisce di instaurare una

comparazione, sempre ai fini de! giudizio di ragionevolezza, tra

l'impugnata penale e le sanzioni pecuniarie di diritto tributario.

Mentre per queste ultime l'art. 15 1. n. 4 del 1929 prevede che

il trasgressore delle leggi finanziarie, oltre il tributo, possa pagare

all'atto della contestazione della violazione una somma (ridotta)

pari al sesto del massimo della pena pecuniaria, nel caso oggetto

del presente giudizio, invece, la penale viene determinata in misu

ra fissa dal legislatore in relazione all'inadempimento di un'ob

bligazione pecuniaria di natura civilistica. Ciò comporta che nel

caso di specie non sussistano gli elementi qualificanti dell'ipotesi

assunta come tertium comparationis e, in particolare, tanto la

determinazione della pena accessoria tra un minimo e un massi

mo, quanto il parametro (cioè il massimo) cui ragguagliare l'e

ventuale riduzione della pena pecuniaria. 2.2. - Del pari infondata è la prospettazione della disparità di

trattamento tra la penale impugnata e quella di diritto civile pre

vista dagli art. 1382 ss. c.c.

Anche se ambedue le penali presentano una sostanziale identità

di natura giuridica, deve tuttavia negarsi che siano equiparabili

risulta in concreto applicabile solo se l'azienda abbia trattenuto le somme

riscosse; pertanto, la penale non è applicabile se [. . .] l'azienda di credi

to abbia interamente e tempestivamente versato in tesoreria le somme

riscosse, ma abbia errato nell'imputazione di alcune di esse». In questo

senso, v. anche Trib. Torino 29 marzo 1984 (id., Rep. 1985, voce cit.,

n. 137). Tornando ai motivi per cui i giudici di merito hanno invocato

l'intervento della Consulta, c'è da dire che le tre ordinanze a quibus rive

lano un elemento comune: il fatto, cioè, di considerare la penale alla

stregua di una sanzione di stampo privatistico, sulla scorta di Cass., sez.

un., 29 ottobre 1983, n. 6417 (id., 1983, I, 2995, che ha optato per la

natura privatistica del rapporto fra l'amministrazione finanziaria e l'a

zienda di credito delegata dal contribuente al pagamento dell'Iva).

Siamo, dunque, al cospetto del più clamoroso — ancorché largamente

ignorato — esempio di applicazione di pena privata nel nostro ordina

mento: non v'è ragione di dubitare, infatti, che il due per cento giornalie

ro — cifra che sembra rimbalzare dall'esperienza transalpina in materia

di astreinte — valga «punishmente and deterrence» quanto basta per isti

tuire una comunione stretta con i punitive damages d'oltreatlantico (sul

punto v., da ultimo, G. Ponzanelli, I «punitive damages», il caso Texa

co e il diritto italiano, in Riv. dir. civ., 1987, II, 405). E i giudici della

Consulta mostrano di non nutrire riserva alcuna al riguardo. [G. Catalano]

Il Foro Italiano — 1988.

sotto il profilo della riduzione equitativa, di cui all'art. 1384 c.c.

Le ragioni di questa affermazione sono almeno duplici. Innanzi

tutto, mentre nel caso disciplinato dall'art. 1384 c.c. il giudice

interviene equitativamente nei confronti di un atto di autonomia

privata con il quale viene predeterminato il danno cagionato dal

l'inadempimento di una delle parti del rapporto obbligatorio, al

contrario in quello sottoposto al presente giudizio non v'è spazio

per tale intervento, in quanto è direttamente una norma giuridica

a determinare la misura della penale. In secondo luogo, mentre

nell'ipotesi dell'art. 1384 c.c. la riduzione equitativa della clauso

la penale può avere come presupposto l'adempimento parziale

dell'obbligazione da parte del creditore, nell'ipotesi della disposi

zione impugnata, invece, tale presupposto appare incompatibilie

con la natura dell'obbligazione intercorrente tra le aziende di cre

dito e lo Stato.

2.3. - Egualmente infondati sono i dubbi di costituzionalità sol

levati dai giudici a quibus in relazione all'entità della penale legis

lativamente determinata, la quale è sospettata dagli stessi giudici

di essere troppo elevata o sproporzionata rispetto al fatto del ri

tardato versamento alla tesoreria delle somme riscosse.

Non è, infatti, irragionevole che il legislatore, nell'esercizio del

suo potere discrezionale, abbia stabilito una penale particolar

mente elevata, sol che si consideri che lo scopo perseguito, come

rileva esattamente l'avvocatura dello Stato, è principalmente quello

di non rendere neppure accettabile per le aziende di credito il

rischio di un ritardo nel versamento e di precludere, cosi, la ben

ché minima eventualità di movimenti speculativi su somme ingen

ti, che appartengono, in definitiva, all'intera collettività nazionale.

Allo stesso modo, non possono desumersi argomenti a favore

della fondatezza della questione dalla circostanza che la 1. 4 otto

bre 1986 n. 657, dispone, all'art. 5, 3° comma, che «la misura

della penale prevista dall'ultimo comma dell'art. 17 1. 2 dicembre

1975 n. 576, e dall'art. 12 1. 12 novembre 1976 n. 751, è ridotta

allo 0,50%, se il mancato versamento è dovuto a errori materia

li». Anche sotto tale profilo non appare irragionevole che il legis

latore, nel suo discrezionale apprezzamento, preveda sanzioni più

lievi per l'omissione del versamento ove questo sia dovuto a un

comportamento colposo, quale un errore materiale, mentre, se

condo la consolidata giurisprudenza di questa corte, non può in

alcun modo trarsi motivo di violazione del principio di eguaglian

za dalla decorrenza temporale delle modificazioni legislative in

trodotte.

Né, poi, può ipotizzarsi una disparità di trattamento, come in

vece prospettano i giudici a quibus, in conseguenza della pretesa

applicabilità della disposizione impugnata anche nei confronti di

soggetti incolpevoli, come nelle ipotesi in cui il ritardato versa

mento dipenda da cause che non è possibile imputare alle aziende

di credito. Occorre sottolineare, infatti, che in tal caso trovano

applicazione le disposizioni del d. leg. 15 gennaio 1948 n. 1, rela

tive alla sospensione dei termini a causa di eventi eccezionali.

3. - Un'ulteriore questione di costituzionalità concernente il me

desimo art. 17, ultimo comma, 1. n. 576 del 1975, è sollevata

dai giudici a quibus in relazione all'art. 3 Cost., in quanto l'arti

colo impugnato assoggetta alla medesima penale tanto le aziende

di credito che effettuano in ritardo il versamento allo Stato delle

somme riscosse, quanto quelle che lo omettono del tutto.

Anche tale censura non è fondata. In realtà, la parità di tratta

mento delle due distinte ipotesi è soltanto apparente, poiché, in

concreto, si riscontra una sostanziale diversità nella disciplina delle

stesse. In effetti, la differenza di trattamento tra l'una e l'altra

ipotesi è resa evidente dalla circostanza che la penale continua

a maturare nella rilevante misura del 2% delia somma riscossa

per ogni giorno di ritardo, sino al momento del versamento. Sic

ché, più a lungo si protrae l'inadempimento e più onerosa diviene

la penale che l'azienda di credito inadempiente è tenuta a pagare.

In altre parole, il mero decorso del tempo costituisce un elemento

idoneo a differenziare, in pratica, il trattamento dell'omesso ver

samento da quello relativo al ritardo.

4. - Un'ultima questione sollevata dai giudici a quibus concer

ne la pretesa violazione dell'art. 3 Cost, da parte della medesima

disposizione impugnata, in quanto la stessa comporterebbe un'ir

ragionevole disparità di trattamento tra un comune debitore che

vanta crediti verso la controparte del proprio rapporto debitorio

e le aziende di credito delegate alla riscossione dei tributi rispetto

all'amministrazione finanziaria, nell'ipotesi che quelle vantino dei

crediti verso quest'ultima. Ciò perché, mentre nel primo caso il [G. Catalano]

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1807 PARTE PRIMA 1808

debitore potrebbe compensare il proprio debito con i crediti van

tati verso la controparte, nel secondo, invece, le aziende di credi

to non potrebbero seguire la medesima via per le somme dovute

all'amministrazione finanziaria a titolo di penale. Occorre rileva

re che la censura ora esaminata si basa su un'erronea equipara zione tra la posizione dell'amministrazione e quella delle aziende

di credito, poiché, mentre il credito dell'amministrazione discen

de sempre da un adempimento delle aziende, al contrario quello di queste ultime nei confronti dell'amministrazione discende sem

pre da un erroneo versamento da parte delle aziende stesse.

Né può rilevare in senso contrario, diversamente da quanto affermato dai giudici a quibus, il fatto che l'amministrazione,

per accertare l'esatta corrispondenza delle somme versate a quelle riscosse su delega dei contribuenti, impieghi un lasso di tempo anche consistente, per la durata del quale è tenuta a corrisponde

re, nell'eventualità di crediti accertati delle aziende, l'ordinario

tasso di interesse. Questo rilievo, infatti, non ha alcuna impor tanza rispetto alle modalità di estinzione del debito delle aziende

di credito a titolo di penale, ai sensi della disposizione impugna

ta, tanto più che tali accertamenti, come s'è detto, hanno origine da un errore delle aziende di credito.

Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara non fondate

le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 17, ultimo com

ma, 1. 2 dicembre 1975 n. 576, in riferimento all'art. 3 Cost., sollevate dal Pretore di Salerno e dal Tribunale di Bari con le

ordinanze di cui in epigrafe.

I

CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 25 febbraio 1988, n. 208

(Gazzetta ufficiale, la serie speciale, 2 marzo 1988, n. 9); Pres.

Saja, Est. Baldassarre; Brigliadori c. Camera di commercio,

industria, artigianato e agricoltura di Forlì'. Ord. Trib. Forlì

8 maggio 1986 (G.U., la s.s., n. 54 del 1986).

Titoli di eredito — Cambiale — Protesto — Pagamento — Fa

coltà del debitore di chiedere la cancellazione del proprio nome

dall'elenco destinato alla pubblicazione — Decadenza per inos

servanza dei termini — Questione infondata di costituzionalità

(Cost., art. 3; 1. 12 febbraio 1955 n. 77, pubblicazione dell'e

lenco dei protesti cambiari, art. 3; 1. 12 giugno 1973 n. 349, modificazioni alle norme dei protesti delle cambiali e degli as

segni bancari, art. 12).

È infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, 4° comma (recte: 3° comma), l. 12 febbraio 1955 n. 77, nella

parte in cui condiziona l'esercizio del diritto del debitore, che

ha pagato la cambiale dopo il protesto, di ottenere la cancella

zione del proprio nome dall'elenco destinato alla pubblicazio

ne, all'osservanza di termini particolarmente brevi, in riferi mento all'art. 3 Cost. (1)

(1) La Consulta respinge la questione di legittimità sollevata dal Preto re di Forlì con l'ordinanza 8 maggio 1986, Foro it., 1987, I, 290. Il preto re aveva sostenuto che i terimini previsti dalla legge per ottenere la can cellazione del nome del protestato dall'elenco destinato alla pubblicazio ne erano eccessivamente brevi, ma la corte gli risponde che la previsione di un termine perentorio è presupposto essenziale per un corretto espleta mento della procedura di pubblicazione dei protesti e della relativa can cellazione: si tratta di una procedura che necessita per sua stessa natura di notevole speditezza.

La Corte costituzionale è già stata chiamata altra volta a pronunciarsi sulla legittimità dell'art. 3 1. 77/55 e dell'art. 12 1. 349/73 (che ha rifor mato la prima norma). Anche in quel caso la domanda è stata rigettata (ord. 9 giugno 1983, n. 183, id., 1983, I, 2608).

Sul punto si segnalano Pret. Roma 28 febbraio 1986 e 5 novembre

1984, ibid., 1987, I, 291, e Pret. Forlì 10 aprile 1987, ibid., 3189 (fautrice di una interpretazione «aperta» della norma in esame, la quale prevede il diritto di chiedere la cancellazione del proprio nome dall'elenco dei

protesti solo per il «debitore che esegue il pagamento di una cambiale o di un vaglia cambiario», al fine di renderla applicabile anche al traente

apparente di un assegno bancario illecitamente sottratto e contraffatto). Cfr. anche Trib. Napoli 12 febbraio 1983, id., Rep. 1984, voce Titoli

Il Foro Italiano — 1988.

II

PRETURA DI ROMA; ordinanza 27 gennaio 1987; Giud. Ma

cioce; Soc. Mara c. Ciancaleone.

Provvedimenti di urgenza — Assegno bancario — Assegno «di

favore» — Protesto — Ordine alla banca trattaria di non ri

chiedere la levata del protesto — Ammissibilità (Cod. proc.

civ., art. 700; r.d. 21 dicembre 1933 n. 1736, disposizioni sul

l'assegno bancario, art. 60).

Può ordinarsi con provvedimento d'urgenza alla banca trattaria

di non chiedere che sia levato protesto in relazione ad assegni bancari che risultino esser stati emessi «per favore», qualora tali titoli non siano stati successivamente girati dal prenditore

originario. (2)

I

Diritto. — 1. - Il giudice a quo dubita della legittimità costitu

zionale dell'art. 3, 4° comma (recte: 3° comma) 1. 12 febbraio

1955 n. 77 (il quale è stato aggiunto dalla 1. 12 giugno 1973 n.

349), nella parte in cui dispone che la facoltà del debitore cam

biario di chiedere la cancellazione del proprio nome dall'elenco

dei protesti è condizionata al pagamento dell'importo del titolo

protestato entro il quinto giorno dal protesto e alla presentazione della relativa istanza al presidente del tribunale entro il giorno

successivo al pagamento. A suo giudizio, questa disciplina deter

minerebbe un'irragionevole disparità di trattamento, con conse

guente violazione dell'art. 3 Cost., tra il debitore protestato che

adempie la propria obbligazione nel termine di cinque giorni dal

protesto e il debitore che adempie dopo tale termine, ma pure

sempre in tempo utile per evitare la pubblicazione del proprio nome nell'elenco dei protesti.

Tuttavia, prima di giudicare nel merito tale questione, occorre

esaminare l'eccezione di inammissibilità, formulata dall'avvoca

tura dello Stato sulla base del rilievo che, nella fase cautelare

del giudizio, lo stesso giudice a quo ha interpretato la disposizio ne impugnata in un senso diverso da quello per il quale poi, nel

giudizio di merito, ha sottoposto la disposizione medesima al giu

dizio di questo corte.

2. - L'eccezione di inammissibilità va disattesa.

È ben vero che il giudice della fase cautelare ha interpretato la disposizione impugnata in un senso diverso da quello prospet tato con la ordinanza di rimessione (dando peraltro alla disposi zione stessa un significato ritenuto conforme a Costituzione), al

lorché ha deciso il ricorso proposto, ai sensi dell'art. 700 c.p.c.,

di credito, n. 51; App. Reggio Calabria 27 gennaio 1981, id., 1981, I, 594; App. Ancona 13 agosto 1981, id., 1983, I, 784, in contrasto tra

loro riguardo alla portata della norma considerata.

(2) Il secondo provvedimento si segnala per la sua originalità. Si era di fronte ad un assegno bancario con firma c.d. di favore, ossia

apposta dal traente a favore del prenditore, non a fronte di un'obbliga zione sottostante, ma al solo scopo di consentire al prenditore il ricorso

al credito (sulla possibile illiceità della causa del negozio di emissone del titolo «di favore», v. Bianchi D'Espinosa, Le leggi cambiarie nell'inter

pretazione della giurisprudenza, Milano, 1969, 205; per una configurazio ne della firma di favore come «simulazione», v. Trib. Pescara 8 marzo

1950, Foro it., 1951, I, 1001, con nota critica di Fiorentino). Sul carattere «di favore» della sottoscrizione cambiaria non — come

noto — opponibile al terzo possessore di buona fede (per tutti Asquini, Titoli di credito, Padova, 1958, 168), e questo neppure nel caso che il

terzo fosse a conoscenza del fatto che l'assegno era di favore, poiché il «favore» non è comunque per il terzo ma per il prenditore ed inoltre è caratteristico della convenzione di favore che il favorente debba far

onore all'impegno assunto, per tutti, v. Cass. 24 marzo 1962, n. 599, Foro it., 1962, I, 1743. Unica ipotesi di opponibilità al terzo si avrebbe nel caso in cui alla convenzione si accompagni un pactum de non petendo di cui lo stesso terzo sia parte (v. Cass. 28 marzo 1960, n. 654, id., Rep. 1960, voce cit., n. 67; 14 aprile 1965, n. 686, id., Rep. 1965, voce cit., n. 36).

Naturalmente, la convenzione è opponibile inter partes come eccezione

personale ex art. 1993 c.c. La soluzione adottata dal giudicante (quanto ai mezzi di prova si veda

di nuovo Bianchi D'Espinosa, op cit., 209 ss.) è ammissibile dunque solo ove non vi siano terzi giratari; la loro presenza infatti — per la natura «personale» dell'eccezione dell'emissione di favore — renderebbe in ogni caso necessaria la levata del protesto, a garanzia dei loro diritti.

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